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LA STORIA DI ME E FRANCESCA
Ho conosciuto Francesca attraverso un editore: lei faceva la valutatrice di testi, e ha scritto un breve commento su un libro che avevo proposto per la pubblicazione. Del mio romanzo ha detto che era tutto sbagliato, ma che riscrivendolo completamente da capo sarebbe stato (forse) un tantino meno illeggibile. Il fatto che si trattasse di una storia di fantascienza, genere evitato come la peste dagli editori italiani, rendeva comunque impossibile la pubblicazione a priori. In qualche modo mi ha affascinato, Francesca: ho immaginato questa ragazza che leggeva il mio libro a letto, mentre la luna dalla finestra socchiusa accarezzava la sua pelle luminosa lasciando intravedere, che so: una terza, una quarta o magari addirittura una quinta di reggiseno. E come potesse leggere al buio non ne ho idea. Ma così me l'immaginavo, e così avrei voluto incontrarla. Mi dissi allora che dovevo conoscerla: non era solo un caso, se il mio impubblicabile libro ci aveva uniti. Era di sicuro destino. Decisi di partecipare a un evento organizzato dall'editore per cui lavorava, sperando di incontrarla lì. Era la premiazione di un concorso, di quelli in cui mandi un racconto, e se vinci ti fanno la raccolta col racconto tuo insieme a quelli di altri 20 aspiranti scrittori che non leggeresti nemmeno morto. Quello che hai scritto tu, però, risalterà sicuramente nel gruppo. Mi ritrovai insomma in una sala così stracolma di gente, che non riuscivo nemmeno a spostarmi di mezzo metro. Pareva che tutti gli scrittori di Roma e dintorni avessero partecipato a quella selezione, portandosi appresso ogni singolo e altrimenti dimenticato parente. Ma a me non importava nulla di quegli autori e dei loro racconti, perché in fondo alla sala c'era la donna più meravigliosa che avessi mai visto: Altissima. I capelli neri le scendevano dietro alle spalle come il mantello di un'amazzone. Aveva un trucco leggero messo con mano d'artista, un vestito scuro che l'avvolgeva lasciando immaginare un po' tutto, e sotto dei tacchi a spillo da far girare la testa. Avete presente Pierino quando arriva la maestra chiappona? Ecco, io ero uguale. Dev'essere lei! Mi dissi, spingendomi tra la folla. Lo sapevo che era destino. Con una naturalezza da lasciare sbalorditi, la donna più bella del mondo si accostò al microfono, e iniziò a parlare. «Benvenuti a tutti i nostri scrittori» disse, con un sorriso da svenire. A quel punto il pubblico scoppiò in un boato, e mi sentii spingere da tutte le parti. Ma forse credo che comprimere sia una parola più adatta. O schiacciare, se non - ancora meglio - ridurre in poltiglia. Dopo qualche altra parola di presentazione, la donna disse qualche ovvietà sulla scrittura e poi iniziò a declamare un elenco di vincitori scelti in seguito a un'accurata e severa selezione (non erano di fantascienza, immagino). E i presenti - famiglie e accompagnatori vari compresi - andarono in delirio. Mi ritrovai intrappolato senza possibilità di fuga nella massa di scrittori romani. La mia futura sposa faceva l'appello come se fossimo in classe, e la gente si agitava e saltava e applaudiva come se avessero fatto quattordici al SuperEnalotto. «Pierpaolo Paolini, col racconto: triste sospiro nel mio cuore afflitto» disse il mio amore predestinato. E via tutti di applausi, grida, e calci negli stinchi a me. «Alberto Muoravia con: morte di un impiegato che ha fatto per trent'anni un lavoro che odiava, ma che non ha mai avuto il coraggio di mollarlo per cercarsene un altro» continua la donna. E poi ancora «Luciano De Crescienzio col suo: racconto privo di contenuti interessanti». Ma quanta gente aveva vinto quel cavolo di concorso? Non finivano mai. La mia fidanzata innamoratissima continuava a sciorinare nomi, e a ogni vincitore seguivano altre urla, altre ovazioni e un sacco di altre botte che non credevo di meritarmi. Iniziai a pensare che avessero vinto tutti. Quanta gente c'era lì dentro? Migliaia, milioni forse di scrittori emergenti in un'unica raccolta di infinite pagine, e tutti si erano portati