Angelo, il volo KM422 e cose come i vuoti emotivi, le molecole di inchiostro e la stasi.
Angelo ha sempre sofferto l'abbandono, forse un po' troppo. E questo è già di per sé un problema serio. Ma la cosa più grave è che, per di più, il volo sul quale si è imbarcato, il KM422, decollato dall'Aeroporto Internazionale di Catania, in Sicilia, e diretto all'isola di Malta, ha interrotto il proprio tragitto a quota diecimila metri. Non ci sono state avarie a bordo. Al contrario, i motori funzionano, continuano a farlo anche in questo preciso momento, senza problemi. Non vi sono stati attentati terroristici di alcun tipo. Il volo KM422 non è neppure stato abbattuto da un caccia militare per errore. No, nulla di tutto questo. L'Airbus, dopo quelli che saranno stati una decina di minuti di volo, si è fermato. E ora se ne sta lì, sospeso nel cielo sul Mediterraneo. «Dicono di mantenere la calma» riferisce il co-pilota che somiglia in tutto e per tutto allo stereotipo del co-pilota. «Stanno ancora valutando la situazione.» «Quanti passeggeri abbiamo a bordo?» chiede il pilota che, con un'aria decisa e autoritaria, corrisponde pure lui allo stereotipo del mestiere. Il co-pilota risponde: «Troppi». «Non possiamo di certo rimanere a far nulla, aspettando che la torre di controllo si decida a dirci cosa diavolo sta succedendo.» Dall'altra parte del portellone che separa la cabina di pilotaggio dai passeggeri, Angelo inghiotte due aspirine. Nulla di nuovo. I mal di testa sono solo uno dei tanti sintomi con i quali è costretto a convivere. Gli capita, ad esempio, di sudare senza ragione. O di svegliarsi di soprassalto causa colite. Oppure di esibire tutta una serie di tic che ne tradiscono l'insicurezza patologica. Ultimamente, ha preso a soffrire di un tic al naso, accompagnato da uno schiocco di lingua: “Tscè”. È abituato a sentirsi dire dalle persone cose come: «Ma che diavolo ti prende?» Oppure: «Tranquillo». Eppure qui, a diecimila metri di altezza, è l'unico fra i passeggeri a non aggrapparsi al braccio di uno sconosciuto, piangendo e urlando, o a riscoprire la fede trascurata in Dio. Ma oggi non sono state le solite frasi a tormentarlo. Al contrario, nella mente gli echeggia una domanda che non ha nemmeno fatto in tempo a sentire: “Perché te ne sei andato via?” «Non c'è nulla di cui preoccuparsi» dice l'hostess. Ha un bel sorriso, Selina. Questo è il suo nome. Se non fosse per l'assurdità della frase, uno sarebbe tentato di crederle. Ma ci sono alcune cose che Angelo e i passeggeri non sapranno mai. Una di queste sarebbe la ragione per cui l'aereo è fermo in volo. L'Airbus rimane, per così dire, appeso al cielo, anche se in realtà non c'è nulla che lo trattiene. Nessun misterioso campo di forza o intervento extraterrestre, no, quelle cose accadono solo nei film fantascientifici di serie B. Angelo è l'unico passeggero a non avere perso il controllo. Ma il suo non è coraggio. Solo mezz'ora prima, in sala partenze, la coscienza ne ha approfittato per rompergli le scatole: “Cosa accadrà adesso?”, “Cosa diavolo sto facendo?”, “Quanto dispiacere provocherò?”. E invece adesso guarda i volti dei passeggeri trasfigurarsi in orrende maschere di terrore. La paura li accomuna tutti, a eccezione di lui. Non sanno cosa fare. Hanno solo la certezza assoluta, istintiva e primordiale di non volere morire. Chiamalo “panico”. Totale, assurdo, imprevedibile come solo il panico può essere. Alla fine è sempre una questione di ordine e di caos. “Tscè.” Nel frattempo, in cabina di pilotaggio, il pilota deve prendere una decisione importante. «Non possiamo rimanere senza fare nulla.» A guardarlo, non si direbbe un uomo frustrato. Eppure, quando nessuno lo vede, seduto sulla tazza del cesso, spesso si lascia andare a dei monologhi interiori che sovente si concludono col termine “Roger” seguito da versi come “Sssfffffffffiiiuuuuuuuu” che dovrebbero simulare il suono generato dai reattori di un Eurofighter Typhoon in procinto di bombardare la postazione nemica. Da giovane ha provato a entrare nelle schiere dell'Aeronautica Militare. Ma, solo nell'abitacolo di un jet prossimo ad abbattere la barriera del suono, i suoi nervi cedevano sempre. «No, non possiamo» dice il co-pilota che non oserebbe mai contraddire il suo superiore. «Dobbiamo agire». «Dannazione!» esclama il pilota. «Non abbiamo altra scelta.»
