Amante Galattico
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— Entra nell’esercito e viaggerai per il mondo… Guy sollevò lo sguardo dalla rivista che stava leggendo, o meglio solo sfogliando dato che l’aveva già letta almeno una decina di volte. — Come, scusa? — Non c’era anche da te una graziosa tenente, occhi verdi e capelli rossi, che al colloquio finale di orientamento ti diceva “Entra nell’esercito e viaggerai per il mondo”? — No, non c’era. Francesco alzò le mani davanti a sé. — Al mio c’era. Bella, giovane, con due tettine che ammiccavano da sotto l’uniforme… Guy girò nervosamente le pagine. — In questo caso l’avrei sicuramente vista. No, non c’era. — Qualche volto me la sogno ancora. — Davvero? — Sì, e vorrei poterle dire… Guy continuò a girare le pagine; stava arrivando alla fine della rivista senza accorgersene. — Cosa? — Vorrei poterle dire, gentilmente, che non è vero; e che l’unico viaggio che il nostro esercito mi ha permesso di fare è stato per dimenticarmi su quest’isola in mezzo al Mediterraneo. Guy Chase terminò la rivista e la fece volare in un angolo della stanza. — Saresti davvero un signore, se le dicessi così… — Già. Si guardarono un attimo, le bocche che fremevano in attesa di una risata liberatoria. — E poi le salterei addosso, le strapperei i vestiti e la metterei… — Sergente Silver! Caporale Chase! — si sentì provenire dal corridoio. Francesco si interruppe prima di terminare la frase. Guy si piegò per raccogliere la rivista. — Siamo qui, capitano. Naturalmente siamo qui. — Già, dove altro potremmo essere — mormorò a bassa voce Guy in modo da non farsi sentire. Il capitano Johnson entrò nella sala comando, si tolse il cappello e poi si passò sulla fronte un fazzoletto per detergere almeno una parte del sudore. — Rapporto di stamattina. Credo che tocchi a lei questa volta, caporale. Guy si mosse sulla sedia, lanciò una breve occhiata a Francesco e poi si schiarì la voce. — Tutto risulta regolare. Passaggio satellitare: regolare. Canale principale: negativo. Canale ausiliario: negativo. Controlli settimanali: tutti effettuati e tutti nella norma. — Molto bene. C’è altro? — Il pranzo è pronto. Il viso rotondo del capitano si rilassò, assumendo un’espressione più tranquilla. — Ottimo, caporale. Allora possiamo andare. Si spostarono tutti e tre nella vasta stanza adiacente della base, quella che serviva sia da cucina che da refettorio. Avrebbe potuto ospitare comodamente una dozzina di persone, ma loro tre erano tutto il personale della base, anzi erano proprio tutti gli abitanti di quella piccola e assolata isola senza nome, persa in mezzo al Mediterraneo, il più lontano possibile da qualsiasi rotta. A quanto pareva l’avevano ignorata prima i navigatori fenici, poi l’avevano ignorata quelli cretesi; cartaginesi e romani si erano rincorsi a lungo tra loro, ma avevano continuato a ignorarla; gli esperti navigatori arabi, appunto perché esperti, avevano preferito ignorarla; le varie repubbliche marinare, sempre attive nei loro commerci, l’avevano ignorata; gli inglesi avevano pensato bene che il loro impero poteva farne a meno e di conseguenza l’avevano ignorata; e per finire, mentre tutto il mondo si sparava addosso come mai prima nella storia era accaduto, Asse e Alleati avevano continuato a ignorarla. Non era un caso sche quell’isola non interessasse a nessuno. C’erano posti nel Mediterraneo abitati almeno dalla capre e da rumorose colonie di uccelli, ma lì non c’erano neppure loro; tutto era deserto e silenzioso. A parte l’installazione militare. Il