[USAM Showdown 2010] Ranocchio
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[USAM Showdown 2010] Ranocchio

di Stefano Pastor - 39mila car. circa

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  1. marramee
     
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    Per questo speciale Showdown, dovendo presentare il racconto più rappresentativo, avrei dovuto mettere d'ufficio Coniglio, l'unico a essere arrivato almeno in seconda posizione. Invece ho scelto di dare la mia fiducia a Ranocchio, nonostante nell'Usam a cui ha partecipato sia giunto soltanto quarto, perché sono ancora convinto che sia una storia con grandi potenzialità.
    Per l'occasione l'ho revisionato con cura, ho riscritto buona parte del racconto, e ho inserito un finale completamente diverso, visto che in molti mi hanno fatto notare che era quello il suo punto debole. Spero che il nuovo finale possa piacervi di più. Buona lettura.

    RANOCCHIO



         È quasi un rito: alla sera, dopo cena, quando Mario e i ragazzi sono di sotto a guardare la partita, io mi ritiro in camera. Non sono molto appassionata di sport, e ho sempre qualcosa da fare. Stasera, per esempio, mi sono rimasti ancora alcuni temi da correggere.
         Mi affaccio alla finestra e guardo la mia vecchia quercia, mi basterebbe allungare una mano per toccare i suoi rami. È bellissima, ma presto le sue foglie ingiallite riempiranno di nuovo il prato, e sarò costretta a litigare con Mario, come tutti gli anni, perché lui la vorrebbe tagliare.
         Non restano molti temi da correggere, nel pomeriggio ho lavorato parecchio. Mi accomodo alla scrivania e inizio, armata della mia matita bicolore.
         Il tema che ho assegnato potrebbe sembrare banale: La mia famiglia. Eppure è un espediente essenziale per conoscere meglio i miei alunni, e sono solita proporlo ogni anno.
         Amo i bambini, amo il lavoro che mi sono scelta: maestra. È piacevole entrare in menti così giovani, scoprire i loro sogni, i loro desideri.
         Le parole scorrono davanti ai miei occhi, e io sorrido spesso della loro ingenuità.
         Poi arrivo all'ultimo tema, poco più di una facciata. Alice Ferri, V-A. È da poco nella mia classe: l'hanno trasferita, non la conosco ancora abbastanza. Alice mi è sembrata una bambina difficile, di quelle senza amici, che parla pochissimo e si è isolata nell'ultimo banco. La vedo sempre tornare a casa da sola, senza nessuno che venga a prenderla. Spero di capire un po' di più su di lei, conoscendo la sua famiglia.
         LA MIA FAMIGLIA.
         Nella mia famiglia siamo in quattro. Papà, mamma, io e Ranocchio.

         Già percepisco una rivalità. Il fatto che chiami il fratello ranocchio, che lo releghi in ultima posizione, mettendo se stessa avanti, è come se gridasse al mondo, e alla sua famiglia, io sono meglio di Ranocchio!
         Papà fa il tassista, ed è quasi sempre fuori casa. Mamma ha smesso di lavorare quando è arrivato Ranocchio. La mamma dice che lui è un principe, ma non è vero.
         Inarco un sopracciglio e rileggo l'ultima frase.
         Mamma insiste che è così, che è davvero un bellissimo principe, e che una maledizione lo ha ridotto così.
         All'inizio ho pensato che fosse uno scherzo, che mi stesse prendendo in giro. L'anno scorso, quando siamo andati a fare un pic-nic giù alla palude, eravamo solo noi tre, ma quando siamo tornati Ranocchio era con noi. Quando lei ci ha raccontato quella storia, abbiamo riso tutti.
         Credevo che lo facesse per me, che fosse un gioco.
         Invece Ranocchio è rimasto con noi. Mamma gli ha preparato una camera tutta per lui; mangia insieme a noi e non ci abbandona mai. Cioè, non lascia mai mamma, è sempre dietro a lei.

         Rileggo ancora una volta, cercando di capire. Ha travisato il tema? Eppure mi sembrava di essere stata ben chiara. Alla fine traccio un punto interrogativo accanto a quel periodo.
         Alice ha una grande immaginazione, ma in questo contesto mi sembra fuori luogo.
         Ranocchio non mi piace tanto. Non piace neanche a papà. Mamma dice che papà è soltanto geloso.
         Ranocchio non sa fare niente: non parla, saltella soltanto.
         Io non posso portare a casa i miei amici, mi vergogno di presentare Ranocchio come un principe. Ma mamma non capisce, dice che sono cattiva.
         Ho pensato di ucciderlo, oppure di portarlo da qualche parte e abbandonarlo. Però ne ho paura. Lo so che è solo un ranocchio e non può farmi niente, ma ho paura lo stesso. Come se non fosse lui. Come se fosse un'altra cosa.

         Smetto di sorridere, non sembra più uno scherzo, che significato devo attribuire a un tema del genere? Ora il conflitto è sempre più evidente, ma un conflitto con chi? Chi è in realtà quello che lei chiama Ranocchio?
         Da quando ho letto quella favola ci penso sempre. E se mamma avesse ragione? Se bastasse un bacio per farlo tornare un principe?
         Ma solo l'idea di baciare Ranocchio mi disgusta! È viscido, è sempre bagnato!
         E se non funzionasse? Io non sono una principessa, forse bisogna essere principesse per riuscire a rompere l'incantesimo.

         L'immaginazione di Alice è davvero sbalorditiva. La sua scrittura brillante, superiore alla media degli altri alunni. Il tema ha un certo fascino, non posso negarlo.
         Giro la facciata.
         Ogni giorno è peggio. Non ho più amici. La mamma si occupa solo di Ranocchio e mi ignora. Papà è sempre a lavorare, e so che è a causa di Ranocchio..
         Litigano in continuazione, lui dice che la mamma è pazza, che non devo starla a sentire.
         Se Ranocchio tornasse a essere un principe se ne andrebbe via, no? Dopo sarebbe tutto diverso.
         Devo fare qualcosa.

         Il tema finisce così, all'improvviso, sembra quasi incompleto. Lo rileggo ancora, sempre più confusa. Non so proprio che voto assegnarle: senza dubbio la sua fervida fantasia merita un premio, anche se ha travisato completamente l'argomento proposto.
         Metto il voto massimo, ma non sono lo stesso soddisfatta. Sento che qualcosa mi sfugge, questo tema ha bisogno di essere compreso, interpretato.
         Mi riprometto di fare una conversazione a tu per tu con questa bambina.
         
