Un nuovo libro
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Un nuovo libro

di Antonino Alessandro, Fantastico, 34.000 cc

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  1. Alessanto
     
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    Ecco a Voi:

    UN NUOVO LIBRO




    Acquistai il libro in un vecchio negozio del centro, in quella piazza, dove quattro strade convergono tra palazzi nobiliari, ora sedi di assicurazioni e negozi di abbigliamento.
    Il proprietario della bottega, Matteo Amerighi, era morto da due settimane: ictus. Lo avevano trovato accasciato sulla sua scrivania di noce.
    Entrare nel suo negozio quando il poveretto era in vita, era stato sempre un piacere: ordine, silenzio, non un granello di polvere e lui che spostava mille volte anche l’oggetto più piccolo per trovarne la giusta collocazione.
    E i pezzi che riusciva a commerciare, poi!
    Sempre eccezionali per ricercatezza e conservazione.
    Capitava a volte, e quelli erano i giorni migliori, che l’anziano antiquario, scrutandomi con occhi severi, mi concedesse di dare un’occhiata ai nuovi arrivi. Di certo Amerighi sapeva già come sarebbe andata, ma non poteva resistere a mostrare le sue nuove acquisizioni a chi, come me, era in grado di coglierne il livello e la qualità. E di fatti innanzi a quei tesori raramente rimanevo indifferente.
    Dissimulavo meglio che potevo il mio interesse, anche per non dar troppa soddisfazione ad Amerighi, oltre che per non alzare il prezzo. Mi concedevo magari un sospiro o al limite un battito di ciglia un po’ più lungo ma, poi, tornavo a indossare le maschera del cliente appena incuriosito.
    Ma era un gioco di cui Amerighi era esperto: per lui anche quella finta dissimulazione era un premio.
    Era sempre difficile tirar fuori qualcosa dal negozio: raramente vendeva qualcosa a cuor leggero. Anzi sembrava che il distacco gli causasse proprio una sofferenza fisica.
    «Cosa c’è signor Amerighi, sembra che debba andare dal dentista!» avevo detto, con un sorriso, una volta. A quelle parole l’uomo aveva smesso di imbottire la scatola per riporre le due splendide lampade in stile Luigi che avevo appena acquistato e mi aveva squadrato, poi aveva scosso la testa e aveva sospirato. Aveva solo aggiunto:
    «Lei non capisce...»
    Io avevo aggrottato la fronte e avevo preso fiato per rispondere, ma proprio quando parole di fuoco stavano per colarmi fuori dalla bocca, mi ero trattenuto.
    Amerighi era ritornato alle sue cure amorevoli verso quegli oggetti che stava abbandonando.
    Quando iniziavamo le trattative, sulle prime, c’era sempre un diniego. Poi, dopo una risoluta opera di convincimento riuscivo spesso a strappare qualche buon articolo.
    Ma mai a un prezzo economico, sia chiaro.
    Quella mattina passai davanti la vetrina del negozio e scorsi la saracinesca alzata. Sbirciai all’interno sorprendendomi a sperare di vedere il signor Amerighi, seduto alla scrivania di noce, che analizzava da dietro una lente d’ingrandimento, uno dei suoi pezzi.
    All’interno del negozio, incorniciato dagli oggetti in vetrina, scorsi un uomo seduto al posto del vecchio proprietario. Incurante delle opere d’arte attorno a lui si mostrava in tutta la sua volgarità: orologio di marca sul polsino della camicia, telefonino all’orecchio e voce troppo alta.
    Molesto come il suono delle unghia su una lavagna, l’età coincideva: doveva essere il nipote del signor Amerighi.
    Una volta, complice uno splendido servizio da tè dell’800 inglese, mi aveva accennato a “quel simulacro di essere umano” che era il nipote. Per questo aveva lasciato un testamento rendendo la madre dell’omuncolo sua erede universale col vincolo che “mai nulla di ciò che è mio dovrà andare a mio nipote Attilio. Pena la decadenza dell’eredità e l’assegnazione dei cespiti ai Beni Culturali delle Regione Toscana”.
    Non occorreva compiere alcuno sforzo di immaginazione per intuire che la morte dello zio per “il simulacro di essere umano” era ben lungi dall’essere un tragedia.
    Un’altra occhiata all’interno e vidi alcune persone che, tra gli scaffali, maneggiavano, come oggetti sui banchetti di un mercatino rionale, i tesori del negozio mentre sullo sfondo dei facchini riempivano alcuni scatoloni.
    Per un nipote impegnato in chissà quali importanti affari, fare un po’ di soldi svendendo la merce in negozio a prezzi d’occasione e liberarsi suo puzzo di stantio doveva apparire la cosa più sensata.
    Ripensai, allora, a ciò che era successo pochi giorni prima della morte del signor Amerighi.

