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Wow che bello, c'è ancora posto! Speravo proprio di riuscire a partecipare visto che questo mese ho più tempo per commentare gli altri, quindi ne approfitto. Io vi presento un bel delirio fantastico-storico-filosofico. A voi
Platone e il Demiurgo
La statua di Pallade Atena stava bruciando sotto i rigurgiti di morte dell'Ade. Il cielo si era spalancato, e oltre l'azzurra volta risplendeva il cosmo punteggiato dalle stelle. Le nubi vennero squarciate da una biga dorata come il sole dell'alba, e il Demiurgo abbandonò l'Iperuranio scagliandosi contro i mortali. La terra si aprì e le anime vennero schiantate sul mondo, pronte a trascinare Atene fra le fiamme. Quando il calore lo avvolse all'improvviso, Platone si ritrasse per evitare le vampate. Socchiuse gli occhi e serrò il Fedro al petto, mentre un sottile braccio decomposto si allungava verso di lui. Cercò di indietreggiare, poi un netto colpo di spada distrusse l'ammasso di morte strisciante. Le ossa e tutto il marciume caddero a terra, e Platone le osservò disgustato: brandelli di carne e interiora maciullate da far venire il vomito. Non indugiò ancora: altre creature si stavano avvicinando, e lui doveva raggiungere i cavalli. Circondato dal fragore dell'incendio, si voltò gridando al soldato: «Devo raggiungere il tempio! Ho bisogno che tu mi faccia strada!» Era giovane, come lui, ma aveva il viso imbrattato di sangue e un'espressione sconvolta. Se mai aveva combattuto prima di quella battaglia, non era certo stato contro simili abomini. I due si guardarono intorno: il perimetro della piazzetta era riempito di soldati al limite delle forze, e le mostruosità dal Demiurgo sbucavano da ogni angolo e non sembravano lasciare via d'uscita. «Da questa parte!» urlò il guerriero. Platone seguì il suo sguardo e annuì. Si lanciarono verso una porta sfondata di un casolare vicino, evitando i lampi delle fiamme intorno. Dentro, strisciarono oltre una finestra trattenendo il respiro: l'abitazione era devastata da lingue cremisi, e il caldo si faceva sempre più insopportabile. Gattonarono dietro ai tavoli ribaltati, poi saltarono oltre gli infissi sul retro e furono fuori. «Devi proseguire da solo.» disse il giovane. Platone s'incupì. «Lo sai che non ce la farete. Potrei avere ancora bisogno di te...» «I miei compagni, ora, hanno bisogno di me.» Esitò un attimo, ostentando sicurezza. «Ma dimmi una cosa, filosofo: credi davvero di poter contrastare questa sventura?» Non c'era diffidenza nella sua voce. Solo tristezza e desiderio di tornare a combattere. Platone chinò il capo. «Non è una semplice sventura quella che devo fermare, ma la furia di un Dio.» Il giovane non disse nulla. Si voltò e corse oltre la casa.
Platone attraversò l'agorà stringendo una kopis nella destra, mentre con l'altra teneva il Fedro e la tunica per evitare di inciampare. La piazza sembrava deserta, ma il fetore angustiante delle creature permeava il luogo come una presenza viva. Alzò lo sguardo al tempio di Efesto e lì, per un istante, si fermò. Rivide in un attimo il mercato della settimana passata, il vibrare dei suoi suoni e profumi, e venne travolto da una sconforto atroce. Forse, anche se avesse raggiunto il Cielo, nulla sarebbe più stato come prima. Il clamore delle spade lo riscosse, così spinse lo sguardo alle scale del santuario. Vi entrò correndo, e subito venne investito da un forte tremore. La sua anima cominciava a svincolarsi. Vide un flusso tinteggiato di rossi e di azzurri chiari e scuri abbandonare il suo corpo e adagiarsi sul pavimento di marmo. Lo fissò, incantato: da quel velo d'intimità stavano nascendo due cavalli, uno bianco e uno nero, dal manto perfetto e le ali maestose, nei cui occhi vorticava l'immagine di una città in fiamme. Era proprio come aveva scritto, sulle pagine del Fedro, nella notte del delirio: lo spirito si sarebbe divincolato dal corpo e avrebbe raggiunto l'Iperuranio, il luogo perfetto oltre la volta celeste, l'anfiteatro divino al quale solo le anime possono avere accesso, e nel quale le anime hanno origine. Era lì che doveva andare. Era lì che avrebbe trovato il Demiurgo. Mentre le forze lo abbandonavano, sentì il sudore colare lungo le guance. Batteva i denti, ma non aveva freddo. Aveva paura. Stava davvero sfidando l'ira del padre e artefice dell'universo? Devo essere diventato pazzo si disse mentre tremava. Si voltò di scatto e tentò un balzo oltre l'entrata, invano. L'anima creava una ragnatela