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Pronto per essere spremuto, ecco a voi:
FRATELLI
Aprì gli occhi. Il buio della bara lo accolse, confortevole. Strinse l’imbottitura che lo cullava fin dal primo giorno della sua nuova vita e si mosse all’interno del giaciglio di legno. La voce di una donna rimbalzò nel gelo gocciolante della cripta. Roman sussultando all’ancestrale richiamo del sangue, snudò i denti e aprì il coperchio. Lo accolsero stalattiti di ragnatele, attraversate da sottili lame di luce, e polvere. La ragazza era appena dietro il muro che Lucius aveva sigillato. “Daiiii… fammi una foto!” “Basta, non mi va!” rispose un uomo. “Non fare il noioso. Ne voglio una con lo sfondo di questo strano disegno.” Roman udì un sassolino cadere. “Questo posto è davvero fico! Come si chiamava quel tizio?” chiese lei. “Chi?” “Il padrone del castello. Quello che diceva la guida. Che accidenti gli era successo?” “Ah! Alfred Roman Vlad. Forse è morto di peste nel 1889” rispose l’uomo annoiato. “Accidenti!” “Si dice che fosse un vampiro.” “Ma va’. I vampiri non muoiono mica di peste.” “In effetti, no.” “Dai, andiamo a cercare la tomba del vampiro. Uuuuuhhhhh!” disse la ragazza ridendo. Roman sentì il suono di passi che si allontanavano. “Natacha, ti prego, non fare la stupida.” fece l’uomo, il tono rassegnato. Il vampiro si sollevò e rimase sospeso in piedi a fluttuare tra le librerie ricolme di libri che, come vestigia a perenne memoria del tempo, torreggiavano su di lui. La sua mente vagò nel passato.
*** “Roman, devi farlo” disse Lucius. “Non mi è possibile.” “Lo so che il sapore, specie di questi tempi, non è buono, ma...” “Il sapore?” disse stizzito. “Credi, davvero che sia solo il sapore? Lucius, io non sopporto i loro pensieri. Quando li assaggi non senti la loro abiezione che ti soffoca? Non ti è mai capitato di voler smettere dopo la prima goccia?” “Questo farebbe proprio al caso nostro: altrimenti basterebbe qualche mese per ritrovarci in mezzo agli idioti. Non che i nostri fratelli siano meglio.” “Di cosa ci meravigliamo? Da viventi mediocri non possono che nascere fratelli mediocri. Ecco perché voglio altro.” “Oh, sì! Ci sono topi e uccelli” disse Lucius rabbrividendo, ma con un sorriso tra le labbra. Gli piaceva stuzzicare l’amico altezzoso. “Non dirlo nemmeno” rispose Roman, serio, con un moto di disgusto. “E allora?” Roman unì le punte delle dita sottili. Le fiamme nel camino scoppiettavano allegre: il fuoco rimaneva acceso giorno e notte e in tutte le stagioni, ma non riusciva a stemperare il freddo atavico che attanagliava le viscere morte di quei non-viventi. Lucius osservò il suo compagno: amici prima e dopo la morte. L’amico non era mai sceso a compromessi, per questo temeva la soluzione ben più del problema. Roman rimase immerso nei suoi pensieri per qualche minuto scandito dal ticchettio dell’orologio sul camino, poi si alzò dalla poltrona di raso. “Ti farò una domanda, amico mio.” Sfiorò i libri che in file ordinate ornavano le pareti e si avvicinò alla finestra. Fuori la peste si muoveva silenziosa tra i villaggi, recidendo vite umane come l’ascia di un boscaiolo. In lontananza si scorgeva la sagoma del Gran Palazzo del Cremlino. Solo gli zingari, accampati tra le mura del suo castello, cantavano e ballavano nei loro abiti multicolori accompagnati da musiche tintinnanti. Protetti dal loro padrone stavano come lupi affamati: pronti a ricevere ordini e a eseguirli con sadismo e solerzia. Non sapevano ancora che Roman li avrebbe abbandonati, lasciandoli alla mercé