Modus operandi, sorrisi e lacrime
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Modus operandi, sorrisi e lacrime

Fantascienza, noir

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  1. RobertoBommarito
     
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    Attenzione: questo scritto ha contenuti destinati a un pubblico adulto. Leggendo di seguito dichiari sotto tua totale responsabilità di avere più di 18 anni. Se terminologia o situazioni esplicite possono offenderti o andare in contrasto con la tua morale, sei pregato di chiudere questo post.

    Modus operandi, sorrisi e lacrime



    Ho ucciso mio padre quarantaquattro volte.
    Sarà per questo che verrò ricordato. Formuleranno diverse teorie sul perché sono diventato quello che sono: un mostro. I freudiani si autocompiaceranno con la retorica del complesso di castrazione. I sociologi punteranno il dito contro le nuove tecnologie. Gli antropologi, con il loro bla bla bla, mi riduranno a un grottesco concetto astratto. In un modo o nell’altro, riusciranno a rendermi abbastanza diverso da non sentirsi loro stessi dei mostri per avermi voluto morto.
    Ma forse lo sono, diverso. Quando un giornalista ti domanda se provi dei sensi di colpa per avere ucciso tuo padre e tu rispondi onestamente di no, sei diverso. Quando il tuo volto sostituisce quello di Freddie Kruger negli incubi dei bambini, sei diverso. Quando ti sorprendi a fischiettare il ritornello di una canzone qualsiasi, come se si trattasse di un giorno qualsiasi, anche se oggi ti inietteranno una soluzione letale nelle vene, sei diverso.
    Tu-tu tu-tu-tu-tu.

    Una cosa mi contraddistingue da ogni altro serial killer della Storia. Ovvero la natura delle mie vittime. Aileen Wuornos, una delle poche assassine seriali donna, uccise sei uomini prima di venire catturata in Florida dalla polizia. Aveva alle spalle una storia di abusi sessuali da parte del patrigno, episodi incestuosi col fratello, la gravidanza a seguito di uno stupro. Senzatetto, all’età di quindici anni la Wuornos si guadagnava il pane battendo il marciapiede. Chiunque condannerebbe le sue azioni. Eppure le sei vittime erano tutti uomini. Così come lo erano il patrigno, lo stupratore, i bravi padri di famiglie per bene che andavano a puttane all’insaputa delle mogli che a casa preparavano loro la cena. L’espressione “giustizia poetica” salta alla mente.
    Nel mio caso è diverso. Non ho subito abusi sessuali da piccolo. Non ho mai dovuto inventarmi storie per giustificare lividi o quant’altro. Mio padre era un tipo silenzioso. Quel suo silenzio impenetrabile lo circondava sempre. Era un uomo come tanti. E io l’ho ucciso. Sono diverso anche da coloro che più dovrebbero somigliarmi. Non sono come la Wuornos. I “profiler” si sono presentati equipaggiati di taccuini, registratori e macchie di Rorschach ma non sono riusciti a trovare nulla degno di una trasposizione hollywoodiana. Uno di loro, tale prof. Telemente, ha affermato che non ho un passato. Credo intendesse dire che la mia è una storia simile a quella di chiunque altro. È servito solo a incrementare l’odio che grazie ai media le persone già nutrivano nei miei confronti. Ho ucciso mio padre. L’ho fatto quarantaquattro volte. Dovevo essere diverso da loro.
    Quando ti pongono la domanda «Come hai potuto uccidere tuo padre?», il loro volto assume una strana espressione. Certo, le parole hanno un significato condiviso. Quando dici «Padre», chi ti ascolta sa già a cosa ti riferisci. Giusto, a cosa. Ma non a chi. È questa distinzione che spesso la gente non riesce a fare. Non conoscono il suo nome, né tantomeno che faccia abbia. Eppure suppongono che tuo padre debba essere abbastanza simile al loro da rientrare nella definizione della parola stessa. Uccidendo tuo padre hai ucciso anche il loro. Quello sul loro volto è terrore mascherato da disprezzo. Vorrebbero domandarti: «Perché hai ucciso nostro padre?» Ma io non ho mai avuto il piacere di conoscere i loro padri. Io non sono loro. Sono io stesso ad ammettere di essere diverso. Lo ammetto ma la gente continua a tenermi gli occhi addosso. A odiarmi.
    Non ti pongono mai la domanda giusta.