         Ma la mattina seguente Alice non viene a scuola. Il suo tema rimane dentro la mia cartella, abbandonato, e man mano che il tempo scorre e le mie lezioni proseguono in modo meccanico, sempre più cresce il desiderio di parlare con lei.
         Ho passato una strana notte, con incubi popolati da ranocchi, e mi sento confusa, non riesco a distogliere la mente da quell'assurdo tema. Così, quando finiscono le lezioni, passo in segreteria e mi faccio dare l'indirizzo di Alice.
         Non so bene cosa sto cercando, non ho neppure idea di come giustificare questa visita improvvisa. Forse è solo curiosità, forse voglio conoscere la famiglia di quella bambina. Soprattutto voglio scoprire chi è in realtà Ranocchio. Si è inventata tutto di sana pianta, oppure la sua storia ha un fondo di verità? Non principi incantati, s'intende, magari un fratellino che lei odia, che le ha rubato l'amore della mamma?
         La casa di Alice è per molti versi simile alla nostra, una villetta indipendente, con un prato davanti. Però sembra in stato di abbandono, il prato non è stato tagliato da mesi e non c'è neppure uno steccato a cintarlo.
         Busso alla porta, poi, non ricevendo risposta, suono anche il campanello.
         «Non ci sono, non li ho ancora visti, stamattina,» dice una voce alle mie spalle.
         È una donna anziana, con un grembiule e una massa di capelli grigi arruffati. Mi porge la mano. «Io sono Rosa,» si presenta, e mi indica la casa accanto. «Vivo lì.»
         Non so bene come comportarmi, né come giustificare la mia presenza. «Sono... sono la maestra di Alice... la figlia...»
         La donna sembra preoccupata, forse non mi ha neppure ascoltata. «È strano,» dice, e ripete: «Non li ho ancora visti.»
         «Sono andati via?» chiedo. «Alice non è venuta a scuola, oggi.»
         «E dove?» sbuffa la donna. «La macchina è ancora lì.»
         Noto anch'io la parte anteriore di un vecchio taxi sporgere sul fianco della casa.
         «Ci incontriamo sempre, tutte le mattine, facciamo due chiacchiere. Sono persino venuta a bussare, ma non ha risposto nessuno.»
         Questa donna è davvero agitata, e riesce a contagiare pure me. «Teme che possa essere successo qualcosa?»
         La donna rabbrividisce. «Non è da Gabriella,» dice. «Non ha mai fatto niente di simile.»
         «Hanno anche un figlio maschio, mi pare,» chiedo, fingendo noncuranza.
         La donna scuote la testa. «No, no, niente figli. Solo la bambina.»
         Tutto questo non fa che stuzzicare il mio interesse, e la donna se ne accorge. «Io ho la chiave,» dichiara, con una strana espressione. «Me l'ha lasciata Gabriella per ogni eventualità. Vuole andare a controllare?»
         Scuoto subito il capo. «Non li conosco neppure! Ero solo venuta a vedere come stava Alice. Lo faccia lei, che ha più confidenza.»
         La donna pare imbarazzata. «Non vorrei che pensassero che li stia spiando. Ultimamente sono tutti così strani, in questa famiglia.»
         Ogni frase che dice questa donna non fa che aumentare la mia curiosità. «Posso venire anch'io, se lo desidera.»
         «Oh sì,» risponde la donna, contenta, e subito si fa avanti, la chiave pronta. «Non è mai successo niente del genere,» ripete ancora.
         Quando entriamo, resto sorpresa nel notare tutte le luci accese. Le tapparelle sono abbassate, come se nessuno si fosse ancora alzato. Anche la donna al mio fianco percepisce la stranezza della cosa. «Gabriella? Alice?» chiama, anche se con poco entusiasmo.
         Si fa avanti, come se conoscesse molto bene la casa, e mi conduce in cucina. Non c'è nulla di strano, in apparenza: una casa ordinaria, abbastanza ben tenuta, con mobili dozzinali e troppi soprammobili acchiappapolvere.
         «Guardi! Guardi!» esclama Rosa, appena entrati.
         C'è un tavolo apparecchiato, proprio al centro della stanza: quattro sedie, quattro piatti, quattro bicchieri. Quattro, e io provo un brivido.
         «Non hanno cenato qui!» afferma trionfante Rosa. E poi aggiunge: «Forse aspettavano un ospite.»
         Anche lì la luce è accesa, e tutto sta a indicare che abbiano abbandonato la casa in tutta fretta poco prima di cena. I fornelli sono spenti, ma pentole e tegami sono ancora lì.
         «Che può essere successo?» chiede Rosa, senza aspettarsi risposta.
         È molto agitata, e ne ha tutte le ragioni. Nella stanza accanto, un salotto, troviamo la conferma di tutti i suoi timori.
         La stanza è in subbuglio: mobili spostati, soprammobili sparsi a terra e infranti, una sedia rovesciata. E poi sangue, tanto sangue. Schizzi sui muri, sul divano.
         «Oh mio Dio!» urla Rosa. «Mio Dio! Mio Dio!»
         
         Quando arriva la polizia, Rosa non si è ancora ripresa. Hanno mandato solo due agenti, un uomo e una donna, perché non hanno preso la denuncia con la dovuta gravità.
         Gli agenti danno un'occhiata veloce al salotto, poi, mentre l'uomo perquisisce il resto della casa, la donna ci interroga. Io ho molto poco da dire, Rosa invece parla della famiglia, dei problemi di Gabriella col marito, delle liti frequenti.
         Avviano una ricerca negli ospedali e tra i parenti. Noi ci ritroviamo sedute su un divano, dimenticate. Rosa piange, un fazzoletto stretto in mano. «Era strana! Gabriella era diventata così strana, come potevo immaginare...»
         L'urlo arriva all'improvviso, facendoci sobbalzare. Realizzo che proviene proprio dal salotto, dove si sono recati i poliziotti per cercare indizi. Lo raggiungo di corsa.
         C'è la donna poliziotto a terra, svenuta, e il suo compagno che cerca di rianimarla.
         Appena mi vede entrare, grida. «Non si avvicini! Non tocchi niente!» E poi. «Non guardate, è meglio. È terribile.»
         Mi rendo conto che Rosa mi ha seguita. Cosa non dovremmo guardare? Gli occhi del poliziotto sono fissi su un mobile, una grossa credenza. Subito non noto nulla di strano, ma poi mi rendo conto che lui sta guardando sotto al mobile.
         Mi chino leggermente per vedere meglio. In fondo, contro il muro, c'è qualcosa che dapprima non riesco a identificare, però vedo tanto sangue tutto intorno.
         Mi avvicino ancora e mi rendo conto che è una mano, una mano mozzata, una mano molto piccola, la mano di una bambina.
         Rosa, dietro di me, si mette a strillare.
         
