Las aventuras de Martin Torcetripas - Roba da ricchi
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Las aventuras de Martin Torcetripas - Roba da ricchi

picaresco

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    è un teaser, o primo capitolo, di qualcosa che forse continuerò. a voi


    Las extrañas aventuras de Martín Torcetripas, picaro de Segovia - Roba da ricchi

    Segovia, 1565

    Avevo tredici anni il giorno in cui il mio buon padre, appena tornato dal suo lavoro di pulitore di orinatoi pubblici, si sedette a tavola e disse a mia madre: – Caldo oggi, eh?
    E lei: – Eh, sì.
    La mamma gli posò davanti un piatto di legno pieno di sugo di lenticchie, in mezzo al quale una misera fetta di carne di porco faceva capolino come un relitto semiaffondato. Le mosche, attirate tanto dall'odore del cibo quanto dalla puzza di merda di cui papà era costantemente ammantato, si fiondarono sull'uno e sull'altro, zampettando e ronzando e riempiendo il pranzo e la faccia del mio genitore di minuscole cagatine nere. Mio padre era un uomo prosaico, temprato da una vita di miseria, e non si mostrò troppo infastidito dai numerosi insetti. Abbattè un paio di tafani con una manata, facendoli precipitare nel piatto, afferrò una fetta di pane e li raccolse assieme al sugo di cui era ghiotto. Mangiava pane e mosche da quando era bambino. Diceva che se ti ci abituavi non avevano un cattivo sapore.
    – Ho visto Pablo Cobres uscire da casa nostra, mentre arrivavo – bofonchiò con la bocca piena.
    – Eh, sì – fece la mamma.
    – Non mi ha salutato. Sembrava in imbarazzo.
    – Eh, sì – mia madre era una donna di poche parole.
    – Ti ha pagato almeno? – disse il papà.
    – Eh, sì.
    Mia madre era una delle puttane più economiche del quartiere, e malgrado fosse secca come un manico di ramazza e brutta come il culo di un cane rognoso aveva un buon numero di clienti. Arrivavano di primo mattino o al tramonto, bussavano alla porta e se lei non andava ad aprire subito si mettevano a urlare e a tirar pugni all'uscio. Quando entravano spesso avevano già lo zufolo fuori dai pantaloni, prendevano la mamma tra le braccia e la portavano nella stanza da notte. Mentre il letto cigolava e sbatteva contro la parete io me ne stavo in cucina a giocare con l'unico soldatino che avevo, gli mettevo intorno le bottiglie e i bicchieri e facevo finta che fossero il suo esercito e che lui li comandava. Ogni tanto, da oltre la porta chiusa della stanza da notte, sentivo la voce alticcia del cliente di turno che ringhiava: “Ti piace così, baldracca? Vuoi che ti sfondi?”
    E poi quella affannata e rauca della mamma che mormorava: “Eh, sì”.
    Mio padre sapeva tutto, e gli stava bene. I soldi erano sempre troppo pochi a quei tempi, e bisognava pur mangiare. Vivevamo in un tugurio sotto il livello della strada, a cui si accedeva scendendo una corta rampa di scale. Lì dentro si gelava d'inverno e si soffocava d'estate, non c'erano finestre e i muri erano così pieni di topi che certe notti mio padre doveva alzarsi e prenderli a bastonate per evitare che salissero sul letto e gli rosicchiassero le dita dei piedi. C'era una ragnatela enorme, in un angolo del basso soffitto, dove viveva "El Rey". "El Rey" era un ragno nero e cattivissimo, più grosso della mia mano, il vero padrone della casa. La sua tela, costruita nell'arco di molti anni, imprigionava di tutto: mosche, farfalle, cavallette, perfino i piccoli uccelli che di tanto intanto s'infilavano dalla porta lasciata aperta. Una volta ci finì addirittura un topo, ed "El Rey" se lo mangiò in una settimana, lasciando solo lo scheletro invischiato nei fili di bava. Non avevamo mai neppure preso in considerazione l'ipotesi di cacciarlo via: si sa che i ragni sono i famigli delle case dei poveri, e che assicurano la buona fortuna a chi li tratta bene. Questo famiglio, a ben vedere, o era convinto che lo trattassimo male oppure non voleva fare il suo lavoro, perchè di fortuna noi non ne vedevamo neppure col cannocchiale. Nell'ultimo anno avevamo subito due pignoramenti pubblici, un'accusa di eresia poi rientrata ( mio padre si era comunque preso le sue dieci frustate, e in più s'era accollato le otto che toccavano alla mamma e le tre riservate a me ), ci eravamo beccati la polmonite e il gatto di casa era morto. A volte pensavo che sarebbe stato meglio cambiare ragno, ma chi aveva il coraggio di dirlo a "El Rey", che se ne stava sempre nella sua roccaforte vischiosa piena di animali morti e ti guardava con i suoi occhiacci rossi come a dire: “Non ci provare”?

    Non eravamo, comunque, gli unici a passarsela male in quegli anni: gli Escuerda, che abitavano tre case oltre la nostra, s'erano visti spossessare di tutti i loro beni perché una malalingua aveva spifferato alla Santa Inquisizione che non erano cristianos viejos*, così oggi vivevano per strada come zingari. Per non parlare di Nuño Aznar, che era finito in galera, e ci era morto, solo per aver rubato una pagnotta con cui sfamare i suoi tre figlioli. Di Alberto de Aguas, da un giorno all'altro non si era saputo più nulla. Si raccontava che avesse accumulato un forte debito con la Banca Regia, e che per evitare la forca fosse fuggito. Alcuni dicevano che s'era imbarcato su un mercantile diretto verso l'empia Inghilterra, e che da lì fosse poi salpato per quella terra sconosciuta e pericolosa che avevano ribattezzato “America” in onore di un italiano. Se fosse davvero giunto fin là e cosa facesse per vivere io lo ignoravo. Avevo sentito dire che in quella parte di mondo gli uomini erano rossi, e quando ne avevo chiesto il perché a mio padre lui mi aveva spiegato che quel colore era dovuto al fatto che avevano la pelle al contrario. “Anche la nostra pelle all'interno è rossa” aveva detto. “Solo che noi ce l'abbiamo dal verso giusto. Il buon Signore ha voluto punire quei selvaggi perché adoravano falsi dèi, così ha deciso che tutti i loro figli e i figli dei loro figli sarebbero nati con la pelle attaccata al contrario”. Ero rimasto a bocca aperta per un'ora. La cultura di mio padre riusciva sempre a sbalordirmi.
    Mi sbalordì anche quel giorno, ma per tutt'altro motivo. Finito di pranzare tirò fuori di tasca due blancas**, me le mise in mano e disse: – Martín, figliolo, m'è venuta una gran sete. Vammi a comprare un fiasco di vino allo spaccio di Gonzalo Malpadre, e già che ci sei portagli anche questa lettera. Prenditela comoda, mi raccomando. Non c'è alcuna fretta.
    Presi i soldi e la busta e mi avviai verso la porta, orgoglioso che mio padre mi ritenesse degno di un incarico tanto importante come quello di comprargli il vino. Sull'uscio la mamma mi raggiunse, mi afferrò per le spalle e mi strinse forte a sé. Tremava un poco, e sembrava che si sforzasse di non piangere. Quando si staccò da me aveva una strana espressione sul viso smagrito, un'ombra di pena infinita che non riuscii a spiegarmi.
    – Stai bene, mamma? – le chiesi un po' preoccupato.
    – Eh, sì – rispose lei, sforzandosi di sorridere. Al tavolo, papà mi dava le spalle e sembrava curvo sotto il peso di qualche preoccupazione segreta.