    Ho visto la pubblicità alla televisione, fra lo spot dell’assorbente con le ali e quello di una candeggina miracolosa. Lo slogan diceva: «Rivivi la vita che hai sempre sognato». Quando la coscienza di una persona viene spedita indietro nel tempo, si viene a creare un universo parallelo. C’entrano i wormhole, cunicoli spazio-temporali creati elettromagneticamente in laboratorio. Come ogni altra tecnologia sviluppata sui principi della fisica quantistica, i dettagli del funzionamento sono appannaggio dei premi Nobel. Ma in pratica la coscienza viene spedita indietro nel tempo a un momento specificato dall’utente stesso. Una volta trasferitosi all’interno di un se stesso più giovane (di un giorno o di trent’anni non fa alcuna differenza), questo ha la libertà di prendere delle decisione diverse. Per 877 minuti—il limite massimo prima del collasso naturale del wormhole—l’utente può vivere il passato alternativo che ha sempre desiderato avere. Dopodiché la sua coscienza viene resistuita al se stesso presente. Tutto per la modica cifra di soli 69 euro.
    Quel giorno ho spento la Tv, sono salito al piano di sopra e ho ucciso mio padre la prima volta.

    Ogni serial killer ha una propria metodologia.
    Ed Gein usava una carabina calibro 22. Procedeva poi a decapitare, scuoiare e mutilare le proprie vittime. Con le teste fabbricava decorazioni per il letto, con le labbra collane, con vagine e mammelle capi di vestiario. La sua specialità era però la cute umana. Con questa tappezzò lampade e sedie. Creò un paio di gambali e diverse maschere mummificate. Gein si sentiva una donna intrappolata nel corpo di un uomo. Si pensa che vestendosi con capi di pelle umana cercasse di impersonare la madre. Quando si dice: «Vivere nella sua pelle».
    Usando il travestimento da pagliaccio, John Wayne Gacy uccise trentatré ragazzi, seppellendone ventisette nell'intercapedine sotto casa e gettandone il rimanente nel fiume. “Pogo il clown” era il suo nome d'arte.
    La maggior parte degli assassini seriali predilige usare armi da fuoco. Al secondo posto seguono strangolamento, soffocamento e annegamento. Altre tecniche includono: iniezioni letali, armi bianche, percosse, malnutrizione, maltrattamento, esplosivi, incendi dolosi e vampirismo. Un quarto di loro, di proficua vena creativa, ama mischiare queste tecniche a suo piacimento.
    Qualcuno scrisse una volta che c’è del metodo nella follia. È forse questo che rende i serial killer tanto spaventosi agli occhi della gente comune?

