Riflesso
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Riflesso

di Roberto Bommarito

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    CITAZIONE
    Attenzione: questo scritto ha contenuti destinati a un pubblico adulto. Leggendo di seguito dichiari sotto tua totale responsabilità di avere più di 18 anni. Se terminologia o situazioni esplicite possono offenderti o andare in contrasto con la tua morale, sei pregato di chiudere questo post.

    Riflesso




    Getto chiavi e posta sul divano. Ho bisogno di qualcosa che riempia questo silenzio. Benny Goodman? Troppo brio. Billy Holiday no, parole no: ne ho dette e sentite abbastanza oggi. Miles Davis? Miles Davis può andare bene. Traccia due: How deep is the ocean. Ok. La prima nota, quasi un lamento, è quella giusta.
    Regolo su “caldo-max”. In pochi minuti la vasca è pronta. Mi sbottono la camicia. È stata solo una giornata di merda, una delle tante. La segretaria di Hitler raccontò di come una volta, dopo avere ordinato l'uccisione di alcuni suoi ufficiali, lui corse a farsi il bagno. Disse che dopo il Fuhrer riemerse tutto sorridente, dicendole: «Sono tornato innocente come un neonato». Se ha alleggerito dalla colpa anche il più grande serial killer della Storia, perché non dovrebbe col sottoscritto?
    Dico: «Sette» . Lo stereo cambia traccia. I waited for you. Prendo il cazzo in mano. Stringo forte e subito mi si indurisce. Le note sono più leggere, ora. Ti dicono di calmarti. Lasciati andare. Le stesse note sembrano bollicine di sapone che mostrano un fiero dito medio alla forza di gravità. Alleggerisciti. Niente più pensieri, voci, caos. Vado su e giù con la mano. Penso al culo di una tipa incrociata per strada. Bello. Tondo. Non l'ho nemmeno guardata in volto, ma è la prima immagine che mi salta in mente. Insieme a... quelle della platea. Dell'applauso. No, pensa al culo, dannazione... va giù... le cosce... le gambe aprirsi... le mani... le sue, le tue... più veloce... stringi più forte... ma riecco l'applauso della gente. I sorrisi. Io che vomito l'anima dietro le quinte. Merda!... Pulsa come se lo facesse per dovere. Una, due, tre volte. Pochi schizzi. Il piacere arriva debole, lontano. Un'eco.
    Spengo lo stereo. Accendo la tele. Al notiziario passano le immagini di un astronauta cinese che saltella felice sul suolo lunare. Prendo la posta abbandonata sul divano. Bollette. Dépliant pubblicitari. Le solite lettere che mi ricordano quanto sono amato dalla comunità religiosa: “La tua anima brucerà per l'eternità nelle viscere dell'INFERNO, amen!” E una cartolina. Dio, quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho ricevuto una cartolina? È disegnata a mano. Da una parte c'è quella che potrebbe essere una famiglia ritratta da un bambino, con tanto di sole sorridente. Dall'altra solo una data, quella di domani, un indirizzo e un orario. La cartolina è firmata: Natasha. La calligrafia è quella di un adulto.
    Ho ben altro da fare che dare retta agli scherzi di un cretino.
    No, davvero.

    La mia prima reazione è quella di maledire me stesso per avere dato retta allo scherzo di un cretino.
    La seconda è quella di guardarmi attorno per capire dove diamine sono capitato. C'è gente di ogni tipo. Ma quelle che mi saltano all'occhio, non potrebbe essere altrimenti dato il modo in cui sono conciate, sono le puttane. Ce ne sono quattro. Una di loro avrà forse sedici anni. Il volto scavato. Le braccia già rovinate dai buchi e le vene indurite, troppo gonfie e troppo viola. Conosco bene quel genere di cicatrici. Quella che le sta vicino sarà la madre o una collega, forse quella che le ha insegnato come infilare il condom ai clienti con la bocca. Portano tutte una croce al collo.
    I passanti, invece, fanno proprio quello: passano. Passano senza fermarsi neppure a guardare. Ed è proprio quello che vorrei essere io, in questo istante. Un passante che ha fretta di recarsi a casa per vedersi l'ultimo episodio di Nonsochecosa, o che decide di essere troppo stanco per cucinare stasera e ordinerà invece una Margherita dal take-away. Voglio andarmene. A culo la cartolina del cavolo.
    E faccio proprio per andarmene, quando si raccolgono tutti in cerchio. E al centro del cerchio ecco una ragazza. Indossa un'ordinaria maglietta bianca e un paio di jeans. Sorride. Tiene un accappatoio in una mano, un sacchetto trasparente pieno di pasticche di colori nell'altra. Passa in rassegna i volti dei presenti, uno a uno. Ogni suo movimento è calmo, misurato. Si ferma per un istante davanti alla ragazzina coi buchi, quella che avevo notato prima, e le passa una mano sulla testa. La ragazzina chiude gli occhi come un gattino che si lascia coccolare. Poi le porge il giallo. Lei lo prende. Fa lo stesso con alcuni tizi con la cravatta. A loro dà il rosso. A una massaia, il verde. Dà il verde anche a un ragazzino con l'iPod. Quando infine raggiunge me, il suo sorriso si allarga ancora di più e dice: «Non credevo saresti venuto. Per te niente colori, però». E mi fa la linguaccia.