della malattia. “Pensi che possa migliorare?” Lucius alzò le spalle. “Sappiamo che i vivi hanno grosse capacità. Durante le epidemie accade che…” “Quindi pensi che un giorno potranno capire la loro meschinità e fare qualcosa per loro stessi?” lo interruppe Roman. “Penso di sì” rispose Lucius dopo un attimo di riflessione. “Proprio quello che credevo. E dei fratelli cosa dici?” “Spariranno come polvere al sole. La pochezza non è un lasciapassare per l’eternità” Roman, annuendo, alzò lo sguardo verso la luna rimpiangendo la visione dell’omologo diurno che gli era preclusa. “Mi addormenterò.” Lucius lo fissò. “Ho deciso. Quando mi sveglierò…” proseguì interpretando lo sguardo dell’amico. “Quando ti sveglierai? Sei certo che succederà? Sai cosa rischi?” Lucius si drizzò sulla sedia. Roman scrutò l’amico e sorrise. “Di tramutarmi in pietra? Di non svegliarmi mai più? Sì, ho considerato tutto e sono pronto a farlo. Capisci che non posso continuare a guazzare nella mediocrità? Suggendo i pensieri di un’umanità sudicia e corrotta, stiamo diventando simili a loro” disse Roman con un ampio gesto del braccio. Lucius fissò un angolo della stanza, assorto. “Non c’è nulla che possa dire per convincerti a non farlo?” chiese. “No. La decisione è presa. Anzi tu, amico mio, dovrai aiutarmi.” Lucius avrebbe voluto dire no, avrebbe voluto chiedergli cosa avrebbe fatto senza di lui, senza le chiacchierate davanti al fuoco, le cacce nella steppa nevosa e la sua presenza a dar forza a una vita senza sangue nelle vene. Sospirò. L’amico era così saturo della sua arroganza da rischiare sé stesso, pur di non unire più la propria essenza a quella di esseri che reputava inferiori. “Cosa vuoi che faccia?” disse triste.
*** Roman si avvicinò alla parete e si concentrò, cercando un contatto con l’amico. Percepì solo un muro di grida distorte e insulti dei suoi deboli fratelli: una massa indistinta di pensieri sconnessi. Si ritirò nauseato. Nessuna traccia di Lucius. “Fino a quando avremo coscienza l’uno dell’altro il sigillo rimarrà integro. Svegliami quando lo riterrai giusto” gli aveva detto quando le loro menti si erano unite. Roman chiuse gli occhi sperando di sentire l’umido delle lacrime sulle guance fredde. Sapeva, tuttavia, che certe debolezze erano precluse alla progenie infernale a cui apparteneva. Avvertì il tramonto del sole; bastò un movimento della mano per aprire la parete della sua scatola di pietra. Si fece avanti in quei luoghi che avevano ospitato lui e Lucius nel corso delle loro non-vite. Appena fuori dalla cripta vide un cartello con una freccia verde e una scritta in inglese. “TICKETS”. Roman seguì l’indicazione, percorrendo i corridoi scuri. Li trovò spogliati degli oggetti che un tempo li ornavano: solo pochi quadri appesi in luoghi diversi da dove li ricordava. Altri cartelli gli indicarono un cammino all’interno della sua dimora prima di arrivare a destinazione: la sala dove lui e Lucius trascorrevano le notti davanti al camino. Nulla era come prima: le pareti dagli arazzi centenari erano nude, al posto delle poltrone un bancone di legno scuro. Su di esso, accanto ad alcuni oggettini colorati appesi a un espositore, pile di fogli di carta lucida scritti in diverse lingue. Ne trovò uno scritto in un dialetto, spesso come il fango, che assomigliava al russo. Lo prese: “Il castello del vampiro” era scritto in grande. Poi sotto: “sopravvissuto miracolosamente ai bombardamenti tedeschi del ’44, dal 17 novembre 2009 questo splendido tesoro dell’architettura è visitabile in molte delle sue parti. Si dice