Il libro di Malanina
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Il libro di Malanina

di Idrascanian - 40.000 k ca.

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  1. Idrascanian
     
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    N.B. Nel racconto vi sono alcune espressioni dialettali. Le note sono in fondo.

    Il libro di Malanina



    L’orrore è mutevole. Assume forme complesse, si rintana negli angoli bui delle cascine e nei fienili di campagna, fluttua nelle strade vuote delle città, quando l’ora è tarda e la foschia si alza dal terreno come un vapore venefico, che fa male ai polmoni.
    L’orrore è una telefonata nel cuore della notte, quando stai dormendo un sonno pesante e gli incubi sono le tue lenzuola, e cerchi di difenderti - svuotato di ogni forza - da cose troppo vaghe per poter essere descritte. Colossali aberrazioni che fanno dell’oscurità il loro covo e camminano con passo pesante e idiota nei sogni degli uomini. Che non è mai il sonno dei giusti, e quell’augurio pronunciato quando ci si corica, buonanotte, è una presa per il culo, perché nel pieno della Nox anche lo squillo del telefono può farti morire di crepacuore.
    Allora ti alzi sperando che smetta, che si tratti di un errore, ma lui continua a trillare, suoni lunghi che rimbombano nell’oscurità dell’appartamento, e il tuo cervello passa in rassegna i parenti acciaccati, gli amici bulli che sfrecciano su moto supersoniche, i colleghi in un letto d’ospedale con il corpo cannibalizzato dalle metastasi. Perché non esiste individuo che non conosca qualcuno sul baratro, che cammina sulla fragile passerella eretta da Madama la Morte sul crepaccio dell’ignoto; e si tenta di pensar loro il meno possibile. Ma quando il telefono squilla alle quattro di notte, tutti quei volti si riaffacciano alla nostra memoria. Nitidi. Pallidi. Emaciati. Tapini.
    In quella ventosa nottata di novembre, quando il cordless mi trascinò fuori da un sonno ostinato, pensai subito a mia madre. Era anziana, affetta da una brutta forma di enfisema: sembrava l’opzione più logica. Tirai su la cornetta. Sbagliavo.
    «Pronto?» dissi, e la mia voce incrinata mi fece rabbrividire. Dall’altra parte un debole singhiozzo.
    «Chi è?»
    «Gigi... sono Sara.» Parole spezzate da respiri affannosi, un suono liquido di lacrime e catarro. Sara, la moglie del mio migliore amico, Ettore Scola; un omone di cinquant’anni che portava cravatte vistose, adorava Cesare Pavese e aveva fatto dell’antropologia il fulcro della sua vita. Insegnava presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Torino, ed era uno dei migliori. Fino a quella notte, quando intraprese il definitivo salto nel buio.
    «Sara, che è successo?»
    «Vieni subito, Gì. Sono alle Molinette. Ettore... è caduto, io non so. Non so come ha fatto.» Era sconvolta. Quella donna dal viso aristocratico che non lasciava mai trapelare le sue emozioni scoppiò in un pianto disperato che mi parve più terribile di tutto ciò che poteva essere accaduto. «Aveva... aveva le ossa delle gambe di fuori!»
    «Stai calma, Sara. Che cazzo è successo?»
    «È... è caduto dal balcone. Non so come abbia fatto, un’ora fa. Io dormivo, oh Cristo, e ho sentito una botta. Come un sacco. Vieni.»
    «Arrivo. Stai tranquilla.»
    Ettore abitava al quarto piano di un vecchio palazzone di Torino, a cinquecento metri dalla Mole Antonelliana. C’era poco da star tranquilli.
    Posai il cordless sul comodino e sgusciai fuori dalle coperte, il torace pesante come una lastra di acciaio.
    Non vedevo il mio amico da almeno tre mesi; era impegnato in una delle sue consuete ricerche e stava girando per il Piemonte raccogliendo informazioni, scrivendo, intervistando. L’avevo sentito un mese prima e mi era parso allegro, in ottima forma; aveva trascorso una settimana tra le verdi colline delle Langhe e doveva tornare a Torino entro breve.
    «Ho delle notizie!» aveva detto, e mi era sembrato di vederlo sorridere, con la cornetta poggiata alla spalla e un libro in mano. Aveva sempre un libro in mano. «Ricordi quando eravamo piccoli e i nostri nonni raccontavano delle masche? Sto raccogliendo materiale per un saggio, avevo intenzione di lavorare a questo progetto da una vita. Ho intervistato un mucchio di simpatici vecchietti che abitano in campagna, tra le Langhe, il Roero e la bassa pianura sotto Pinerolo, dove le masche sono ancora argomento di tutti i giorni. Mi hanno riempito di informazioni; ho già buttato giù duecento pagine di testimonianze dirette. Domani sono a Idrasca, quaranta chilometri da Torino. È lì che spero di trovare qualcosa di definitivo. Ti racconto tutto quando ci vediamo.» Fu l’ultima volta che udii la sua voce.
    Mi vestii in fretta e bevvi un sorso di caffè gelido direttamente dalla moka. Arrivai al pronto soccorso mezz’ora dopo; la prima cosa che vidi fu Sara che gridava come una pazza, e il suo viso non lo dimenticherò mai. Non era più lei. Due infermiere le tenevano le braccia e il trittico di donne che si strattonava nel corridoio era una perfetta rappresentazione del grottesco. Sara mi vide, si lasciò cadere a terra.
    «È morto, Gigi! È morto.» Lo ripeté una decina di volte, in un’assurda opera di autoconvincimento. Deglutii a vuoto, non poteva essere. Io ed Ettore eravamo cresciuti insieme in un ridente paesino della pianura, Lasco, a quindici minuti da Pinerolo. Le nostre strade si erano divise al termine del Liceo Scientifico - io per studiare da avvocato, lui per dedicarsi all’antropologia culturale - ma non avevamo mai smesso di sentirci. Abitavamo entrambi a Torino, ma lui era spesso via per lavoro, ci vedevamo poco. Cosa che non mi impediva di considerarlo uno dei miei migliori amici, perché quando qualcuno per te c’è, c’è e ci sarà sempre, anche se lo senti una volta l’anno; caratteristica degli amici d’infanzia, quelli con cui hai fumato le prime sigarette, rubato i primi giornaletti porno in edicola, affrontato i timori e gli amori dell’adolescenza. E quando questi pilastri vengono a mancare è come se una zecca oscena ti stesse rosicchiando il cuore; sai che un pezzo di te è andato e a colmarlo resteranno solo sofferenza, incredulità e cose-che-avremmo-potuto-fare.
