[USAM Showdown 2010] volevo essere Spud!
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[USAM Showdown 2010] volevo essere Spud!

di Nicola Roserba - 11 battute circa

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  1. shivan01
     
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    Mi ero quasi dimenticato, per la miseria! Doverosa la partecipazione, vi ripropongo un racconto che aveva avuto poca fortuna quasi un anno fa. Visto che sono entrato nella soluzinoe Bel-Ami al novantesimo con un'altra cosa, questo racconto, oltre a essere uno dei miei preferiti, è anche l'unico che mi è rimasto disponibile, quindi, nella speranza che vi piaccia, ecco a voi:

    VOLEVO ESSERE SPUD!



    La faccia giù, nell’erba che odorava di pioggia. L’urto, maschio, forte, aveva zittito per un attimo l’universo intorno a lui.
    Immobile per un secondo, ascoltò il suo corpo. Era incazzato, ma non più di tanto. Non si sentiva niente di rotto.
    Qualcuno alzò di nuovo il volume del mondo, e Marco sentì il ruggito della folla. Urla, ma di gioia.
    Vennero a tirarlo su, non vide nemmeno chi, poi Edson, il brasiliano che avevano acquistato da poco, si avvicinò facendogli un cenno di assenso: “Ora tu segna rigore, eh?” Una bella pacca sulla spalla, di quelle forti. Marco si girò, anche per la spinta, e vide i difensori avversari accerchiare l’arbitro, fermo sul dischetto come una ridicola statua della libertà. Rigore!

    Ancora ragazzino, era stato trascinato a forza da suo padre a quel provino.
    Era piccolo, timido, e soprattutto gli fregava zero del pallone. A lui piaceva il basket. I suoi tredici anni non ne volevano sapere del fatto che era praticamente un nano e che poteva al massimo giocare coi paraplegici.
    Ma suo padre amava il calcio e la sua squadra, il Milan, in modo viscerale e anche un po’ ridicolo.
    Portava il figlio alla partita tutte le domeniche, gli comprava le divise, gli faceva rivedere le azioni in cassetta, col risultato che il bambino aveva cominciato a odiare quello sport assurdo. Gente che si picchiava, casini con gli arbitri e soprattutto la sua squadra, quella che il padre lo aveva obbligato a tifare, che gli stava sulle palle come non mai.
    A scuola faceva basket con gli altri studenti; lui era piccolo ma veloce, passava in mezzo agli altri come una freccia, e pure il tiro non era male.
    Per un ragazzino della sua età, essere più basso degli altri era una vera iattura, ma finalmente col basket aveva trovato un po’ di compagnia. Gli altri lo cercavano, era forte, si sentiva importante.
    Aveva attaccato al muro, in cameretta, un poster di Spud Webb, un tizio di un metro e settanta scarsi che aveva giocato nell’NBA negli anni ottanta, alla faccia di quelle montagne di due metri e passa che non lo vedevano nemmeno mentre sgusciava tra le loro gambe.
    Rimirava quel poster di Spud che volava a schiacciare, fotografato dal basso, una volta tanto, e sognava “Sarò come te!”
    Si era fatto comprare pure la canottiera degli Atlanta Hawks, la squadra di Webb.
    Lui voleva provare a giocare seriamente a basket, a entrare in una scuola, ma il padre non ne aveva voluto sentire. Erano stati giorni proprio difficili quando gli aveva detto che l’avrebbe portato invece a un provino per il Milan.
    Aveva urlato e strepitato, ma non c’era stato niente da fare.
    L’uomo lo trascinava spesso ai giardini pubblici a palleggiare con lui, e ogni volta lo spingeva a giocare partitelle con altri ragazzini che trovavano lì. Marco giocava, anzi giochicchiava, ma vinceva sempre. Era più forte di loro, e senza nemmeno sforzarsi molto per esserlo.
    A breve l’uomo aveva cominciato a convincersi. Sì! Eh, sì! Marco era un predestinato, un talento naturale, una punta devastante come non se ne vedevano mai all’età sua! Sì, sì! Un nuovo Van Basten, Weah! Non c’erano dubbi.
    Marco glielo diceva, a papà, che lui era piccolo e non poteva giocare come loro, ma lui lo zittiva, sentenziando che da ragazzino qual era non capiva niente di calcio e doveva lasciar giudicare agli esperti, cioè lui.
    Da tempo suo padre si era messo a pagare caffè e a pietire favori in giro, e alla fine il “gran giorno” era venuto.
    Si erano alzati la mattina presto. Marco aveva dovuto vestire quella maledetta divisa a strisce rossonere, mentre la mamma l’aveva pettinato come avesse dovuto andare a una comunione, e non una qualsiasi, ma la sua.
    Papà non aveva smesso di girare per casa come un’anima in pena, sbuffando perché ci stavano mettendo troppo, finché non erano usciti.
    Aveva poi guidato fino al campo con una lentezza esasperante. “Manca solo che facciamo un incidente!” diceva. Marco era stato zitto, immusonito, ma l’uomo non se ne era accorto, o forse se ne era bellamente fregato. Vedere suo figlio con la maglia del Milan, quella vera, non comprata in qualche negozietto, era il massimo per lui.