    Ci sono due tipi di bambini. Quelli rumorosi. E quelli che esistono solo in una parentesi di secondi durante l’appello mattutino. Quando gli insegnanti leggevano il mio nome sul registro, alzavano sempre lo sguardo per accertarsi che avessi davvero un volto. Ogni volta si sorprendevano che non fosse un errore. Pur avendo occupato per mesi lo stesso banco, mi domandavano se fossi nuovo. O se avessi fatto parecchie assenze nel corso del semestre. Se non fosse stato per il mio nome stampato sul registro, nessuno avrebbe mai notato la mia presenza. Ero invisibile.
    Ma ogni autobiografia degna di questo nome inizia dalla propria nascita.
    Sono nato trentaquattro anni e alcuni mesi fa. Ogni volta che immagino la mia nascita, vedo un neonato che non ha pianto. Mia madre è morta per complicazioni tre giorni dopo avermi dato alla luce. Mio padre una volta disse: «L’hanno dovuta tagliare». Sembra che non volessi venirmene fuori.
    Sono cresciuto orfano di madre, ma non ne ho mai sofferto. O per lo meno, non sul serio. Mio padre non mi ha mai raccontato nulla di lei. Per me era solo un agglomerato di pixel intravisto qualche volta in fotografia. Osservare i miei compagni di classe accompagnati dalle loro madri mi incuriosiva. A volte provavo a capire cosa volesse dire avere una madre—la voce, lo sguardo, i rimproveri—ma erano fantasie tanto surreali da scivolarmi addosso. Non ho mai dovuto fare a botte con me stesso per accettare di non avere nessuno da potere chiamare «Mamma». L’ho sempre dato per scontato.
    Non so a che età ho detto la mia prima parola, né tantomeno quale fosse. Non so neppure quando ho fatto i miei primi passi o se sapere queste cose sia importante. Mio padre apriva bocca solo in casi eccezionali. La storia della mia vita è una serie di immagini personali impresse nella mia mente.
    A sette anni mi guardo allo specchio. Mi guardo di profilo, accarezzandomi la pancia. Ho paura di essere un bimbo ciccione.
    A otto gioco con la mia prima tartarughina d’acqua dolce, Priscilla.
    A dieci ho gli orecchioni.
    A dodici vorrei apparire su MTV da grande. Mi muovo come il presentatore. Presento a un pubblico invisibile l'ultimo singolo di Brandi Carlile, per la terza settimana consecutiva al primo posto in classifica. La gente applaude.
    A sedici vengo in bocca a una ragazzina di cui non ricordo il nome.
    A diciassette dico: «Ti amo». Sono ubriaco.
    Ho diciannove anni quando mi iscrivo all’Università. Ventiquattro quando mi laureo in Lettere moderne.
    A ventisei sono un precario con uno stage non retribuito alle spalle.
    A ventinove ho la tessera magnetica della videoteca dietro casa in tasca. Voglia di mangiare una porcheria qualsiasi dal McDonald's. Un cellulare nuovo con più funzioni di quante ne imparerò mai a usare.
    A trentaquattro il prof. Telemente mi domanda se in realtà col termine “giocare” intendessi provare gusto nel torturare Priscilla?
    Quando rispondo di no, il prof. Telemente dice: «Strano, davvero strano».
    Non ti pongono mai la domanda giusta.
    Avrei potuto raccontargli di Francesco, ad esempio, che aveva gli occhi del mondo sempre puntati addosso. Attorno a lui ruotava il microcosmo della classe. Un brusio persistente lo circondava. Origine e destinazione finale di ogni fogliettino illecito circolato sotto i banchi, gli altri bambini lo amavano. Gli insegnanti, che riconoscevano in lui una nota colorata in una giornata lavorativa altrimenti identica alle precedenti, lo amavano pure loro. Francesco era importante per gli altri. E lui lo sapeva bene.
    Se qualcuno mi avesse domandato cos’è che avrei desiderato dimenticare, avrei risposto il suo sorriso.