    Mi avvicinai e m’inginocchiai a terra, lanciando un’occhiata d’intesa alle infermiere. Abbracciai Sara. Mi addentò il colletto della camicia e mugugnò tirandomi deboli pugni contro il petto. Restammo lì così, seduti per terra, avvinghiati in mezzo alla corsia del reparto. C’eravamo solo noi due, le lacrime e la puzza di disinfettante. Consolare una vedova è uno dei compiti più difficili che possano spettare a un uomo.
    Dopo alcuni minuti e parole che non ricordo, un medico nanesco entrò nella mia visuale facendomi un cenno.
    «Sara, siediti. Torno subito. Vado a parlare col dottore.»
    Tirai su la mia amica, prendendola delicatamente da sotto le ascelle, e la feci accomodare su una sedia; lo shock l’aveva prostrata, trasformando il suo viso in un candido simulacro di porcellana. Nei suoi occhi velati lessi il mio stesso sbigottimento.
    «Torno subito,» ripetei.
    Il medico mi venne incontro, tentando di apparire affranto, e mi posò una mano sul braccio. Sembrava una comparsa di ER oppressa dalla costante visione del dolore e della morte, in tutte le sue variegate possibilità. Mi sono sempre chiesto come facciano i dottori del pronto soccorso a non impazzire, a tornare a casa e sedersi a tavola coi figli quando magari un’ora prima avevano le mani infilate in una cassa toracica.
    «Mi dispiace molto. Lei è un parente?»
    «No, un amico.»
    «Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo,» continuò il medico, con un tono di voce che rasentava l’inaudibile, «il paziente è arrivato ancora vivo, ma le lesioni interne erano troppo gravi. Arginare i traumi da precipitazione, soprattutto quando la caduta si verifica da un’altezza simile, è sempre un’impresa disperata.»
    Lo sapevo bene. Negli anni lontani e spensierati dell’università avevo seguito un corso di medicina legale, tenuto da un luminare nel campo, il professor Bollone. La lezione sui traumi da caduta era stata al contempo avvincente e terrificante.
    Morire non è mai piacevole, ma c’è modo e modo. Il decesso per precipitazione è un insulto alla materia organica di cui è composto l’uomo. Quando il corpo impatta al suolo si arresta, ma, per effetto della forza d’inerzia, gli organi interni continuano a cadere. La trazione sui peduncoli e sui legamenti sospensori provoca gravissime lesioni interne; il cuore può disinserirsi dal peduncolo vascolare, l’aorta esplodere, così come reni, fegato, polmoni. Lo scheletro si sgretola in porzioni minuscole, provocando un macabro effetto al tatto che i medici legali chiamano “mobilità a sacco di noci.” Il dottor Bollone, con quel tono tragicomico che caratterizzava le sue lezioni, aveva fatto notare che si era ritrovato di fronte cadaveri coi calcagni all’altezza della colonna vertebrale, facendo inorridire le donzelle presenti. Cercai di scacciare quel pensiero associato alla figura di Ettore.
    «Come... come ha fatto?» chiesi.
    «Si è buttato.»
    Guardai il medico e scoppiai in una risata fuori luogo che riecheggiò sinistra nella corsia d’ospedale; non avevo preso in considerazione nemmeno per un istante la possibilità del suicidio. Conoscevo Ettore da una vita ed era l’incarnazione dell’equilibrio. Una carriera in continua ascesa, vita coniugale soddisfacente, nessun problema economico. Non era possibile.
    «Come fa a dirlo?» Dovevo aver usato un tono di voce ostile, perché il dottore arretrò di mezzo passo, alzando le mani come per scusarsi.
    «Ho parlato con gli ambulanzieri, hanno raccolto la testimonianza di un uomo che stava portando a spasso il cane. L’ha visto sul balcone, seduto sulla ringhiera, con lo sguardo perso nel vuoto. Poi si è lasciato scivolare giù. Qualcuno ha chiamato il centodiciotto, siamo arrivati quasi subito. Il testimone era sconvolto, continuava a ripetere che al signor Scola mancava una gamba.»
    La mia mente vorticò alla ricerca di una spiegazione che potesse escludere l’atto estremo; sonnambulismo forse, perché no?
    «Mi dispiace molto.»
    Il medico si allontanò nel corridoio e scomparve come un fantasma in una saletta, al cui interno intravidi lo scintillio asettico dell’acciaio chirurgico.
    Mi voltai verso Sara e notai che nella corsia c’erano altre persone tirate giù dal letto, visi smorti adornati da occhiaie livide: amici, colleghi e parenti di Ettore. E tutti dicevano la stessa cosa. Non è possibile. È impossibile. Sara li guardava da un’altra dimensione. Le diedi una carezza sulla testa e mi feci da parte.
    «Aveva le ossa delle gambe di fuori,» fu l’unica cosa che riuscì a proferire.
    Uscii nella spessa nebbia torinese, resa fluorescente da una luna grossa come un lampadario, e lanciai l’auto per le strade deserte, piantando il piede sull’acceleratore.
    Mi fermai nei pressi di Piazza Castello ed entrai in un bar luccicante di specchi e cristalli. Erano appena le cinque di mattina, ma ordinare uno Jägermeister mi parve la cosa più giusta da farsi. Piansi, brindai all’eterno riposo di Ettore e mi dissi che, se volevo continuare a dormire sonni tranquilli, dovevo trovare una spiegazione logica all’accaduto. Quella decisione, presa in un lussuoso bar di Torino alle cinque di mattina, con un bicchiere in mano e le poche convinzioni della vita che si sgretolavano come argilla al sole, ha tracciato nella mia esistenza una linea di confine tra i banali percorsi della quotidianità e le tortuose strade dell’imponderabile.