    Sono nato come tanti: senza una ragione vera e propria.
    Mi è stato detto in tutti i modi possibili, che sono nato senza un perché: con le parole, quelle di mia madre. Mi è stato detto dai muri della mia cameretta che si sbriciolavano mangiucchiati dalla muffa. Dai compleanni trascurati. Dalla Simmenthal mangiata direttamente dalle lattine. Mi è stato detto quando mio padre ci ha lasciato senza avermi mai rivolto la parola, non fino ad allora, pur vivendo sotto lo stesso tetto. Mi è stato detto dalla vita, o per lo meno dalla mia, quella che non so se andrebbe scritta con una “v” maiuscola o cancellata come si trattasse di uno scarabocchio. Ho dovuto aspettare fino a diciott'anni perché una donna dicesse d'amarmi, a modo suo, e per di più era una puttana.
    Stavamo in auto, la mia prima macchina: una Skoda tenuta assieme da saldature fai da te e tanto fil di ferro. Lei aveva una gamba dentro, l'altra fuori dai jeans.
    «'Sti cazzi»
    «Davvero. Un momento era l'uomo più calmo del pianeta, quello dopo diventava peggio di Mister Hide. Vedi questa? Me l'ha fatta lui, il bastardo.»
    «E mammina?»
    «Mammina era troppo impegnata a recitare l'Ave Maria fra un buco e l'altro per tenere a bada paparino.»
    «'Sti cazzi. Ma dimmi.»
    «Dirti cosa?»
    «Non è per cambiare l'argomento di merda, ma anche sì.»
    «Spara.»
    «Sarà la sesta volta che scopiamo questa settimana, o sbaglio?»
    E avrà avuto ragione.
    «E ti dà fastidio?»
    «Mica tanto.»
    La gente t'insegna sempre qualcosa. Per quanto impegno ci possano mettere nel renderti la vita uno schifo o rendertela decente, comunque se ci pensi su capisci che la gente t'insegna sempre qualcosa. Mia madre mi ha insegnato a fare il segno della croce davanti allo specchio. Mio padre come nascondere un vuoto tanto grosso che nemmeno le botte riescono a fartelo dimenticare. Lei, invece, credo mi abbia insegnato ad amare anche quando la parola “amore” suona come una bestemmia.
    Quella volta abbiamo scopato. Dopo non sapevo se pagarla o meno. Lei li ha voluti comunque, i venti euro. Poi ha detto che alla prossima, però, offre la casa.