    Era la seconda ora del pomeriggio quando uscii di casa, e Segovia brulicava di gente. I vicoli che serpeggiavano tra le mura esterne di povere case addossate l'una all'altra erano resi ancor più stretti da bancarelle di fruttivendoli, venditori di cianfrusaglie e immondizia accatastata dappertutto. Prostitute stavano sugli usci aperti, alcune con neonati attaccati al seno nudo, in attesa di clienti. Vecchie passavano con canestri di fiori allacciati alla schiena. Bambini giocavano a inseguirsi tra le gambe degli adulti impugnando spade di legno e scudi di cartapesta. Un vagabondo giaceva riverso a terra sotto un sudario di stracci, tra l'indifferenza generale, annusato da un cane nero. Percorsi quelle stradine puzzolenti facendomi largo a gomitate e sbucai su una delle strade principali, dove lo spettacolo cambiava un poco: i signori con un po' di soldi entravano e uscivano dalle botteghe, oppure passeggiavano sottobraccio alle loro donne, carretti carichi di frumento e fieno procedevano tirati da cavalli stanchi e denutriti. Dalle bettole arrivavano le risate e le bestemmie degli ubriaconi, rumore di bottiglie infrante e urla di qualcuno che minacciava di spaccare la testa a qualcun altro. La chiesa di San Miguel aveva il portone spalancato; dentro si vedeva un esercito di sottane nere inginocchiate davanti all'altare.
    – Bella parola! – sentii dire a un uomo seduto al tavolo esterno di una taverna. – Che significherà, poi? Io mica l'ho capita. Com'è che si pronuncia?
    – “Bancarotta” – disse il suo compare, versandosi dell'acqua da una caraffa. – Vuol dire che, se hai debiti con il re, puoi anche dire addio ai tuoi soldi.
    – Accidenti. Ma ti pare giusto?
    – Eh, ma è così e basta.
    – Fosse per me, io farei uno sproposito. I signori se ne stanno nei loro palazzi d'oro e di marmo, e noi qui coi pidocchi e la scabbia, a bere acqua sporca davanti a un piatto di rape. Ah, ma non durerà per sempre! Un giorno o l'altro...
    – Occhio! – lo avvertì l'altro, e la discussione si smorzò all'istante. Un giovane alguacil*** stava transitando nei paraggi, e farsi sorprendere a parlar male del re equivaleva a passare un bel po' di guai. I due al tavolo cominciarono a chiacchierare di cose futili, gettando sguardi in tralice al tutore della legge che roteava il bastone.
    Non era raro udire discussioni del genere a Segovia, in quegli anni. La corona si era indebitata fino al collo per finanziare una serie di guerre lontane di cui il popolo non sapeva praticamente nulla, le banche reali avevano dichiarato fallimento per non restituire il denaro preso a prestito e un sacco di gente ci aveva rimesso. Come se non bastasse, un'inflazione tremenda aveva fatto schizzare i prezzi dei beni di consumo alle stelle, le tasse erano esorbitanti e la povertà interessava una larghissima parte della popolazione. I preti, tra i pochi a passarsela bene, dicevano dai loro pulpiti che bisognava sopportare queste ristrettezze per la difesa della cristianità, missione nella quale il nostro amato Felipe II stava profondendo tutti i suoi sforzi. Io ero solo un ragazzino, e tante cose non le comprendevo. Solo molti anni dopo avrei realizzato in che razza di pasticcio ci aveva ficcati lo scomodo ruolo di baluardi della Parola di Dio.

    Gonzalo Malpadre aveva lo spaccio all'angolo tra la strada dei macellai e quella dei conciapelli. In quell'incrocio angusto, gravato dai tetti sghembi e cadenti di molte abitazioni simili alle celle di un alveare, l'aria era costantemente appestata di un tanfo di sangue di vacca e porco, di interiora, di sali e sostanze intossicanti che servivano a colorare il cuoio. Non ci passava nessuno in quella zona, a meno che non fosse strettamente necessario, e comunque non ci si poteva transitare senza coprirsi il naso con un fazzoletto. Gli occhi mi lacrimavano già dopo pochi passi, e la testa mi girava come se fossi ubriaco.
    Gonzalo Malpadre era un uomo non più giovane ma non ancora anziano, con pochi capelli tagliati corti e un mosaico di profonde rughe che gli sminuzzavano in tante parti la fronte. Aveva labbra grosse da moro, occhi nerissimi e un mento quadrato dove cresceva una brutta peluria grigia. Entrai nella sua angusta bottega, posai le monete sul bancone ingombro di ogni genere di mercanzia e gli diedi anche la busta con la lettera. Lui l'aprì, lesse quello che c'era scritto sul foglio e schioccò le labbra annuendo tra sé.
    – Aspettami qui – mi disse. – Torno subito.
    Obbedii. Credevo che fosse sceso in cantina a prendere il fiasco di vino, e invece all'improvviso sentii chiudersi la porta dalla quale ero entrato e me lo ritrovai alle spalle.
    – Do... dov'è il vino? – chiesi un po' a disagio.
    – Proprio lì – disse lui, e indicò uno scaffale molto alto. Lo indicò con il mento, perché teneva le mani nascoste dietro la schiena.
    – Dove? – dissi. – Non lo vedo.
    – Lì. Guarda meglio.
    Mi avvicinai allo scaffale e mi sollevai sulle punte, ma non vidi che fette di pane ammuffito, barattoli di frutta secca e scarpe spaiate con le punte rotte. Di fiaschi nemmeno l'ombra.
    – Qua non c'è – mormorai voltandomi. – Siete sicuro che...
    Feci appena in tempo a vedere la verga che mi si abbatteva sulla testa, poi crollai a terra. Un sipario nero calò davanti ai miei occhi, e svenni. Le ultime cose che percepii, prima di perdere del tutto conoscenza, furono il rumore della porta che veniva riaperta e la voce di Malpadre che chiamava qualcuno.

    Mi risvegliai in un ambiente stretto e quasi del tutto buio, l'unica lama di luce filtrava dalle grate di una finestrella più piccola della mia testa. Avevo un gran dolore al capo, e passando la mano laddove il cervello sembrava pulsare per uscirmi da un orecchio la ritirai sporca di sangue.
    – Dove sono? – mugolai a me stesso, credendomi solo, e invece un istante dopo fui sorpreso dal sentirmi rispondere.
    – Sei sul carro degli orfani – disse una voce vicina. – Ci portano alla Casa dei Figli di Nessuno.
    Aguzzai la vista, e mentre gli occhi mi si abituavano all'oscurità li vidi. Una decina di sagome se ne stavano rannicchiate in quel crepuscolo innaturale, con le teste basse, le mani penzolanti, le schiene appoggiate alle pareti. Una giaceva supina, immobile, in posizione fetale. Erano bambini. Bambini della mia età.
    – Non sono un orfano, io! – gridai. – Ho la mamma e il papà, e quando sapranno cos'è successo...
    – Se sei qui è perché non ti vogliono – sentenziò calma la voce. – Ti hanno abbandonato, capisci?
    – Non è vero! – furioso, mi lanciai addosso a quel bugiardo e cominciammo ad azzuffarci, ma era molto più forte di me e presto mi bloccò sul pavimento piantandomi le ginocchia nella pancia.
    – Non ti vogliono, mettitelo in testa – ripeté. – Io sono Zacarias. Tu come ti chiami?
    – Martín. – risposi ansimando. – Tu quanti anni hai?
    – Quindici.
    – Io tredici.
    Non parlammo più, fino a quando il carro non si fermò.