    I giorni successivi furono... strani. Le ore si dilatavano all’infinito, ovattate da una nebbia tentacolare che abbracciava il mondo in un bozzolo lattescente.
    L’elaborazione del lutto è un processo psicologico complicato che può impiegare giorni a definirsi nella mente di chi rimane. Prima c’è solo incredulità e la sensazione di star vivendo un brutto sogno.
    La mattina del funerale Sara sembrava aver riacquistato quella dignità, quella sorta di distaccato contegno che era la caratteristica dominante del suo carattere. Finita la funzione, officiata da un prete lungo e rinsecchito, mi chiese di accompagnarla a casa. Sulla soglia del cimitero monumentale di Torino, attorniato da silhouette nere che scandivano condoglianze con cadenza ipnotica, il cielo grigio e uniforme, una lastra di piombo fuso incollata alla volta celeste, mi pesava addosso come un sudario.
    «Ti devo parlare, Gigi. Voglio che ti prendi le sue cose.»
    Non le avevo ancora chiesto se avesse notato qualcosa di strano nel marito, se c’era qualcosa che potesse preannunciare quella disgrazia. Non mi sembrava il momento adatto, ma mentre avanzavamo nel caotico traffico torinese fu Sara a rompere il ghiaccio.
    «Da un paio di settimane non era più lo stesso. Non che mi avesse detto qualcosa, ma quando vivi con una persona da venticinque anni capisci subito se è turbata. È una questione di sguardi, di odore della pelle. Dio, puzzava di... acre. Se ne stava tutto il giorno nello studio, a scrivere, a rileggere quelle maledette interviste sulle masche.»
    Le masche, già. Avevo quasi scordato la conversazione avuta con Ettore un mese prima, la breve descrizione del saggio che non avrebbe mai terminato.
    Il termine masca, a chi non è nato in Piemonte, dirà poco o nulla. Con questa voce dialettale, diffusa soprattutto nelle campagne, dove tristi casolari di pietra si allungano sulla linea dell’orizzonte, i contadini identificano mitiche creature della demonologia popolare - streghe, ciarlatane, fattucchiere. E allo stesso tempo la parola sta a indicare dei fantasmi, spiritelli che fluttuano nei pioppeti per burlarsi degli sprovveduti viandanti; questa distinzione, tuttavia, si confonde nella superstizione, assimilando le due figure a un unico, inquietante mistero.
    «Sara, Cristo, perché non mi hai avvisato?» Mi morsi la lingua. Non avevo intenzione di girare il coltello nella piaga, ma la mia amica non sembrò curarsi della domanda. Se ne stava sul sedile del passeggero fissando la strada, abbracciandosi le spalle con le mani.
    «Non c’era niente di spiegabile, di definito. Era silenzioso, s’isolava. Dapprincipio attribuii il suo comportamento allo stress da superlavoro, ma poi arrivarono i sogni. Di notte si sbatteva nel letto come se avesse delle tarantole infilate nel pigiama... e parlava. Cose senza senso. Una notte lo udii sussurrare ‘Malanina, lasciami stare gli occhi.’ La mattina, quando gli domandai chi fosse Malanina, non mi rispose; si limitò a sorridere e a dire: ‘cos’è, hai paura che in sogno mi scopi qualcun’altra?’ E poi altre cose. Blaterava di platani che camminavano, di uomini di polvere. Io non riuscivo più a dormire, dopo. Aveva una voce che non pareva nemmeno la sua. Credo che quella ricerca gli stesse dando alla testa.»
    «Suvvia, Sara. Ettore era abituato a ficcare il naso in antiche leggende, a curiosare nel folclore. Era il suo lavoro, e non s’impressionava facilmente.»
    «Gigi, non lo so cos’è successo,» tagliò corto, «ma devi farmi un favore. Adesso vieni da me e ti prendi i suoi dossier. Interviste, appunti, tutto. E cerchi di capirci qualcosa. Io… non ci riesco. Pensare di toccare i quaderni, le cose che gli sono appartenute quando lui è... là sotto,» indicò alle sue spalle, in direzione del camposanto.
    Restammo in silenzio. Dal cielo scuro spuntò un raggio di sole che faceva stringere le palpebre. Accesi la radio e dieci minuti dopo parcheggiavo sotto casa di Sara; attraversando la strada, entrambi cercammo di evitare con lo sguardo il punto in cui Ettore si era abbattuto al suolo, contrassegnato da una macchia più scura sul cemento. Senza riuscirci. Poco distante, due addetti comunali con una sgargiante pettorina arancione s’indaffaravano attorno a un albero che sembrava essersi dislocato dalla piccola aiuola di cemento che lo circondava. Intorno, l’asfalto si era trasformato in un labirinto di crepe.
    Percorremmo l’androne tappezzato di velluto ed entrammo nell’ascensore senza guardarci in faccia, perché i nostri occhi facevano spavento. Sara, tormentandosi le mani, si soffermò su un argomento che avrei evitato volentieri, la descrizione degli ultimi istanti di Ettore.
    «Tu non hai visto la sua faccia quand’era lì per terra, Gigi. Gli ho preso le mani, e c’era tutto quel sangue, e le ossa delle sue gambe. Le ossa sono gialle, lo sapevi? Non bianche come ho sempre creduto, ma gialle. Non era più lui, Gì. Ha cercato di parlare, e mi ha guardato in un modo... era terrorizzato, capisci?»
    Stava per scoppiare in lacrime, ma l’ascensore si fermò al quinto piano con un brusco strattone; Sara prese le chiavi passandosi il dorso della mano sugli occhi e ci infilammo nell’appartamento. Fu difficile affrontare il corridoio dell’abitazione senza Ettore che mi tirava pacche sulle spalle.
    «Siediti, ti faccio un caffè.»
    Ubbidii e mi lasciai cadere sulla poltrona. Ero stanco. Dalla cucina, che versava in un giustificabile disordine, potevo vedere lo studio dell’antropologo; osservai per l’ennesima volta la laurea appesa al muro nella cornice dorata, gli scaffali carichi di libri, il computer. E poi notai una foto, appesa alla bacheca dove Ettore era solito appiccicare i post-it. Non l’avevo mai vista prima, ma mi fece correre un brivido lungo la schiena; senza alcun motivo particolare, perché l’immagine raffigurava uno di quei cascinali in pietra tanto comuni nelle campagne piemontesi, luoghi in cui il tempo pare essersi fermato agli inizi del secolo scorso.
    «Cos’è quella foto, Sara?»
    «È un cascinale.»
    «Questo lo vedo. Ma perché è lì?»
    «È parte della ricerca di Ettore. L’ha fotografato, credo fosse uno dei luoghi cardine del suo studio. Non so, ha attraversato mezzo Piemonte a parlare con vecchi rincoglioniti.»
    «Avevi molta stima per il lavoro di tuo marito,» ironizzai, indispettito dalla sua mancanza di tatto. Sara mi fulminò con lo sguardo.
    «Io lo sostenevo sempre e tu lo sai. Ma...» si fermò, e sollevò gli occhi pieni di lacrime, «sono convinta che il suo ultimo lavoro l’abbia mandato fuori di testa. Io ancora non ci credo che si è buttato dal balcone. Non posso.»
    Uscì di corsa dalla cucina e la sentii piangere in bagno. Non avevo ancora finito di darmi dello stupido che tornò, con un voluminoso fascicolo verde tra le mani.
    «Tieni, Gigi. Leggi e poi mi racconti.»
    Bevemmo quel caffè che sapeva di bruciato, in silenzio. Fuori c’era vento e nell’alloggio, da qualche parte, sbatteva una porta.
    Accettai controvoglia un’altra tazza di caffè, osservando la sera grigia di Torino che cominciava a premere sulle finestre. Dopo un po’ salutai Sara, afferrai i dossier di Ettore e mi avviai verso casa, rabbrividendo nella sera stellata.