buco del culo del mondo. Guy prese un tegame e servì per primo il capitano, poi Francesco e infine se stesso. Johnson iniziò a mangiare riempiendosi la bocca. — Ottimo come sempre, caporale. — Grazie, capitano — rispose Guy senza entusiasmo. Trascorsero alcuni minuti di silenzio, interrotti solo dai rumori che le posate facevano nei piatti e che il cibo faceva tra le mandibole. — Io… io ho una prova di intelligenza, o meglio, di intuito da proporvi — disse all’improvviso Francesco. Guy sospirò. — Davvero? Vada avanti, sergente — rispose Johnson a bocca piena. — È una prova di intuito; io vi racconto la parte finale di una storia, dei particolari e voi, poi, facendomi delle domande, anzi facendomi tutte le domande che volete, dovete riuscire a ricostruire il resto della storia. La parte iniziale intendo. — Dove l’hai trovata questa? — Caporale, lasci parlare il sergente. Sembra interessante. Vada avanti Silver. — Grazie, signore. Guy annuì. Meglio prenderla in positivo. Del resto con quel poco che c’era da fare alla base, se non aspettare qualcosa che nessuna persona sana di mente avrebbe mai voluto veder arrivare, forse sarebbe stato un diversivo passabile. — Allora… — Francesco spostò il piatto che aveva davanti a sé — Una nave arriva in un porto.. — Una nave di che tipo? — domandò il capitano. — Con il suo permesso, signore, ma le domande me le deve fare dopo che ho terminato di raccontare la mia parte. — Va bene, mi scusi. — Allora, stavo dicendo. Una nave arriva in un porto e ne scendono due uomini. Uno di loro si reca subito in un ristorante e si siede al tavolo. Quando arriva il cameriere, gli ordina carne di gabbiano. Il cameriere gliela porta, l’uomo ne assaggia un pezzo, un pezzo solo, poi esce, raggiunge l’altro uomo che era sbarcato con lui dalla nave e gli spara. Perché? — Forse perché è pazzo? – rispose Guy. — No, no, è una storia molto più complicata. Dovete chiedermi e ricostruire poco per volta gli avvenimenti precedenti, quelli che hanno portato a tutto questo. Comunque non è pazzo, anzi è sano di mente. — Hmm, gli aveva rubato qualcosa? — domandò Johnson. — No. Per niente. — Lo conosceva? — Sì, lo conosceva. — L’ha conosciuto sulla nave da cui erano sbarcati? — No, si conoscevano da prima – rispose Silver. — Ah, non so. Però… caporale Chase, non è che ce ne è ancora? — Sì, certo — Guy ormai si era abituato a preparare una mezza razione in più, a Johnson piaceva mangiare e scorte e rifornimenti erano per fortuna sempre abbondanti. Rovesciò quello che restava nel piatto del suo superiore che per qualche istante brandì la posata facendola ondeggiare verso Silver. — Non è mica così facile… Guy si appoggiò allo schienale mettendo le dita intrecciate dietro la nuca. — Si conoscevano da tanto? — chiese. — No, non da tanto. — La nave è di uno dei due? — No. La nave non è loro, e aggiungo che la nave ha un suo capitano e un suo equipaggio. — Che ci facevano su quella nave? — Dovete scoprirlo voi, fa parte del gioco. Non è mica necessario che lo risolviate adesso. Potete pensare alle domande da farmi. — Ecco, facciamo così — disse Guy iniziando a ritirare i piatti. Johnson sollevò lo sguardo verso l’orologio appeso in mezzo alla parete. — Va bene. Proseguiremo poi. Io intanto ci penso. Dopo che il capitano fu uscito, Guy mormorò sottovoce a Francesco. — Gli hai dato qualcosa a cui pensare… — Smettila. Ricordati che sono un tuo superiore. Ridacchiarono entrambi. Non se lo dissero apertamente, ma entrambi rimpiangevano graziose tenenti con occhi verdi e capelli rossi.