         Arrivano altri poliziotti e i tecnici della scientifica. La mano mozzata viene estratta. Ci fanno allontanare, ma nessuno cerca di mandarci via.
         Li sentiamo parlare tra di loro, come se noi non fossimo lì. È stata strappata, dicono, non tagliata. L'idea stessa che ci sia qualcuno così forte da strappare la mano a una bambina terrorizza persino loro. Un animale di qualche tipo, ipotizzano, forse un cane rabbioso, però non trovano segni di morsi.
         Rosa è sottoposta a un interrogatorio più serrato, ma non può aggiungere molto, la sera prima era andata a cena dalla figlia, e non si trovava lì. Interpellata sulla possibilità che sia stato portato via qualcosa, lei si guarda intorno e risponde decisa.
         «Il tappeto.» E indica. «C'era un tappeto, lì, una specie. La pelle di un animale, un orso forse. Alla bambina piaceva molto, era sempre lì sopra a giocare.»
         Li sento bisbigliare tra loro, perché la scoperta ha implicazioni spiacevoli. Se n'è servito per portare via i corpi, dicono, e comprendo che già sospettano del marito.
         Io approfitto del fatto che nessuno si stia interessando a me per uscire dalla stanza.
         In casa ci sono una decina di poliziotti, ma tutti impegnati nel piano inferiore, la maggior parte nel salotto. L'intera casa è già stata perquisita con cura e non è stato trovato alcun segno di violenza eccetto che in quella stanza.
         Mi fermo accanto alla scala, col cuore in gola, perché ho timore di farmi scoprire. Eppure il desiderio è forte, non posso più resistere. Quando sono certa che non c'è nessuno nelle vicinanze, salgo le scale velocemente, cercando di non fare rumore.
         Un corridoio, tre porte. Quella in fondo è aperta, intravedo un letto matrimoniale. Apro una delle altre. È la camera di Alice, indubbiamente. Il letto pieno di bambole, poster di cantanti appesi ai muri, disegni.
         Mi accosto per vedere meglio, e subito torna il disagio. Sono tutti uguali, dipinti a colori vivaci. Rappresentano una bambina stilizzata, probabilmente lei stessa, e un ranocchio. E la bambina sta baciando il ranocchio. Era questa la sua ossessione?
         Mi ritiro turbata, perché qualcosa di terribile deve essere accaduto a quella povera bambina, prima io avessi modo di conoscerla veramente.
         Mi blocco di fronte all'altra porta. In fondo sono venuta solo per questo. Mamma gli ha preparato una camera tutta per lui, ha scritto Alice nel suo tema. Era fantasia, era solo la sua immaginazione?
         Entro, con una strana sensazione, quasi andassi incontro al mio destino. Sento che dopo non potrò più tornare indietro, ogni cosa sarà diversa, la mia vita cambierà.
         È una cameretta tutta verde e bianca, piccola e stretta. È probabile che in origine fosse solo un ripostiglio. Non c'è alcun letto, ma una specie di culla, poi una specchiera, molto bassa, quasi a livello del suolo, e un piccolo armadio, che mi affretto ad aprire trovandolo vuoto.
         Tappeti, per terra, e tanti cuscini. E poi un acquario per i pesci rossi, ma senza pesci. Non ho dubbi che sia la camera di Ranocchio, ma lui non c'è.
         Cerco ovunque, sotto ai mobili, tra i cuscini, in ogni possibile nascondiglio, ma non trovo alcuna prova che sia mai esistito.
         Alla fine rinuncio e vado via delusa. Cosa cerco, in verità? Davvero ho creduto che fosse reale?
         Nel corridoio resto un attimo incerta, poi mi lascio tentare dall'ultima camera, quella dei genitori.
         Il letto troneggia, con un copriletto candido, frangiato. Proprio nel mezzo spicca una macchia verde.
         Mi paralizzo, col cuore in gola.
         Ranocchio è lì, al centro del letto, e mi sta guardando. È solo una piccola rana, dalla pelle lucida di un bel verde acceso. Due grossi occhi neri mi scrutano, come se volessero entrare nella mia mente.
         È così piccolo, fragile, sperduto, percepisco la sua tristezza. È rimasto solo e ha tanta paura.
         Faccio un passo avanti e mormoro il suo nome. «Ranocchio.»
         Lui saltella verso di me, fino a trovarsi sul bordo del letto.
         In quel momento non mi pongo domande, non ragiono, sento solo che è in pericolo, che non può restare lì, che devo metterlo al sicuro.
         Allungo la mano e lui non tenta di scappare. Ho paura di fargli male, così stendo solo il palmo davanti a lui. Ci sale sopra, aggrappandosi con le sue zampette. Lo copro con l'altra mano, perché non scappi, e me lo porto al cuore.
         Mi sento eccitata, come mai mi è accaduto prima. Sento anche che sto facendo qualcosa di sbagliato, ma non posso farne a meno.
         Fuggo via da quella camera, sempre stringendo tra le mani il mio ranocchio.
         
         Di sotto cercano di fermarmi. «Signora, cos'ha lì? Mi faccia vedere.»
         Sfoggio un sorriso teso. «Non... non è niente. È solo una rana. Dev'essere entrata dalla finestra aperta.»
         L'agente sbuffa. «In questa casa è stato commesso un crimine, non si può portare via niente, dovrebbe saperlo!»
         Assumo il tono che sono solita usare con i miei studenti. «Ma agente, è una rana! Morirà se non la metto subito in acqua!»
         Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, e io ne approfitto subito per scappare via.
         
         Non parlo di Alice, della sua famiglia, della loro sparizione, di polizia e interrogatori. Presento solo ranocchio, dico loro che è un principe e che un malvagio sortilegio l'ha trasformato in un ranocchio. Dico loro che verrà a vivere con noi, e che devono imparare a trattarlo come uno della famiglia.
         Mario si sta divertendo un mondo, e non interviene. Di certo pensa che io li stia prendendo in giro.
         Renzo, il più piccolo, prende la cosa seriamente, o finge di farlo. «Un fratello, insomma, sarebbe una specie di fratello.» Poi fa un inchino al ranocchio. «Allora fratello ranocchio, mettiamo le cose ben in chiaro, i miei giocattoli sono solo miei e tu non puoi toccarli.» E infine allarga le braccia in gesto teatrale. «Come posso presentarlo ai miei amici? Devo dirgli che ho una rana per fratello?»
         Mario scoppia a ridere, e non accenna ad aiutarmi.
         Claudio, il più grande, ha già dodici anni. Ha ascoltato la mia spiegazione con una smorfia di disgusto sul volto, e ignora le buffonate di Renzo. Mi guarda serio. «Ci stai prendendo in giro, mamma? Se volevi un animale bastava dirlo, anche se sono dell'idea che avere Renzo tra i piedi è già abbastanza. Certo potevi scegliere meglio, avrei preferito un cane.»
         In fondo non era andata troppo male.
         