Esiste una piccolo villaggio del Bangladesh, tanto insignificante da venire ignorato anche da Google Maps, chiamato Hatha. Qui vive Nisita Terai-Brahmin. Gracile, timida, impacciata, Nisita ha otto anni, quasi nove. Gli altri bambini, tipici disgraziati che puzzano come bastardi rognosi, ne approfittano per umiliarla, prendendola a calci, sputandole e pisciandole addosso. Non c'è da sorprendersi se Nisita preferisce giocare sola. Nascosta agli occhi della gente, piange. Ha pianto anche oggi. Le Adidas costerebbero troppo. Da queste parti, qualsiasi fottuto paio di scarpe costerebbe troppo. Ma per Nisita è tanto meglio: scalza, le è più facile muoversi senza fare rumore. Così, approfittando di un momento di distrazione della madre, ruba qualche scaglia di sapone e un vecchio bicchiere di plastica. Non c'è tanta roba in giro per casa ma, per sua fortuna, quelli si trovano sempre. Sgattaiola fuori. Apparsa per un istante da dietro le nuvole grigiastre che affollano il cielo, una fetta di sole le accarezza il volto sporco di moccio. Ma lei non ci fa caso. Proprio per niente. Nisita ha ben altro per la testa. Prende a correre: terra e fango le scorrono sotto i piedi come un nastro magnetico in avvolgimento rapido. Quando i rumori indistinti del villaggio le sembrano abbastanza lontani, pianta i piedi a terra. Guardandosi attorno, si accerta di essere sola. Riprende fiato controllando un'ultima volta che nessuno l'abbia seguita. Si piega. Riempie il bicchiere con un po' d'acqua, quella putrida accumulatasi ai bordi dello sterrato che porta al resto del mondo. Vi aggiunge le scaglie di sapone strette nel pugno dell'altra mano. Mischia il tutto col mignolo. Poi strappa la prima erbaccia che le capita a tiro, ne piega lo stelo, creando una sorta di anello, e lo immerge nel bicchiere. È brava. Pur sapendoci fare, però, le bollicine scoppiano sempre. Non arrivano mai lontano quanto lei vorrebbe. A eccezione di oggi. Perché Nisita soffia e ogni bollicina, trasportata dal vento, va su e continua ad andare su, su e ancora su senza fare “puff”. Nisita lo ignora, ma oggi anche un dilettante non riuscirebbe a sbagliare, neppure volendolo. Tutte le bolle di acqua e sapone del mondo hanno smesso di scoppiare, non solo le sue. No, lei non lo sa. Pensa di essere divenuta la migliore soffiatrice del mondo. Un pensiero ingenuo, certo, ma va bene così. Perché, a dispetto dei piccoli fetenti, Nisita, i capelli ancora intrisi del loro piscio, sta sorridendo. I passeggeri del volo KM422 non sapranno mai di Nisita. Così come non sapranno neppure che a migliaia di chilometri a Ovest di Hatha, in un cinema scadente, l'Alhambra, gli spettatori protestano inferociti. Sono solo una trentina, ma fanno abbastanza casino da sembrare il triplo. Fra urla e bestemmie, il caos è tanto. Un'immagine digitale, solo una delle migliaia che compongono l'ultima pellicola di importazione hollywoodiana, appare sullo schermo. Un'immagine ferma. Tanti quadratini confusi e sovrapposti. Gli spettatori vorrebbero indietro il prezzo del biglietto, e come dare loro torto? La medesima cosa, però, è accaduta in tutte le altre sale del pianeta. Ovunque gli attori hanno smesso di sparare, copulare e dispensare battute da due soldi. E, dal sudamerica all'Inghilterra, dalla Russia al Giappone, nessuno riesce più, per quanto ci provi, a segnare un gol. O a catturare un pesce all'amo. O solo a salutare qualcuno. “Ciao”, nelle rispettive lingue, è la prima parola che la gente non riesce più a pronunciare. “Merda”, la seconda.