Il sole del pomeriggio tramontava lentamente sul mare. Rosso acceso, caldo e luminoso. Il capitano Johnson e il caporale Silver stavano fissando le onde che si infrangevano senza sosta sulla bassa scogliera rocciosa dell’isola. Ogni tanto Francesco lanciava qualche sasso nell’acqua. Non c’era altro che l’orizzonte di fronte a loro. Non doveva esserci altro che l’orizzonte sgombro di fronte a loro. Avvistare qualsiasi cosa troppo vicina all’isola, sarebbe stato un guaio. Naturalmente non c’era mai niente che si avvicinasse a quell’isola. Era conosciuta, ma veniva semplicemente ignorata da tutti. E loro, anche se sarebbe stato meglio dire la base militare presso cui erano stati dislocati loro tre, erano lì proprio perché quell’isola non interessava a nessuno. Johnson si lisciò i baffi, che amava tenere perfettamente curati, poi stringendo il torsolo di mela in modo da non sporcarsi, lo scagliò fino al mare. — Non c’è nulla di meglio di una buona mela prima di cena, diceva mio nonno. — Davvero? — In realtà per mio nonno la mela era una scusa per un buon bicchiere di whisky del tardo pomeriggio, ma io porto avanti solo la tradizione della mela. Silver annuì. Il capitano non avrebbe comunque mai bevuto in servizio. — Era la prima nave su cui erano saliti insieme? Intendo la nave da cui erano sbarcati… — domandò Johnson. — No. Non era la prima nave. — Ah. Francesco sorrise. — Allora le chiedo, sergente, se ha importanza la nave su cui erano stati prima. — Ha un’importanza relativa, diciamo. Non tanto per che nave era. — Non tanto per che nave era… cosa può significare. Vediamo. Erano marinai di questa nave precedente? — Sì. — Ed erano marinai anche sulla seconda nave? — No. Su questa non erano dei marinai. — Beh, se non erano dei marinai, potevano essere solo dei passeggeri, ma perché dei marinai sarebbero diventati dei passeggeri? Il capitano rimase qualche istante in silenzio, a riflettere mentre il sole si avvicinava alla linea dell’orizzonte. Spesso Francesco e Guy si erano chiesti cosa pensasse il loro comandante di quell’incarico nel mezzo del nulla. Ovviamente non avevano mai osato chiederlo. Johnson, anche se con quel fisico tendente a ingrassare, anche se con quell’espressione che qualcuno avrebbe liquidato con sempliciotta, rimaneva il classico esempio di militare del sud, quella tradizione militare tutta d’un pezzo che dalla Guerra Civile in poi si era immolata in combattimento seguendo fedelmente gli ordini. Se il comando aveva ordinato di gestire quella base segreta con il solo incarico di fare la guardia a un bottone da schiacciare: il bottone sarebbe stato sorvegliato. Johnson sorrise. — Forse ci sono. Forse non erano dei semplici passeggeri, ma erano stati raccolti... erano dei naufraghi. Erano dei naufraghi? — Esatto. — Bene, sto facendo dei progressi. Il caporale Chase sarà invidioso. — Ci può scommettere. Mi ha fatto parecchie domande nel pomeriggio, ma non c’era ancora arrivato. Johnson sollevò le sopracciglia. — Ottimo. Ma adesso rientriamo, dobbiamo sentire il suo rapporto serale. Non vorremo mica scoprire che è scoppiata una guerra mentre stiamo in spiaggia, non è vero? — Certo che no, signore. Si incamminarono verso la base.