    Mi buttai subito sotto la doccia. Dovevo tirar fuori dalle narici l’odore d’incenso che il parroco aveva asperso con tanta generosità intorno alla bara.
    Dopo essermi asciugato i capelli mi infilai una tuta e rosolai in padella due bistecche. Mangiai di malavoglia, giusto per buttare qualcosa nello stomaco. Poi riempii un bicchierino di Jägermeister e mi accomodai sul divano, dove avevo mollato il dossier; nella penombra del mio salotto cominciai a sfogliare le pagine con interesse crescente.
    Era una sorta di diario, redatto in un periodo compreso tra agosto e ottobre, mesi in cui l’antropologo aveva spaziato tra le colline del Roero e le Langhe per poi spostarsi verso la bassa pianura piemontese alle pendici del Monviso, raccogliendo materiale sulla curiosa credenza popolare delle masche. La premessa al lavoro lasciava intendere la volontà di Ettore di trovare conferma a una teoria piuttosto plausibile, ma mai dimostrata da prove concrete, sostenente che la figura della masca potesse addirittura ricondursi ai Celti Liguri, che abitavano quelle zone intorno al 1000 a.C.
    Ettore, con impeccabile zelo, aveva datato e ordinato cronologicamente i fogli, pieni della sua calligrafia infantile. C’erano interviste, ritagli di giornale, promemoria e alcune fotografie.
    Le prime centocinquanta pagine degli appunti rientravano nella normalità di un dettagliato studio antropologico. Un collage ordinato di riferimenti etnografici e testimonianze dirette raccolte sui luoghi del folclore; storie antiche e ingenue, persino divertenti nel voler spiegare con il sovrannaturale avvenimenti bizzarri. Le streghe, per i contadini piegati dalla fatica del lavoro nei campi, erano il capro espiatorio di ogni disgrazia.
    Per meglio rendere l’idea riporto qui di seguito alcuni appunti, due brevi stralci di interviste.