I passeggeri del volo KM422 non vorrebbero morire. Anche Selina, l'hostess, non vorrebbe morire. Accogliendo i passeggeri a bordo dell'Airbus, avrebbe voluto aggiungere qualcosa al consueto “Benvenuti, sarò al vostro servizio per tutta la durata del tragitto”. Le capita sempre. In ogni volo. Avrebbe voluto dire pure: “Sono brava. Lo sono davvero”. Come molti, anche Selina ha i suoi scompensi emotivi. Il suo vuoto. Qualcuno o qualcosa da incolpare ci sarà. L'economia affettiva dei genitori? Gli stronzi a cui ha regalato l'orgasmo? A volte Selina si domanda addirittura se non sia colpa di uno squilibrio chimico del cervello. La verità, però, è che questo suo vuoto è abbastanza profondo da non potere essere colmato da nessun perché. E quindi fa ciò che farebbe chiunque altro: lo nasconde alla gente. Selina non ha, e non ha mai avuto, nemmeno l'accenno di una piega alla camicetta. Il trucco: nessuna sbavatura. I collant: mai uno strappo. La capigliatura: perfetta come detta il regolamento. E tale rimane anche nel mezzo di questo assurdo pandemonio a quota dieci mila metri. I passeggeri continuano a disperarsi, mentre lei, anche in mezzo a tanto caos, desidera solo riuscire a dire: “Non vi deluderò”. La cabina di pilotaggio si apre. E il baccano si placa. Non del tutto, ma abbastanza da cedere il posto a un silenzio più feroce del rumore che lo precedeva. Mentre il co-pilota punta la pistola contro i passeggeri, si ha quasi la sensazione di un ordine ristabilito, per quanto precario. La sua non è una vera pistola. Stringe in mano uno spara-bengala che data la distanza ravvicinata potrebbe comunque attraversare un uomo da parte a parte. «Fermi» dice il co-pilota, la fronte, certo, perlata di sudore. Alle sue spalle fa capolino il pilota. I suoi movimenti ostentano autorità, risolutezza. Eppure, guardando i volti dei passeggeri mutare, prima dal terrore alla sorpresa, poi dalla sorpresa alla rabbia, per un attimo teme più le loro possibili reazioni che non la sorte del velivolo fermo nel cielo. Il silenzio, adesso sì, è assoluto. Non una sola parola provenire dalle bocche aperte e serrate dei passeggeri. Solo uno strascico di singhiozzi da parte di chi, fino a pochi secondi prima, si era lasciato travolgere dalla disperazione. Selina avrebbe detto qualcosa, lo avrebbe fatto con l'efficienza di cui solo lei sarebbe stata capace, se non fosse che una situazione simile non è mai stata contemplata dal protocollo d'emergenza. Selina, per la prima volta da quando ha messo piede sull'Airbus in qualità di hostess, non sa cosa diavolo dire. «Non è nostra intenzione fare del male a nessuno» dice il co-pilota muovendosi con cautela lungo il corridoio. «Fateci solo passare.» Indietreggiando, il pilota lo segue. Zaino contro zaino, i due si avvicinano al portello. Su questo volo nessuno vuole essere eroe. Pilota e co-pilota, non intendono morire nemmeno loro. Selina, come tutti i passeggeri a bordo, trattiene il respiro. La stessa paura che fino a qualche attimo prima aveva gettato l'aereo nel caos, adesso ha immobilizzato tutti. Tutti all'infuori di Angelo, il quale da sfogo al suo ultimo tic.