che sepolta da qualche parte vi sia la dimora millenaria del turpe Alfred Roman Vlad, il Sanguinario. Esplora il castello e cerca la sua cripta!” Il vampiro si guardò intorno. Il mio castello, la mia casa un luogo per turisti? Roman strinse i pugni. Come avevano osato? Luridi esseri inferiori! Nonostante la debolezza Roman, con gesti delle mani e semplici pensieri, costrinse gli arredi a sollevarsi e a schiantarsi contro le pareti riducendosi in briciole. “Come vi siete permessi!” gridò nel turbine che dal nulla torturava le suppellettili disposti in buon ordine nelle bacheche e gli strofinacci decorati con lo stemma del suo casato. Le finestre si spalancarono e, roteando, quei miseri pezzetti di carta patinata furono dispersi fuori nella notte d’inverno. Roman completata la sua opera si recò dove un tempo Lucius dormiva. Un cordone di raso sorretto da due paletti d’ottone gli bloccò la strada. Bastò un gesto perché anch’essi finissero scaraventati contro la pietra. Osservò la stanza: solo cumuli di legna, mobilio gettato alla rinfusa, il tutto coperto di polvere e stracci. Toccò il piano liscio del suo vecchio comò e scorse il quadro che ritraeva il suo amico, ammassato, insieme ai resti della sua vita. Stringendo i denti, ordinò agli oggetti di muoversi. Questa volta li dispose con ordine, appoggiandoli alle pareti, mentre con un vento leggero spazzava via la polvere. Tra i mobili ammucchiati trovò anche due poltrone di raso rosso.
*** L’auto sfrecciò oltrepassando l’incrocio: il semaforo era rosso. Le luci degli stop non si accesero. Un’altra auto proveniente dall’altra direzione sbandò in uno stridere di gomme e un colpo di clacson prolungato, finendo la propria corsa contro un palo. “Sei un coglione!” urlò Nadia. Dimitri, invece di rispondere, pestò col piede l’acceleratore; la BMW scattò in avanti affamata di strada. “Non ti preoccupare, bella. È tutto sotto controllo!” rispose il ragazzo, ridendo. Un altro semaforo di fronte a loro: passarono oltre senza rallentare. “Cazzo! Era verde!” disse Dimitri, seccato. Pochi minuti nel modesto traffico della notte moscovita e arrivarono a destinazione: la discoteca Nocturnius. “Idiota, coglione esibizionista del cazzo. Ma cosa hai in testa?” disse Nadia scendendo dall’auto. Il tacco a spillo slittò sull’asfalto viscido ma, nonostante la gonna stretta, la donna riuscì a non scivolare. “Dai, piccola, smettila.” disse l’uomo con un sorriso untuoso. Nadia sbatté lo sportello con tutte le sue forze, facendo sobbalzare l’auto di qualche centimetro. “Ehi! Fai attenzione!” “Vaffanculo. Me ne vado!” “Non fare la stronza.” “Vaffanculo” disse Nadia avviandosi in direzione opposta al locale. “Torna qui!” Dimitri l’aveva raggiunta e l’aveva afferrata per un braccio. “Non mi toccare” disse Nadia cercando di divincolarsi dalla stretta. “Vuoi andartene davvero?” “Sì” rispose. “Benissimo, puttana!” Dimitri le lasciò il braccio. “Accomodati, dritto in quella direzione. Saranno cinque o sei chilometri. Divertiti!” disse indicando una strada buia. L’uomo le voltò le spalle e raggiungendo l’auto, lanciò le chiavi al posteggiatore che le afferrò la volo. Quelli in fila per entrare si erano gustati la scena e sghignazzavano soddisfatti per il fuori programma. “Che cazzo ridete?” disse Dimitri, spintonandone qualcuno e varcando il cordone di sicurezza. “Sei un frocio!” gli disse Nadia dal centro della strada: il fatto che non l’avesse sentita la fece infuriare ancora di più Nadia guardò la strada e sospirò: serata rovinata e cliente perso, davvero un bel sabato sera.