    ***


    Non appena mi vide entrare, l’ometto fece una smorfia; sapeva che uno dei suoi tesori lo stava per lasciare.
    Ancora una volta non rimasi deluso, dopo pochi minuti dal mio ingresso aveva messo in mostra i suoi ultimi arrivi.
    «E per la mia collezione di libri? Cosa c’è di nuovo?»
    «Non ho nulla di interessante. Sa come va di questi tempi... La settimana prossima forse...» mi aveva detto evasivo mentre copriva un libro sulla scrivania con alcuni fogli.
    Fingendomi soddisfatto della risposta feci finta di nulla ma, poi, sfruttando una telefonata spostai la carta.
    Pochi secondi mi furono sufficienti per capire di cosa si trattasse: “Le Confessioni di Agostino D’Ipponia” illustrato da Emilio da Niesky.
    «Signor Amerighi, lei mi offende. Ma come? Possiede un tesoro così e... L’ha già promesso a qualcuno, vero?»
    «Non è in vendita», disse con un gesto secco della mano.
    Iniziò un tira e molla davvero spiacevole. In quell’occasione, tuttavia, non era la solita schermaglia figlia della diffidenza; percepii qualcosa di diverso.
    Tra gli scaffali colmi di oggetti mentre il telefono squillava ignorato, l’uomo rimase fermo nella sua determinazione. Continuai a insistere mantenendomi al limite della cafoneria, fino a quando prendendo il libro dal tavolo e puntandomi contro il dito disse:
    «Altri prima di lei l’hanno chiesto e ho sempre rifiutato. Non è in vendita né mai lo sarà. Anzi la invito, per il futuro, a non chiedermelo più né tanto meno ad aprirlo. Se adesso vuole accomodarsi, gliene sarei grato.»
    Amerighi mi voltò le spalle e si rintanò dietro la porta dalla quale, in più di un’occasione, era uscito con i pezzi più pregiati.
    Rimasi esterrefatto: il mio piglio deciso inutile come ali di cartone attaccate a un cane e parole di fuoco pronte a uscire taglienti come lame.
    Osservai la porta che si chiudeva.
    «Non credo che metterò più piede in questo posto!», dissi ad alta voce.
    «Pazienza!», esclamò Amerighi, la voce ovattata dal legno.
    Sbuffai e, seccato, ribattei:
    «Arrivederci!», dissi varcando la soglia del negozio.
    «Addio!» mi rispose con sollecitudine l’uomo.
    Allora non riconobbi di aver esagerato: quella fu l’ultima volta che lo vidi.