    Marco cercò un cenno dall’allenatore. Sì, il rigore l’avrebbe tirato lui.
    Jacques, il solito bastardo, la stella della squadra nonché capitano, era corso dal mister a lamentarsi. Doveva essere lui a calciare, non quello stronzetto appena uscito dalle giovanili!
    Il rigorista però era lui, il mister era stato categorico, e fanculo Jacques e i milioni che prendeva.
    Uno stronzo mercenario già ampiamente in declino, che viveva di rendita solo per i gol che aveva fatto anni prima.
    Marco fece qualche passo, in solitudine. Un compagno cercò di avvicinarsi, ma lui lo scacciò. Doveva concentrarsi.
    Qualche secondo comunque lo aveva, perché gli avversari stavano ancora discutendo con l’arbitro e quello, più che allontanarsi dalla ressa, stava quasi correndo via. Una scena ridicola, in un'altra occasione ne avrebbe riso, ma in quel momento il ragazzo non ci fece nemmeno caso. Sentiva su di sé lo sguardo di suo padre, fisso, una specie di trapano laser sulla nuca. Ma non doveva pensare a lui, adesso, o avrebbe sbagliato.

    Il provino era andato bene, pure troppo. Il Milan l’aveva preso subito e ne aveva ben presto fatto una stella delle sue giovanili.
    Marco era per fortuna cresciuto un po’, Spud a quel punto gli sarebbe arrivato a mezza testa. Ormai era invischiato in quella cosa del calcio e un minimo di stazza fisica lo avrebbe aiutato.
    I ragazzi delle giovanili pestano quanto i grandi, se non di più. Non c’è moviola, Biscardi, titoloni di giornali o altro, a quel livello. Lì ti pestano e basta. E lui era bravo, e quindi le prendeva.
    Il mister ne aveva fatto un trequartista, la mente della squadra. Boh? Marco non si sentiva quel ruolo addosso ma, anno dopo anno, il contratto glielo avevano sempre rinnovato, e aveva persino cominciato a prendere qualche soldino.
    Il padre, letteralmente impazzito, aveva aperto in banca un deposito per lui, ci metteva tutti i soldi che il ragazzo racimolava e soprattutto era la sua ombra tutto il tempo. A casa, in macchina. Al campo c’era sempre un deficiente che gli urlava incitamenti da dietro la rete di recinzione. Il mister qualche volta gli aveva detto di piantarla e gli altri ragazzi lo prendevano per il culo per questo.
    Ma Marco cresceva, e segnava. Cazzo, se segnava.
    Pulcini, all’inizio, perché era troppo basso, però poi Allievi, e alla fine Primavera. Titolare fisso, a dettar passaggi e a mandare in rete gli altri. Alla fine si divertiva pure, giusto un po’. Era bello più che altro essere al centro dell’attenzione, cominciare a vedere qualche trafiletto sulla Gazzetta.
    Il padre, invasato, incorniciava tutto e casa loro ormai stava diventando un museo di cazzate.
    Un giorno, all’improvviso, si era presentato al campo l’allenatore della prima squadra.
    Nessuno lo sapeva. Di punto in bianco lo videro seduto sulla gradinata del campo di allenamento. Il passaparola fece il giro del campo in tre secondi e diedero tutti il massimo, quasi a giocare qualche decisiva finale. Anche Marco non si risparmiò.
    La sera, a casa, una telefonata. S’era rotto il regista della prima squadra e il mister voleva che Marco si unisse ai grandi. Ecco perché l’allenatore era venuto a vederli. Era solo una cosa provvisoria, avevano precisato, ma il padre andò fuori di senno lo stesso.
    Marco ricordava il giorno successivo, quando si era aggregato ai titolari. Era stato accolto bene. Grandi nomi, giocatori di esperienza internazionale. E quello con le stampelle a dispensargli consigli, ma con uno sguardo di quelli che dicono “Ragazzino non fare lo stronzetto, però, quando torno tu giri i tacchi e ti levi dalle palle, eh?”
    La domenica successiva non era andato allo stadio col padre, perché il mister lo aveva portato in panchina. Lo fece quella volta e altre tre di fila a seguire, e poi Marco ebbe il Suo Momento.
    Entrò a San Siro, all’ottantottesimo di una partita che il Milan stava già vincendo tre a zero.
    Calpestò quel mitico prato per cinque minuti, recupero compreso, facendo in tempo a toccare due palloni e la caviglia di un avversario. Prima presenza e primo cartellino giallo…
    …e prima cazziata negli spogliatoi dal mister.
    Giornata bella, comunque.
    Le settimane successive ebbe altre occasioni e in campo fu tutto tranne che osceno. La gente aveva cominciato a conoscerlo e ad apprezzarlo, un po’. Ma era giovane, dicevano, e doveva farsi le ossa.
    Il padre gli rompeva le palle tutte le sere con le partite in televisione, a fargli rivedere i suoi errori. E dovevi fare così, e potevi passare a quello, e da lì si tira.
    Marco considerava ormai quell’uomo lo stereotipo del tifoso imbecille che di calcio non capiva niente e non sopportava più quello stillicidio che durava da cinque anni ormai. Basta!
    Appena avesse avuto due soldi per sé, avrebbe preso un appartamento per conto suo, così la sera la porta si chiude e chi s’è visto, s’è visto.
    Poi, alla fine della stagione, finalmente trovò il modo di comprarsi casa. Il padre non aveva preso bene tutta la faccenda e i rapporti con lui, per quel motivo, si erano diradati di molto. Sua madre, da ameba qual era, non aveva fatto nulla per ricomporre il dissidio. E allora vaffanculo a tutt’e due e arrivederci, si era trovato a pensare il ragazzo.
    Ottanta metri quadri di libertà, e donne. Un paradiso.