         Ma poi peggiora, quando aggiungo un posto a tavola. Niente sedia per ranocchio, lo poso solo sul tavolo. Lui non si mostra molto educato e sale direttamente sul piatto.
         Renzo lo guarda con disgusto. «Mangia insalata?»
         Reputo che non sia il caso di dirgli che le rane mangiano insetti vivi. Gli unici che ho trovato sono nascosti tra quelle foglie di insalata.
         Mario interviene. «Non ho niente in contrario che tu la tenga, ma portarla a tavola non ti sembra un po' eccessivo? Dovresti metterla nella vasca del bagno, non credi?»
         Claudio inorridisce. «Nel bagno? Dove andiamo noi?»
         Io mi sento sfiduciata. Non capiscono, non riescono proprio a capire. Ma sono certa che prima o poi ci riusciranno.
         
         «È qui.»
         Non gli chiedo neanche chi, continuo a spogliarmi e indosso la veste da notte.
         Mario è già coricato nel letto e lo ripete, seccato. «Mi hai sentito? La tua rana è qui! È saltata sul letto!»
         Lo so, non ho bisogno di guardare: Ranocchio non mi abbandona mai. Mi segue ovunque, per tutta la casa. Saltella tranquillo, incurante dei pericoli, non fa che controllarmi, non mi perde mai di vista.
         All'inizio l'ho trovato divertente, ma dopo poche ore inizio già a essere stressata.
         «Dove l'hai presa? Perché l'hai portata a casa?»
         Scivolo dentro al letto. Ranocchio è ai miei piedi, gli occhi fissi su di me, non accenna ad andarsene.
         «Era di una mia alunna. Lei non lo poteva più tenere.»
         «E l'ha affibbiata a te? Lo dovresti sapere che non si possono tenere rane in casa. Hanno bisogno di stare... in uno stagno. Sono animali sporchi, possono portare malattie.»
         Quasi ringhio. «Non mettertici anche tu!»
         Spegne la luce, imbronciato. Io resto immobile, ho paura a distendere le gambe, paura di far del male al mio ranocchio.
         
         Mi vesto, mi pettino, e lui è sempre lì. Seduto sul letto appena rifatto, al centro del copriletto. E mi guarda, naturalmente.
         Devo andare a scuola. Dovrei, almeno, però non me la sento di lasciarlo da solo in casa. E se gli dovesse accadere qualcosa? Ai ragazzi non piace, e neanche a Mario, ho il timore che gli giochino qualche scherzetto.
         Prendo la cartella, la poso, poi la prendo di nuovo.
         Ranocchio segue ogni mio movimento.
         Mi siedo sul letto, accanto a lui, e accarezzo il suo dorso. «Devo andare a lavorare, ce la fai a restare da solo? Non preoccuparti, torno presto. E poi staremo insieme tutto il pomeriggio, non devo uscire.»
         Lui è silenzioso, non l'ho ancora sentito gracidare.
         «Sei un principe?» gli chiedo. «Sei davvero un principe? Il mio principe?»
         Poi scuoto il capo, perché mi rendo conto che mi sto comportando in modo assurdo, quasi fossi io stessa in preda a un incantesimo.
         Mi rialzo e lo saluto con un sorriso. «Non combinare guai, mentre non ci sono.»
         
         Decido di prendere la macchina, anche se lo faccio di rado, solo per risparmiare qualche minuto nel tragitto.
         Giro intorno alla casa e raggiungo il garage.
         Proprio davanti alla porta c'è un mucchio di letame. Lo guardo incredula, senza capire. L'ha messo lì Mario? E per quale ragione, noi non abbiamo piante che ne necessitano!
         Mi avvicino con cautela. Il puzzo è nauseabondo. Non c'è dubbio, si tratta proprio di una collinetta di escrementi, piazzata davanti alla porta del garage. Non posso neppure aprirla, in queste condizioni!
         Lancio maledizioni contro il mondo intero, ma alla fine mi munisco di una pala e torno ad affrontarla, rassegnata. Affondo la pala in quell'ammasso informe, e il puzzo pare pure raddoppiare.
         Sento arrivare conati di vomito ma mi sforzo di continuare.
         Appena ritiro la pala e riconosco cosa ho portato alla luce, mi metto a urlare.
         Non riesco a smettere: continuo, isterica, finché non accorrono i vicini preoccupati.
         
         «Sono resti umani, non c'è dubbio. Di... corpi diversi, il dottore ne è sicuro. Alcune ossa sono troppo piccole per appartenere a un corpo adulto...»
         Neanche il poliziotto riesce a continuare.
         Mario mi tiene stretta e cerca di consolarmi. Io piango sulla sua spalla.
         Lo so che sono resti umani, l'ho capito subito, appena ho visto quelle ossa sulla pala. Serviranno esami per identificarle, ma io ho già capito di chi sono. Non mi faccio più illusioni sulla sorte della piccola Alice.
         «Ma che vuol dire?» urla Mario, arrabbiato. «Sono escrementi, o no?»
         Il poliziotto annuisce, pallidissimo. «Sono escrementi.»
         «Escrementi di cosa?» grida mio marito. «Vorrebbe farmi credere che qualcuno... se li è mangiati?»
         Il poliziotto cerca di ridere, con pessimo risultato. «No, certo, non è possibile... non può succedere...»
         «Allora che significa? Perché li hanno depositati qui, nel nostro giardino? È una minaccia forse? Siamo in pericolo?»
         Il poliziotto aggrotta la fronte, poi va a parlare con un collega. Quando torna il suo tono sembra più brusco. «Lasceremo una macchina di pattuglia qui davanti, per la vostra sicurezza.»
         Non sono certa che sia solo questa la ragione, ma non mi importa, mi sento comunque più protetta.
         Mario continua ad abbracciarmi e mi accarezza. «Sta tranquilla, va tutto bene, non ci succederà niente.»
         
         Ma non va affatto bene.
         La convivenza con Ranocchio è complicata. Soprattutto i rapporti tra lui e il resto della famiglia.
         Sono costretta a lasciare il lavoro a tempo indeterminato, ufficialmente per lo shock causato da ciò che ho rinvenuto in giardino. Riesco a farlo credere persino a Mario.
         In realtà non voglio lasciare solo Ranocchio.
         I ragazzi non lo accettano. Altro che fratello, o principe incantato, non lo possono proprio sopportare, e lui è sempre tra i piedi. Litigo con Claudio, che ha cercato di dargli un calcio.
         Quando appronto una stanza per Ranocchio, Mario ne fa una tragedia, ma dopo un paio di notti passate con Ranocchio in mezzo a noi, toglie i suoi vestiti dall'armadio e si trasferisce lui in quella stanza.
         Io so che dovrei rincorrerlo, chiedergli scusa, convincerlo a tornare, lui non aspetta altro. Invece resto in silenzio, lascio che vada via. Resto sola con Ranocchio.
         Lui è tranquillo, si accontenta di starmi accanto. Ama essere preso in braccio, quando mi siedo subito salta sulle mie ginocchia.
         Mentre la mia famiglia si sfalda, sento il nostro rapporto rinforzarsi, di giorno in giorno.
         C'è armonia tra di noi, ci capiamo. A parte il fatto che lui è una rana.
         