    Prima il dejà vù della vita che mi sono lasciato alle spalle: puttane, buchi e miseria. E adesso questo: la ragazza torna al centro del cerchio e si sfila di dosso prima la maglietta, poi il reggiseno, poi i jeans, rimanendo solo con un paio di mutandine.
    «Voglio che dipingiate su di me il volto di Dio» dice gonfiando il petto e allargando le braccia. E la gente lo fa. La riempiono di impronte di mani e dita dapertutto: collo, seno, pancia, fianchi, gambe.
    E i miei piedi rimangono fermi, incollati a terra, invece di portarmi da qualche altra parte.
    Lo show, o qualsiasi cosa sia, va avanti così per una decina di minuti. Poi, senza che lei dica nulla, la folla incomincia ad assottigliarsi. Se ne ritornano tutti alle proprie vite, belle o brutte che siano, come se nulla fosse accaduto. Io rimango.
    «Mi scusi, ma... come funziona?»
    «Come funziona cosa?» fa lei, avvolgendosi nell'accappatoio. Due dita le hanno lasciato un paio di strisce nere da Comanche hollywoodiano su una guancia. Ha lo sguardo vivace ed esausto allo stesso tempo.
    «Mi lasci indovinare: lei è Natasha.»
    «E puoi anche darmi del tu.»
    «Credo che tu sappia chi sono io.»
    «Meglio di quanto non creda tu stesso.»
    «Mi sorprende che non ci siano telecamere in giro. O forse sono nascoste? Come funziona? Speri forse di postare il filmino su YouTube, magari editandone qualche parte per dare l'impressione alla gente che sono venuto qui di proposito a prendere parte allo show? L'autore de “Il mondo dopo Darwin”, l'ateo par excellence che partecipa a manifestazioni oscene a sfondo pseudo-religioso?»
    «Certo che sei un tipo prevenuto. Tanto da non riconoscere nemmeno un miracolo quando lo vedi coi tuoi stessi occhi.»
    «Miracolo?»
    «Sì. Ho insegnato loro a pregare. Al giornio d'oggi è un miracolo, credimi.»
    «Buona serata.»
    «Comunque no, non volevo fregarti. Ti ho invitato perché conoscevi mia madre.»

    La frequentai per sei mesi, senza mai conoscere il suo nome.
    «Scegline uno, uno a caso. Mi vanno bene tutti.»
    «Ridicolo.»
    «Meglio così.»
    «Meglio?»
    «Meglio, sì. Ti sarà più facile dimenticarmi, quando deciderai di metterti tutta 'sta merda alle spalle. Hai un cervello che ti funziona bene, Cristo. Usalo.»
    «Ma io non intendo andarmene.»
    «Io sì, invece. Non intendo mica fare la puttana per il resto della vita. Dovresti fare lo stesso pure tu.»
    «Facciamolo insieme, no? Al diavolo tutto e via: un nuovo inizio.»
    «Non funzionerebbe. Veniamo entrambi dallo stesso mondo marcio. Finiremmo con l'odiarci a vicenda perché ognuno di noi sarebbe il continuo ricordare all'altro tutto ciò che invece vorrebbe lasciarsi alle spalle.»
    «Vaffanculo.»
    «Dico sul serio: non potrebbe mai funzionare.»