    Finito di pestare a morte mio padre, era impossibile distinguere quanto del sangue sulle mie mani mi appartenesse e quanto invece fosse il suo. Mi sono recato in bagno, ho aperto il rubinetto e lasciato che tutto quel sangue venisse via. Le ferite alle mani hanno iniziato a farmi male solo una decina di minuti dopo. Al dolore è seguito un tremore abbastanza forte da non riuscire a tenere la cornetta del telefono in mano. Perché fu quello il mio primo pensiero: chiamare il numero verde della pubblicità che avevo visto solo mezz’ora prima in televisione e prenotare un viaggio indietro nel tempo in modo da potere uccidere mio padre una seconda volta. Mi ci sono voluti quattro tentativi prima di riuscire a comporre il numero giusto. Dopodiché il tremore si è calmato.
    Ho posizionato il corpo di mio padre a testa in giù, legandolo per le caviglie a una trave. Operando un taglio circolare due dita sotto il pomo d’Adamo, ho lasciato che si dissanguasse. Ci sono voluti solo pochi minuti. Ho svuotato il secchio colmo di sangue nel cesso e tirato lo sciacquone due volte. Dopo averlo slegato, ho disteso il corpo supino, allargando braccia e gambe. Ho stretto della corda attorno agli arti in modo da ridurre la perdita di sangue residuo. Con un coltello da cucina ho tagliato lungo le giunture, affondando bene la lama per assicurarmi che le fibre dei muscoli e i tendini, sorprendentemente resistenti, venissero recisi del tutto. Solo le cartilagini tenevano gli arti ancora attaccati al resto del corpo. Piegandoli e tirandoli, sono venuti via facendo “pop”.
    Recisi gli arti, con un martello ho causato varie fratture all’omero, all'ulna e al radio che mi hanno permesso di affettare le braccia con più facilità. Ho ripetuto la stessa operazione con femore, tibia e perone. Ho asportato la testa, avvolgendola in un sacco dell'immondizia. Ho fatto lo stesso con il tronco e gli arti affettati e caricato il tutto nel bagagliaio della vecchia Honda. La discarica distava pochi chilometri da casa. Un’ora dopo ero già di ritorno. Ripulita la camera e le macchie di sangue con acqua e ammoniaca, mi sono coricato. La centralinista aveva fissato l'appuntamento per le 10 dell’indomani mattina.
    Io e mio padre abbiamo vissuto sotto lo stesso tetto per trent’anni ma non ci siamo mai scambiati un solo sorriso. L’unica frase significativa che gli sentii pronunciare fu quella del cesareo di mia madre. Non si andava mai oltre le mere frasi di necessità. Ricordo il giorno che al Tg1 annunciarono la reintroduzione della pena capitale, a seguito dell'omicidio a sangue freddo di dodici esponenti politici da parte di una fazione estremista. Mio padre reagì con un semplice sbuffo. In fondo sono in molti ad avere dei padri poco loquaci. Però non tutti vengono condannati a morte per patricidio. Certo, vedere gli altri bambini interagire coi loro padri potrebbe avere avuto nel tempo un profondo impatto psicologico sul sottoscritto. Perché loro sono amati dal papà e io no? Ma in realtà questa domanda non me la sono mai posta. Non ho mai desiderato avere un padre diverso dal mio. Non è questa la ragione per cui l’ho ucciso.
    Prima di farmi accomodare all’interno della vasca di deprivazione sensoriale, mi hanno detto che era necessario modificare l’attività bioelettrica del mio cervello. Escludendo gli stimoli esterni, le mie onde cerebrali si sarebbero modulate sulle frequenze minori delta, associate al sonno, e theta, legate alla visualizzazione, ai sogni lucidi e all’impulso creativo. In questo modo, mi spiegarono, la mia mente avrebbe interpretato ogni evento vissuto consciamente nel passato alternativo come un sogno lucido nel tempo presente, rendendo il trasferimento spazio-temporale dell’Io un’esperienza innocua per la mia psiche.
    Mi hanno fatto spogliare nudo, poi mi hanno detto di indossare una cuffia costellata da decine di minuscoli elettrodi interconnessi. La vasca, simile a un enorme uovo di Pasqua con le due metà aperte, aveva al suo interno una soluzione di Solfato di magnesio. «Ha una consistenza identica a quella dell’acqua marina» mi hanno detto, facendomi segno di procedere tranquillamente. Era tiepida. Galleggiando nella soluzione, non avvertivo più il peso del mio stesso corpo. Ho avuto un momento d’esitazione. Prima di chiudermi all’interno dell'uovo di Pasqua, mi hanno domandato se fosse tutto Ok. Mi sono concentrato sul dolore che sentivo ancora alle mani dopo avere fracassato il volto di mio padre. Ho risposto di procedere.
    Di Francesco non mi è mai importato nulla. Sarebbe potuto trattarsi di chiunque altro. E in un certo senso si trattava di chiunque altro. Noi due abbiamo frequentato la stessa classe solo per un anno. Mio padre cambiò lavoro. Ci spostammo al Nord e io dovetti cambiare scuola. Ma ogni volta che vedevo un bambino sorridere in presenza di un adulto, mi tornava in mente l’immagine di Francesco. Il suo sorriso. Un sorriso che esprimeva qualcosa che io ignoravo. Qualcosa che andava oltre la semplice emozione del momento. Una forma di consapevolezza.
    Ho osservato per qualche istante gli spettri delle immagini ancora impresse sulle mie retine sovrapporsi, poi è sopraggiunto il buio più profondo sul quale mi sia mai affacciato. Quella profondità era pari al silenzio che mi circondava. Con la vasca di deprivazione sensoriale adesso chiusa, non riuscivo a sentire più nulla. Il mio stesso respiro, il cuore pompare sangue, il dolore residuo alle mani, queste cose potevo ancora avvertirle. Ma dopo poco anche queste sensazioni si sono annullate. Era un abisso infinito. Immerso in quel buio non avrei potuto vedere nulla e nessuno avrebbe potuto vedere me.
    Francesco, invece, non era invisibile. Francesco sapeva di esistere per gli altri. Francesco aveva dei genitori. Gli insegnanti lo chiamavano: «Figliolo». I compagni di classe si prendevano cura di lui. Era questo che comunicava il suo sorriso, quel dannato sorriso che non ha mai smesso di perseguitarmi. Francesco sapeva cosa significasse sentirsi un figlio.
    Sono state prima le punture dolorose provocate dall’attivazione degli elettrodi, poi il bagno d’intensa luce bianca causato dall’attraversamento del wormhole, a restituirmi al mondo. L’immagine di una sorridente ragazza in bikini ha sostituito la luce accecante. Non mi trovavo più all’interno dell’enorme uovo di Pasqua. Ero nel soggiorno di casa mia. Tenevo il telecomando in mano. E la ragazza alla tele diceva: «Rivivi la vita che hai sempre sognato». Quella frase, nel corso dei mesi a seguire, l’avrei risentita altre quarantadue volte.
    Suppongo che questa sia la mia metodologia. La ragione per cui la gente mi teme tanto da non riuscire a ignorarmi. A volte con la coda dell’occhio osservavo di nascosto mio padre. Desideravo che rompesse quel suo silenzio impenetrabile. Che dicesse qualcosa, una qualsiasi mi sarebbe andata bene. Ma lui no. Lui preferiva tacere. Io non esistevo. Avrei voluto odiarlo per questo. Tentavo, ma non riuscivo a provare alcuna forma di rancore. Forse non sapevo nemmeno di cosa avrei dovuto incolparlo. Mio padre, dal canto suo, avrebbe potuto invece ricordarmi di come abbiano dovuto “tagliare mia madre” per permettermi di venire al mondo. Sebbene non fosse mai stato presente, no, non odiavo mio padre. Eppure l’ho ucciso. L’ho fatto per me stesso. Per esistere. Avrei ucciso mio padre altre quarantaquattro volte, se solo fosse servito a farmi sentire suo figlio. Un figlio. Ma ho fallito ogni volta. Non è bastato. Mi sono costituito affermando: «Non sono riuscito a versare nemmeno una lacrima».