         Poi, però, iniziano gli incubi.
         Sono in una palude, ed è notte, e sento rane gracidare, senza riuscire a vederle. Solo che non sono rane normali, sento che sono orribili, e le loro voci spaventose.
         Io sono immersa nell'acqua fino ai fianchi, e ho difficoltà a muovermi. Sott'acqua qualcosa sfiora le mie gambe nude, ed è viscido, disgustoso.
         Io grido e chiamo Ranocchio. L'ho perso, non so dove sia. Mi allontano sempre più dalla riva, inoltrandomi in quella palude tenebrosa.
         Sono disperata, sento che devo trovarlo a tutti i costi, è di vitale importanza. Lo chiamo in continuazione.
         Poi davanti a me l'acqua ribolle, e capisco che qualcosa di gigantesco sta per emergere. Qualcosa di spaventoso, di terrificante. Eppure non fuggo, continuo a chiamarlo.
         Ed esce, s'innalza sull'acqua, è una spaventosa montagna di carne, con due malvagi occhi neri, cerchiati di rosso. Assomiglia vagamente a una rana, ma è gigantesca, con protuberanze mobili simili a tentacoli lungo tutto il dorso. Una creatura uscita dall'inferno.
         Spalanca la bocca, una voragine senza fine, e vedo la sua lingua guizzare verso di me, come un elastico. Mi rendo conto che vuole mangiarmi, che finirò dentro di lei, nel suo stomaco, che mi digerirà, che mi...
         E qui mi sveglio, quasi soffocata. Sento un peso immane sullo stomaco, che mi sta schiacciando. Sono certa che il mostro è qui, davanti a me, e vuole mangiarmi.
         Allora allungo la mano e cerco l'interruttore, disperata, tastando il comodino.
         Quando la luce si accende, davanti a me ho Ranocchio.
         Si è accoccolato sul mio petto e mi sta guardando.
         Non riesco a trovare la forza di scrollarlo via, resto sveglia, gli occhi fissi su di lui, per il resto della notte. Lascio la luce accesa.
         
         E questo è solo l'inizio, poi è peggio.
         C'è una presenza incombente, nella casa, una presenza spaventosa.
         Qualcosa di gigantesco, malvagio e pericoloso, che mi opprime. Lo sento ovunque, in ogni stanza. E Ranocchio è sempre con me.
         Ogni volta che accade, che sento quel mostro alle mie spalle, che mi paralizzo, che devo sforzarmi per non urlare, che raccolgo abbastanza coraggio per girarmi a guardare, non c'è mai nessuno. Soltanto Ranocchio che saltella dietro di me, e mi guarda.
         Tutto sembra diverso. La mia bella casa si è trasformata in una trappola mortale, le stanze non sono più allegre, ma piene di angoli bui che non avevo mai notato. L'erba del giardino è alta, potrebbe nascondere qualsiasi cosa. Persino la mia amata quercia è cambiata, ora sembra solo un mostro che sovrasta la casa.
         O forse no. Sono io a essere cambiata. Sto impazzendo.
         
         I giorni passano; io e Mario litighiamo.
         Io sto già vivendo un incubo, proprio non ho intenzione di sopportare anche il suo malumore. Non capisco perché si rifiuti di capire, perché tutti si rifiutino di farlo. Eppure Ranocchio ha già avuto una famiglia, no? E senza tante storie.
         Invece: «Non ti riconosco più! Sei cambiata, sembri un'altra!» E poi: «È quella maledetta rana! Ti rendi conto che stai trascurando i tuoi figli per lei? Che razza di madre sei?»
         È cattivo, e sa di esserlo. Non si ferma. «Perché ti comporti così? Perché racconti quelle storie assurde? Perché ci stai trattando in questo modo?»
         Non lo so, non riesco a capirlo neppure io. Sto iniziando ad avere paura di Ranocchio, eppure non posso fare a meno di difenderlo sempre, di proteggerlo.
         «Io non vado più bene, è questo che vorresti intendere? Per questo farnetichi del principe azzurro, io non sono abbastanza?»
         Anche questo mi fa male, tantissimo, perché sento che c'è un fondo di verità nelle sue parole. Lui è mio marito, l'ho sempre amato, eppure sento che mi manca qualcosa, e so che solo Ranocchio potrà colmare questo vuoto.
         E infine, l'inevitabile. «Credo che sia il caso che tu chieda aiuto. Sono certo che un consiglio professionale potrebbe esserti utile. Ti ho fissato un appuntamento...»
         Lì esplodo, schiaffeggio mio marito, per la prima volta nella nostra vita coniugale, e corro fuori di casa.
         Lui mi insegue. «Aspetta, fermati, non volevo...»
         Ma è inutile, ho già raggiunto il marciapiede, e mi guardo intorno. C'è la macchina. Non abbiamo più avuto il coraggio di metterla in garage; dal giorno del ritrovamento delle ossa è parcheggiata qui, in strada.
         Salgo e metto in moto. Lui continua a chiamarmi, ma parto prima che possa raggiungermi.
         
         Man mano che mi allontano dalla casa, senza una meta, torno lentamente a ragionare.
         Non è immediato, la mancanza di Ranocchio è qualcosa di fisico, di doloroso. L'ho abbandonato, l'ho lasciato in casa con mio marito, e lui lo odia, potrebbe fargli del male.
         Arrivo quasi a decidere di tornare indietro, ma poi ragiono, per la prima volta da giorni. Combatto quel senso di separazione e mi costringo a riflettere. Fisso la mia mente su Alice. Chi ha ucciso Alice e la sua famiglia? Come hanno fatto i suoi resti a giungere nel mio giardino? C'è una sola cosa in comune tra di noi: Ranocchio.
         E qui torna straziante la sua mancanza. No, non è possibile, Ranocchio non ha fatto del male a nessuno. Lui è un ranocchio, così piccolo, così bravo, così carino. Lui è un principe.
         È questo che mi attende? Che succederà a me, a mio marito, ai miei figli? Faremo la fine di Alice? Il mostro che vive nella mia casa ci mangerà?
         Ma perché, perché è successo? Ranocchio ha vissuto un anno con quella famiglia, senza che accadesse niente.
         Lo hanno preso alla palude... la palude...
         Accosto la macchina e prendo la cartina dal cruscotto. Dapprima non trovo paludi da nessuna parte, poi noto una macchia azzurra, che potrebbe anche essere un laghetto. Non è segnalata con alcun nome.
         Proseguo, ora che ho stabilito la mia meta.
         