    Località Osasco, cascina Sucot, 3 agosto 2007. Intervista a Luigi Bertoretto, 79 anni.
    “Allora non c’era la televisione e dopo cena le famiglie si radunavano nella stalla; i vecchi raccontavano spesso storie di masche. Quand’ero piccolo, mio nonno diceva sempre che qui, a cascina Sucot, s’infilavano in casa, di notte, per portar via i bambini dal letto. Ce n’era una che si trasformava in gatto, e più volte tentò di rapire mio padre. Allora mio nonno si mise di guardia nella camera con un’accetta in mano e quando il micio entrò strisciando dalla finestra, gli tagliò una zampa. La mattina tutto il paese venne a cascina Sucot per vedere la zampa di gatto che alle prime luci dell’alba si era trasformata in un’orrenda mano di vecchia.”

    Località Volvera, cascina Macayal, 12 agosto 2007. Intervista a Marisa Martini, 75 anni.
    “Le masche c’erano, eccome, e ci sono ancora, boia faus, anche se adesso stanno nascoste. La più terribile di tutte era La Grosa, così chiamata perché pesava centoventi chili. Di notte girellava per le campagne raccogliendo erbe medicamentose; se scorgeva un viandante si trasformava in un’enorme capra dalle mammelle pendule e gli occhi rossi, e lo inseguiva fino a farlo morire di paura.
    Poi nelle cascine cominciarono a nascere agnelli con cinque zampe e un occhio solo; una notte un gruppo di uomini partì verso casa della Grosa, una catapecchia sbilenca vicino al casello abbandonato, e tornaò alle prime luci dell’alba. La masca non si vide mai più, ma ancora adesso qualcuno giura che nelle notti ventose la si può sentire… belare.”

    Le interviste erano tutte di questo tenore, accompagnate dalle sagaci osservazioni di Ettore. Lessi per altre due ore, assorbito dalle pagine del mio amico. Il tono delle sue considerazioni era analitico e distaccato. Nelle ultime pagine, però, l’impostazione dello scritto cambiava radicalmente, diventando più personale, partecipe. Per la prima volta Ettore faceva riferimento a un manuale di cui gli aveva parlato un contadino langarolo, il fantomatico Libro del Comando, volumetto di incantesimi redatto in piemontese, italiano e latino che ogni masca custodiva in una credenza, un vademecum indispensabile di formule per scagliare iatture e invocare il Diau. Ecco le parole del mio amico. Quelle del sedici ottobre probabilmente sono state scritte il giorno della sua telefonata, l’ultima volta che lo udii:

    Località La Morra, 16 ottobre 2007

    “Nel mio studio si aprono nuove prospettive. Sinora le interviste hanno fornito ottimo materiale per il volume, ma oggi il signor Marcello Mollar, 67 anni, residente in un bel cascinale in collina, mi ha dato un’informazione curiosa che verificherò domani.
    Mi ha parlato di questa strega, Malanina, che abitava nel suo paese natale, Idrasca, un triste lembo di terra paludosa che si allunga tra Torino e Pinerolo. I suoi genitori l’avevano portato dalla maliarda perché gli togliesse la fisica, una iettatura lanciata da ‘qualche nemico di famiglia’ che gli provocava febbri devastanti. Il signor Marcello ricorda poco di quel giorno: la casa della Malanina, un cascinale puzzolente infestato dai ratti, lo zoppicare della vecchia e lo sguardo terrorizzato dei suoi genitori.
    L’intervistato sostiene che la masca gli poggiò un panno sul petto, leggendo parole da un piccolo libro consunto; finita la cura il signor Marcello era stato colto da convulsioni e aveva vomitato una poltiglia nerastra. ‘Avevo rigettato il maleficio,’ così si è espresso. Il giorno dopo la febbre era passata e la settimana seguente si era ristabilito del tutto. Quando gli ho chiesto del libro, ha detto: ‘Era il Libro del Comando. Ogni masca ne ha uno, con i simboli per passare o togliere la fisica. Quelle vecchie terribili non fanno niente per niente, sia chiaro. Mio padre le ha dovuto portare un sacco di grano al mese per tutta la vita. Sa una cosa? Ho ancora dei parenti laggiù, a Idrasca, e ogni tanto li sento per telefono. Il mese scorso mio cugino Flip ha tirato in ballo Malanina; dice che l’ha vista nel cortile della cascina, ma mi sembra proprio una balla. Second mi al’è morta. Sembrava vecchissima già allora, quando io ero bambino. ’
    Ho parlato ancora un po’ col signor Marcello, bevendo un bicchiere di Barbera corposo. Quando l’ho ringraziato, uscendo dalla sua bella casa, mi ha stretto forte la mano e ha bisbigliato: ‘Non vada laggiù. Non vada a ficcare il naso.’ Mi sono limitato a sorridergli e a dirgli di non preoccuparsi. È interessante vedere l’influenza che hanno ancora oggi queste leggende in alcune comunità. Mollar è assolutamente convinto dei poteri della Malanina. Esiste davvero - è mai esistita - questa masca?
    Racconti simili vanno presi con le molle, certo, ma una cosa è sicura: domattina, di buon'ora, partirò per Idrasca.”