    Ci fecero uscire uno a uno, tranne il bambino steso sul fondo del carro. Un alguacil lo punzecchiò con la punta del bastone, senza che lui muovesse un dito. Allora disse a un collega di portrarlo sul retro, dove c'erano quelli che sapevano cosa fare. Il bambino era morto. Chissà se lo avrebbero seppellito.
    – Eccoci qui! – sorrise Zacarias, sardonico. Alla luce del sole aveva i capelli arruffati e la faccia scura e affilata, occhi intelligenti e braccia muscolose per un ragazzino. Mi indicò l'immenso, massiccio edificio che sarebbe stata la nostra prigione, e mi scoprii sul ciglio di una crisi di pianto. La Casa dei Figli di Nessuno sorgeva al limitare occidentale della città, in un quartiere disastrato e triste dove la gente si faceva i fatti suoi. La gestivano i frati, esseri decrepiti che ci aspettavano dietro un cancello con le mani giunte e lo sguardo cupido, sorrisi lascivi sepolti nelle barbe bianche. Dietro di loro, la Casa si mostrava in tutta la sua minacciosità: guglie altissime svettavano ieratiche contro il cielo, finestre con sbarre occhieggiavano maligne, il portone principale spalancava i suoi pannelli come la bocca di un mostro pronto a inghiottirci. Tra il cancello e l'entrata vera e propria si estendeva un giardino enorme e incolto, invaso da ogni tipo di erbaccia. Gli unici colori a cui fosse permesso esistere in quel posto erano il grigio, il nero e il marrone.
    – Guarda – disse Zacarias mentre ci facevano mettere in fila, e indicò un crocchio di persone ben vestite e grassocce che si accalcavano verso una parte del muro di cinta, dove c'era una finestrella scavata nella pietra. Un frate con la faccia che sembrava una prugna secca emergeva da quel buco ogni tanto, passava un pacco o un cartoccio a qualcuno e poi scompariva di nuovo dopo aver intascato qualche moneta.
    – Chi sono? Che fanno? – chiesi al mio nuovo amico.
    – Chi sono? – ghignò lui. – Gran signori, dame, nobilastri dei quartieri alti. Che fanno? Non ne ho idea, ma vengono qui tutti i giorni. Lo so bene, perché prima che mi acchiappassero ci passavo spesso e li vedevo sempre. Qualunque cosa sia, è roba da ricchi.
    – Dentro, forza! – abbaiò un alguacil, e fummo spinti attraverso il cancello. I frati ci soppesarono con sguardi che mi fecero rabbrividire, uno di loro mi poggiò una mano grinzosa sopra la testa.
    – Che bel bambino – pigolò squadrandomi da capo a piedi. – Vedrai che qui ti troverai bene.
    Mentre il carro che ci aveva portati lì se ne andava, abbandonandoci sulla soglia di quella prigione per innocenti, scoppiai finalmente a piangere.

    Passarono tre giorni, e furono lunghi come anni. La vita alla Casa dei Figli di Nessuno scorreva sempre uguale, lenta, scandita da attività che si ripetevano con ciclicità meccanica. Al mattino ci facevano fare una robusta colazione a base di latte, pane e formaggio, poi ci lavavano e ci passavano sulla pelle una sorta di unguento che la rendeva morbida e liscia. Prima di mezzogiorno ci lasciavano un po' giocare in giardino, sotto la sorveglianza di cinque o sei frati, e all'ora di pranzo ci portavano in un gran salone muffoso per il desinare. Lì ci mettevano davanti ogni sorta di prelibatezza, e dovevamo mangiare fino alla fine anche se non ne avevamo voglia. Chi diceva di essere pieno si beccava una vergata sulle mani o uno scapaccione dietro la testa, oppure veniva portato in una stanzina senza finestre dove un frate gigantesco ti legava a una sedia e ti faceva inghiottire il resto del cibo con un imbuto.
    “Vergognatevi!” ci dicevano, “La gente là fuori muore di fame e voi vi permettete di rifiutare questo ben di Dio!”. Dopo una settimana eravamo grassi come maiali, e le nostre pance strabordavano dai calzoni tenuti su con lo spago. Ci muovevamo a fatica e facevamo delle scoregge così puzzolenti che quasi quasi bisognava girare col fazzoletto sul naso come nella strada dei conciatori.

    Fu alla fine del mese che Zacarias mi rese partecipe di ciò che aveva scoperto. Era notte, le luci nella Casa erano state tutte spente e ce ne stavamo nella gran camerata da notte ognuno disteso sulla sua branda. Zacarias disse: – Ieri ho capito tutto.
    – Hai capito cosa? – gli chiesi.
    – L'ho vista – sussurrò lui, con gli occhi che scintillavano nel buio. – Ho visto la stanza segreta nell'ala-est della Casa e quello che i frati fanno ai bambini. Vuoi vedere anche tu?
    Dissi di sì, e lui allora si alzò e mi fece cenno di seguirlo. Fuori dalla camerata c'era un frate che faceva la guardia sopra una sedia, ma era addormentato e non avemmo difficoltà a passargli davanti silenziosi come gatti. Zacarias mi guidò lungo corridoi sorvegliati da quadri di gente dal cipiglio severo, mi condusse attraverso cappelle dove Cristi enormi e lordi di sangue si torcevano sulle croci, mi fece strada in posti dove non ero mai stato. L'orfanotrofio sembrava deserto, abbandonato, ma in lontananza udivo un rumore soffocato e frenetico che indicava una gran messe di attività in pieno corso. Era un concerto di robe che raschiavano, giravano, picchiavano su altre robe. Di fornaci che cuocevano. Attrezzi che segavano. Forbici che tagliavano.
    – Ti ricordi di Jojo? – mi disse Zacarias mentre procedevamo. – Quello che era arrivato qui con noi?
    – Sì – annuii.– E allora?
    – Da quant'è che non lo vedi?
    Ci pensai solo in quel momento. L'ultima volta che mi ricordavo di aver giocato con lui risaliva a due settimane prima, poi non l'avevo più incontrato. Non era una cosa troppo strana, perché alla Casa eravamo più di trecento, però Jojo non era uno che passava inosservato.
    – Ora vedrai che fine ha fatto – mormorò cupo Zacarias, e la sua voce mi fece paura. Eravamo arrivati davanti a una gran porta socchiusa, oltre la quale i rumori si udivano chiaramente. Un fascio di luce rossa, infernale, filtrava dallo stipite, assieme a una puzza che era dieci volte peggio di quella nella strada dei conciatori, cento volte peggio delle nostre scoregge. Mi arrestai, perché non volevo guardare, ma Zacarias mi tirò avanti e mi costrinse a mettere la faccia contro la fessura.