    Dopo avere fatto la doccia, mi daranno un nuovo paio di pantaloni e una camicia da indossare. Due guardie mi accompagneranno lungo il corridoio che porta alla stanza vetrata dove verrà eseguita la sentenza. Dall’altra parte dello specchio ci saranno una quarantina di curiosi, giornalisti e accademici che avranno prenotato il posto già da mesi. Mi faranno distendere sul lettino, legandomi braccia e gambe. A quel punto entrerà nella stanza un ufficiale, che inserirà nelle mie vene due aghi connessi all’apparato per la somministrazione delle sostanze letali. Al pubblico verrà chiesto di fare silenzio, prego. Mi chiederanno se voglio dire qualcosa ma, anche se non basterà questo a bloccare la sensazione dei loro sguardi su di me, io mi limiterò a chiudere gli occhi.
    L’ufficiale dirà allora di procedere. In un altra stanza, due esecutori schiacceranno contemporaneamente due bottoni. Per far sì che possano dormire notti serene, nessuno dei due saprà mai se è stato davvero lui o il suo collega a somministrarmi il tiopental sodico. Ma nel giro di quindici secondi perderò coscienza. In una parte remota della mia mente, lo so, continuerò a percepire il loro odio. A sentirmi un mostro. A sentire di potere essere solo quello.
    La seconda iniezione immetterà nelle mie vene il bromuro di pancuronio che causerà la graduale paralisi del sistema respiratorio. Inizierò così a soffocare. La terza e ultima iniezione, una soluzione di cloruro di potassio, impedirà al cuore di proseguire il suo battito regolare.
    Quell’abisso infinito in cui fluttuavo ogni volta che mi spostavo dal presente al passato, quel buio non mi faceva paura. Non più la necessità di essere normale né tantomeno quella di essere un figlio: in quel buio non vi era bisogno che fossi più nulla. Ero di nuovo invisibile. Prima dell’esecuzione, Aileen Wuornos disse che nel momento del suo trapasso la Madonna, Gesù bambino e tutti gli angeli l’avrebbero assistita ed era perciò felice di abbandonare questa vita di merda. Credo che la mia sarà una fine diversa. Non mi saranno aperte le porte del Cielo né vagherò in eterno nell’Ade. Sarà piuttosto come se non fossi mai esistito. Di me rimarrà solo il mito popolare del mostro e le teorie accademiche sul perché delle mie azioni inumane. La verità, quella di un figlio che non è mai esistito, si estinguerà assieme al mio ultimo respiro.
    Mi dicono che se sarò fortunato l’intero processo impiegherà sette minuti per concludersi. Se sarò un po’ meno fortunato, l’arresto cardiaco sopraggiungerà solo dopo due ore.
    Tu-tu tu-tu-tu-tu.
    In ogni modo, sono pronto.