    Località Idrasca, 17 ottobre 2007
    “Stamattina, circondato da un muro di nebbia bagnata, sono arrivato in questo triste paese affossato nella Bassa; pochi abitanti dallo sguardo vacuo si aggiravano per il minuscolo centro cittadino e lontano, nei campi, si allineavano le sagome fumanti dei mucchi di letame.
    Intorno alle nove sono entrato in una polverosa tabaccheria gestita da un ometto canuto, ho comprato il mio trinciato forte e poi, con indifferenza, ho chiesto al negoziante se fosse a conoscenza della leggenda di Malanina. Il suo sorriso si è improvvisamente trasformato in uno strano cipiglio e ha sbottato qualcosa di intraducibile in dialetto. L’ho ringraziato e sono uscito dal negozio, perplesso. E qui comincia il bello. Alle mie domande tutti gli intervistati hanno risposto in modo sgarbato, allontanandosi dallo straniero, me! Un’anziana signora, appena ho pronunciato Malanina, ha fatto uno strano gesto con la mano e mi ha sussurrato ‘Va a cà, al’è mej.’ Mi sembrava di essere precipitato in una ridicola storia da rivista pulp. Ho pensato che il nome di Malanina fosse in qualche modo legato a un passato tutt’altro che magico, da dimenticare, e stavo tornando alla mia macchina quando ho sentito la voce. Una filastrocca, che faceva all’incirca così:

    Malanina, testa di biscia,
    senza una gamba nell’erba striscia,
    mangiati tutta la tua minestra,
    o gli occhi ti succhia dalla finestra!



    Una bambina, con le ginocchia sbucciate e una bambola senza gamba in mano, se ne stava seduta sotto un vecchio porticato. Pettinava il pupazzo, recitando la filastrocca su Malanina che, probabilmente, in quella comunità è diventata uno spauracchio per bambini, come il Babau o l’Uomo Nero. Mi sono avvicinato e ho salutato la piccola; quando le ho chiesto della masca ha tirato un profondo sospiro, da adulta, e ha sbottato con un tono che mi ha fatto gelare il sangue nelle vene: ‘Mamma dice che se faccio la cattiva Malanina si trasforma in una biscia ed entra di notte nella mia camera per rubarmi gli occhi!’ Le ho fatto una carezza e le ho chiesto se sapesse dov’era la casa della signora. Ha puntato il dito verso un pioppeto lontano, dietro il quale ammiccava la sagoma di un tetto grigiastro. ‘Ma non c’è nessuno lì,’ ha aggiunto, ‘Malanina è morta.’”

    Giunto a questo punto mi fermai. Gli appunti stavano prendendo una piega inquietante. Mi versai un altro cicchetto e voltai pagina. Un grave errore.

    “Sono salito sulla jeep e ho imboccato una strada secondaria che dipartiva dall’arteria principale di Idrasca, tentando di orientarmi coi pioppi distanti. Dopo un quarto d’ora di mulattiere ho raggiunto uno stretto sentiero fiancheggiato di ortiche, dove la mia auto transitava appena; la stradicciola conduceva alla cascina indicatami, passando sotto un caratteristico arco in mattoni.
    Disabitata, la prima parola che mi è venuta in mente. Le persiane gonfie di umidità sembravano palpebre stanche, socchiuse sugli occhi neri delle finestre. Non sono un tipo irrazionale, e col lavoro che faccio non posso cedere alle lusinghe dell’ignoto, ma per la prima volta nella mia carriera, al limitare di quel cortile lercio, con il cielo che andava colorandosi di una sfumatura purulenta, ho provato... qualcosa. Una dannata voglia di scappare, di rifugiarmi nel traffico di Torino, via da quella campagna bicromatica in cui mi sembrava fluttuassero fantasmi e tragedie.
    Eppure non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla sciatta immobilità della scena: un richiamo che filtrava dalle mura scrostate dell’abitazione sembrava trascinarmi verso l’ingresso. Mi sono avvicinato alla porta principale, lanciando un’occhiata a un aratro arrugginito. Sulla soglia mi sono fermato e ho bussato piano alla porta di legno, che si è schiusa di uno spiraglio. ‘Ehilà, nessuno in casa?’ ho chiamato, e allora ho sentito un rumore. Come un passo strascicato all’interno, appena percettibile. Furtivo.
    Mi vergogno di quanto è accaduto dopo. Sono entrato, strisciando tra porta e muro; la prima cosa che ho visto è stata la scala che cominciava alla fine del corridoio d’ingresso, arrampicandosi verso un oscuro ballatoio; la seconda il sozzume alla mia sinistra, in una stanza col pavimento di terra battuta che un tempo, forse, era stata una cucina. Mi ha investito un odore di sterco e cose marce. La varietà di schifezze in putrefazione - soprattutto piccioni - e cianfrusaglie sparse sul pavimento era incredibile.
    Poi ho cominciato ad avanzare, tappandomi il naso, e l’ho visto. Un libricino. Vecchio, polveroso, slabbrato. Leggendo le parole sulla copertina sbiadita ho avvertito il brivido di esaltazione dell’antiquario di fronte a un pezzo raro, e l’ho messo in tasca. Come un ladro.
    Era poggiato su una credenza stracolma di zampe di gallina essiccate, amuleti e macabri santini; su uno di questi - credo San Bartolomeo, il martire spellato - qualcuno aveva disegnato due buchi neri al posto degli occhi, e ho sentito una sanguisuga gelida arrampicarsi su per la mia schiena.
    Sono uscito dalla cucina e nel corridoio mi sono voltato ancora un istante a contemplarla. Lì non poteva abitare più nessuno, non in quel degrado, ma ho tirato ugualmente un grido - ehilà - verso il ballatoio immerso nelle ombre. Anche per mettermi a posto la coscienza dopo aver preso il libro.
    E allora è arrivata, annunciata da un suono rimbombante, come un bastone battuto su assi di legno; l’ho inquadrata per pochi secondi perché - irrazionalmente - sono fuggito dalla casa come una scolaretta, il cuore che litigava col pomo d’Adamo. Dopo, mentre sfrecciavo con la jeep attraverso i campi, mi sono detto che era solo una povera vecchia, forse demente, bisognosa di aiuto.
    Si è affacciata alla ringhiera del ballatoio, emettendo un sibilo liquido dalle labbra. Ho avuto la visione fugace di una maschera grinzosa in cui sussultavano occhi neri sgranati in uno sguardo supplicante, e di mani adunche che artigliavano il parapetto. Prima di fuggire - avevo paura, soprattutto di dover restituire il libro, non poterlo sfogliare - ho visto cosa provocava il tump tump. La vecchia saltava sul piede destro, infilato in un enorme zoccolo di legno, per tenersi in equilibrio; l’altra gamba terminava poco sotto la gonna in un moncherino ritorto che aveva una nauseante sfumatura blu-verde.
    Adesso sono a casa, a Torino. Continuo a darmi dello stupido; dovrei avvisare qualcuno per andare a portare via quella donna dal sudiciume in cui vive. Ma non ora, domani. Nel mio studio, infilato nel dossier, mi aspetta un vecchio libro con su scritto in un corsivo stentato : El Liber del Cumand d’Malanina.”