    Ciò che vidi non lo dimenticherò finché campo. C'era una stanza enorme, oltre la porta, divisa su due piani collegati da scale e carrucole. Alla luce vermiglia di lanterne a olio, con i cappucci a coprire le teste, i frati erano tutti al lavoro, e ciò che facevano mi spedì un fiotto di vomito su per la gola e poi fuor dalla bocca. Ai bambini, già morti, venivano prima tagliati tutti i capelli, e con quelli si facevano centrini per tavole o s'imbottivano cuscini. I corpi venivano poi immersi in calderoni d'acqua bollente per parecchio tempo, quindi tirati fuori e spellati. La pelle finiva ai frati conciatori, che la lavoravano ricavandone giacche, calzoni e scarpe, il resto andava ai macellai. Quei maledetti vecchi erano abilissimi a spolpare, tagliare, salare la carne, trasformavano i ragazzini in bistecche e salsicce proprio uguali a quelle di vacca o maiale. Neppure le ossa andavano sprecate: con i femori si facevano flauti e bastoni da passeggio, con le dita opportunamente affilate piccoli coltelli da cucina. Le spine dorsali, con la gabbia toracica spalancata, si trasformavano in macabri candelabri.
    – Capisci, ora, cosa vengono a comprare i ricchi? – bisbigliò Zacarias alle mie spalle. – Carne tenera, vestiti esclusivi, chincaglieria unica fatta a mano. Si tolgono gli sfizi, solo perché hanno i soldi e il potere per poterselo permettere. E intanto i frati ci guadagnano. Di noi orfani non frega a nessuno se scompariamo nel nulla.
    Udii a malapena quelle parole. Ogni mio senso era sopraffatto dalla scena oltre la porta, dove la fabbrica continuava a pieno regime. C'era un cesto pieno di teste rapate, in un angolo, e c'era una strana macchina con una manovella che ingoiava arti disossati e sputava fuori coriandoli di carne macinata. Jojo era diventato una polpetta, finito nella pancia di qualche signore. Nella sua pelle stavano caldi e comodi i piedi di una giovane dama. Ecco perché ci spalmavano con quell'unguento. Ecco perché ci facevano abbuffare fino alla nausea.
    – Dobbiamo andarcene da qui – disse Zacarias. – Siamo già grassi da fare schifo, e abbiamo la pelle morbida come velluto. Tra qualche giorno toccherà a noi.
    – Come facciamo? – chiesi, riscuotendomi di colpo appena realizzato il pericolo.
    – Non lo so, ma mi verrà un'idea, spero. Adesso torniamocene a letto. Domani ti farò sapere.
    Ripercorremmo a ritroso la strada fatta per giungere fin là, passammo di nuovo accanto al frate addormentato e ci ficcammo sotto le lenzuola. Non chiusi occhio fino a poco prima dell'alba, e quando finalmente ci riuscii feci uno spaventoso incubo in cui una bocca rossa e piena di denti si avventava sbavando su ciò che rimaneva di me.

    Il giorno dopo, prima di pranzo, stavamo tutti nel giardino a giocare tra le erbacce. Un vento piuttosto forte soffiava da ponente, scompigliandoci i capelli e insinuandosi sotto gli stracci che coprivano i nostri corpi tondeggianti. I frati, immobili come statue in mezzo agli sterpi, mormoravano frasi smozzicate lanciandoci sguardi in tralice che adesso io comprendevo. Stavano scegliendo. Chi sarebbe scomparso quella notte?
    – Si annuncia bufera – sentii dire a uno di essi mentre gli passavo accanto assieme a Zacarias. – Questo vento è destinato ad aumentare. Stanotte soffierà potentissimo.
    Vidi il mio amico sgranare gli occhi, folgorato da un'intuizione improvvisa. Mi tirò a sé, avvicinò le labbra al mio orecchio e disse: – Ho guardato bene le mura di cinta: sopra ci sono spuntoni di ferro e pezzi di vetro aguzzo. Non si può scavalcarle.
    – E allora?
    – M'è venuta un'idea, ma devi coprirmi. Io adesso vado veso il portone d'ingresso. Quando mi vedi poggiare il piede sul primo scalino fa' qualcosa per attirare l'attenzione dei frati.
    – Che devo fare? – chiesi.
    – Qualunque cosa, basta che loro non guardino dalla mia parte. Mi raccomando. Se scoprono che mi sono allontanato è finita.
    – Va bene. Ma che hai in mente?
    – Lo vedrai stanotte – e si diresse verso il portone, con l'aria di chi stava solo ciondolando in giro. Non avevo la minima idea di come fare per distrarre i frati, ma qualcosa dovevo inventarmi. Zacarias posò il piede sul primo gradino e mi guardò, io cominciai a sudare. C'era un bambino di nome Tino, di soli otto anni. Era buono con tutti, parlava con voce da femmina, sorrideva sempre. In quel momento era propriio vicino a me, intento a osservare un'ape che impollinava uno dei rari fiori. Zacarias mi fissava, aspettando che mi muovessi.
    Tirai un pugno dritto sul naso a Tino, poi lo buttai a terra e cominciai a schiaffeggiarlo. Lui subì tutti i colpi, troppo sorpreso per difendersi, se ne stette lì a prendere botte che non meritava. Gli altri orfani ci si fecero subito attorno gridando, felici ed eccitati per quel diversivo inaspettato alla noia della giornata. Prima uno, poi due, infine dieci, si buttarono su di noi e la lite degenerò in una zuffa colossale.
    – Fermi! Fermi, in nome di Dio! – i frati accorsero, facendosi largo come potevano tra la folla.
    – Così vi rovinate la pelle! – si lasciò scappare uno, subito zittito da un confratello.
    Ci separarono a fatica, minacciando e colpendo a casaccio con le verghe di vimini intrecciati. Mi beccai un bel po' di legnate e calci nel sedere per essere stato l'iniziatore di quella bisboccia.
    – Per punizione oggi mangerai più degli altri e farai un bagno in più – mi disse uno dei frati, trascinandomi per un orecchio. Io guardai in direzione del portone e sorrisi. Zacarias non c'era più. Qualunque fosse il suo piano, la prima parte era andata a buon fine.

    Quella notte il vento spazzava Segovia come il soffio bollente di un drago, ululando di una rabbia ancestrale. Era un vento davvero fortissimo, mai visto prima, una tempesta che piegava gli alberi e faceva fremere i vetri delle imposte. Ero sveglio nella camerata buia, la testa nascosta sotto il cuscino, e aspettavo che Zacarias dicesse qualcosa.
    – Vieni – mi afferrò un polso. – Guarda cos'ho rubato dalla sartoria, stamattina.
    Era un saio, un saio da frate. Mentre io mi azzuffavo in giardino Zacarias era sgattaiolato nella stanza dove i nostri aguzzini tenevano i paramenti di riserva e ne aveva preso uno, poi l'aveva nascosto sotto il suo letto. Era grande per un bambino, e con capii cosa volesse farci.
    – Dobbiamo andare sul tetto, – spiegò – e per farlo bisogna che ci travestiamo. All'ultimo piano c'è un frate pazzo che non dorme mai, va avanti e indietro tutta la notte. Conciati come un confratello, non baderà a noi.
    Quando mi spiegò il resto del piano cominciai a dubitare che fosse pazzo anche lui, ma non dissi nulla. Salii a cavalcioni sulle sue spalle, mi ci misi seduto e poi ci vestimmo con il saio. Mi tirai su il cappuccio, nascondendo il volto. Così, uno sull'altro, sembravamo proprio un frate. Nessuno avrebbe sospettato nulla.
    Zacarias mi disse di prendere le lenzuola dei nostri letti e di portarle sottobraccio. Obbedii, il capo era lui. Uscimmo dalla camerata. Nemmeno a dirlo, il guardiano davanti alla porta dormiva.