appresso mogli, figli e passanti raccattati per strada, col solo scopo di darsi delle arie e calpestare a morte me, che non c'entravo niente. Quando il panico stava ormai per portarmi via, grazie a Dio la premiazione giunse al termine. «Grazie a tutti per avere partecipato» concluse quella voce gentile che pensavo già di conoscere da sempre. «Ci vediamo alla prossima antologia, tra sei giorni!» Ultima ondata di urla senza controllo e poi, d'improvviso, la pressione sulle mie costole iniziò ad allentarsi. Piano piano gli scrittori presero a defluire lontano, forse per rintanarsi in qualche buio pertugio dove comporre altre pregevoli storie. E io - finalmente - riuscii a raggiungere il mio obiettivo e crollai di peso davanti a quella donna stupenda: avevo il fiatone, e il cuore mi batteva come una macchina mangiadocumenti (tanto per rimanere in tema editoriale). I miei occhi indugiarono per non più di qualche secondo sulla meritevole scollatura, e poi si tuffarono nei suoi: scuri, lucenti, tanto meravigliosi da perdercisi dentro. «Sei Francesca?» gli domandai, felice solo a parlarle. Ora il destino si sarebbe compiuto: ci saremmo baciati con una passione ancora mai scoperta. Poi me la sarei portata a casa, e... Ma lei scosse la testa. «Veramente no» disse. «Francesca oggi non c'è. La trovi la settimana prossima, quando faremo una presentazione». Lì per lì, ci rimasi molto male. Non era la mia Francesca, era solo una tizia che stava lì. Un'altra, non lei. Poi il mio cervello tornò sul pianeta Terra, e mi suggerì le seguenti parole: ma chissene frega di Francesca! Provaci con questa qua, che è pure bona. «Io mi chiamo Simone» dissi allora. «È un po' che seguo la vostra casa editrice, e ho voluto partecipare a una delle vostre serate». «Ah, bene. Ottimo!» Lei pareva contenta. Sorrideva. I suoi occhi continuavano a farmi impazzire, e il suo profumo dolce mi faceva girare la testa. E pure quell'idea di portarmela a casa non era niente male. «Io sono Veronica» mi disse lei, porgendomi la mano. Era morbida, liscia, delicata. «E sono la moglie dell'editore». Ugh. Pensai io. Ma che sfiga! «Che è lui» concluse Veronica, indicando alla sua sinistra. Mezzo metro dietro di lei, in qualche maniera mimetizzato tra i gradini del palco, un tizio giovane e dall'aspetto elegante guardava nella nostra direzione. In particolare nella mia, direzione. E aveva - chissà perché - un aspetto vagamente infastidito. «Piacere» gli dissi, facendo segno di ciao con la mano. Poi mi rivolsi nuovamente a Veronica. «Ora purtroppo però devo andare, che è tardi». «Ciao» disse lei, tutto sommato divertita dalla palese evidenza di quello che era accaduto. «Ciao» concluse il marito, sempre sul poco socievole. E sempre chissà perché. E sempre ancora di nuovo chissà perché, con quell'editore non pubblicai mai niente. Rimase il fatto che ormai mi ero fatto i film in testa con questa cavolo di Francesca, e dovevo per forza conoscerla. Così la settimana seguente andai a quella presentazione, stavolta accompagnato da Massimo, un mio amico. «Ma ci credo che la moglie dell'editore è bona» fu il suo commento al mio racconto della serata precedente. «Che ti aspetti, invece, da quella che corregge le bozze? Sarà una cozza». In effetti, ognuno frequenta i propri simili. E pure voi: che vi aspettavate da Massimo, dopo aver conosciuto me? Alla presentazione c'era sempre una folla spaventosa. Stavolta però il locale era più grande: ci si poteva muovere con più facilità, e ritrovai subito Veronica. «C'è Francesca?» le chiesi, assicurandomi che il marito non fosse nelle vicinanze. Lei mi indicò un angolo della sala, dove c'erano sei o sette ragazzi. Dovevano essere quelli che rivedevano i testi. Quelli che contattavano gli autori, e che scrivevano le schede di valutazione. Quelli che - tutto sommato - i libri se li leggevano davvero, e poi scrivevano pure i commenti. Mi feci avanti, mentre il cuore iniziava a correre un po' troppo forte, e tra un ragazzotto ciccione e untarello e un piccoletto vestito talmente male che pareva l'avessero appena picchiato - finalmente - la vidi. Era lei, la