    Dieci giorni dopo, Natasha, di nuovo imbrattata di ogni colore da testa a piedi, dice che sua madre si chiamava Kara, ovviamente quel nome non mi dirà nulla, ma forse proprio per questo dovrei capire di chi parla, e io le dico di andarsene al diavolo, ne ho avute abbastanza, eccheccazzo.
    La terza volta che accetto un suo invito la mando di nuovo al diavolo. Poi dico: «Ammesso e non concesso che sappia chi fosse tua madre, io cosa c'entro?»
    Kara mantenne la sua promessa, se così posso chiamarla. Smise di battere il marciapiede. Di rispondere alle chiamate: “numero inesistente”. O, più che numero, “persona inesistente”. Io, dal canto mio, riuscii bene a prendermi per il culo, almeno per i primi tempi. Mi ripetevo che comunque la cosa non mi toccava. Anzi era una liberazione. Adesso avrei potuto pensare ad altro. Infondo era solo una puttana. Senza di lei sarebbe stato tutto più semplice.
    Natasha dice: «Quella cartolina che ti ho mandato, l'ho disegnata io quando avevo sette anni. Lo facevo spesso, disegnare intendo. Disegnavo tutto ciò che desideravo e non avevo. Pensavo che un giorno quei disegni si sarebbero materializzati e anche io avrei avuto una famiglia normale come tutte le mie compagne di classe. Credo fosse un modo di pregare, il mio. Mamma diceva che lo era».
    Qualche settimana dopo la scomparsa di Kara, inghiottii un flacone di aspirine. Mi svegliai poche ore dopo in una pozza di vomito. La bocca bruciava. La gola bruciava. Il petto bruciava. Mi trascinai in cucina, presi un coltello e arrotolai su la manica fino al gomito. Ci vuole tempo per morire dissanguati. Ore. Tagliandomi per lungo la vena dell'avambraccio, invece del polso, avrei fatto prima. Rimasi per ore seduto sul pavimento, immobile, senza pensare a nulla. Contai i secondi di ogni minuto senza saperne la ragione. Ma non trovai il coraggio di tagliarmi.
    Così mi recai in salotto. La Bibbia si trovava al suo solito posto: nel cassetto dove la conservava mia madre. Lessi le Ecclesiaste. Il Cantico dei cantici. I Proverbi. Buona parte del Nuovo Testamento. La differenza fra un buon libro e un capolavoro è che il primo ti fa venire voglia di rileggerlo, il secondo di scrivere. E infatti fu proprio questo l'effetto che ebbero su di me, quello di volere scrivere. Avrei tolto a Dio i suoi fedeli così come Lui aveva privato me di un'infanzia normale, di un paio di genitori decenti, di Kara.
    Natasha dice: «Poi, crescendo, iniziai a disegnare cose diverse. Molto diverse. Cose tipo la luce. Si può dipingere anche la luce, sai. Ma non era solo luce, quella che dipingevo io. Farlo mi faceva stare bene. Meglio delle persone che avevo attorno. Avevo un'espressione più serena di quella dei sarcedoti che predicano il vangelo alla tele. E se le cose che Mamma mi ha raccontato di te sono giuste, con ogni probabilità meglio di quanto non ti sia mai sentito tu in tutta la tua povera, patetica, caotica esistenza. Mi resi conto di sapere comunicare con Dio. Forse meglio, un po' meglio, di tanti altri».
    Dopo il mio tentato suicidio, mi misi a spacciare yaa baa, trips e flake. Ossia metanfetamine, LSD e cocaina. Ma usare questi nomi è come chiamare fido “canis lupus familiaris” o la fidanzata per cognome. Gli unici a chiamare la droga col nome giusto sono quelli che non l'hanno mai usata, o che vogliono fare credere di non averla mai usata. Spacciavo pure catrame nero, la stessa merda che si sparava nelle vene mia madre. Ogni tanto mi facevo anch'io, certo, anche se la roba non è mai stata mia amica. Eppure mi fu utile. Nel giro di pochi mesi riuscii a mettere da parte abbastanza soldi per iscrivermi all'università.
    Natasha dice: «Quello che tu chiami “show”, per me è funzione religiosa. Una Chiesa senza mura. È questo che ho fatto per un po' di tempo viaggiando: ho insegnato alla gente come pregare Dio, trasformando il mio corpo in una tela. Ho anche un mio sito web che un amico mi ha aiutato a mettere su: “Godpicture.com”. Mai sentito?».
    Presi a studiare filosofia, in particolar modo filosofia della religione: da Sant'Agostino a Bertrand Russell, passando per Friedrich Nietzsche. Poi cambiai direzione: optai per biologia, seguendo la corrente evoluzionistica. Assorbivo ogni cosa. Giocavo a fare l'avvocato del Diavolo con docenti e colleghi. Ero parte e controparte di ogni torto e ragione. E nel frattempo prendevo appunti per i miei libri. Stringevo conoscenze importanti.
    Mi laureai col 110. Presto completai anche la bozza del mio primo libro. Grazie alle conoscenze coltivate all'università e dintorni, lo pubblicai dopo solo un anno: titolo a lettere cubitali e copertina luccicante come un best seller di Stephen King. Ma al posto dei denti aguzzi di It, sulla copertina c'erano due volti fusi in uno: una metà era quella di Charles Darwin, l'altra la mia. Di base non dicevo nulla di nuovo. Il mio merito era però quello di rendere l'evoluzionismo comprensibile a chiunque. Inclusa la gente che proveniva dallo stesso mondo dal quale venivo io. Il numero delle vendite sorprese non solo me, ma anche il mio stesso editore.
    «Poi Mamma si è ammalata. Poco prima di andarsene, però, mi ha fatto un regalo: la tua bibliografia.»
    Tempo poche settimane e iniziarono ad arrivarmi gli inviti per prendere parte ai talk show. Mi ci volle un po' per abituarmi a tutta quella roba che ti impastano in faccia le truccatrici. O per imparare quali parole evitare e quali insulti invece usare fra un termine accademico e l'altro per catturare l'attenzione del pubblico, a seconda della fascia oraria. Ma non fu così difficile. Anzi ero dannatamente bravo. Tanto che l'editore mi diede un anticipo a quattro zeri sul secondo libro.
    Natasha dice: «Leggerla è stato illuminante.»
    «Illuminante, dici?»
    «Sì: mi ha aiutato a capire qual'era il mio compito. “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”, questo lo sappiamo tutti. Dio era la parola scritta. Poi le cose, però, hanno iniziato a cambiare. È arrivata l'arte, poi la Tv, Internet. Il cinema gli ha fatto indossare lo smoking bianco. Per non parlare dei televangelisti. All'inizio erano un fenomeno a stelle e strisce. Adesso si sono diffusi in tutto il mondo. Sapevi che nel Rwanda si danno lezioni di catechismo in improvvisate sale cinematografiche 3D? Dio ha smesso di essere Verbo ed è diventato linee, colori, forme. In altre parole: immagini. Nei tuoi libri parli di come ogni cambiamento ambientale influenzi gli organismi che lo abitano, a volte al punto di determinarne la natura stessa. La nostra società è cambiata. L'ambiente che ospita Dio è cambiato.»
    «Se sto capendo bene, quello che dici è che secondo te anche Dio si sta evolvendo, come un organismo biologico. È questo che intendi?»
    «Dio è in ognuno di noi. Eppure nasciamo e moriamo a migliaia ogni giorno. E lo abbiamo fatto per almeno duecentomila anni, dalla comparsa del primo Homo sapiens sapiens, giusto?»
    «I primi reperti di natura religiosa risalgono a circa settantamila anni Avanti Cristo.»
    «Ma non essere pignolo! Dettagli. Comunque non cambia nulla. Pensa a quanta gente è nata, vissuta e morta nel corso di settantamila e passa anni. E ogni volta Dio è nato, vissuto e morto con loro. In loro. Quello che voglio dire è che settantamila anni sono un fottio di tempo, abbastanza perché l'evoluzione giochi la sua parte. Dio è mutato da Verbo a Immagine. E questo è un grossissimo problema.»
    «Tu sei pazza.»
    «Non mi domandi perché è un grossissimo problema?»
    «Del tutto fuori di testa.»
    «È un grossissimo problema perché ho visto tanta gente piangere di fronte alle telecamere e nessuna nella vita reale. Riducendo tutto a mere immagini, stiamo diventando tanto superficiali da rischiare di rendere superficiale anche Dio.»
    «Stai sprecando il mio tempo.»
    «Tocca a noi salvare Dio. E così facendo forse salveremo noi stessi.»
    «Ti auguro buona vita.»
    «All'inizio anch'io pensavo di star diventando pazza. E, ti dico, alla luce dei fatti sarebbe stato anche comprensibile. Metti prima lo shock della malattia di mia madre. Poi l'illuminazione che ho ricevuto leggendo il tuo libro. Poi... poi lo shock finale, quello che Mamma mi ha dato sul letto di morte, dicendomi che tu eri mio padre.»
    «Cosa?»
    «Mamma disse che eri perso. Che avevi bisogno di me. Forse in quel momento avrei dovuto odiarla per avermi sempre mentito, facendomi credere che eri semplicemente scomparso. Ma non riuscii a provare rabbia. Disse che ogni nuovo domani è figlio del sacrificio. Tu eri stato il suo. Ma così facendo mi aveva anche tolto un padre. Un padre che adesso, però, avevo l'opportunità di riprendermi.»
    «Non può essere.»
    «Tranquillo. Io ho un piano, papà.»