invalicabile, e lo tratteneva come solo i baci di una donna, o di un uomo, sapevano fare. Era inutile resistergli. Guardò di nuovo i cavalli: ora alti più di sei piedi, erano legati a una biga maestosa, decorata con incisioni in bronzo. Salì sul carro e afferrò le briglie, stringendole forte. Quando incitò i cavalli, il tempio venne scosso da un nitrito selvaggio. Le due bestie si lanciarono al galoppo puntando l'ingresso, e Platone venne quasi sbalzato dalla loro potenza. Uscirono nella piazza, ma prima di raggiungere la scalinata, la biga si sollevò, lanciandosi nell'oscurità del cielo. Il giovane greco barcollò ancora, perse l'equilibrio e si aggrappò al parapetto, strattonò le redini con foga, ma in quel momento lasciò la presa sulla kopis che cadde nel vuoto. Guardò la lama per un momento, poi si sollevò, strinse il Fedro al petto e si mise saldo sui piedi. Chiuse gli occhi e cercò di calmare il respiro, quando, con un nuovo nitrito, trasalì. I cavalli, come in preda a un impeto incontrollabile, cambiarono traiettoria e si tuffarono verso il fiume. Platone tirò ancora le briglie, ma non riusciva a trattenerli. «Fermatevi, fermatevi vi prego!» L'Ilisso si faceva sempre più vicino, pronto ad accoglierli fra le sue correnti. Accadde tutto in un istante. Le acque si mossero irrequiete come le onde del mare nella tempesta e vennero assorbite dal terreno. Ma quando scomparvero, mostrarono un'enorme voragine. Platone agitava la testa, si dimenava. Graffiò il legno della biga e lanciò un urlo straziato alle stelle. I cavalli si lanciarono in picchiata, portandolo fra le tenebre.
Si risvegliò su un pavimento di roccia e neve. Era supino, e aveva la testa assalita dai mille battiti del cuore. Provò a sollevarsi. C'era un po' di nebbia, ma andava diradandosi. Poteva vedere, più in fondo, un chiarore che si avvicinava. Attese sul posto, troppo intontito per muoversi: a fatica riusciva a pensare. Quando il barlume lo raggiunse strizzò gli occhi: c'era un vecchio nudo, magrissimo e con una barba lunga fino al torace, e una scintilla di luce fra le mani. Era circondato da molte figure, avvizzite come lui, con un'espressione malinconica. Sembrava tutto così calmo da apparire quasi irreale.
Inchinati, mortale! Il grido, rauco e profondo, arrivò come una sferzata alla schiena. Platone si sentì soffocare la mente, e d'istinto chiuse gli occhi. Inchinati, ho detto! La testa pulsava, sempre più forte, e lui non resisteva. Afferrò il Fedro e lo scagliò innanzi, e l'immagine si dissolse.
Il libro sfiorò il volto di Aristotele, facendolo sussultare. Era attonito, le labbra arricciate in una smorfia. Ma non sembrava adirato, solo ancora rapito dal racconto, quasi fosse stato sfiorato solo da un fiore. Platone rimase a guardarlo per un attimo, curvo nella posizione di lancio, poi si raddrizzò, compiaciuto. Il ragazzo lo fissò negli occhi. «Che cosa accadde dopo?» Platone sorrise: «Accadde che il Demiurgo mi lasciò andare, e io tornai alla mia casa, ad Atene. Nulla era capitato alla nostra città, ma avevo ricevuto una lezione importante.» Si chinò sul giovane. «Bisogna imparare a temere gli Dei, perché saranno loro a decidere cosa fare delle nostre vite. Qualsiasi tentativo di ribellione sarà inutile. Atene sarebbe bruciata se il Demiurgo non fosse stato tanto magnanimo. » Il tono si era fatto ruvido, ma solenne. Gli diede il Fedro, poi lo accarezzò in volto. «Fallo vedere anche agli altri, e ricorda ciò che ti ho detto: sono vivo grazie al Dio.» Aristotele prese il libro e corse fuori dallo studio dell'Accademia. Il vecchio filosofo lo guardò filare oltre l'ingresso e sorrise maligno, poi si voltò. Il Demiurgo lo fissava, gli occhi colmi di fiamme. Platone chinò il capo e la stanza scomparve, e in un istante furono di nuovo nell'Ade.
Soffiava un vento gelido. Anime di eroi e tiranni vagavano senza meta, e l'avanzare di un enorme cane a tre teste faceva tremare le rocce. Il filosofo si era avvicinato a una pozza d'acqua mentre il Demiurgo, da un'altura, lo sovrastava. Platone gli volse lo sguardo, guardandolo fiero e devoto: era sicuro di averlo soddisfatto, riuscendone a evocare una visione potente. Il Dio si accovacciò sulla rupe, e Platone capì che non era ancora il tempo. Ma avrebbe saputo aspettare. Guardò ancora nell'acqua limpida, scorgendo l'immagine di Pallade Atena. Stava piangendo, e aveva negli occhi una città in fiamme.
Edited by Salazer - 3/2/2010, 15:21
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