    Edited by RobertoBommarito - 17/12/2009, 18:27
     
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  2. Salatzar
     
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    Mi è piaciuto molto.
    ...
    Non so come commentare, detto quello ho detto tutto: idea originale, anche senza dialoghi il racconto scorre liscio come l'olio. Il personaggio è riuscito a catturarmi con il suo distacco nel raccontare la storia e ho anche apprezzato le nozioni tecniche e documentative che gettavi qua e là nel racconto.
    Davvero carino!
     
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  3. AngeloF
     
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    Il racconto è bello.
    A tratti però somiglia troppo a un saggio e, anche se capisco la necessità di costruire la psicologia maniacale del personaggio, spesso questo ne rallenta la lettura (una cosa per tutte: l'elenco dei Serial killer è davvero troppo lungo).

    A parte questo, non c'è che dire: una buona idea e una bella scrittura.
    Complimenti.
     
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  4. RobertoBommarito
     
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    Grazie a entrambi per avere trovato il tempo di leggere e commentare il mio racconto.

    SPOILER (click to view)
    Per quanto riguarda le parti documentative, essendo parte non solo della personalità del personaggio ma anche parte dei ragionamenti sul quale si costruisce l'intera logica del racconto (ovvero il suo sentirsi un mostro, odiato e non comprenderne davvero la ragione, al punto di volere tornare invisibile), credo siano giustificate. Il personaggio è emotivamente distaccato dalla sua stessa sorte, così come lo è sempre stato il padre nei suoi confronti. Il distacco è l'unica cosa che conosce. La ragione per cui uccide il padre è il volere sentirsi un figlio, ovvero il suo disperato tentativo di sentirsi legato a qualcuno. Quindi il suo approccio analitico. Razionale. Distaccato, appunto.
     
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  5. Paola_Preziati
     
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    SPOILER (click to view)
    Roberto, scusa se mi intrometto prima di aver letto il racconto. Qui è d'uso fare un passaggio nella sezione Benvenuti e presentarsi. Non è obbligatorio, ma è più carino nei confronti di tutti gli altri utenti :P

    Un bacione, Paola
     
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  6. RobertoBommarito
     
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    SPOILER (click to view)
    Provvedo. Scusate, non intendevo essere maleducato.
     
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  7. Paola_Preziati
     
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    SPOILER (click to view)
    Tranquillo :)
     
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    complimenti, bella storia, ben costruita
    scrittura fluida

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    la pesantezza deriva da alcune parti espositive da enciclopedia
    confesso che ho saltato a pie' pari lìelenco dei pluriomicidi che, sinceramente, ti puoi permettere perchè non è una pubblicazione cartacea
    potevi rendere in altro modo questa passione per i serial killer del personaggio
    devo confessarti però che mi sembra una passione fine a se stessa, non ha risvolti particolari nelle azioni del protagonista

    mi è sembrato strano che da una parte tu faccia dire al protagonista che il padrenon lo avrebbe voluto diverso da come se lo ritrova e poi invece il suo modo di fare ne determina la morte

    questo manda un pò in fumo tutto il ragionamento che si fa nel racconto circa l'originalità della suapersonalità

    non mi sono poi chiari alcuni tempi della vicenda

    ha ucciso il padre 442 volte, virtualmente
    vuol dire che ha fatto 443 viaggi
    quanto tempo è passato dall'omicidio originale?
    ha nascosto il corpo?
    nessuno se n'è accorto?


    come prova d'esordio è molto buona ^__^
     
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  9. RobertoBommarito
     
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    Grazie per il commento. :)

    SPOILER (click to view)
    La lista più che letta credo che vada vista. E' una questione di impatto visivo. Quello che conta è la sensazione che ce ne siano appunto tanti: "Ciò che la gente ignora è che i migliori non vengono mai presi. Negli Stati Uniti spariscono in media 500.000 persone l’anno. 210.000 in Inghilterra. 30.000 in Australia. In Italia esiste addirittura un programma televisivo intitolato: “Chi l’ha visto?” Jack lo squartatore ha una famiglia, un lavoro, lo schermo al plasma pagato a comode rate mensili. È questa la verità. Ma preferiscono ignorarlo."
    Appunto la mole dei nomi presenti rende impossibile continuare ad ignorare la cosa.