*** Il vento gli scompigliava il vestito, spazzando via la polvere del tempo. Doveva nutrirsi prima di scegliere la strada da percorrere: per questo stava volteggiando nella notte verso le guglie illuminate del Cremlino. Il paesaggio sfrecciava sotto di lui: il legno e la pietra erano stati sostituiti dal cemento, i carri rimpiazzati dalle automobili, ben diverse dalle trappole cigolanti condotte nel fumo da qualche inglese temerario. In cerca di una preda, si muoveva tra le scritte luminose, i cartelloni pubblicitari e la musica dei locali notturni. Poi, si adagiò su un cornicione di un palazzo proprio di fronte a uno dei più affollati. “Nocturnius” diceva l’insegna luminosa ornata con cuore trafitto da una falce.
*** La donna si torturava le unghia smaltate mentre scansava lattine e bottiglie al ritmo dei tacchi che picchettavano sul selciato. Un’ombra le attraversò la visuale. Poi sentì una corrente d’aria che dal nulla le scompigliò i capelli. Nadia si voltò: solo il buio di un vicolo. Respirò a fondo e cacciò una mano nella borsetta; il tocco della bomboletta del gas da difesa la fece sentire meglio. Fu, tuttavia, un sollievo di breve durata: bastò il pensiero della sua solitudine perché un treno di brividi le corresse sulla schiena nuda. “Ehilà, bella! Lo sai che sei proprio tutta da scopare?” Nadia sobbalzò: un ragazzo si sporgeva dal finestrino di un’auto dall’altra parte della strada mentre i suoi amici all’interno ridevano. “Bastardo, maledetto frocio, figlio di puttana” disse lei riavendosi dallo spavento. “Ma come? Uno fa il gentile…” ancora un rovescio di risate. “Andatevene!” gridò tirando fuori la bomboletta dalla borsetta. “Fottiti!” completò il ragazzo, la voce coperta dal rombo del motore e lo stridere dei pneumatici. “Stronzi!” disse Nadia rimettendosi in marcia verso il Nocturnius di cui scorgeva le luci rassicuranti. Il naso ha ripreso a sanguinarle. Vaffanculo. Adesso chiamo un taxi, me ne torno a casa e mi faccio un bel tè e magari un bicchieri…A un tratto si sentì inquieta come quando, da piccola, scendeva in cantina. Appena il tempo di sentire il sapore metallico della paura che avvertì il tocco di una mano fredda sulla spalla. Il fiato le rimase in corpo. “Aaaaaah!” urlò sentendosi sollevare da terra e scaraventare contro un muro ruvido. Udì un sibilo: “Sei mia!” “Aiut…” riuscì a dire in un soffio strozzato provando a liberarsi da quella stretta che la costringeva. Poi una fitta al collo.
*** Non appena la lingua toccò il sangue caldo della donna il vampiro fu attraversato da una sferzata di piacere. Si sarebbero uniti, vivendo entrambi ciò che Nadia aveva dentro. Roman chiuse gli occhi preparandosi a gustare l’essenza della sua vittima, in un angolo nascosto del suo cuore fermo, la speranza di non aver fatto tutto per nulla. “Aspetta un bambino” dice il dottor Verticoff. Milena trafigge Nadia tra le gambe. Roman chiuse gli occhi, avrebbe voluto lasciarla lì nel suo dolore, nella sua mediocre tristezza, come una spugna ormai asciutta, incapace di dare altro. Continuò, invece, costretto al patto scellerato suggellato col sangue. Lacrime. Sangue. Strisce di polvere bianca su un piano di vetro. Il naso che sanguina. Una madre che dorme. Denaro sottratto da un cassetto. Un figlio che piange. Nadia si allontana e non si volta. Nadia si taglia i capelli. Nadia fa sesso con Ermil. Soldi sul letto. E con Gerasim. Soldi sul letto. E con Mark. Soldi sul letto. Mille altri corpi. Soldi sul letto. Nadia si guarda allo specchio. Sangue sul lavandino. Nadia sale su una BMW nera. Il corpo di Nadia rotolò su un fianco toccando il marciapiede; la gonna risalita sulle cosce, le gambe aperte e la testa reclinata da un lato. Lo sguardo sorpreso e gli occhi sbarrati come davanti a un regalo, solo due rivoli rossi che scendevano dal collo, gocciolando per terra. Roman gridò la sua frustrazione tra i palazzi bui di Mosca. L’abominio dell’essere da cui aveva estratto il suo nutrimento era vivo, uguale al passato. La delusione sul viso, le mani che stringevano il nulla, il vampiro osservò quel guscio vuoto. Non poteva andare così: si voltò verso il locale.