    ***


    Cosciente delle mie colpe ma incuriosito dalle azioni del nipote di Amerighi, entrai.
    Il solo pensiero che un cafone qualsiasi entrasse in possesso di quello splendore mi dava una vertigine di nausea; a quel punto l’idea di mentire non mi sembrò poi tanto malvagia.
    Andai diritto dal nipote.
    «Salve, sono Raffaele Milani. Ero amico e cliente di suo zio» dissi.
    L’uomo non si alzò nemmeno, rimase stravaccato sulla poltroncina di pelle marrone, mi premiò solo un gesto molle della testa e un grazie biascicato.
    «Eh, sì, una grossa perdita! Sono Attilio, il nipote.»
    Ci stringemmo la mano, quando mollai la presa, con noncuranza infilai la mano in tasca e la strofinai sulla stoffa satinata.
    Mi guardai intorno: «Vedo che state dismettendo il negozio.»
    «Sì, a malincuore la mia famiglia dovrà separarsi da questi tesori» esclamò l’uomo prendendo il telefonino e dando un’occhiata al display.
    Ancora una volta scorsi gli scaffali mentre alcuni clienti si muovevano silenziosi.
    «Come posso aiutarla signor Milani?» chiese l’uomo appoggiando il telefonino sulla scrivania.
    «C’era un pezzo a cui ero interessato», dissi.
    «Ah...»
    «Ehm... sì. Peraltro avevo già preso accordi con suo zio.»
    «Anche sul prezzo?», chiese
    «Sì, anche il prezzo. Per cui…»
    «Cos’era?», chiese, un sorriso finto stampato sul volto.
    «Un libro», risposi.
    «Spero che sia ancora disponibile; sa in questi giorni in molti ne hanno acquistati…» disse Attilio Amerighi triste, gli angoli della bocca all’ingiù mi ricordò la maschera greca della Tragedia.
    «No, non credo. Guardi: eccolo!» dissi indicando una pila di una decina di libri appoggiata su un mobile basso accanto la scrivania.
    «Ah, quelli! Credo che fossero i libri a cui mio zio teneva di più...» ribatté l’uomo con un sorriso viscido.
    Rimasi in silenzio.
    «Avevate deciso anche il prezzo, mi diceva...» continuò, meditabondo.
    Era chiaro dove volesse andare a parare. Adesso penso che se fosse stato qualcos’altro avrei desistito, ma ormai mi ero spinto troppo oltre. Parlai con non curanza miscelata a un po’ di tristezza simulata, ma i miei occhi puntati sui suoi.
    «Spero proprio che non ci siano problemi. È un testo a cui terrei molto. Credo che anche i Beni Culturali fossero interessati»
    Oltre la menzogna, anche il ricatto.
    L’uomo impallidì e mi scrutò come a volermi leggere nel pensiero.
    La domanda “Sa tutto?” gli si leggeva in fronte, anche meglio di un cartello appeso al collo.
    Attilio tossì. Io rimasi in silenzio.
    A quel punto non mi ci volle molto: un paio di rialzi sul prezzo, una frase di velata minaccia e ottenni ciò che desideravo.

    ***


    Sistemai il manoscritto su un leggio sotto due faretti quindi mi versai una generosa quantità di brandy. Indossai i guanti di lattice e lo aprì con tutta la cautela che meritava.
    Fin dalla prima pagina rimasi senza parole: lo splendore delle miniature, la perfetta conservazione dei colori e della cassa lignea. Tutto concorreva a renderlo un’opera d’arte.
    Proseguii a sfogliarlo con avidità, ne sfioravo le pagine, leggevo spezzoni di pensieri, lo accarezzavo impaziente girando una pagina dopo l’altra e divorandolo parola dopo parola.
    La notte, scandita dal ticchettio della pendola Luigi XIV proseguiva, incurante della mia eccitazione. Dentro di me non un’ombra di fatica, non una traccia di stanchezza. Come uno strumento accordato al massimo mi beavo solo del piacere della mia conquista, premio alla bassezza.
    Scorrevo le pagine deliziandomi delle immagini e del tratto: preciso e senza sbavature. Quelle parole scure, nette come incise sulla pietra figlie di un passato dove preservare la conoscenza era scopo di vite intere, mi erano pervenute intatte, irremovibili nella loro determinazione di rimanere sempre uguali.
    Ancora in preda alla mia esaltazione colsi due parole catturano la mia curiosità:
    «Voluptas feminae?» dissi tra le labbra.
    Pensieroso lessi qualche rigo ad alta voce:
    «Quindi il piacere femminile è come specchio della benevolenza di Dio e la voluttà è come lo strumento dell’artigiano. L’illuminazione divina per orientare la vita dell’uomo e del fedele può arrivare anche da lì. Si badi bene tuttavia: ciò è facile da confondersi con il piacere fisico fine a sé stesso, per il quale rimane ferrea la nostra condanna...»
    Ebbi il tempo di formulare un pensiero - Come poteva Sant'Agostino scrivere queste cose con tale leggerezza? - che nella penombra della stanza, udii un lamento.
    Fu allora che conobbi Emilio.
    Una voce incorporea incrinata dal dolore, recante un’amarezza che stillava come sudore dalla schiena di un contadino.
    «Per favore... smetti di leggere, ti prego», disse con un lamento.
    Atterrito avevo fatto un balzo allontanandomi dal leggio, la mani sudate e una sensazione di vuoto dentro.
    «Non aver paura... Non sono cattivo. Metti, però, un freno alla tua smania di conoscenza. Non compiere il mio stesso errore», continuò.
    Col respiro mozzato dall’adrenalina e la nausea figlia della paura ebbi la forza di domandare: «Chi sei?»
    «Sono Emilio da Niesky.»
    «Sei un fantasma?», chiesi con ingenuità; la voce usciva dalla mia gola strozzata con un’intonazione roca. Mi meraviglio ancora, a distanza di tempo, della mia freddezza.
    «Non so cosa sono diventato. Né a chi devo il mio stato. Ma di certo le mie azioni non saranno per il male. Lascia che ti racconti la mia storia. Forse, infine, avrai la forza di abbandonare il cammino di perdizione che hai intrapreso. Dio ci ha dato il libero arbitrio, ma è compito di chi può agire per il bene. E io, incatenato in questa essenza che non comprendo, prigioniero di un futuro eterno posso indicarti la strada da percorrere. Anche per rendermi un servigio; un gesto di misericordia»
    Quindi mi raccontò la sua storia: una storia di amore, azioni perverse e dannazione.

