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Bologna, 06/09/2008
Alla cortese attenzione del Prof. Mons. Alfio Olandesi
Oggetto: Resoconto sul caso NDE-11
Egregio Professore, avevo compilato una relazione standard riguardo al caso in oggetto, e stavo per inviarla. Dopo un’attenta riflessione, tuttavia, mi sono deciso a strappare quella prima versione e a riscrivere la vicenda con maggior libertà. Mi perdonerà quindi se l’impostazione non è quella strettamente professionale prevista dal protocollo, ma i fatti che devo riportare sono straordinari, a mio giudizio, e rendono necessaria un’eccezione nella forma. Mi lasci premettere che troverà allegata alla presente la mia lettera di licenziamento, in quanto non ritengo di poter più essere utile in questo progetto. Dopo due anni di impiego che giudico senza dubbio una positiva esperienza professionale, non è facile addurre le dovute motivazioni a questa scelta. Le confesso che ai tempi della mia assunzione fui molto sorpreso che un esponente del clero e studioso di bioetica di fama riconosciuta, si rivolgesse a un neolaureato, un ateo, per un ruolo di ricercatore in un campo così fuori dal comune. Analizzare dati e raccogliere testimonianze sulle Near Death Experience, o come preferisce chiamarle lei, esperienze di Premorte, non appare agli occhi di un giovane medico come un impiego serio. Non le nascondo che accettai solo per il nome prestigioso dell’Accademia che rappresenta, e per una personale stima nei suoi confronti. Quella stessa stima che mi convinse allora, oggi mi porta a troncare il nostro rapporto lavorativo. I fatti avvenuti nelle ultime ventiquattr’ore, in definitiva, mi hanno portato a perdere il requisito fondamentale per cui sono stato assunto: lo scetticismo. Se infatti alcuni dei pregiudizi che inizialmente nutrivo sono ben presto svaniti, fino a ieri ho sempre avuto una convinzione: che avrei confutato ogni vostra ipotesi sull’esistenza di un elemento paranormale o, come direbbe lei, metafisico, nei casi di NDE. E non è forse questo il motivo per cui lei ha sempre ritenuto i miei risultati degni di affidabilità?
Mi perdoni la digressione, e torniamo all’oggetto della lettera. Oltre al preavviso di licenziamento, nella busta trova anche i consueti allegati: A1. Foglio di intervento con autorizzazione del 118. A2. Elettrocardiogramma ed encefalogramma registrati a bordo dell’ambulanza. A3. File audio della registrazione del questionario. Dopo un’attenta analisi, in cui ho confrontato i tempi del mio resoconto con i dati delle apparecchiature, sono giunto alle seguenti conclusioni: 1. Esiste con certezza una componente metafisica/paranormale in questo episodio di NDE. 2. Tale componente non può essere dimostrata scientificamente; l’unica prova è la testimonianza delle persone coinvolte. 3. Negli esseri umani la capacità di pensiero, la coscienza di sé, esiste anche in modo indipendente dall’attività cerebrale. Prima che un uomo di scienza, lei è un uomo di fede. Ora mi rivolgo non al Professore, ma al Monsignore. Si soffermi sulla mia terza conclusione. Se il pensiero non risiede nel cervello, deve esserci qualcos’altro. Sa di cosa sto parlando. Questo caso dimostra, ai miei occhi in modo inconfutabile, proprio ciò che da anni sta cercando: l’esistenza dell’anima.
Riporto ora la mia testimonianza sull’accaduto. La invito a confrontarla con la registrazione audio automatica effettuata dal defibrillatore e con quella delle comunicazioni radio, quando copia di questo materiale le perverrà dagli uffici del 118. Ho avuto cura di riportare nel testo dialoghi e altri dettagli utili a questo scopo.