    Ho mentito tanto a lungo da farne un'arte così raffinata che la gente chiede se per favore può pagare 23 euro per leggere quello che scrivo: la mia performance, quella su carta, quella sul palco.
    Se quella di Natasha è una preghiera, cos'è la mia?
    Se reciti la tua parte con abbastanza convinzione finisci col crederci, è vero. Ma ci credi solo fino a quando hai qualcuno davanti. Nel momento in cui tutto finisce, solo con un te stesso che non sai nemmeno chi cazzo sia, sei costretto a fare i conti con la rabbia, la disperazione, la solitudine: tutte emozioni esclusive. Nel senso che escludono tutto il resto. Escludono pure il piacere di goderti due minuti di meritato riposo alle tre del pomeriggio di un sabato qualsiasi. Se non è Signor Mal di Testa a bussare alla tua porta, ci pensa Signora Gastrite. E se non apri, quelli la sfondano a costo di mandarti all'ospedale, solo per sentire un medico irritato per la perdita di tempo dirti: «Dalle analisi risulta essere tutto a posto».
    E come dargli torto?
    Nessuna radiografia potrebbe mai evidenziare la verità. Che sono credente di cuore, ateo di stomaco, agnostico di testa. Un bel casino. Perché quando è uno a parlare sono gli altri a ribellarsi. Sempre a sipario chiuso. Quando nessuno vede. Ma forse il pubblico ha bisogno di credere solo ciò che vede: altrimenti diventerebbe tutto reale. E non può esserci pubblico senza show.
    Natasha è pazza.
    Questa ragazza spuntata dal nulla, che dice tante cose insensate e dice addirittura di essere mia figlia, è pazza.
    E la cosa più assurda è che una parte di me, malgrado la sua follia, vorrebbe chiederle scusa per essere stato capace di offrire al mondo solo l'accenno, e niente più, dell'uomo che sarei potuto essere. Qualcuno capace, se non altro, di sentire ancora qualcosa.