    ***


    La voce incorporea si trasformò in una figura traslucida che apparve nell’angolo più lontano della stanza: Emilio aveva deciso di mostrarsi. Il cappuccio calato sul volto e il saio marrone; notai che mi era possibile guardagli attraverso, sembrava una nebbia che vorticava leggera creando le fattezze di un uomo.
    Si scoprì il viso.
    Distinsi il profilo deciso dal naso aquilino e un fisico massiccio. Gli occhi erano nascosti dall’ombra delle sopracciglia sporgenti, la barba discreta spruzzata di bianco.
    Con voce ferma proseguì.
    «Amo i libri: questa è la mia colpa» disse.
    Poi il tempo di un sospiro e riprese a parlare:
    «Desideravo toccarne la rilegatura ruvida, deliziarmi dei colori e della precisione delle miniature, dilettarmi dell’odore della pergamena appena lisciata: da quella mattina nevosa di gennaio, nel monastero di Lipsia avevo scoperto cosa volevo fare della mia vita.
    Ero il figlio cadetto di una ricca famiglia e avevo preso i voti.
    Di indole mansueta e per nulla predisposta ad azioni dissolute, il futuro scelto da mio padre mi si confaceva.
    Quel giorno l’abate aveva acconsentito alla mia visita presso quell’opificio di scienza incastonato, come una pietra preziosa in un monile, all’interno dell’abbazia: lo scriptorum.
    Ero poco più di un bambino eppure intuii la forza di quel luogo.»

    A quel punto attorno a me si formarono le immagini dapprima vaporose ed evanescenti, dopo più consistenti. Come in un film si plasmarono oggetti, persone, odori e sapori. Non mi trovavo più nel mio studio, ma in un ambiente più grande colmo di tavoli e monaci seduti sugli sgabelli. Anche la voce di Emilio sembrava sparita, al suo posto un’eco cantilenante che mi cullava portandomi lontano dalla mia consapevolezza.
    Percepii il silenzio interrotto dal grattare dei pennini sulla pergamena, le mensole con impilati decine di fogli, le boccette degli inchiostri colorati ordinate in fila e la luce invernale che illuminava gli scrittoi di legno, disposti in file come soldati. L’odore di carta pecora e di cuoio uniti alle esalazioni dell’olio delle lanterne mi catturarono rendendo totale la mia immersione in quella realtà passata.
    Vidi un monaco, enorme, la barba lunga, l’incedere deciso, i sandali che cigolavano sulla pietra del pavimento. Accanto a lui un bambino, gli occhi vispi e neri, i capelli rasati; si guardava intorno incantato dai libri accatastati e di ogni dimensione: da libretti sottili come un dito a grossi tomi dalle rilegature massicce, tanto pesanti da non poter essere sollevati da una sola persona.
    Su un pulpito, in fondo alla sala un monaco recitava le orazioni della Terza a cui gli amanuensi rispondevano appena.
    Non un colpo di tosse, non un rumore; solo preghiere e respiri trattenuti, come se gli stessi confratelli non volessero rovinare il momento di grazia.
    «Qui, mio caro ragazzo, conserviamo con amorosa benevolenza la sapienza. Finché un benedettino avrà il suo calamaio, la sua penna d’oca e la vita che nostro Signore gli ha donato, nessuna opera non invisa a Dio rischierà di cadere nell’oblio» disse l’abate al bambino che trotterellando faceva fatica a stargli dietro.
    Fece una pausa, poi, continuò con voce baritonale che tra la barba monumentale; bisbigliava eppure la sua voce aveva la consistenza della pietra.
    «Questo se Dio vorrà, sarà il tuo futuro», completò
    A quel punto la voce sfumò, così come lo scriptorum e tutto quanto.
    Ancora una volta una volta era Emilio, riapparso a pochi metri da me a parlare: «Allora non compresi quelle parole; osservai la scena cullandomi nel calore dei bracieri di ferro tra i benedettini arrampicati sugli sgabelli. Come accolti in quell’ambiente rassicurante, ricopiavano i preziosi manoscritti a loro affidati.»
    Inghiottii, terrorizzato anche solo per proferire una sillaba.
    Non era Emilio a spaventarmi, quanto la paura che un mio intervento potesse far sparire quelle visioni da sogno, che il mio cervello stava accettando, passivo ma risoluto nella volontà di sapere.
    La figura proseguì il suo racconto.