    Non è il modo di fare del padre che ne determina la morte, quanto il desiderio del figlio di sentirsi legato a qualcun altro così come lo sono le persone che lo circondano. Il protagonista non uccide il padre perché lo odia. E appunto perché non riesce ad odiarlo, riconosce in se stesso l'origine del problema. Uccide quindi il padre per se stesso, per sentirsi appunto come gli altri.

    Andando indietro nel tempo, gli omicidi non sono virtuali. Ma reali. In universi paralleli, ma reali. Questo è spiegato nella parte dove si dice della nuova tecnologia pubblicizzata alla tele. Quindi il primo omicidio accade in questo mondo. Gli altri 443 nei mondi paralleli che si vengono a creare ogni qual volta che viaggia indietro nel tempo.

    Quanto tempo è passato dall'omicidio originale credo sia detto chiaramente: "Perché fu quello il mio primo pensiero: chiamare il numero verde della pubblicità che avevo visto solo mezz’ora prima in televisione e prenotare un viaggio indietro nel tempo in modo da potere uccidere mio padre una seconda volta. Mi ci sono voluti quattro tentativi prima di riuscire a comporre il numero giusto". Se ci sia voluto un giorno o tre per fissare l'appuntamento e andare indietro nel tempo credo sia irrilevante, così come lo è che fine abbia fatto il corpo. Poi sì, essendo stato condannato a morte, qualcuno si sarà accorto del corpo. :)
     
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  10. RobertoBommarito
     
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    Vorrei chiedervi perché il racconto non è stato votato da voi che lo avete letto? :)
     
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  11. Jakken
     
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    Mod On ---
    @per chi ha commentato questo racconto: ragazzi, benché il regolamento permetta di votare i racconti anche giorni dopo aver postato i commenti, fatelo subito se non avete troppi dubbi.
    Altrimenti va a finire che vi dimenticate e viene falsato il totale dei voti.
    Grazie.
    Mod Off ---
     
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  12. bravecharlie
     
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    cominciamo, questo USAM di dicembre mi sembra tosto :)

    un buon racconto il tuo, molto curato nello stile al punto che non ho riscontrato neppure una sbavatura. Una buonissima analisi psicologica che rende credibili le meccaniche mentali del personaggio e conduce al fondo di una vicenda che, per quanto non originalissima, si lascia leggere con piacere. Buona l'idea del wormhole e l'uso che il protagonista ne fa, un po' eccessive le parti didascaliche (la classifica dei serial killer, i passi del dizionario, gli scorci della vita di assassini seriali famosi che danno un tono troppo "da saggio" alla narrazione in alcuni punti e spezzano il ritmo e l'interesse). cura più che sufficiente sulle parti "tecniche", spiegate a dovere, resta l'impressione di un pezzo troppo "raccontato" e poco "mostrato", come si suol dire. comunque una buona prova, soprattutto per come sei riuscito a sviscerare alcuni "lati bui" della mente dell'io narrante, davvero convincenti. metto 3 e a rileggerci :B):
     
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  13. RobertoBommarito
     
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    Grazie molte per l'analisi dettagliata :)
     
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  14. marramee
     
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    Molto interessante. Uno stile assai personale. La storia potrebbe sembrare troppo semplice, eppure riesci a ravvivare continuamente l'interesse grazie alle tue trovate "maniacali". Questo sviscerare le vite dei serial killer, ossessione del protagonista, questo riportare articoli e brani, spezzoni di notizie, quasi a voler "autenticare" se stesso, potere e volere essere considerato tale...
    SPOILER (click to view)
    ... anche se in realtà ha ucciso una sola persona...

    ... sono il punto di forza del racconto. Le parti taciute però sono un po' troppe. Come è riuscito a durare così a lungo, come ha potuto fare così tanti viaggi nel passato, come è stato scoperto. Tu dirai che hanno poca importanza, per questo racconto, e forse hai ragione, ma sono certo che un racconto del genere si potrebbe ampliare con facilità. Voto un tre pieno.
     
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  15. RobertoBommarito
     
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    Ho operato alcuni cambiamenti. Grazie per i commenti. :)
     
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37 replies since 1/12/2009, 07:07   1425 views
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