         Il bar è piccolo ma grazioso. Lo stile rustico, confortevole. C'è un ragazzo dietro al banco, che mi sorride appena entro.
         Ordino un caffè. «C'è una palude, da queste parti?»
         Alza le spalle. «Una specie. Ormai l'hanno bonificata quasi tutta. Ne resta ben poco. Deve continuare su questa strada per un paio di chilometri. Sulla destra, la noterà subito.»
         «E ha un nome?»
         «Che io sappia no. L'hanno sempre chiamata la palude della strega. Non penso che possa dirsi un nome, quello.»
         Sobbalzo. «Una strega? C'era una strega?»
         Scoppia a ridere. «No, non c'è nessuna strega. La chiamano così e basta.»
         Non chiedo altro, pago e vado via.
         
         È una palude, sì, ma è piccolissima.
         La vedo da lontano, e noto anche un casolare proprio sulla strada. Una vecchia sta stendendo i panni in giardino.
         «Mi scusi...»
         «Che c'è, si è persa?»
         Scuoto il capo. «Quella palude...»
         Si gira a guardarla. «E allora?»
         «I miei figli vorrebbero fare una gita lì, è... sicura?»
         La vecchia ride. «Ha paura che anneghino? Non c'è rimasta abbastanza acqua, l'hanno quasi prosciugata tutta. Stia tranquilla, non succederà niente.»
         «È per il nome... Ha un nome minaccioso...»
         Inarca un sopracciglio. «Che nome?»
         «Mi hanno detto... non è la palude della strega?»
         Ride di nuovo. «La chiamano ancora così?»
         Mi butto. «C'era davvero una strega, da queste parti?»
         «Oh, è un nome antico, sono secoli che la chiamano così.»
         Non nascondo la mia delusione.
         La vecchia però continua, sorprendendomi. «Sì, c'era. Ma è una vecchia storia. Solo una leggenda, risale al settecento, se non sbaglio. Pare che fosse una vecchia del villaggio, una levatrice. Dicevano che operasse malefici, l'intero villaggio si era rivoltato contro di lei, le avevano reso la vita impossibile. È stata costretta a rifugiarsi in quella palude. Poveretta, erano tutti così superstiziosi, a quei tempi.»
         «E poi che è successo?»
         «Niente, cosa vuole che sia successo?»
         «La vecchia... che fine fatto?»
         «È rimasta lì, immagino. Al villaggio non la volevano più.»
         «È... è morta lì?» Noto lo sguardo perplesso della vecchia e comprendo di aver fatto una domanda sciocca. «E dopo... ci sono stati strani... avvenimenti?»
         Scoppia a ridere. «Vuole sapere se ci sono i fantasmi? No, mai stati fantasmi. Solo zanzare e tante tante rane.»
         La ringrazio e mi allontano, sempre più turbata.
         
         Non è la palude del mio sogno, decisamente no.
         L'acqua non è neppure tanto torbida, dubito che sia profonda più di mezzo metro. Ci sono poche zanzare e ancor meno rane. O le ho messe in fuga col mio arrivo, o anche loro hanno finito per estinguersi.
         In fondo è un posto carino, ideale per un pic-nic, non c'è nulla di spaventoso o di misterioso.
         La cosa, però, mi demoralizza soltanto.
         
         Quando rientro a casa è scesa la sera. Le luci sono tutte spente e regna il silenzio. Trovo sul tavolo di cucina un biglietto di Mario: lui e i ragazzi sono andati a vedere la partita e torneranno tardi. In fondo ha aggiunto due parole: Ti amo. Come se questo bastasse ad appianare ogni cosa.
         Mi hanno lasciato la cena in forno, ma non la tocco neanche.
         Ecco, è bastato tornare in questa casa per sentirmi di nuovo oppressa. Qualcosa di mostruoso mi sta spiando, mi odia e vuole uccidermi.
         Ranocchio non c'è, non mi è venuto incontro, e subito cresce l'ansia, il timore che me l'abbiano portato via, che gli abbiano fatto del male.
         Cerco di resistere, di continuare a ragionare, ma ci riesco solo qualche istante, poi mi metto a correre, salgo le scale precipitosa e lo chiamo pure.
         In bagno non c'è, la sua vasca è vuota. Lo trovo in camera, sul mio letto. La porta è chiusa: Mario lo ha imprigionato lì, prima di uscire. Quasi piango dal sollievo.
         Ranocchio saltella sul letto, viene verso di me. Io allungo una mano e lo accarezzo. Sento subito un brivido, l'oppressione, il terrore. Ritiro la mano.
         Perché con lui è diverso, perché quando ce l'ho accanto non riesco più a pensare con chiarezza? Perché io, soprattutto, perché io e la madre di Alice? Nessun altro subisce il suo fascino, neppure Alice che lo detestava. Allora perché noi sì?
         Cosa ci manca, il principe azzurro? È questo che rappresenta Ranocchio per noi? È questo che ci può dare? Mario ne è convinto, io non lo so, mi sento tanto confusa.
         Perché è morta Alice? Perché è morta sua madre? Perché adesso, dopo un anno?
         I disegni di Alice, appesi alla parete della sua camera, mi perseguitano. Per quella bambina era un'ossessione: baciare Ranocchio, farlo tornare un principe. Farlo cambiare.
         Era convinta che sarebbe stata la soluzione di tutto, che avrebbe cambiato ogni cosa.
         Alice aveva deciso di baciare Ranocchio, ecco l'evento scatenante. Aveva deciso di provare, di vedere se si sarebbe trasformato.
         Ma non l'ha fatto, altrimenti Ranocchio non sarebbe più un... ranocchio.
         Oppure sì? Oppure l'ha fatto e... e quello che si è trovata davanti non era il principe azzurro che si aspettava, ma...
         «Cosa sei?» mormoro a Ranocchio. «Cosa sei davvero? Cosa si nasconde dentro di te?»
         Devo saperlo, devo scoprirlo, a qualunque costo. Prima di perdere Mario e i miei figli, prima che mi rinchiudano in manicomio. Lo devo scoprire.
         Perché la madre di Alice non l'ha mai fatto? Eppure Ranocchio seguiva solo lei. Però è stata Alice a tentare.
         Aveva paura? Terrore, proprio come ne ho io adesso?
         Sento che il male è qui, in questa stanza, mi sta guardando, mi odia. Forse anche lei era perseguitata dagli stessi incubi.
         Eppure Ranocchio è così carino, così dolce, e non riesco neppure a concepire che possa farmi del male.
         Che altro mi resta? Continuare questa vita d'angoscia, o baciare un ranocchio? Se non succederà niente, potrò farmi una risata.
         Ma se... se dovessi trovarmi davanti il mostro dei miei incubi? Se spalancasse quella bocca oscena, se la sua lingua pendula mi afferrasse alla vita e mi trascinasse in una voragine molle e puzzolente?
         Deglutisco. Interrogo Ranocchio. «Tu non mi faresti mai del male, vero?»
         Ranocchio saltella, come se volesse essere preso in braccio.
         Lo vuole anche lui, lo so, desidera essere liberato. E io ho bisogno di sapere, dovesse essere l'ultima azione della mia vita.
         Lo raccolgo con entrambe le mani, lo sollevo davanti al mio volto.
         Dargli... un bacio? Su quelle... labbra? Fremo, ora mi sembra molto meno bello. Anzi, assomiglia sempre più alla rana-mostro dei miei incubi.
         Chiudo gli occhi, varrà lo stesso farlo a occhi chiusi?
         Lo avvicino alle mie labbra.
         Ecco, vada come vada, ormai è fatta.
         