ragazza che aveva commentato il mio romanzo. La persona sulla quale avevo fatto tutti quei sogni. La donna del mio destino. E, mannaggia alla miseria ladra, era veramente inguardabile. Stava in compagnia dei suoi amici goffi e trasandati. Credo che stessero discutendo di qualche filosofo morto impiccato, o forse dell'ultimo romanzo dell'autore di uno stato sovietico ormai scomparso, e che conoscevano soltanto loro. «Ciao» le dissi, fermandomi davanti al loro tavolo. Francesca interruppe la conversazione per voltarsi verso di me. Aveva i capelli spenti, il viso di chi dorme poco, la pelle un po' pallida senza nemmeno un filo di trucco. Andai alla ricerca di un barlume di fascino nel suo sguardo, ma trovai soltanto un po' di disappunto per essere stata interrotta. «Io sono Simone» spiegai. «Abbiamo parlato via posta elettronica. Tu hai fatto la critica di un mio libro, e io ti ho risposto». A quel punto lei parve riaccendersi, e annuì con aria convinta. «Mi ricordo di te. Mi sei rimasto impresso!» «Davvero?» «Ma certo» spiegò. «Gli aspiranti scrittori, come qualcuno prova a criticarli si offendono a morte. Tu, invece, sei l'unico che ha risposto alla mia scheda di valutazione senza insultarmi». «Hai ragione!» confermai. «Ma io penso che ognuno è libero di dirmi la propria idea sul mio lavoro. Poi magari non gli do retta, ma non è che me la prendo». Appena terminata la frase, mi resi conto del mio gravissimo errore: ma che mi era venuto in mente? Avevo appena sottinteso che dei suoi consigli non me ne fregava una mazza. Ma se al mondo c'è qualcuno più permaloso degli scrittori emergenti, questi sono proprio i critici letterari! Infatti Francesca fece una mezza smorfia, e tornò a voltarsi verso il suo amico ciccione. «Secondo me» gli disse, riprendendo la conversazione interrotta. «I vecchi film di Star Wars sono più comunicativi se visti in VHS, mentre la rimasterizzazione digitale finisce per snaturare l'idea originale del regista». A quel punto, incrociai lo sguardo di Massimo. «Non è andata» mi trasmise lui quasi telepaticamente, stringendosi nelle spalle. «Ma tanto era un cesso». Così ci allontanammo dalla comitiva dei redattori, e restammo un po' in giro per il locale a seguire la presentazione e a bere qualcosa. Poi, quando stavamo già meditando di andarcene, presi la mia decisione. «Il numero provo a chiederglielo lo stesso» spiegai al mio amico. «Poi magari ci vado d'accordo, e vedremo come vanno le cose». Stavo per partire come un treno, quando Massimo mi placcò saltandomi letteralmente addosso. «Che accidenti fai?» disse, tirandomi via per le spalle. «Ma che sei scemo?» «Non è così brutta, dai. E abbiamo un sacco di cose in comune». «A Simo': quella non si può vedere, è davvero inguardabile. E poi è pure una scassapalle che se la tira una cifra. Non hai visto?» «Ma almeno ci posso provare!» mi lamentai, mentre lui mi trascinava fuori dal locale, fin dentro la macchina. «Ma che vuoi provare? Tu non l'hai vista bene, oppure te sei rincoglionito». Con quella frase il mio amico chiuse il discorso, ingranò la marcia e mi portò verso casa. Lontano dall'editore, lontano dal popolo degli scrittori emergenti, lontano dagli impiegati editoriali stanchi e sottopagati e - soprattutto - lontano da Francesca. Adesso, quando ripenso a questa storia, mi dico che forse il destino esiste davvero, e che ho fatto male a non tornare a parlare con lei. Forse io e Francesca saremmo andati d'accordissimo: uno scrittore e la sua assistente, pronti ad affrontare il mondo con la forza dell'amore e della critica letteraria. Saremmo stati felici, noi due insieme. Forse. E invece ho dato retta a Massimo: sono scappato via, e ora tra me e lei non esiste altro che un vuoto incolmabile. Non riesco più neanche a immaginare il suo volto, o come fosse fatta fisicamente. E confesso che anche Francesca è un nome inventato, perché non ricordo più nemmeno come si chiamava. Ma invece Veronica, stranamente, me la ricordo benissimo.
Simone
--------------------- www.simonenavarra.net
Edited by s-m-n - 1/3/2010, 15:16
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