    L’arbitro fischiò, Marco si girò e vide che lo stava richiamando per battere il rigore.
    Un compagno gli passò il pallone e lui si avviò verso il dischetto massaggiando quella sfera di cuoio come fosse una strana lampada di Aladino alla quale chiedere il miracolo.
    Lo tiro a destra o a sinistra? Boh? Capì solo allora cosa passasse per la testa ai rigoristi in quei momenti.
    Un cazzo, ecco cosa passava loro per la testa.
    Le due squadre si aprirono per lasciare il passo al ragazzo, qualcuno della squadra avversaria gli sussurrò qualche insulto, ma lui non ci fece caso.
    Pallone sul dischetto. Marco sottostette a quello strano rituale di piazzare la sfera proprio sull’ultima zolla del cerchio bianco dal lato della porta. Come se quei cinque centimetri in più potessero fare la differenza.
    Alzò lo sguardo verso il portiere che stava immobile, con le lunghe braccia aperte come un airone sgraziato. Lo guardava in cagnesco. Conosceva quel giocatore: un vero stronzo. Bravo, ma stronzo.
    Marco tornò sui suoi passi, gli occhi inchiodati a terra. Era uno di quei rigoristi che la rincorsa la prendevano corta: tre, quattro passi, non di più.
    Si volse di nuovo verso la porta.
    Nel catino, ottantamila persone in silenzio assoluto.
    Per un attimo il mondo si fermò di nuovo, cristallizzato, poi il fischio dell’arbitro mandò in pezzi l’incantesimo.
    Un ultimo sguardo al portiere, ancora immobile, crocifisso in quell’assurda posizione, poi partì.
    Destra?
    Sinistra?
    Destra?
    Sinistra?
    Dove lo tiro, cazzo?
    Il portiere non si muove!
    Lo tiro forte e vaffanculo!
    Destra o sinistraaa?
    Destra!
    Il pallone saettò nell’angolo in basso della porta. Il portiere era da tutt’altra parte, a raccogliere i cocci della sua autostima.
    Gooolll!
    Inter 1 Milan 0!
    E vaffanculo papà!
     
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