    ***


    «Imparai l’arte del miniare e della traduzione dal latino e dal greco. In appena dieci anni divenni il miglior copista dell’abbazia: sul mio tavolo, sempre illuminato dal sole, erano riposti affidati alla mie cure opere di ogni genere: filosofi greci e latini, pensatori cristiani, scienziati pagani e persino studiosi arabi»
    In quelle frasi riconobbi un’intonazione di orgoglio, mi mossi nella sedia, nervoso. Emilio aveva parlato di brama di conoscenza, sembrava che rievocare la sua bravura riaccendesse in lui un sentimento che aveva, a parole, condannato.
    «Ricercare la giusta miscela di colore e le notti a riflettere su come rappresentare le scene dei libri erano i miei pensieri diurni e notturni: non lesinavo né energia né tempo, sempre alla ricerca della perfezione la cui necessità cresceva dentro di me come un male che si fa strada nel corpo di un malato.»
    Ancora una volta fui circondato dalla coltre nebbiosa, le pareti, i mobili il soffitto sparirono, al loro posto un chiostro dalle colonne tortili allineate come soldati. Percepii il rumore d’acqua; una fontana stava apparendo al centro dello spazio che era stato il mio studio.
    Vidi tre monaci; due erano seduti sul bordo della fontana l’altro in piedi parlava muovendo le braccia. Sembravano impermeabili al calore gradevole del sole primaverile.
    La figura in piedi era Emilio. Ma un Emilio più giovane, eppure più vecchio. Segnato nel corpo dalla magrezza, le braccia ossute che scampanellavano all’interno delle maniche troppo larghe. Il suono della sua voce si fece presente anche se riconobbi in essa una fatica immane nel venir fuori.
    «Fratelli, vi sbagliate!», disse Emilio.
    I due si guardarono e scuoterono la testa.
    «Non si può ricopiare trattando le parole come disegni e le frasi come paesaggio. Fratelli miei, occorre ricopiare comprendendo ciò che vi è scritto sul testo! Avere la mano ferma è un dono che Iddio ci ha dato, ma solo quella non basta!», esclamò col fiatone.
    Lo osservarono ma non aggiunsero nulla. Emilio raccolse un fazzoletto da dentro la manica e si asciugò la bocca che nell’impeto della discussione aveva gli angoli sporchi di saliva.
    Imperterrito riprese:
    «Un libro non è una mera sequenza di caratteri e disegni, ma una insieme di contenuto, vigoria dei materiali, precisione della traduzione e bellezza delle immagini...»
    Il più anziano dei confratelli prese la parola, la barba gli toccava la pancia prominente:
    «Caro Emilio, le tue frasi colme di livore e mal si confanno alla mitezza della tua anima. Sta’ scritto che la conoscenza fine a sé stessa o perseguita con bramosia è figlia del Demonio. Solo Dio conosce tutto e ciò che non ci è chiaro e non è dato conoscere non è mancanza del cristiano. Dio ha deciso ciò che l’uomo deve conoscere. Di più non deve essere domandato.»
    L’altro monaco aggiunse:
    «Fratello Remigio dice giusto. Emilio, fratello mio, non lasciare che la tua voglia di conoscere ti allontani...»
    «Solo io sono, quindi, cosciente del mio compito. Pregnato dalla certezza nel conoscere la vera essenza di noi benedettini?» disse Emilio piano.
    «Emilio! Ma che stai dicendo?», disse il monaco più giovane.
    A quel punto il monaco anziano gli scoccò un’occhiata dura e alzò, in un gesto deciso la mano, il palmo verso Emilio.
    «Voglio sperare, caro fratello, di aver mal interpretato le tue parole! Tant’è che esse risultano molto vicine alla bestemmia e per queste non possono essere state proferite da un servo di Dio!»
    Emilio piegò il collo in un inchino freddo.
    «Vogliate scusarmi, fratelli miei», disse.
    «La stanchezza di questi ultimi giorni sta tormentando il mio corpo oltre che la mia anima. Vi prego di perdonare la mia pochezza. Farò ammenda entro il calar del sole per la mia arroganza», concluse il monaco.
    La nebbia si dissolse e mi ritrovai di nuovo nel mio studio. Solo un leggero odore di erba appena tagliata mi arrivò alle orecchie prima che tutto scomparisse.
    La figura eterea riapparve e si mosse verso il centro della stanza.
    «Hai visto quanto arroganza? Quanta presunzione? Persino i miei fratelli non…»
    Sentii il tono mesto trasformarsi in singhiozzo lacrimevole. Riprese dopo pochi istanti.
    «Passavo il mio tempo a scrivere, disegnare e tradurre, e nient’altro mi importava. Ricopiavo finché le mani non mi dolevano e gli occhi non lacrimavano per lo sforzo. Hai visto come il mio fisico risentiva dei rigori di quella disciplina autoinflitta? Ero sull’orlo del burrone ma non me ne rendevo conto.
    Non mi importava di nulla: ero alla perenne ricerca della perfezione mentre nella mia mente si agitavano i fantasmi dell’inadeguatezza.»