In una piccola provincia qualsiasi del Centro Italia, un professore, tale Salvatore Salvi, sta impartendo ai suoi studenti l'ultima lezione di fisica della Storia. «Questo è lo stato iniziale» dice il prof., tenendo in mano una boccetta vuota. «Ho riempito il primo recipiente di inchiostro. Il secondo, invece, contiene solo acqua. Tenete a mente che quello iniziale è sempre uno stato di ordine». Gli alunni, in quanto tali, se ne infischiano della lezione. Salvatore, per abitudine, ne sgrida qualcuno a caso. Poi riprende: «Adesso aprirò la valvola che unisce i due recipienti». Facendolo, il prof. dice che ogni cambiamento che osserviamo nell'universo è l'ineluttabile passaggio dall'ordine a quello che osserveranno fra un istante. «Et voilà!» esclama il prof. «Chi saprebbe descrivermi cosa sta accadendo?» Uno degli alunni domanda se avranno compiti per casa, ché nel fine settimana si recherà con la famiglia dallo zio malato, come si chiama, quello terminale, e non troverà di sicuro tempo per finirli, gli spiace, no, davvero, non sono le solite balle. Un altro accusa il suo compagno di banco di avere scoreggiato. Un altro ancora dice: «Le molecole di inchiostro si stanno diffondendo uniformemente nei due recipienti». «Sì, ci siamo quasi» dice Salvatore. E una voce, una qualsiasi, domanda: «Il capitolo, prof?» «Capitolo XI: entropia» risponde Salvatore. «Ma bada alla spiegazione, piuttosto. Capito? Ora, abbiamo assistito prima a uno stato iniziale di ordine, poi al cambiamento dovuto allo scompenso fra il primo cilindro, saturo di molecole d'inchiostro, e il secondo, dove invece non ve ne era presente alcuna. Il cinquanta per cento delle molecole si sono spostate così dal primo al secondo cilindro. Questo cambiamento è irreversibile. Le molecole d'inchiostro che hanno invaso il secondo recipiente non torneranno mai nel primo. Questo stato conclusivo delle cose, ricordatevelo se sperate nella sufficienza, lo chiamiamo: “Caos”». E Salvatore dice di notare come all'interno dei due recipienti ora tutto sia fermo.
Poco prima di un licenziamento o di sentirsi dire dalla donna che ama: «Così non funziona», Angelo viene assalito da una sensazione orrenda, una sorta di nefasta premonizione. Gli capita poco prima dell'addio di un amico, proprio quando più avrebbe bisogno di un compagno di sbronze. Oppure quando un periodo positivo della sua vita è sul punto di giungere al termine. È un segno che anticipa il caos. La fine, qualsiasi fine. Un vuoto due dita sopra lo stomaco. Ed è pure peggio, Cristo, quando la gente gli ripete che tutto, ma proprio tutto, va in pezzi. Comprese le persone. E ciò che le lega. Per quanto bene puoi volere a qualcuno, lo perderai. É la vita, dicono. I più sofisticati: “C'est la vie”. Ma la causa scatenante dei tic non è mai stata la mera frase in sé, no, quanto la scrollata di spalle che l'accompagna. Gli è sempre sembrato di essere l'unico a cercare di rimanere aggrappato alle cose. Al quale importasse davvero qualcosa. O per lo meno è stato così fino a stamattina, quando si è svegliato con la sensazione, questa volta forte come non mai, che qualcosa era sul punto di finire. Forse non solo una, ma tante cose; troppe. Una sensazione tanto improvvisa, intensa e violenta, da fargli desiderare di essere l'opposto di sé stesso, perché non ha mai trovato il coraggio, per quanto l'abbia desiderato con forza, di togliersi la vita.