         Ma non è così. Non faccio in tempo a baciarlo. Uno schianto violento alle mie spalle mi fa trasalire. Vengo investita dai frammenti del vetro esploso. E sento la presenza, una presenza mostruosa, quella dei miei incubi.
         Non è Ranocchio, ancora tra le mie mani, ma è dietro di me, immensa e potente.
         Non faccio in tempo a voltarmi, qualcosa mi afferra in un abbraccio doloroso. Mi spavento, faccio volare Ranocchio e mi aggrappo al bordo del letto con entrambe le braccia.
         Non è la lingua viscida che tanto avevo temuto, ma qualcosa di forte e ruvido, che pare voglia segarmi in due. Vedo con orrore rami intorno al mio corpo. Mi stringono, mi schiacciano, tentano di tirarmi via. Altri rami, più piccoli, guizzanti come serpenti, stanno cercando di imprigionarmi le braccia.
         E allora, per un solo attimo, volto la testa.
         La mia cara, vecchia quercia ha preso vita, ora è un mostro dai mille tentacoli, e i suoi rami non sono più di legno inanimato, ma si ergono rabbiosi, colpiscono la casa, cercano di abbattere il muro. Vengo sommersa dal suo odio, dal desiderio che ha di farmi a pezzi, di sbranarmi.
         Una voragine si è aperta sul tronco, e tanto assomiglia a una bocca famelica.
         No, non è la mia quercia. La mia quercia è morta, qualcosa ha preso il suo posto, qualcosa di antico e malvagio, che è sopravvissuto per secoli con l'unico scopo di adempiere alla sua vendetta.
         La strega sarà anche morta, tanto tempo fa, ma il suo odio ha continuato a esistere, è cresciuto a dismisura, vigila affinché la sua maledizione possa perpetrarsi in eterno. E si trasferisce, da oggetto a oggetto, per seguire lui, il mio ranocchio.
         Sì, non lo perde mai di vista; era la quercia la presenza ossessiva che sentivo alle mie spalle. La quercia che sempre ci spiava attraverso i vetri.
         Immagino l'attimo cruciale in cui Alice ha cercato di baciare Ranocchio. Immagino la pelle d'orso, che sempre li aveva spiati, animarsi sotto di lei, diventare un mostro; la immagino fare a pezzi la bambina e i suoi genitori, divorarli.
         Perché è questo che vuole, quella maledetta strega, che nessuno spezzi mai il suo incantesimo.
         «Ranocchio!» urlo. «Ranocchio!»
         Lui è rotolato a terra, confuso, ma al mio urlo si riprende. Balza sul letto e continua a saltellare verso di me.
         Sento il muro incrinarsi, tanta è la forza di quei rami. Parte dell'intonaco crolla al suolo. Io non resisto più, il suo abbraccio mi sta trascinando via.
         Perdo la presa, prima una mano, poi l'altra. E mentre sto per essere portata via, urlo ancora una volta. «Ranocchio!»
         Lui salta.
         E io faccio l'unica cosa possibile, l'afferro in volo.
         Il mostro mi ha quasi trascinato fuori dalla finestra quando lo bacio.
         Non chiudo gli occhi, anzi, li fisso sui suoi, che ora non mi sembrano più minacciosi, e lo bacio sulle sue labbra umide.
         
         In quest'attimo, in un solo momento, tutto cambia. La sua pelle non è più viscida, ma morbida, altre labbra sfiorano le mie. C'è un corpo tra le mie braccia, un corpo umano.
         L'urlo cavernoso dell'albero-strega è terrificante, i rami mi abbandonano all'istante. Mi ritrovo a terra, senza fiato. Sento il legno antico scricchiolare, andare in pezzi dietro di me. Volto appena lo sguardo.
         La strega sta morendo. Quello spirito inquieto, quel mostro di rabbia e odio, sta cessando di esistere. Il tronco della quercia sembra scoppiare in mille pezzi, la linfa zampilla, rossa come sangue. Le radici si staccano dal terreno, sbriciolandosi.
         L'incantesimo è spezzato, per sempre.
         Il tronco si abbatte a terra, scompare alla mia vista, e mi giro a guardare Ranocchio, di fronte a me. I suoi occhi neri brillano, un sorriso gli increspa le labbra.
         Io sono sorpresa, confusa. Non è ciò che mi aspettavo, assolutamente no, non è un principe azzurro. Come avrebbe potuto esserlo? La strega era solo la levatrice di un piccolo paesino, non aveva alcun principe da stregare, il suo odio era rivolto verso quelli che l'avevano scacciata, che erano dei poveri contadini. Si era vendicata, eccome, ma sui loro figli.
         Probabilmente non è stato il solo, ma è l'unico che è sopravvissuto fino a ora. L'unico che ha perpetrato la maledizione, per secoli.
         Davanti a me c'è soltanto un bambino, piccolo, fragile e nudo. Avrà quattro anni, cinque al massimo, e lo sguardo che mi rivolge è di amore, di adorazione. C'è tanta gioia nei suoi occhi, tanta felicità.
         No, non è il principe azzurro, ma non sento alcuna delusione. Non ho mai cercato alcun principe, in fondo, ho già Mario che mi ama.
         Il bambino cerca di sollevarsi, di camminare, ma non ci riesce. Allora saltella verso di me, proprio come una rana, e si lancia, si aggrappa al mio collo e mi stringe in un abbraccio. Sento la sua testa appoggiarsi alla mia spalla, mentre si sforza di parlare. Con fatica, una parola sola, quasi incomprensibile, una parola che giunge da un passato remoto, eppure è universale. Una parola destinata a cambiare per sempre la mia vita.
         «Mamma!»