    Zacarias era forte, e riuscì a portarmi sulle spalle per tutto il tragitto. Sbuffando come un mulo da soma percorse lunghi corridoi e salì parecchie rampe di scale, guidato da me che gli facevo da occhi per evitare che andasse a sbattere. I frati erano tutti impegnati nela fabbrica degli orrori, ma se anche ne avessimo incontrato qualcuno questi non avrebbe visto altro che un confratello un po' zoppicante che vagava con le mani giunte lungo la Casa.
    Arrivammo alfine all'ultimo piano, che era più buio e minaccioso degli altri. Un lunghissimo corridoio stretto tra un muro ammuffito e una balconata affacciata sul vuoto conduceva alla porta che dava sul tetto, piccolissima da quella distanza. Era lì che dovevamo arrivare.
    – Non guardare giù! – sussurrò Zacarias, sentendomi vacillare sopra di lui. Avevo gettato l'occhio oltre la balaustra di granito, laddove un salto di più di trenta metri precipitava verso le piastrelle grigie dell'atrio, e la testa aveva preso a girarmi. Per fortuna il mio amico s'era spostato verso la parete opposta con uno sforzo considerevole; se fossi caduto da quell'altezza l'impatto mi avrebbe ucciso all'istante.
    Il corridoio sembrava non finire mai, la porta in fondo restava lontanissima. Avanzavamo in silenzio, cercando d'ignorare il vento che fuori dalle finestre turbinava sui tetti delle case trascinando le nuvole chissà dove. Ci eravamo quasi dimenticati dell'inquilino dell'ultimo piano quando, vomitata dalle tenebre, una sagoma alta e scura ci comparve davanti. Sembrava fluttuare sul pavimento, i piedi nascosti dal lembo di un saio nero, camminava in un silenzio irreale sollevando piccoli sbuffi di polvere. Sotto il cappuccio sollevato c'era solo una fetta di buio pesto, una macchia di notte imprigionata dalla stoffa, e in mezzo a essa due braci giallastre che una volta, prima che la follia s'impadronisse di quel corpo, dovevano essere state occhi. Era il frate pazzo, e veniva verso di noi.
    – Salute, confratello – ci disse passandoci accanto. – Come mai qui? – Aveva una voce roca e flebile, che sembrava uscirgli a fatica dalla gola. La voce di uno che non parla da anni e si è quasi dimenticato come si fa.
    – Ehm, facciam... faccio una passeggiata – bofonchiai, cercando d'imitare la voce di un adulto. – Buonanotte a te.
    Mi afferrò un braccio con una mano che pareva una tenaglia.
    – Una passeggiata – mormorò. – Vuoi prendermi in giro? Nessuno passeggia qui, da quando questo piano è diventato la mia prigione.
    – Oh, be', ma ogni tanto è bene cambiare aria...
    – Zitto! – il suo ruggito echeggiò terribile, sovrastando anche il vento. – Ti hanno mandato per uccidermi, vero? Non vi è bastato confinarmi qui, ora volete eliminarmi. E tutto perché non sono mai stato d'accordo con il vostro lurido piano di uccidere quei bambini e rivenderli pezzo per pezzo. Devo pagare con la vita, per questo? Devo morire?
    – Per favore, non gridare – gli bisbigliai, mentre sotto di me Zacarias tremava come una foglia. Fu inutile.
    – Avete tradito il nostro ordine! – tuonò ancor più forte. – Avete ceduto al richiamo del guadagno facile! Mi avete intrappolato qui, minacciando di uccidermi se avessi provato a scendere, siete stati voi a farmi impazzire! Sai cosa ho mangiato, stanotte? Scarafaggi! E ho bevuto la mia urina per placare la sete! Non vi basta affamarmi? Volete proprio alzare il pugno contro un vostro confratello?
    Ecco che la storia diventava chiara. A quanto pareva quel poveraccio era l'unico a essersi opposto all'empio commercio dei frati, e per questo era stato esiliato lì sopra. Per anni aveva vissuto in totale solitudine, inviso ai suoi stessi confratelli solo perché si era fatto degli scrupoli morali. Ora credeva che fossimo un assassino inviato per toglierlo di mezzo. La faccenda si complicava.
    – Non mi lascerò togliere la vita senza lottare. – gridò. – A noi due! – e così dicendo s'avventò su di noi ghermendomi la gola con quelle manacce adunche. Caddi dalle spalle di Zacarias e finii a terra, il saio volò via con me rivelando il mio amico. A quel punto, dai piani inferiori, giunsero urla e scalpiccio di molti sandali che percorrevano le rampe di scale. Il frate guardiano doveva essere stato svegliato da tutto quel gridare ed era di certo corso ad avvertire gli altri.
    – Ma voi... siete dei bambini! – mormorò il frate pazzo, esterrefatto. – Cosa ci fate qui? Stavate provando a scappare?
    Piangendo, spaventati sia da lui che dal trambusto che si avvicinava dabbasso, gli dicemmo che era proprio così. Ci lasciasse andare sul tetto, lo supplicammo. Non volevamo finire come gli altri orfani.
    – È il Signore che vi manda! – mugolò congiungendo le mani davanti al volto nascosto. – Non sono stato capace di fermare il massacro, ma Egli mi da' una nuova possibilità di fare del bene. Siate benedetti, figlioli. Vi proteggerò!
    In quel momento gli altri frati sbucarono in fondo al corridoio brandendo accette e coltellacci.
    – Prendi quei due! – gridarono al confratello, avvicinandosi. – Non lasciarli fuggire!
    – Andate – ci disse il frate pazzo parandosi tutto solo di fronte agli assalitori. – Me la vedrò io con questi scherani del male. Abbiamo più di un conto in sospeso.
    Detto ciò calò di colpo il cappuccio, rivelando una testa e un volto grinzosi, fatti di carne scura e piagata dalla quale emergevano grosse vene pulsanti.
    – Quella volta che provai a uscire dall'orfanotrofio dovevate bruciarmi fino all'osso, invece di limitarvi a ficcarmi la faccia nell'acqua bollente! – gridò ai suoi ormai ex-compagni. Poi si lanciò contro la torma che sopraggiungeva pronto al martirio.