    Voltai pagina per continuare e notai che la numerazione saltava. Circa una sessantina di pagine. C’erano ancora un paio di fogli e qui la calligrafia già illeggibile di Ettore si trasformava in una serie di segnacci a malapena decifrabili. La scrittura di un bambino, o di qualcuno cui tremino violentemente le mani.
    Conclusa la lettura delle ultime frasi rimasi sul divano a fissare la parete per cinque minuti. Sara aveva ragione. Ettore doveva essere impazzito.

    “Ho bruciato molti appunti. Avevo trascritto troppe formule per la fisica. Nessuno deve poterle usare. Mai. Ho paura. Per Sara, per me.”

    “Funziona. Ho provato, per gioco. Dopo aver decifrato l’incantesimo bugiapiante in piemontese sono uscito sul balcone, ho guardato il platano che cresce qui sotto e fatto i gesti, letto i comandi. E l’albero ha camminato. Pochi centimetri, ma abbastanza da far esplodere il cemento intorno alle radici.
    Certe cose non possono funzionare! Sono leggende, folclore. Ma anche El Liber d’Malanina, che ho qui sulla scrivania, non dovrebbe essere frutto della fantasia popolare?”

    Rividi i due addetti comunali chini sull’asfalto scheggiato intorno al platano, il giorno del funerale di Ettore. Una coincidenza, mi dissi, che altro? Proseguii.

    “Stanotte si è affacciata alla portafinestra della camera. Era lì fuori, sul balcone, gli occhi neri e la faccia da biscia. Si è avvicinata al vetro, mi ha fatto le corna - il simbolo del malocchio - e poi ha afferrato quella gamba marcia con entrambe le mani e se l’è infilata in bocca a ciucciarsi il moncone, in una posa da contorsionista, continuando a rimbalzare sull’arto sano. Credevo di sognare, ma quando ho fatto per alzarmi e scrollarmi di dosso l’incubo, qualcosa non andava. Una mancanza. Ho sollevato le coperte e la mia gamba sinistra non c’era più. O meglio, era ridotta a un’appendice mutilata color castagna. Malanina continuava a zompettare, poi si è tolta la gamba di bocca e ha sputato sul vetro il marciume poppato dal moncherino. Ho urlato forte e Sara ha acceso la luce, sgomenta. Ed è finita.
    Ma non sognavo, no. La mattina il vetro esterno era macchiato di una sostanza verdastra, fetida. Sara non deve sapere.”

    “Quand’è uscita per andare a lavoro ho irrorato il Libro d’alcol, sono sceso in cantina e l’ho bruciato. Ho tentato. Ha preso fuoco subito, ma quando sono tornato, mezz’ora dopo, era lì, in cima al mucchietto di cenere, rigenerato come un’oscena fenice di carta. Devo riportaglielo. Devo tornare a Idrasca.”

    “È tutto sbarrato. Il cascinale è chiuso a chiave, non c’è nessuno. NESSUNO. Ho bussato e gridato e pensato di lasciare il Libro, ma non posso. Devo essere sicuro di restituirlo.”

    “Tutte le notti zampetta sul balcone, e sono come paralizzato nel letto. Sara ha capito.”

    “Stasera l’aspetterò sul balcone quella vecchia troia putrida, e glielo darò, il suo libro maledetto. Non lo voglio. Non m’interessa. Dio mi aiuti.”

    L’ultima pagina del dossier conteneva una semplice nota, un rimando a un’intervista precedente. C’era una frase evidenziata in giallo.

    Chi ruba il Libro del Comando a una masca morta si appesta l’anima.



    Finito di leggere mi passai una mano sulla fronte sudata; all’improvviso le pareti del mio salotto mi parvero opprimenti, scure. Allungai una mano verso il dossier, feci cadere i fogli, svuotai le buste di plastica con frenesia. Cercavo El Liber, ma non c’era.
    Sentii il forte desiderio di compagnia, contatto umano. Sara. Dovevo parlarle, chiederle se da qualche parte, nel suo alloggio torinese, aveva trovato uno strano libro.
    Alzai la cornetta del telefono e digitai il numero. Nessuna risposta, forse era uscita. O dormiva. Provai più volte e all’ennesimo tentativo, cullato dalla ninnananna ipnotica del tu-tu telefonico, mi addormentai sul divano, svegliandomi giusto in tempo per andare a lavoro.