Mentre il prof. prosegue con la spiegazione, un altro alunno cerca invece di attaccare una gomma da masticare sotto la sedia, ma non ci riesce. Non ci riesce nemmeno il suo compagno di banco, né tantomeno altri quattrocentoquarantatre studenti sparsi per il mondo che in questo momento stanno provando a fare la stessa cosa. Quattrocentoquarantatre gomme da masticare rimangono appiccicate ad altrettante dita. Nessuno di loro lo sa, ma nel corso della Storia le gomme da masticare sono state appiccicate alle sedie in ogni modo possibile. Salvatore getta un'occhiata distratta all'orologio. E pensa fra sé e sé: “Ma ci sarà una ragione se la freccia del Tempo segue sempre solo una direzione. Dal prima al dopo. Dall'oggi al domani. Da...”. Ed è un peccato. Lo è davvero. Perché proprio in quel momento suona la campanella che segnala la fine della lezione. Se quel pensiero fosse balenato nella mente del prof. qualche minuto prima che l'ultima lezione della Storia si concludesse, avrebbe intuito, alla faccia dei premi Nobel per la fisica, che anche il movimento in avanti del Tempo è determinato dall'entropia. E che forse la stessa legge è applicabile anche alle azioni umane. Il prof. avrebbe potuto concludere la lezione con un esercizio speculativo: «...Potremmo anche supporre, perché no, che lo scorrere del Tempo, ovvero ogni cambiamento che osserviamo, inclusa ogni azione umana, è come quelle particelle d'inchiostro che si muovono grazie allo scompenso fra un contenitore e l'altro, fra una situazione e l'altra, fra ciò che è già stato fatto, il passato, e ciò che deve ancora accadere, il futuro». Avrebbe potuto poi salutare i propri studenti con la domanda: «Cosa credete che accadrebbe, quindi, se dovessimo raggiungere un punto dove tutto ciò che facciamo è già stato fatto in ogni modo concepibile?». E avrebbe potuto aggiungere: «Ovvero se dovesse annullarsi ogni scompenso fra azioni fatte nel passato e azioni ancora da compiere nel futuro?». E, chissà, avrebbe potuto dire loro di eseguire il tema entro la fine della settimana successiva o sarebbero stati guai. Avrebbe potuto, ma non lo farà mai. Perché i compiti, nel corso della Storia, così come per ogni volo e ogni bollicina di sapone e ogni proiezione cinematografica e ogni rete segnata e ogni pesce catturato all'amo e ogni saluto e bestemmia e ogni schifosa gomma da masticare attaccata sotto la sedia, i compiti di fisica, per l'appunto, sono già stati dati in ogni modo possibile.