Guy avvitò la scatola dei fusibili al suo posto. — Sono le ore 11 e 23 e il controllo guasti dell’antenna è negativo. Il caporale Silver annotò il dato sul blocco. Immediatamente sopra di loro la grossa antenna satellitare, mimetizzata in modo da non essere visibile dal cielo, nel caso in cui un aereo avesse deciso di interessarsi all’isola, era perennemente in attesa. Ogni volta che il satellite in orbita passava sopra di loro, l’antenna riceveva un segnale in codice che veniva fatto rimbalzare direttamente dagli Stati Uniti. Fino a quando il codice rimaneva lo stesso, o meglio fino a quando il codice rimaneva quello stabilito, significava che stava andando tutto bene. Se invece il codice fosse mutato questo poteva significare due cose: o che la trasmissione dall’America era stata interrotta o che veniva trasmesso il codice di attacco. In entrambi i casi questo voleva dire che i russi, i comunisti, avevano dato inizio al loro attacco nucleare. — Ci manca solo il controllo dei cavi – disse Guy. Francesco annuì. Ormai sapeva a memoria ogni singolo passaggio delle procedure di controllo; le stavano ripetendo da molto, troppo, tempo. Guy iniziò a seguire i cavi che partivano dall’antenna. Forse qualche roditore poteva aver deciso di assaggiarli, mangiucchiando la linea su cui doveva viaggiare il codice raccolto dall’antenna. Quasi fantascienza pensare che un topolino potesse innescare la procedura di allarme del lancio dei missili. Solo che non c’erano neppure dei roditori sull’isola. Guy seguì i cavi fino al punto in cui sparivano sottoterra. — Ore 11 e 30. Controllo esterno guasti cavi: negativo. — Segnato. Guy si tolse il berretto e si passò il dorso della mano sulla fronte sudata. — Abbiamo tempo fino alle 11 e 45 per fare rapporto al capitano. — Esatto. — Allora, dove eravamo rimasti. Ho scoperto che i due scesi dalla nave erano dei naufraghi e che erano stati raccolti dalla seconda nave dopo che erano stati per qualche tempo in una scialuppa di salvataggio. — Eravamo arrivati qui. Guy si sedette su di un grosso masso nero. — E il capitano? — Non sarebbe corretto dirtelo. Chase fece una smorfia. — Vuol dire che c’è già arrivato. Pazienza. — Stai facendo progressi, Guy. — Sto quasi pensando di dirti che la graziosa tenente occhi verdi e capelli rossi l’ho vista eccome e anche senza vestiti. — Ormai non ti crederei più. — Neanche un dubbio? — Neppure uno. Guy sospirò. — Sulla nave c’erano anche dei gabbiani? — Specifica meglio. — In che senso? — Di quale nave parliamo? — La nave originale, quella del naufragio. Trasportava gabbiani? C’erano dei gabbiani? Francesco scosse la testa. — Non trasportava gabbiani; tra l’altro non ho mai sentito di un trasporto gabbiani. E se dei gabbiani erano presenti erano intorno alla nave, ci volavano attorno, come in tutte le navi. — Come dovunque tranne che su quest’isola. Il sergente Silver alzò le mani. — Sappiamo che quest’isola è il buco del mondo, quindi… — Allora, c’erano dei gabbiani sulla nave che li ha raccolti? — Neppure. — Che diavolo c’entra il gabbiano? Aveva la mania dei gabbiani? — Sai che abbiamo escluso tutte le fobie mentali ieri sera. Guy prese un sasso dal terreno e lo osservò a lungo. Era nero e liscio. — Allora c’erano dei gabbiani sulla scialuppa di salvataggio. — Neppure qui. Non c’era nessun gabbiano sulla scialuppa. — Quanto ti odio, Francesco. Tu non sai quanto… credevo che non esistesse niente di peggio di quest’incarico, ma questa prova d’intuito come la chiami mi sta facendo impazzire. Francesco sorrise. — I tuoi nonni erano di queste parti? — No, l’Italia è parecchio più a nord ovest, e poi non abitavano sulla costa, ma all’interno. Sono emigrati che si erano appena sposati e poi è nata mia madre. — E tu hai il nome di tuo nonno, vero? — Già. E il cognome di mio padre. — Magari, quando finirai qui, potrai farti un giro nella zona in cui vivevano… dicono che l’Italia non sia male. — Magari. Sempre che i russi non facciano scoppiare tutto. Guy lanciò lontano il sasso, facendogli compiere una parabola. — Siamo qui apposta. Se anche i russi attaccano e fanno saltare le nostre città e i nostri silos a casa, noi siamo qui per trasmettere i comandi per lanciare le testate che sono nel sud Europa. E dato che i russi lo sanno, non che siamo qui nel culo del mondo, ma che c’è qualcuno che potrebbe comunque lanciargli contro i missili, se ne stanno buoni. Il sasso cadde e rotolò per qualche metro. — Rimane un problema, però. — Quale? — Perché diavolo va nel ristorante a ordinare un gabbiano. Non è mica normale. Che cosa doveva capire? — Tu perché lo faresti? — Ehi, non devi mica aiutarmi… guarda che ci arrivo anche io come il capitano. — Va bene, va bene. — Perché lo farei? Giusto, perché? Non perché ho fame, dato che abbiamo stabilito che i naufraghi dopo che erano stati raccolti sulla seconda nave avevano mangiato. Allora, perché? Forse semplicemente per provare che gusto ha? — Direi di sì. — Ah, ah… un passo avanti. Guy guardò l’orologio. — Però è anche ora di rientrare per il rapporto. Ma ci arrivo, Francesco, vedrai che ci arrivo… — Non ne ho mai dubitato. — Eppure quella tenente con gli occhi verdi… — Non ci provare, non ci provare proprio Guy — ridacchiò Silver.