    FINE

     
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  2. Daniele_QM
     
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    Questo finale mi soddisfa decisamente di più. La morbosità del racconto rimane inalterata anche se la fine un pò grottesca dell'altra volta manteneva quel senso morboso e inquietante del racconto. Però, confermo, questo epilogo nel suo lieto fine mi piace di più. Quattro.
     
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  3. domit
     
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    Ciao :)
    Non avevo letto la prima versione, quindi non posso dirti se il finale sia migliore. Sicuramente è originale, come la storia, e coerente, nel senso che chiude il cerchio.
    Per me l'unico limite di questo racconto è rappresentato dalla narrazione in prima persona, che toglie un po' di suspense alla lettura. Ho avuto come l'impressione che i processi logici della protagonista non sempre siano coerenti, si passa dalla lucidità al sortilegio in maniera rapida, forse poco approfondita. Lei ci racconta quello che prova, ma si sente poco.
    Forse narrando in terza persona avresti avuto più spazio di manovra. La lettura è comunque piacevole e avvincente.
    Per me è tre.
     
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  4. esimon
     
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    Prima volta che lo leggo, bel racconto, anche se ho apprezzato di più altre cose tue.
    SPOILER (click to view)
    Secondo me nella psicologia della donna c'è qualcosa che non va, che rende poco credibile la storia. Si lascia "trasportare" troppo facilmente dal ranocchio pur essendo a conoscenza dell'ossessione che la madre della sua alunna aveva sviluppato nei suoi confronti. Visto la fine che hanno fatto, penso ci stesse meglio un conflitto interiore più intenso. Ho anche la sensazione che una storia del genere meritasse qualche pagina in più. Bello il finale. Metto un 3

    A rileggerci! :)
     
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  5. VdB
     
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    Voto cinque.
    Che dire? la tua scrittura mi piace, forse è un fatto di gusto personale, indubbio, però si crea empatia con la voce narrante leggendo le tue storie, questa in particolare. Mi era piaciuta la prima volta e, pur con qualche riserva, avevo dato voto massimo; voto che confermo dopo la rivisitazione effettuata che ha limato e reso più coerente la storia. Rimane solo un sovrappiù, a mio modesto avviso: la parte con l’escremento davanti al garage (la fine che hanno fatto si intuisce e non mi piace come è introdotta e... messa lì in mezzo! apri una parentesi non necessaria, lasciandola poi aperta: che fine ha fatto l'orso? è importante saperlo? boh, chissà, forse...).
    Sintesi finale: bella prova.
    Ciao
     
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  6. Munzic Reload
     
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    Porca miseriaccia.

    Il racconto mi è piaciuto, ma...

    Ottima l'introduzione avvenuta con il tema della bambina. Mi è piaciuta molto.
    Tutto il resto per me era da quattro perché con uno stile semplice e senza troppi fronzoli la storia è scivolata via con piacere tra surreale e una sana inquietudine.
    Ho notato che l'inquietudine è un sentimento che ti piace provocare.
    Ma...
    Il finale.
    Il finale mi ha sciolto un po' dall'incantesimo, come se fossi stato io il ranocchio-lettore buttato fuori dalla storia.
    Mi spiego meglio.
    L'idea del finale mi piace, mi ha anche sorpreso. È questo dal mio punto di vista sono punti. Ma si sente troppo tutta l'esigenza di spiegare. È troppo veloce e metti in testa della protagonista dei pensieri e delle deduzioni che stridono un po', perdono naturalezza e ... spezzano l'incantesimo.
    Tu narratore t'introduci nel personaggio e ci spieghi il mistero, ma io perdo contatto con la storia.
    Questa è stata la mia sensazione, per lo meno. :)
    Secondo me puoi rendere meglio la stoccata finale. Ripeto, usando comunque la stessa idea validissima.

    Per me è un 3 e mezzo.
    Però visto che mi rendo conto del limite imposto sui caratteri e che il voto è stato portato a cinque. Faccio un piccolo sforzo e mi trasferisco sul 4 :)
     
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  7. shivan01
     
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    bello bello bello
    lo stile è veloce ed efficace, molto adatto alle vicende narrate. La prima persona, a mio parere, invece aiuta il lettore a sentirsi coinvolto, e soprattutto, a partire sin dalla lettura del tema di Alice, la trama coinvolge e risucchia il lettore senza via di scampo.
    Davvero un bel lavoro. A fare i sofistici, qualcosina da cambiare - cose di virgole - ci sarebbe, ma chi se ne frega.
    Un 5 strapieno
    complimenti
     
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    Amante Galattico

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    Il nuovo finale non è male. Ma non saprei dirti se mi piace di più o di meno.
    Comunque il racconto mi piace sempre molto. Sia come storia, che come stile e narrazione

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  9. bravecharlie
     
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    okay, io non sarò certo la voce della verità, ma te lo dico lo stesso: secondo me hai i numeri giusti per sfondare, e questo Bestiario che hai concepito lo devi portare avanti e poi sottoporlo a qualche casa editrice perché credo che abbia buonissime possibilità di venir pubblicato. Ho letto vari tuoi racconti (tre, credo) e sono veramente tutti molto belli, scritti benissimo e incentrati su storie mai banali (solo "Cavalli", a sto punto, è un filino inferiore). Trascinano, al punto che non s'avverte nessuna pesantezza malgrado la lunghezza, sono completi, non hanno momenti inutili, non s'avverte la necessità che siano più corti né il bisogno dio allungarli. Non so se mi sia piaciuto più "Coniglio" o questo qui, di certo a mio modesto parere siamo su livelli alti.

    Non mi dilungo troppo su "Ranocchio": storia bella perfettamente sviluppata attraverso un io narrante convincente, orrore che si dipana in maniera progressiva, chiusura col botto e finale commovente sebbene un pochino scontato (ma chi se ne frega). Scrittura come dicevo pulita e veloce, che non vuole "sopraffare" la storia ma che sta al suo servizio com'è giusto, non servono tanti "trucchi di scena" quando si può contare su una trama convincente. Un appunto: va bene che Alice, come vien detto, è una bimba più intelligente della media, ma forse le costruzioni delle frasi con quei congiuntivi sono un po' troppo, la farei scrivere più come una bambina della sua età. A ogni modo ti do 5 e complimenti. Attendo altre bestie.
     
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8 replies since 1/2/2010, 13:02   291 views
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