Angelo ha prenotato il primo volo disponibile. Chiunque lo conoscesse, gli stessi che gli hanno sempre ripetuto quelle frasi fatte, non ne avrebbero mai saputo la ragione. Non avrebbero mai avuto l'occasione di domandargli perché se n'è andato via. Lì per lì non sapeva con esattezza cosa fosse sul punto di finire, ma, 'fanculo, stavolta sarebbe stato lui a dare una scrollata di spalle. A fuggire. L'ultimo ad andarsene via per primo. E lo sarebbe stato per davvero, l'ultimo ad andarsene via per primo, se dall'altra parte del mondo, Dale Archer, un australiano trentaduenne stanco di una vita piatta e ripetitiva, non avesse deciso di avventurarsi verso nuovi orizzonti urbani gravidi di promesse. Abbandonando il Grande Deserto Sabbioso, Dale ha terminato la sua fuga nell'ultimo modo ancora possibile, giusto in tempo per impedire a qualsiasi altra persona del pianeta di concludere la propria. Così Misha Nikolaevich Baskov, un moscovita in fuga da un'associazione malavitosa, rimane incastrato nella sua Skoda, senza potere muoverla di un centimetro né tantomeno uscire dall'auto. Wang Xiaomin, un giornalista cinese di trentatré anni che ha deciso di abbandonare la famiglia senza dire nulla a nessuno, ha i piedi attaccati al marciapiede. Non può fare un passo avanti né uno indietro. I passanti pensano che sia impazzito. Lo insultano. Ma è bloccato. E tale rimarrà finché la sua intenzione sarà quella di fuggire. E la stessa cosa vale per Angelo. Nessuno dei passeggeri a bordo lo saprà mai, ma Angelo, fuggito qualche minuto troppo tardi dalla sua vita, è la ragione per cui il volo KM422 è bloccato nel cielo.
Con un bottone della camicetta saltato, un ciuffo di capelli fuori posto e le unghie infilate nel volto del co-pilota, Selina non sembra più lei. «Aaaaaaaaagh!» L'uomo impugna ancora lo spara-bengala che punta ora contro la stessa Selina, ora contro un passeggero isterico, ora contro un secondo che fa: «Oh Dio, no», ora contro Angelo, il cui ultimo tic della Storia ha distratto per un attimo il co-pilota, dando a Selina l'opportunità di aggredirlo. “Tscè”. Ma su questo volo non ci sono eroi. Non è il desiderio di salvare i passeggeri, pre-requisito fondamentale di ogni eroe degno di tale titolo, a essersi impossessato di lei. Deve avere piuttosto a che fare con quello scompenso emotivo, quel vuoto contro il quale ha lottato tutta la vita pur di non perdere il controllo di sé stessa. E adesso, invece, eccola: in lei tanta di quella rabbia che necessita di trovare sfogo, a costo di cavare un occhio al co-pilota. Nel mentre, il pilota sta armeggiando col portellone d'emergenza. Angelo tira un pugno. Non sa bene a chi, e non lo saprà mai, ma in mezzo a tanto caos gli sembra l'unica cosa sensata da fare. Così ne molla anche un secondo. E un terzo. Selina ha le mani insanguinate. Un poco di quel sangue le appartiene, la lotta prosegue, ma si tratta più che altro di quello del co-pilota, il quale adesso ha un buco al posto dell'occhio destro. Schizzi di sangue finiscono dappertutto: su Selina, sui passeggeri, su Angelo, impegnato a picchiare ogni volto anonimo che gli capita a tiro. Gli altri passeggeri si menano anche loro, altri piangono come neonati, altri riprendono a pregare l'Onnipotente, altri ancora cercano di infilarsi fra i sedili, troppo stretti per offrire loro rifugio, e fanno un po' pena. Ma proprio nel momento in cui il co-pilota, dissanguato, stremato, battuto, cede, il pilota riesce ad aprire il portellone dell'Airbus e, senza nemmeno voltarsi per aiutare il compagno accasciatosi a terra, prima che Selina riesca ad allungare il braccio per trattenerlo, salta fuori. Un salto apprezzabile dal punto di vista atletico: elegante, coordinato e deciso. Ma che ottiene tutt'altro che l'esito sperato. Perché da qualche parte negli Stati Uniti, Brenda Cox, skydiver professionista, ha