    Io e Zacarias sbucammo sul tetto. Il vento era potentissimo a quell'altezza, e quasi ci faceva cadere
    a terra. La città dormiva ignara di tutto, indifferente, solo dietro le porte di sparute osterie le luci erano ancora accese. Avevamo ancora con noi i lenzuoli, l'unica cosa che ci servisse davvero.
    – Pronto? – mi disse Zacarias.
    Non ero pronto, ma i rumori che udivo da oltre la porta mi dicevano che non c'era più tempo. I frati avrebbero presto avuto ragione del pazzo, poi ci avrebbero raggiunti e presi.
    – Andiamo! – gridai a Zacarias, ed entrambi ci lanciammo a rotta di collo verso il bordo del tetto tenendo stretti gli angoli dei lenzuoli, due per ogni mano. Saltammo nel vuoto a occhi chiusi, alzammo i lembi di stoffa sopra la testa e ci affidammo a Eolo. Credevo proprio che ci saremmo spiaccicati dopo una caduta di più di trenta metri, e invece il vento impetuoso gonfiò i lenzuoli come vele, li spinse in alto, ci portò oltre il muro di cinta della prigione. Zacarias aveva avuto l'intuizione giusta. Stavamo volando!
    – È fatta! – gridava il mio amico mentre, come strane creature metà uomo e metà lenzuolo, passavamo sui tetti delle case, sopra i balconi, accanto ai comignoli. Avremmo dovuto pensare a come perdere quota prima di arrivare troppo lontano, ma era così bello star lì a farsi trasportare dalla tempesta che per un po' ci dimenticammo di tutto e ci godemmo il viaggio. La luna era piena, enorme, giallissima. Da lassù sembrava di poterla raggiungere.
    – Maledetti frati! – strepitava Zacarias. – Siate maledetti voi e il vostro Dio! Dopo avervi incontrati non credo più in nulla, anzi farò in modo di lottare contro la religione con tutte le mie forze! Da grande vivrò nel vizio e nell'agio, e se ne avrò l'occasione vi renderò pan per focaccia! Preti, monaci e suore: siete tutti una massa di...
    Dio, che pure non doveva avere nulla a che spartire con un luogo come la Casa dei Figli di Nessuno, dovette sentirsi un po' offeso e decise che ne aveva avuto abbastanza. Zacarias volò dritto contro il braccio appuntito della gran croce di ferro in cima al campanile della chiesa di San Miguel, ci si piantò di pancia come un pollo sopra uno spiedo e rimase là, a venti metri d'altezza, abbracciato al simbolo che aveva appena rinnegato. Mi dispiacque lasciarlo così, impalato come una banderuola, ma il vento mi portava già oltre e non potevo fare nulla. Qualcuno, il mattino dopo, avrebbe alzato lo sguardo e lo avrebbe visto, qualcun altro sarebbe salito sul campanile e lo avrebbe staccato, bianco come un cencio e sporco di sangue e cacche di uccelli. Così finiva il migliore amico che avessi mai avuto, colui che mi aveva salvato la vita.

    Quando passai a circa due metri da un tetto meno ripido degli altri lasciai andare il lenzuolo, precipitai brevemente e picchiai il sedere sulle tegole dure. Mi rimisi in piedi, massaggiandomi, guardai nella direzione da cui ero venuto e vidi le guglie della Casa: erano ancora spaventose, con le finestre illuminate dietro le quali potevo immaginare i frati muoversi freneticamente, blaterare, imprecare per ciò che era accaduto. Ma erano lontane. Troppo lontane perché quei maledetti potessero riacchiapparmi in una città di venticinquemila abitanti.
    – E tu chi sei? – una voce alla mie spalle mi fece trasalire. Mi voltai. Affacciata al davanzale di uno degli abbaini stava una donna grassissima, insonnolita, con un unico sopracciglio nero che le storpiava lo sguardo in un'espressione corrucciata.
    – Buon... buonasera, signora – dissi. – Vado via subito...
    – Ma come ci sei arrivato qui sopra? Camminando per tetti come i gatti?
    – No, signora. Volando.
    – Mi prendi in giro?
    – No, signora.
    Mi guardò a lungo, sorridendo con le labbra baffute, e pareva molto divertita. Annuì come se avesse capito chissà che, si sistemò la vestaglia sui seni enormi e poi ci incrociò sopra le braccia. Non sembrava una donna cattiva.
    – Senti, hai fame? – mi chiese.
    – No, signora – risposi. – Ho mangiato anche troppo negli ultimi tempi.
    – In effetti mi sembri ben pasciuto. Ce l'hai un posto dove andare?
    – Non lo so. Zacarias ha detto che i miei genitori non mi vogliono più.
    – Zacarias? E chi è?
    – Il mio amico. Quello che sta sulla croce.
    – Capisco, capisco – mormorò, ma si vedeva che invece non capiva. – Dì un po', ma tu chi diavolo sei?
    Ci pensai un po' su, e ancora oggi non so perché alla fine diedi quella risposta. Fatto è che, avvicinadomi a lei e mettendo i piedi oltre l'abbaino, non mi vennero in mente altre parole per definire la mia situazione.
    – Sono Martín Torcetripas, signora – dissi semplicemente. – Sono un picaro. Un picaro di Segovia. Ora, se non le dispiace, vorrei andare a casa mia.


    *[così erano chiamati i discendenti da generazioni di cristiani dal sangue puro, non contaminato con quello di islamici o ebrei. La “limpieza de sangre” era uno dei fattori maggiormente discriminanti nella società spagnola dell'epoca]

    **[monete di poco valore]

    ***[ufficiale preposto alla sorveglianza delle strade]






    :)

    Edited by bravecharlie - 16/12/2009, 00:36
     
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  2. ferru
     
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    ciao Brave

    SPOILER (click to view)
    L'ho letto con piacere, ma devo rilleggerlo prima di fare un vero commento e valutarlo.
    ti segnalo questo:

    CITAZIONE
    Alcuni dicevano che s'era imbarcato su un mercantile diretto verso l'empia Inghilterra, e che da lì fosse poi salpato per quella terra sconosciuta e pericolosa che un italiano aveva ribattezzato “America”.

    Cristoforo Colombo in Spagna dicono che è Spagnolo. Sono voci ma prova a Verificare.
    Verifica anche se in quel periodo era già denominata America.

    Come al solito sembra una storia di altissima qualità (parere personale). Pazienta qualche giorno per il voto


    Ferruccio
     
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  3. bravecharlie
     
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    SPOILER (click to view)
    sulla nazionalità di Colombo sono molti i dubbi, ma io in realtà mi riferivo ad Amerigo Vespucci, che è il vero "battezzatore" del continente. Fu lui a dargli il nome, dopo tre successivi viaggi agli inizi del '500


    grazie per la lettura :)
     
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  4. ferru
     
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    :azz:
    SPOILER (click to view)
    non mi devo far fregare dall'emotività.

    Prima di fare qualsiasi commento Ferruccio, leggilo bene! Birichino


    pardon "maestro"


    appreso.
     
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  5. Yue07
     
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    Eh sì, nell'uso della prima persona sei proprio un maestro. Raramente mi sono sentita così...coinvolta nella storia (e a questo contribuisce il registro basso e gergale, adatto al tipo di personaggio usato come protagonista). Ammetto che la storia in sè per sè non mi ha appassionato più di tanto, ma è il modo in cui l'hai scritta che la innalza di parecchio.
    Eh, caro Brave, so che ormai ci sei avvezzo (con 4 titoli USAM, se non erro, sul groppone), ma un quattro qui è dovuto. Complimenti! ;) ;)

    Edited by Yue07 - 2/12/2009, 14:11
     
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  6. marramee
     
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    Che dire, il solito quattro. Anche se, stavolta, la storia mi ha convinto meno delle altre. L'incipit è magistrale, la prima parte perfetta. Poi, dal momento in cui il protagonista entra nell'orfanotrofio (di Hansel e Gretel), tutto quanto subisce un'accelerata e scade troppo sul grottesco.