Francesco fissò per qualche istante il pesce morto finito sulla riva. Era di piccole dimensioni; gli occhi erano già bianchi e spiccavano rispetto alle scagli color argento. Alzò lo sguardo verso il cielo. In teoria, per quanto ne sapeva, un pesce morto avrebbe dovuto attirare qualche gabbiano o qualche altro uccello. Ma in cielo non c’era niente. Guardò l’orizzonte. Secondo il bollettino informativo, che il loro comando inviava scrupolosamente ogni settimana, le grandi potenze mondiali, le due grandi potenze mondiali, stavano facendo dei passi avanti nei colloqui per il disarmo. Forse il “disarmo” era un obiettivo lontano, ma il termine veniva usato per dire che nessuno dei due avrebbe deciso di lanciare per primo i missili. Certo non era qualcosa che gli Stati Uniti avessero mai avuto intenzione di fare e quanto ai russi: beh, i russi sapevano che soldati come loro erano sempre pronti a fare il loro dovere nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno. Il capitano Johnson si chinò per guardare il pesce morto. — Una volta andavo a pescare con mio padre. Credo di averlo fatto almeno fino a quando non ho compiuto sedici anni. — Con tutto il rispetto, signore non ce la vedo molto nei panni del pescatore. — Ammetto che mio padre era più bravo di me. E soprattutto ammetto che lo scopo non era tanto di prendere dei pesci, ma di mangiarli dopo che mia madre li aveva fritti in padella. — Non posso darle torto, signore. — L’etichetta prevedeva che quelli troppo piccoli venissero ributtati in acqua, ma non credo di averlo fatto molto spesso. Silver voltò le spalle alla riva. — Crede di essere riuscito a risolvere la storia, capitano? Johnson sorrise. — Credo di sì. Ieri ho scoperto che nella famosa scialuppa i naufraghi erano tre, ma che la nave, quando ha trovato la scialuppa ha salvato solo due marinai, e che del terzo non c’era alcuna traccia. Il terzo marinaio, che mi pare Chase non ha ancora scoperto. Ma dove è andato? — Esatto, dove è andato? Ma me lo deve dire lei, signore. — Non riuscivo a collegarlo con il gabbiano fino a quando non mi è venuto in mente quel film in bianco e nero sugli ammutinati. Non c’è molto da mangiare su di una scialuppa in mezzo al mare, soprattutto dopo un naufragio e non credo che avessero avuto il tempo di fare provvista, vero? — No, per niente. — E allora hanno catturato un gabbiano, per mangiarselo. Ma se lo hanno mangiato, allora perché l’uomo ha quella reazione dopo essere stato al ristorante e averlo assaggiato? Mi dica, Silver, avevano preso un gabbiano. — No, signore. — No? — Johnson lo guardò incuriosito — Allora sono al punto di prima. Avevano preso qualcosa: un altro tipo di uccello, dei pesci? — No. Diciamo che non avevano preso niente. — Ah. Brutta situazione, brutta situazione davvero; non vorrei mai trovarmici dentro. Francesco pensò alle provviste che arrivavano ogni due mesi con i rifornimenti, paracadutate nel centro dell’isola. — Non corriamo questo rischio, signore. — Meno male. Meno male davvero. — E poi il caporale Chase è un ottimo cuoco. — Già. Non ce lo vedo a cucinare gabbiano e lei Silver? — Neppure io. — Allora perché al ristorante chiede del gabbiano. Deve essere anche una carne schifosa. — Probabile. Johnson lo guardò. — Non lo ha detto a caso, vero? — No, signore. — Ah, ci sono quasi; sento che ci sono quasi. Ecco, l’uomo ha chiesto il gabbiano al ristorante perché voleva essere sicuro del suo sapore. Aveva mai mangiato gabbiano, in