    Sono passate sei settimane dal giorno in cui ho conosciuto Natasha.
    Ho visitato il suo sito web. Ho scoperto che conta centinaia di visite al giorno. Il sito ha pure un forum. Lì, poche ore prima che avvengano, si fissano le date e i luoghi delle celebrazioni come una volta coi rave party. Natasha ha diffuso la sua Chiesa senza muri nelle piazze di tutto il mondo. Ogni evento dura solo una decina di minuti scarsi. Abbastanza, suppongo, per sfuggire all'attenzione della polizia. La gente s'incontra con il solo scopo di pregare. Pregare a modo loro, certo. Con i colori. Le forme. Le immagini. Le loro preghiere sono proprio questo: immagini. Al posto della volta della Cappella Sistina, usano le loro schiene. Al posto dei cartelloni pubblicitari, il loro petto e le loro pance e le loro gambe. Al posto dello schermo televisivo, i loro volti.
    Ho chiamato l'agente. Gli ho detto che ho bisogno di prendermi una pausa dal tour di promozione dell'ultimo libro.
    «Problemi gravi di salute?»
    «No. Cioè a parte le solite cose.»
    «E allora col cazzo, hai delle scadenze da rispettare.»
    Mi sono reso conto di avere riattaccato solo dopo averlo fatto. L'editore ha avuto la sua stessa reazione. Poi sono corso in bagno.

    Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa simile.
    La prima cosa che mi è venuta in mente è stata la frase di Natasha: “Tranquillo. Io ho un piano, papà.”
    Cristo.
    Quanto tempo era che non cacciavo il muso fuori di casa? Non lo so, ho perso il conto delle settimane. Ho tenuto il telefono staccato, il cellulare spento. Spento anche il PC. Solo la Tv accesa. Il mondo fuori. Io dentro, irraggiungibile. A questo punto il mio editore starà usando la bozza del mio ultimo libro come carta igienica, ci scommetterei l'intera discografia di Charlie Parker.
    “Ok” mi sono detto stamattina: “Forse è l'ora di ritrovare una qualche forma di dignità”. Ho ripetuto questa frase nella mia mente una ventina di volte prima di trovare le energie di alzare il culo dal divano. Mi sono piazzato davanti allo specchio del bagno. Ho tirato fuori il rasoio. La schiuma da barba. Dopo mi sono fatto un panino con le ultime cose rimaste in frigo. Ketchup, maionese e della senape che sapeva di aceto. Il pane era abbastanza duro da farmi sanguinare le gengive.
    Sono tornato in soggiorno. Ho preso il telecomando. L'ho puntato contro il televisore. Una schermata blu e poi... Cristo.
    Tutti quei corpi crocifissi, crocifissi a delle tele!
    Il giornalista diceva: «Sembra che la stessa cosa stia accadendo anche in Olanda, in Francia e negli Stati Uniti».
    Centinaia di persone in tutto il mondo stavano sacrificando la loro vita. Ma per cosa?
    “Tranquillo. Io ho un piano, papà.”
    Un piano.
    “Tocca a noi salvare Dio. E così facendo forse salveremo noi stessi.”
    E adesso eccomi qui, con addosso una canottiera, un paio di boxer e un accappatoio, che guido a centoventi all'ora con la speranza di essere ancora in tempo.
    “È un grossissimo problema perché ho visto tanta gente piangere di fronte alle telecamere e nessuna nella vita reale.”
    Quando arrivo trovo quello che mi aspettavo: il caos. Sono tornato nello stesso posto dove ho conosciuto Natasha. Ci sono giornalisti. Sirene della polizia. Ambulanze. Gente, tanta gente, troppa gente. Lascio l'auto in mezzo alla strada.
    Mi vogliono tutti bloccare. Chi di proposito, dicendo che non si può passare. Chi perché non può scostarsi, intrappolato come me nella folla. Sopra la mia testa passa un dirigibile. Lento, bianco e blu. Un enorme cetaceo che si fa beffa di noi intrappolati qui sotto. Sul fianco la scritta: NetTv.
    Una gomitata, uno spintone, un altro e inizio finalmente a intravedere qualcosa. Scorci di luce. Di colori. Blu, giallo, verde, rosso. Do un altro spintone. Un poliziotto dice qualcosa che in tutto quel baccano non capisco, ma il manganello parla da solo. La folla fa un passo indietro. È come essere respinti da un'ondata improvvisa. Ma io faccio comunque per procedere. E il poliziotto dice: «Cosa fa?» Questa volta è abbastanza vicino per sentire la sua voce, più impaurita della mia quando dico: «Devo passare, mi faccia passare, la prego». E, proprio come un'onda di ritorno, la folla questa volta spinge in avanti. Il poliziotto si dimentica di me. Ha paura di perdere il controllo della situazione. Ne approfitto per superare il nastro giallo.
    E poi li vedo.
    Vedo i corpi crocifissi alle tele, enormi canvas che erigono un terrificante muro sacrificale.
    Vedo i paramedici prestare loro soccorso. Il rumore delle sirene è così forte che mi stordisce. Il primo è un uomo, non può essere lei. Il secondo nemmeno, no. Il terzo è una ragazza, ancora cosciente. Mi guarda. Appesa da lassù mi guarda. Il suo corpo, come la tela, imbrattato di colori. Blu, giallo, verde, rosso, un rosso liquido, scuro, un rosso sangue, che cola giù dal canvas fino a terra, fino a bagnarmi i piedi.
    Cristo.
    È lei.
    Cristo.
    È Natasha.
    Urlo ai paramedici: «QUI, CAZZO, QUI».
    Mi ignorano.
    Mi avvicino a uno di loro, lo prendo per la camicia e lo trascino sull'asfalto. Lui si rialza. Fa per mollarmi un pugno. Poi capisce. Chiama i suoi colleghi.
    Appoggiano una scala contro il canvas. Uno di loro toglie i chiodi con una pinza. Lei urla: «AAAAAHHH» la prima volta. La seconda. La terza. La quarta. Urla ogni volta con meno forza. La calano giù. Il paramedico ha il volto schizzato di sangue. Mettono Natasha sulla barella.
    Mia figlia sulla barella.

    Tutto il mondo ha visto. Ha visto cosa?
    «La morte dell'Immagine.» Natasha ha la voce debole. Gli occhi cerchiati di marrone lucido come frutta avariata. Un sorriso che comunque persiste. «Ora dal sacrificio potrà evolversi qualcosa di nuovo.»
    Pazza.
    «Cosa credi che accadrà adesso?»
    Non ne ho idea.
    L'infermiera dice: «Deve riposarsi.»
    Natasha fa: «Il mondo c'è ancora?»
    Certo.
    «La gente?»
    C'è ancora anche quella.
    «Sì, ma in che modo è cambiata?»
    Non lo so.
    «Beh, giusto» dice Natasha sfottendomi: «Le vie dell'evoluzione sono infinite, giusto? Ma tutto alla fine dipenderà da quello che diverremo. Dio è un nostro riflesso.»
    «Può tornare a visitare sua figlia domani» dice l'infermiera: «Stia traquillo.»
    Stanotte pregherò senza chiedere nulla. Ma non a mani congiunte. Congiungere le mani è un po' come interpretare una parte. Come quando hai otto anni e il giorno della recita di Natale ti dicono di stare fermo, non muoverti, sorridi per le foto. No, niente più recite. Niente più show. Proverò piuttosto a farlo senza dire nulla. In fondo, non saprei nemmeno che cosa diamine dire. Nessun segno della croce, Padre Nostro e amen finale. Forse basta solo riuscire a sentire qualcosa. O almeno provarci.
    «Un nostro riflesso» ripete Natasha chiudendo gli occhi.
    Un nostro riflesso.

    Edited by RobertoBommarito - 19/3/2010, 08:45
     
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18 replies since 1/3/2010, 06:50   384 views
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