Ieri mattina arrivai al Pronto Soccorso del Sant’Orsola alle otto in punto. Effettuai il controllo quotidiano delle apparecchiature delle unità mobili di rianimazione. Alle 8:23 giunse una chiamata dalla centrale. Codice giallo, affanno, dolore alla spalla, maschio, 68 anni, soggetto a rischio infarto. Il secondo barelliere era in ritardo al cambio di turno, e io sono un soccorritore abilitato, così il dott. Luigi Mutti acconsentì a includermi nel suo equipaggio come sostituto. Dopo circa due minuti di strada verso l’indirizzo fornito dal 118, una comunicazione via radio della centrale cambiò il codice dell’intervento da giallo a blu: il paziente era incosciente, probabile arresto cardiopolmonare. “Kappa ricevuto” rispose l’autista alla radio; avvisò di reggerci forte e accese sirene e luci strobo. Nel retro dell’ambulanza oltre al dottore e me c’era anche l’infermiera Marcella Sisca, in qualità di prima barelliera. Lei è in servizio da appena tre mesi. Notai che le tremavano le mani mentre si infilava i guanti in lattice e preparava il defibrillatore. Ci vollero meno di cinque minuti per giungere a destinazione. “Orsola 25 a centrale. Siamo sul posto” comunicò l’autista. “Kappa, 25” fu la risposta. L’uomo era sdraiato, schiena a terra, sul primo pianerottolo delle scale del palazzo. La moglie si teneva la faccia tra le mani e piangeva. Ci disse che era caduto dopo essersi sentito male. L’uomo indossava una maglietta bianca e i pantaloni del pigiama, e aveva solo una pantofola. Il suo sguardo era fisso. Ci inginocchiammo intorno al corpo. Tagliai la maglietta con le forbici e la Sisca applicò gli elettrodi. Il medico intanto valutava la reazione delle pupille allo stimolo della luce. Il defibrillatore rilevò un battito debole. Dopo una breve osservazione, il dottor Mutti disse: “Portiamolo al Pronto Soccorso”. L’uomo pesava almeno cento chili. Lo trasportammo sul lettino, quindi a bordo. “No signora, lei non può salire. Ci raggiunga al Sant’Orsola” dissi alla moglie. Le sirene presero a urlare di nuovo. Mi aggrappai a una maniglia per non cadere, metre l’autista comunicava la ripartenza alla centrale. Applicai subito gli elettrodi dell’encefalogramma, per raccogliere dati preziosi. Dopo pochi secondi, il defibrillatore emise il bip prolungato, e i grafici divennero piatti. Arresto cardiaco. Assenza di respiro. Attività cerebrale minima. L’uomo era tecnicamente morto. Incrociai lo sguardo della Sisca, che controllava e ricontrollava gli elettrodi. “Sono a posto, sono a posto” diceva. Io rimasi perfettamente lucido. Dovevamo procedere con il BLS. Non è facile, in un’ambulanza lanciata in corsa per le vie cittadine. Passai al medico la tavoletta rigida che si pone sotto la schiena per consentire il massaggio cardiaco. La Sisca si posizionò in testa alla barella. Le passai il pallone ambu, appoggiò la mascherina sul volto immobile del paziente e iniziò la respirazione artificiale. Il torace si alzava: almeno le vie non erano ostruite. Io e Mutti ci sistemammo a lato dell’uomo: il medico effettuava il massaggio cardiaco e contava a voce alta, io stavo seduto dietro di lui puntando i piedi, mentre lo aiutavo a mantenere l’equilibrio reggendolo per la cintura. Alla seconda compressione sentii il rumore sgradevole dello sterno che si frattura. Alla fine del primo ciclo, controllammo il respiro: niente. Il medico trasse la siringa dalla custodia, spinse il pistone fino a far zampillare il liquido e prese le misure chino sul torace del paziente. Piantò con decisione l’ago e iniettò l’epinefrina. Iniziammo un nuovo ciclo BLS. Poi un altro, il terzo. Finché la macchina non ci diede un paio di bip, poi una serie di suoni vicinissimi. “È in fibrillazione” disse il medico. Diede conferma sulla tastiera del defibrillatore. “Via le mani dal corpo” e si tirò indietro anche lui. Sentii il fischio della batteria che si caricava, quindi vidi la contrazione dei muscoli dell’uomo nel momento della scarica. Avevo visto più volte una scena del genere: il movimento indotto dall’elettricità fa già sembrare l’uomo sul lettino un cadavere: quello spasmo indotto rivela l’inerzia della carne e l’assenza di vita. Chi ha esperienza sul campo sa che persone in queste condizioni non si rianimano. I casi positivi sono delle eccezioni che capitano, in un ospedale come questo, una volta ogni tre, quattro anni. In un ospedale di provincia si racconta di un caso ogni vent’anni. Eppure questa volta le cose andarono nel migliore dei modi. Le apparecchiature restarono silenziose per un attimo, poi iniziarono a rilevare di nuovo battiti cardiaci spontanei. Ce l’avevamo fatta, pensai. L’avevamo riportato indietro. “C’è ancora. C’è ancora” ripeteva Mutti.