appena toccato terra dopo un volo di 4300 metri. Ironicamente, essendo stata quella di Brenda l'ultima variante possibile del salto col paracadute, il pilota si trova ora sospeso nel cielo sopra il Mediterraneo proprio come il suo velivolo. Selina si abbassa e raccoglie da terra lo spara-bengala. Il co-pilota ha perso conoscenza. Angelo continua a picchiare la gente a caso. E il pilota, guardandosi alle spalle, dice: «No. Ti prego, no». Si dimena per qualche secondo, come se stesse cercando di liberarsi da una rete invisibile che lo trattiene per aria. Poi, riprendendo il controllo di sé stesso, dice: «Sei la migliore hostess che abbia mai avuto. Non puoi fare questo. Abbassa quella pistola. Ritorna in te». E dev'essere un improvviso senso di assurdità, quello che invade Selina, nel sentire qualcuno riconoscere il suo valore per la prima volta nella sua vita. Nel sentirsi apprezzata e capire quella sensazione non essere nulla che non potrebbe sostituire col piacere di una cioccolata calda. Così Selina abbassa lo spara-bengala, si volta e incrocia, solo per un secondo, lo sguardo di Angelo. Lui che, picchiando i passeggeri a caso, ha dato libero sfogo a tanta frustrazione covata negli anni. Non sapranno mai di essere entrambi accomunati da un vuoto incolmabile. Selina punta lo spara-bengala contro sé stessa e preme il grilletto. Nisita sta ancora creando centinaia di bollicine di acqua e sapone, trasportate via dal vento dappertutto o chissà dove. Gli spettatori dell'Alhambra stanno prendendo a calci il direttore del cinema. E nessuno riesce più a salutarsi. Tutto procede dall'ordine al caos, direbbe il prof. Salvi. Come nel caso di Tristan Renard, un francese di quarantadue anni che, lasciato dalla seconda moglie Camille, ha deciso di tagliarsi i polsi. E quindi il bengala rimbalza dal petto di Selina a quello di Angelo che, dopotutto, è l'unico a bordo a volere morire, pur non avendo mai trovato il coraggio di togliersi la vita. Lo voleva sì, anche se ora non sembra esserne più così certo. Non sa perché, forse non vuole più fuggire. Ma non ha nemmeno il tempo di domandarselo. Il proiettile lo raggiunge in una frazione di secondo. Giace nel bagno del proprio appartamento, Tristan Renard: non solo l'ultimo uomo a essersi tolto la vita, ma anche l'ultimo a morire nell'ultimo modo possibile per un essere umano. Così il bengala, come una palla di fuoco, rimbalza ancora, questa volta sul petto di Angelo, attraversa lo sportello aperto dell'Airbus, raggiungendo il pilota che, spalle all'aereo, non lo vede arrivare: ne avverte solo il doloroso impatto. Se solo potesse, esclamerebbe: “Merda!”. I dettagli di cosa accadrà ad Angelo, a Selina e ai passeggeri anonimi sono di poca importanza, così come lo è cosa succederà al resto del mondo. Uno potrebbe supporre che, causa entropia, molte più azioni, in un crescendo continuo, giungeranno al loro definitivo epilogo. Che coloro che non hanno mai voluto morire, adesso immortali, avranno ragione di esultare, accogliendo a braccia aperte l'inevitabile trionfo del caos. Con ogni probabilità festeggeranno abbandonandosi a ogni follia immaginabile. E forse festeggerà anche il prof. Salvi, pur sapendo che presto, proprio come quelle molecole di inchiostro che usava per spiegare l'entropia ai suoi studenti, diverranno tutti prigionieri di un'eterna stasi assoluta. Festeggeranno fino a esaurire ogni azione possibile. Basti sapere, quindi, che avendo Angelo perso la spinta alla fuga, il volo KM422, pilotato dal co-pilota moribondo, ha ripreso il suo tragitto. Malgrado il panico che persiste a bordo, fra pochi minuti atterrerà all'aeroporto dell'isola di Malta. Per quanto riguarda cosa accadrà dopo, invece, nessuno potrà farci nulla. Suppongo sia la vita. O, per lo meno, così dicono in molti.
Edited by RobertoBommarito - 11/2/2010, 10:13
|