    SPOILER (click to view)
    In particolare: sbirciando da una fessura, il protagonista vede...
    CITAZIONE
    C'era una stanza enorme, oltre la porta, divisa su due piani collegati da scale e carrucole. Alla luce vermiglia di lanterne a olio, con i cappucci a coprire le teste, i frati erano tutti al lavoro, e ciò che facevano mi spedì un fiotto di vomito su per la gola e poi fuor dalla bocca. Ai bambini, già morti, venivano prima tagliati tutti i capelli, e con quelli si facevano centrini per tavole o s'imbottivano cuscini. I corpi venivano poi immersi in calderoni d'acqua bollente per parecchio tempo, quindi tirati fuori e spellati. La pelle finiva ai frati conciatori, che la lavoravano ricavandone giacche, calzoni e scarpe, il resto andava ai macellai. Quei maledetti vecchi erano abilissimi a spolpare, tagliare, salare la carne, trasformavano i ragazzini in bistecche e salsicce proprio uguali a quelle di vacca o maiale. Neppure le ossa andavano sprecate: con i femori si facevano flauti e bastoni da passeggio, con le dita opportunamente affilate piccoli coltelli da cucina. Le spine dorsali, con la gabbia toracica spalancata, si trasformavano in macabri candelabri.

    Accidenti che vista da falco!!! Questa parte andava gestita meglio, con più calma, grado per grado. Scoprendo la verità un po' per volta.

    E poi il finale! Quello non mi va giù. Non sono bambini piccoli, 13 e 15 anni, ingrassati pure come maiali, e di certo non leggeri. Si aggrappano a un lenzuolo e volano sui tetti della città? Prova ad aggrapparti a un lenzuolo e buttarti dalla finestra, e sono certo di sentire il tonfo fin da qui. Io cercherei un altro sistema per fuggire dall'orfanotrofio.
     
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  7. bravecharlie
     
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    ciao marramee

    SPOILER (click to view)
    le tue perplessità sono condivisibili, e tuttavia un po' mi sento di giustificarle per il genere che ho scelto. la picaresca è un filone di per sé esagerato, che affonda nella realtà ma la distorce per renderla grottesca, inverosimile, ridicolmente fantastica. sul fatto della scena sbirciata dalla porta, invece, forse hai ragione. comunque, per chi leggesse questo racconto e avesse voglia di approfondire l'argomento, suggerirei la lettura di capolavori assoluti del genere come "Lazarillo de Tormes" "El Buscòn" e "El Guzmàn de Alfarace": vere chicche, da spanciarsi dalle risate XD
     
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  8. rehel
     
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    Forse esce dal genere, ma hai mai letto Capitano Alatriste, del grande A.P.Reverte? :shifty:
     
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  9. bravecharlie
     
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    no, Rehel, ho letto solo quelli spagnoli del XVI secolo, iniziatori del genere. se mi capita lo prendo :)
     
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  10. Snow2
     
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    Qualche refuso:
    "( mio padre si era comunque preso le sue dieci frustate, e in più s'era accollato le otto che toccavano alla mamma e le tre riservate a me )" via gli spazi
    "Una decina sagome" manca il "di"
    "base si latte" di
    "e con capii" non
    "mi da' " dà
    "– gridò ai suoi ormai ex-compagni" brutta questa, io la toglierei.

    "Così finiva il migliore amico che avessi mai avuto, colui che mi aveva salvato la vita." Questo potrebbe essere portato a capo, per dare un attimo di respiro al lettore.
    Ti segnalo solo che qui e lì un a capo in più non guasterebbe, giusto per dare aria nei momenti importanti. Poi si potrebbero togliere un paio di righe dalla descrizione della città mentre Martin va "a comprare il vino".

    Nella parte iniziale la descrizione della casa e della famiglia è stupenda.

    Be', brave, bel lavoro! :)
    Voto 4
     
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  11. ferru
     
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    :B):
    SPOILER (click to view)
    ho votato quattro

    non te l'ho dato per farmi perdonare la gaffe di Vespucci (ero andato diritto diritto su Colombo inconsciamente).
    La gaffe è dovuta ai problemi che uno come me incontra leggendo i tuoi lavori.

    "L'invidia" per la tua capacità di scrittura è talmente elevata che farei carte false pur di poter affermare di averti aiutato in qualcosa. Ormai leggo le tue cose solo per cercare di trovare qualcosa che non va' - "bonariamente" sia chiaro.
    Questo racconto stilisticamente è perfetto. Con una giusta miscela di dialoghi e raccontato. Ci sono immagini davvero gustose. Il primo capitoletto è esemplare. Ho verificato alcuni miei dubbi per vedere se filologicamente le cose stanno al loro posto, ma a questo punto è meglio che me ne stia zitto, onde evitare altre figure barbine.
    Certo non è il mio genere preferito, ma tu hai avuto la capacità di renderlo vivo e non sfigura, almeno tecnicamente, rispetto ad altri lavori tuoi.
    Cede un pochino verso la fine (dal mio punto di vista), ma lo ritengo un problema generato più dalla lettura a video che dalla prosa vera e propria.

    Che te lo dico a fare: complimenti!

    Ot. In usam si può postare un romanzo?


    Edited by ferru - 2/12/2009, 15:38
     
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  12. rehel
     
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    Divertente.
    Non si avverte che si tratta di uno spezzone di qualcosa di più ampio e questo è molto positivo.
    Bellissimo El Rey, così come la frase sui topi... :D
    Non è ai livelli della Bottiglia, ma io andrei avanti se fossi in te.
    L'unica cosa che non condivido è l'utilizzo del verbo: spossessare.
    Per me è un buon quattro. :shifty:
     
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  13. VdB
     
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    Ciao Brave!
    SPOILER (click to view)
    Se USAM fosse la motogp tu non potresti che essere Valentino Rossi… Vincerai anche stavolta!
    Mi sarebbe piaciuto per una volta leggere qualcosa in terza persona, per confrontare il tuo stile alle prese con un modo diverso di scrivere. Perché in quanto a scrivere, ammazza se lo sai fare bene, ma per i miei gusti scrivi freddo. Ti manca qualcosa per fare il passo successivo, quello che ti spetta, che non è un elogio all’interno di USAM, ma un riconoscimento alla tua abilità (che arriverà quanto prima) indipendentemente dai gusti di chi legge. Per fare ciò, dovresti scrollarti di dosso il compiacimento che hai mentre componi, cercando soluzioni diverse dal solito, mettendo nelle storie un pezzetto più di fegato e anche di cuore, e un po’ meno di cervello, solo così una storia la fai vivere davvero in chi legge. È il caso di questo racconto, ricco di stile ma povero di umanità, pur essendo straripante di personaggi. La vita è solo descritta, la si percepisce, ma scorre senza entrarea fondo nell’anima di quanti descrivi. Il protagonista è tratteggiato stupendamente ma manca una ulteriore dimensione, quella che ha dentro. Come fosse un disegno a cui manca il senso della prospettiva per dare profondità al tutto. Ti porto un esempio:
    CITAZIONE
    Entrai nella sua angusta bottega, posai le monete sul bancone ingombro di ogni genere di mercanzia e gli diedi anche la busta con la lettera. Lui l'aprì, lesse quello che c'era scritto sul foglio e schioccò le labbra annuendo tra sé.
    – Aspettami qui – mi disse. – Torno subito.
    Obbedii. Credevo che fosse sceso in cantina a prendere il fiasco di vino, e invece all'improvviso sentii chiudersi la porta dalla quale ero entrato e me lo ritrovai alle spalle.
    – Do... dov'è il vino? – chiesi un po' a disagio.
    – Proprio lì – disse lui, e indicò uno scaffale molto alto. Lo indicò con il mento, perché teneva le mani nascoste dietro la schiena.
    – Dove? – dissi. – Non lo vedo.
    – Lì. Guarda meglio.
    Mi avvicinai allo scaffale e mi sollevai sulle punte, ma non vidi che fette di pane ammuffito, barattoli di frutta secca e scarpe spaiate con le punte rotte. Di fiaschi nemmeno l'ombra.
    – Qua non c'è – mormorai voltandomi. – Siete sicuro che...
    Feci appena in tempo a vedere la verga che mi si abbatteva sulla testa, poi crollai a terra. Un sipario nero calò davanti ai miei occhi, e svenni. Le ultime cose che percepii, prima di perdere del tutto conoscenza, furono il rumore della porta che veniva riaperta e la voce di Malpadre che chiamava qualcuno.