Venti minuti dopo il nostro rientro al Pronto Soccorso, il primario chiamò per informarmi che il paziente aveva ripreso conoscenza. Era stabile e tranquillo, e ricordava il suo nome: Ennio Farelli. Ottenni il permesso di entrare nella sua stanza per il questionario. Il signor Farelli mi sorrise e mi ringraziò. A parte il cardiologo, io ero il primo con cui parlava. Gli chiesi come si sentisse e altre domande che servivano a metterlo a proprio agio. Accesi il registratore, mi feci dare il consenso al questionario, quindi iniziai a farmi raccontare. Affermò che ricordava tutto quello che gli era successo, sin da quando era arrivata l’ambulanza, e che era stato con noi all’interno del mezzo durante la corsa verso l’ospedale. I dettagli sono nella registrazione allegata. Era assolutamente convinto di essere stato a bordo. Poteva vedere il suo corpo sul lettino, e noi che lo rianimavamo. Cercava di dirci che non era morto, e ripeteva di continuare a tentare di aiutarlo. Il caso si può classificare quindi come NDE con OBE. Non è la prima testimonianza di esperienza extracorporea che mi capita: sono sempre piuttosto confuse e prive di particolari specifici, e il racconto di Farelli non faceva eccezione. L’unica cosa che mi lasciò in parte perplesso fu la sensazione che lui mi avesse in qualche modo riconosciuto non appena avevo aperto bocca. Tuttavia questo è spiegabile, mi dissi, dato che quando arrivammo sul pianerottolo di casa sua lui non era ancora in arresto. Il suo cervello riceveva sangue dal cuore, poteva ricevere ancora gli input sensoriali. Il suo subconscio avrebbe potuto memorizzare la mia voce. Lo giudicai un caso interessante quindi, ma come sempre non c’era alcuna evidenza che tutta la storia non fosse altro che un sogno o un’allucinazione favorita dall’anossia. Spensi il registratore e salutai. “Aspetti.” Farelli mi fermò quando ero già per metà nel corridoio. “Lei non è un vero infermiere, vero?” “No. Perché me lo chiede?” “Per via della camicia. Lei ha una camicia rossa, mentre gli altri ne hanno una azzurra. Vero?” Era vero. Quella mattina non avevo fatto in tempo ad indossare la divisa completa prima di entrare in ambulanza. Non feci molto caso a quelle parole, salutai di nuovo e uscii. Nel corridoio, davanti agli ascensori incontrai una donna che riconobbi come sua moglie. Aveva una pantofola in mano. Sembrava disorientata, e mi chiese di suo marito. Le diedi le indicazioni per raggiungere la stanza. “Oddio, come sta? Si può entrare?” chiese lei. “È sveglio, sta bene. Sono sicuro che sarà contento di vederla.” Lei mi guardò come se avessi detto qualcosa di sbagliato. Chiamai l’ascensore, mentre lei si avviava. Poi si voltò indietro. “Non se n’è accorto, eh?” “Di cosa?” “Non se ne fa accorgere mai da nessuno, del suo problema. È non vedente, capisce” aggiunse sottovoce, come se confessasse un peccato. No, non me n’ero accorto. La porta dell’ascensore si aprì, e io mi vidi nello specchio. Il giubbotto arancione da soccorritore sopra la camicia rossa. Ci pensai a lungo, e verificai: per una malattia del nervo ottico Ennio Farelli rimase completamente cieco oltre quarant’anni fa, e lo è tuttora, ma nella sua esperienza ha visto il colore della mia camicia.
dott. Manuel Pimmol
-- PS: Questo è il primo racconto che ho scritto dall'inizio alla fine, poco più di un anno fa: massacratelo!
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