    L’indomani la giornata si trascinò lenta, le pratiche legali schiacciate da altri pensieri. Uno in particolare, El Liber. Tentai di contattare Sara, senza successo; decisi che la sera sarei passato a trovarla, e alle sei entravo nel parcheggio del condominio.
    Il mutismo del citofono sostituì il segnale di libero del telefono. Aspettai un po’, e quando un inquilino del palazzo aprì il portone m’infilai dietro di lui e raggiunsi l’alloggio della mia amica, pensando che forse aveva staccato il citofono per non essere disturbata. Raggiunto il pianerottolo bussai sulla porta, che si schiuse di uno spiraglio.
    Entrai nell’appartamento, come un ladro. Regnava un silenzio pesante, ovattato, come quando fuori è nevicato per una notte intera.
    “Sara?” chiamai.
    Attraversai il corridoio e davanti alla camera in cui Ettore e sua moglie avevano trascorso chissà quante notti insieme, mi portai una mano alle labbra per non urlare.
    Sara era sul letto, la testa poggiata su un enorme cuscino; capii subito che era morta. Mi avvicinai con movimenti assurdi, sospeso in un rallentato limbo di stupore. Quando i miei occhi misero a fuoco un piccolo volume poggiato sul comodino, aperto a un paragrafo titolato Per varde l’Infern, intuii con analitico distacco che Sara aveva mentito; aveva letto gli appunti, trovato il Libro, e l’aveva usato. Per provare a se stessa che Ettore era davvero impazzito e che certe cose non possono funzionare, non nel nostro mondo fatto di razionalità e tecnologia, dove le leggende contadine sono buone solo per far paura ai bambini? O forse era semplicemente curiosa? Lasciarmi la ricerca del marito era stato un modo per mettermi al corrente, quando già aveva deciso di testare un incantesimo, temendo nel profondo che forse avrebbe potuto funzionare?
    Non lo so. L’unica cosa che so è che morire di terrore può essere molto peggio che precipitare da un balcone, peggio di qualunque modo di andarsene. Sara aveva gli occhi sbarrati, coperti da un velo, come un inizio di cataratta, la mascella spostata di lato in una smorfia folle. La lingua le pendeva dalle labbra secche, un grasso verme di carne, e le guance erano solcate da profondi graffi paralleli; i pezzi di carne infilati sotto le unghie dimostravano che si era artigliata la faccia con violenza bestiale. Trattenni a stento i conati, mentre vedevo la mia mano allungarsi a prendere il Libro.
    Le mie dita sfiorarono quelle dannate pagine ed esplose l’urlo. Il mio e quello di Sara, che si era tirata a sedere sul letto. Fino a quel momento avevo sempre creduto che l’espressione cagarsi addosso dalla paura fosse semplicemente un modo di dire.
    Mi si attaccò al braccio, le mani come artigli, con quella lingua umida che si dibatteva nella bocca in spasmi incontrollati, le narici dilatate nere come pozzi; e poi parlò, un vocalizzo cacofonico e terribile, in cui distinsi chiaramente, coperti da una petulante voce di vecchia, il vocione di Ettore e la parlata sommessa di Sara.
    “Il tuo amico e quella troia di sua moglie l’hanno letto el Liber, sai? Perché non lo leggi anche tu, piciu?” Quella cosa che si dibatteva sul letto mi puntò addosso le corna, esplodendo in un riso sguaiato in cui risuonavano note antiche e gemiti di ludibrio.
    Terrorizzato, in preda a un odio bieco e indescrivibile, afferrai l’abatjour e la colpii, più e più volte, con furia cieca, finché dalla testa cominciò a colarle una polpa grigiastra. Il lenzuolo che la copriva scivolò per terra e vidi la sua gamba sinistra: un’appendice marcia, coperta di larve, che emetteva un ammorbante odore di formaggio avariato.
    Svenni, e con gli ultimi barlumi di coscienza pregai di non svegliarmi più.

    Dicono che quando la polizia ha fatto irruzione nell’alloggio avevo ancora in mano la lampada con cui ho ucciso Sara. Ma io non ho ammazzato proprio nessuno, lei era già morta. Ho solo scacciato Malanina, solo per un po’, finché non mi sono addormentato sul lettino della cella e l’ho vista danzare sulla sua unica gamba, illuminata dalla luna piena di Idrasca, sopra una balla di fieno punteggiata di occhi di bambini.
    Continuo a sostenere la mia versione dei fatti; gli inquirenti si limitano a fissarmi scuotendo la testa, a dire che non hanno trovato alcun libro, che a Idrasca la cosiddetta “cascina di Malanina” è un rudere diroccato dove di notte si rifugiano le puttane. Hanno letto gli appunti di Ettore e credono fosse più pazzo di me.
    Sono - ero - anch’io un avvocato, ed è certo che troveranno una storia plausibile per spiegare l’intera faccenda.
    Ma nessuno potrà mai spiegare perché la mia gamba sinistra stia lentamente e inesorabilmente andando in cancrena.

    Note
    Diau: Diavolo
    Second mi al’è morta: Secondo me è morta
    Va a cà, al’è mej: Vai a casa, è meglio
    Bugiapiante: sposta piante
    Per varde l’Infern: Per guardare l’Inferno

    Edited by Idrascanian - 17/2/2010, 11:25
     
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20 replies since 1/2/2010, 13:58   489 views
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