    Non credo che una persona, fosse passato un mese, un anno o cento, possa raccontare con questo distacco la prima vera grande immensa fregatura della sua vita. Fossi in te (magari! così scriverei da Dio...) proverei a rivederla, tanto per tua curiosità, mettendola in maniera diversa. Prova a far trasparire il livore, tira fuori l’esplosione della rabbia nei confronti dei suoi (uno a tredici anni di rabbia ne ha da tirare fuori se gli arriva una mazzata tra capo e collo, te lo posso sottoscrivere e controfirmare…) dandogli quel tocco di sarcasmo che aleggia nello scritto, rivisto con il senno di chi la racconta dopo averne passate di cotte e di crude, ma lasciando intuire la delusione di come l’ha vissuta a suo tempo, un misto di rancore per essere stato abbandonato e la soddisfazione di avercela fatta nonostante le avversità. La differenza fra narrare e far rivivere sta tutta qui, così come fra scrivere per passione e scrivere per professione. Puoi vivere giocando o farti gioco della vita: inventare storie ti lascia quest’immensa possibilità...

    Ps Ti faccio questo appunto perché non sono in gara, altrimenti avrei evitato perché qualcuno avrebbe frainteso che fosse solo per sminuire un racconto concorrente, mentre te lo dico perché è quel che penso. A volte per essere simpatici basta evitare di fare le critiche, io non ci sono mai riuscito a essere compiacente, quindi sapendo che te ne fregherai di queste mi osservazioni, avrò solo sprecato un po’ del tuo tempo e al più avrò solo alimentato la sana antipatia che contraddistingue il mio modo di fare... :diablo:

    Be’ come ultimo contributo a USAM di quest’anno non me la sono cavata male… :angel:
     
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  14. Daniele_QM
     
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    Letto.
    La prima parte è veramente scritta in modo esemplare. La povertà trasuda da ogni riga. El rey è un elemento azzecatissimo che mi ha impressionato.
    Tutto bellissimo fino alla fuga che, devo dirti, mi ha convinto poco (anche lo spiedo sulla corce... insomma...). l'incontro col frate "pazzo" che era in realtà l'unico sano mi è parso troppo "Deux ex machina", quella che il buon Roberto Dal Pra' definisce "casualità insopportabile".
    Non arrivo al quattro (mi sa che sarò l'unico! :P ) perché questa parte penso che avresti potuta gestirla meglio (che lo stile sia da 4 invece, è assodato!).
    Comunuqe, come primo capitolo - considerato che fa storia s é - è ottimo!

    :)
     
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  15. bravecharlie
     
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    ciao VDB

    SPOILER (click to view)
    e grazie innanzitutto per aver letto commentato pur non essendo in gara. apprezzo alla massima potenza ciò che hai scritto, oramai un po' "ti conosco" e la tua schiettezza è preziosa, io non partecipo mai a USAM per avere elogi indiscriminati e a prescindere ma sempre per avere confronti. simile a quello che tu hai aperto. Provo un po' a spiegare. Innanzitutto in questo scritto io mi sono attenuto ferreamente ai canoni del romanzo picaresco del '500, che ho studiato parecchio e sul quale forse farò la tesi di laurea quest'anno; è un genere pressoché del tutto privo di introspezione del personaggio, pur ferreamente ancorato alla prima persona sfumata nel tempo passato (nel senso che chi racconta è sempre un adulto che ricorda la sua adolescenza). Ciò che conta sono le vicende esterne che travolgono il protagonista, solo alla fine si traccia un resoconto. Per farti un esempio, la rabbia di Martiìn quando si lancia addosso a Zacarias che gli rivela di essere stato abbandonato è già "troppo" per il genere, riflessioni psicologiche non sono contemplate. Poi c'è la questione dei capitoli: nel secondo (che non so se finirò) Martìn torna nello spaccio di Malpadre e trova la lettera che suo padre gli aveva affidato: dentro c'è scritto che era troppo povero per occuparsi del bambino e che dunque pregava il padrone del negozio di consegnarlo alla Casa dei monaci. Martìn tornerà a casa e la troverà vuota, i suoi saranno andati via, capirà di essere rimasto solo. Lì la sua disperazione, fino ad allora annichilita dal rapido susseguirsi degli eventi, avrà libero sfogo, sarà descritta meglio. Nel primo capitolo ho scelto di puntare più sul ritmo, per invogliare un ipotetico lettore ad andare avanti nella lettura. Martìn verrà conosciuto meglio man mano che si leggono le sue avventure, il personaggioo si svilupperà e cambierà in relazione alle cose che gli capiteranno. Forse ultimamente sto postando solo racconti in prima persona, ma ne ho scritti anche in terza e lì, magari, mi trovo meglio a "volare" dentro e fuori del personaggio, descrivendo sia le azioni che le sensazioni. Nella prima persona, a mio parere, un personaggio coinvolto in certi eventi, non si ferma troppo a riflettere quando c'è in gioco la sua vita. Vero è che ultimamente ho letto cose pressoché del tutto prive di introspezione, dove i personaggi si limitano ad agire indipendentemente da chi sono, dal loro passato e da ciò che pensano, ma la vicenda in sé ti cattura comunque (vedi "La corsa selvatica di Coltri). Pur senza rinunciare a tratteggiare il personaggio, io sono sempre portato a descrivere cose che accadono, non tanto quello che si pensa. Credo di aver raggiunto un buon compromesso in Gloomville I e II e in Six Shots, se li leggerai gradirei molto un tuo parere (anzi, lo pretendo :-) )perché lì, anche grazie allo spazio non limitato, penso di aver creato personaggi abbastanza buoni. Nel racconto, invece, continuo a prediligere l'azione quasi pura. Scusa per lo sproloquio, ma ti ringrazio davvero per lo spunto, anche di riflessione, da te aperto. L'unico dispiacere è che discussioni come questa dobbiam farle sul forum e non davanti a qualche pinta di birra; sarei capace di parlare per ore di certe cose, scambiandoci i nostri punti di vista :-)


    grazie e ciao :)
     
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29 replies since 1/12/2009, 15:38   655 views
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