*** Il vestito un tempo elegante era ridotto a poco più di un straccio inondato di sangue. Ora decine di pensieri truci e azioni riprovevoli gli vorticavano dentro. Seduto sulla poltrona che era stata il suo rifugio dei tempi passati, Roman sentì che l’aurora si stava avvicinando. Un sole che non lo avrebbe mai illuminato, viventi volgari attorno a lui e suoi simili divenuti tali per capriccio. Si prese la testa tra le mani: era solo. Aveva sperato nel suo peregrinare nel tempo come un’ombra, ma era destinato a nutrirsi di oscuri omuncoli, circondato da inutili fratelli. Una fitta di solitudine lo attraversò al ricordo dell’ultimo sguardo di Lucius poco prima di apporre il sigillo. Solo ora riconosceva la supplica muta dell’amico. Una supplica a cui lui, Roman Alfred Vlad, cieco di superbia, non aveva prestato orecchio. Osservò la bara, lucida e immobile. “Lucius?” esclamò nella stanza che d’un tratto non sentiva più vuota. “Ciao Roman.” La voce dell’amico riempì l’ambiente, Roman si fece avanti, pronto ad accoglierlo, un sorriso tra le labbra macchiate di sangue. “Credevo che tu…” disse stendendo un braccio. “Anch’io prima di stanotte.” Lucius ricambiò il sorriso dell’amico; si scambiarono una stretta di mano. “Come ai vecchi tempi.” “Sì…” rispose Lucius. Si accomodarono sulle loro poltrone, Roman sorrideva. Lucius stava in silenzio, gli occhi rivolti a un angolo lontano. “Sei uscito.” disse a un tratto. “Sì, amico mio” disse Roman, triste. “Nulla è cambiato, vero?” Roman si mise le mani sul viso. “Avevo sperato.” Fece una pausa, poi chiese: “ma tu?” Lucius si mise in piedi e si guardò intorno. “Accettalo, come ho fatto io.” Roman osservò il compagno. Vestiva come loro, la camicia bianca sotto un gessato nero lucido, la cravatta grigia appesa al collo pallido e un anello d’oro che catturava il chiarore fuggevole della notte. Fino a quando avremo coscienza l’uno dell’altro il sigillo rimarrà integro. Si alzò dalla poltrona e sorrise. “È quasi l’alba” disse alzando lo sguardo. “Devi andare.” “Sì, Roman” rispose Lucius. Si strinsero la mano, gli occhi dell’uno fissi su quelli dell’altro. “Ciao, Lucius.” “Ciao, Roman.” Rimasto solo Roman guardò la bara, pronta per ad accoglierlo come a ogni alba. Formulò un pensiero e lei obbedì.
*** Kazirim arrivò in biglietteria. “Ehi! Che cazzo è successo?” esclamò guardandosi intorno, le finestre spalancate, le brochure del museo sparse sul pavimento, mobili e sedie schiantati contro le pareti e souvenir disseminati dovunque. “Porca puttana” disse Filipp mentre raccoglieva una penna di plastica con disegnati due canini insanguinati. “Adesso vedrai che se la prenderanno con noi.” “E noi che c’entriamo?” “Sei proprio un coglione. Chi chiude la notte?” “Cazzo” rispose Filipp. “Telefono al responsabile.” “Va bene, io vedo se manca qualcosa.” Filipp udì il collega fare la telefonata sperando che l’amico fosse convincente, poi si diresse verso la portafinestra che dava sulla terrazza principale. “Aaaah!” gridò. Kazirim arrivò trafelato, il telefono in mano, la pancia che gli ballonzolava sotto la camicia celeste. “Cosa cazzo, gridi?” chiese. Filipp non rispose, aveva il dito puntato verso la terrazza. Seguendolo Kazirim scorse ciò che aveva spaventato il collega. Per terra al centro della terrazza illuminata dal sole un bara aperta e da essa della polvere, sottile come cenere, che mulinava nel vento.
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