precedenza? — No. — OK OK. Ci arrivo, sergente. Quando assaggia il gabbiano, scopre che credeva di aver mangiato gabbiano, ma che in realtà non lo aveva mai assaggiato. È così, Silver? — Potrebbe essere. — Eh eh. Non credo che mi manchi molto —Johnson guardò l’orologio — Però è ora di dare il cambio al caporale. Possiamo proseguire nella sala controllo, fra un’ora. — Certo, signore. Tornarono verso l’ingresso della base, una stretta scaletta di dieci gradini di cemento scavati nella roccia dell’isola. Tutta la struttura era sotterranea, in modo che non potesse essere vista da qualche aereo spia o da qualche satellite nemico. C’era un solo accesso, oltre che a un portello di sicurezza e la base era considerata inespugnabile. Entrambi dimenticarono il pesce arenato sulla riva.
Guy Chase terminò il suo giro di ispezione. Pochi minuti e sarebbe andato a preparare la cena. Senza dubbio il capitano Johnson era uno che amava mangiare; ora che ci pensava, non gli veniva in mente una sola occasione in cui avesse detto un “No, grazie. Basta così!”. Altro che gabbiano. Altro che naufraghi. Altro che indovinello del cavolo del suo amico Francesco. Non che non fosse stimolante; erano giorni che lui e il capitano si battagliavano a distanza. Almeno non dovevano fare sempre i soliti discorsi di tenenti con gli occhi verdi e i capelli rossi, oltre che con un bel paio di tette. Chase sbuffò. Chissà. In fondo il temine del loro turno sull’isola non era così lontano; certo loro proteggevano la democrazia e il mondo libero dal pericolo comunista, ma forse era meglio farlo in qualche luogo più comodo, un luogo che non fosse il culo del mondo. E di gabbiani sull’isola non ne aveva mai visti. Ma il gabbiano era qualcosa che il naufrago credeva di aver mangiato, ma che realmente non aveva mangiato, almeno così aveva capito da Francesco. Ma se non aveva mangiato gabbiano, che diavolo aveva mangiato su quella barca dove c’erano solo loro due? Affamati, sì senza dubbio, stremati a tal punto che Francesco aveva ammesso che il protagonista aveva trascorso gran parte del tempo ferito e febbricitante, così malato da non rendersi conto di quello che realmente gli stava accadendo. E se anche aveva mangiato qualcosa di schifoso, forse dei vermi, che senso aveva prendersela con il compagno? A meno che. La scossa fu talmente violenta che lo gettò a terra. Tutto ondeggiò per parecchi secondi, mentre una specie di boato, qualcosa che ricordava una frana, gli riempì le orecchie. Guy rimase disteso sul terreno pietroso, quasi cercando di aggrapparsi a esso pur rimanendo in posizione orizzontale. Poi smise. Guy respirò con fatica la polvere che si era alzata, poi cercò di alzarsi. Il ginocchio gli faceva male, forse non era rotto, ma sicuramente aveva preso una brutta botta cadendo tra i sassi. Zoppicando si diresse a fatica verso l’ingresso della base. La scalinata che scendeva non c’era più; era scomparsa sotto la roccia. Sembrava quasi che l’installazione fosse sprofondata di parecchi metri rispetto a prima. — Francesco, capitano? — chiamò, anche se la gola gli bruciava per la polvere. Sembravano esserci tonnellate di roccia. Sempre zoppicando, raggiunse il portello di emergenza. Sembrava esserci ancora; solo qualche sasso era caduto davanti, ma senza bloccarlo. Un terremoto. Quanto ci avrebbe messo il comando ad accorgersi dell’accaduto? Per ragioni di sicurezza la loro base era isolata e il loro compito era solo quello di ricevere e di trasmettere codici dai satelliti. Erano una specie di circuito di emergenza per evitare una guerra nucleare proprio mantenendola costantemente come una minaccia; ma non c’erano procedure di emergenza al di là di contattare il comando. Se non arrivava alla sala radio, forse ci sarebbero voluti dei giorni prima che qualcuno realizzasse. Guy si avvicinò al portello e lo aprì a fatica. Dietro c’era un piccolo corridoio che si divideva quasi subito in due. Da un lato si andava nel magazzino e dall’altro verso le varie stanze. — Maledizione! Entrambe le strade erano bloccate. Il magazzino era sepolto sotto tonnellate di roccia, che sembravano averlo praticamente schiacciato senza neppure spaccarsi, come se un’enorme lastra gli fosse scivolata sopra; mentre la strada per gli ambienti abitati era chiuso da una enorme quantità di massi franati gli uni sugli altri. E i suoi due compagni erano là sotto: morti o vivi, ma comunque bloccati. — Maledizione! – ripeté Guy nella semioscurità.
Ormai Guy aveva perso il conto dei giorni. Aveva spostato pietra dopo pietra, trascinandole fuori e lontano dal portello usando cavi strappati al terreno e tubi per fare leva. Non aveva mangiato: non aveva cibo. Non aveva bevuto: non aveva acqua. Non aveva parlato con nessuno. Il ginocchio gli aveva fatto male parecchio, ma aveva resistito. Doveva arrivare alla sala radio, doveva arrivarci per chiamare aiuto. Sapeva che qualcuno sarebbe arrivato, prima o poi, ma non sapeva quanto sarebbe riuscito ancora a resistere. All’esterno aveva visto che le prese d’aria per le stanze sotterranee della base parevano intatte. Se i suoi due compagni erano solo bloccati all’interno, forse potevano respirare. Forse sarebbe riuscito a tirarli fuori da lì. Ancora una pietra, si diceva, ancora una e potrò passare. Poi scopriva che un’altra gli bloccava la strada e ripeteva tutta la fatica ancora una volta. Quando riuscì a creare un passaggio, ci strisciò dentro, facendosi luce con una torcia elettrica rimasta intatta. Scoprì che le stanze avevano resistito, che solo qualche pezzo del soffitto in cemento era caduto qua e là. E c’era aria respirabile. Quando illuminò la sala mensa vide il capitano Johnson seduto al tavolo; sembrava aspettarlo. — Capitano Johnson. Sono qui, sono arrivato. La porto fuori. È ferito? Dov’è Francesco? Johnson sollevò lo sguardo. — La radio non funzionava. Ho provato, ma non funzionava più. E il resto della base era sepolto. Non ho potuto avvertire nessuno. — Dov’è Francesco? È morto. — Sì. Una parte del soffitto gli è caduto addosso. Non c’era nulla che potessi fare. Johnson sembrò accennare a un angolo della stanza Guy illuminò il cadavere dell’amico. C’era del sangue. Fresco. Troppo. E il corpo, il corpo era come Si irrigidì. — Il gabbiano – disse Johnson. — Come? — Non c’era nessun gabbiano. I naufraghi erano tre e uno era morto quasi subito, mentre il secondo era in preda alla febbre; sarebbe morto anche lui. E il corpo del morto era lì con loro, sulla scialuppa. E allora il terzo, per salvare entrambi, disse che aveva catturato un gabbiano. E il secondo uomo credeva di aver mangiato gabbiano, e che il gabbiano lo avesse salvato, almeno fino a quando non aveva deciso di controllare, una volta tornato in un porto. Guy fece un passo indietro. La luce della torcia tremolò. — Ma non era vero; non c’era nessun gabbiano.
Edited by Alberto Priora - 1/12/2009, 09:41
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