    La voce fece una pausa.
    Rabbrividii al pensiero di quelle braccia scheletriche e ai suoi occhi che fissavano i confratelli mentre, in un gesto di penitenza, chiedeva scusa per le parole inappropriate. Sembrava così diverso da come lo percepivo adesso. Misurato, o forse rassegnato? Pentito di certo, ma sempre con un’ombra di voglia di rivalsa.
    Emilio era stato - e lo era ancora - un uomo fiero e convinto della sua forza interiore. Con uno scopo irremovibile che adesso non lo aveva abbandonato del tutto, ma un amore viscerale, potente, verso i libri.

    ***


    Mi voltai verso il leggio, il libro era lì immobile e perfetto.
    «Smettila di concupirlo! Potrebbe essere la tua dannazione!» esclamò la voce.
    L’entità apparve frapponendosi tra me e l’oggetto; il viso a pochi centimetri dal mio, gli occhi scuri sui miei.
    Ebbi paura; scorsi il calore dell’inferno, sentii il brivido freddo del dolore e percepii la rabbia di quell’essere incorporeo. Durò il tempo di un pensiero ma quell’aggressione , quel vorticare di sensazioni altalenanti mi piego:
    «B-Basta... Ti prego!», ansimai mentre calde gocce di sudore mi scivolavano tra i capelli. Vergognandomi come un ladro e impaurito come un gatto randagio distolsi lo sguardo; tornai a fissare l’angolo della stanza nel quale sembrava provenire la voce dell’entità.
    Come riavendosi da un momento di riflessione Emilio riprese il suo racconto: della rabbia di poco prima non c’era più traccia.
    «La mia dedizione malsana non passò inosservata; la maestria nella scrittura, la cultura fuori dal comune e la voglia di sacrificio furono interpretati come consacrazione alla causa. Accadde così che il mio nome fosse proposto all’abate dopo la morte dell’aiuto bibliotecario.
    Invece di allontanarmi da quel morbo i miei confratelli mi spinsero ancora più nel baratro. Come aiuto bibliotecario avrei avuto accesso a tutte le sezioni della biblioteca. Comprese quelle più inopportune.
    Mi recai nella biblioteca non appena ne strinsi le chiavi nel pugno.»

    La nebbia circondò la stanza, questa volta furono gli odori la prima cosa a trasportarmi lontano: stantio, muffa, polvere, cera sciolta, inchiostro, olio per lanterne. Tornai al passato. Intorno solo buio e rumore di sandali sulla pietra, un gocciolio d’acqua, un leggero sferragliare di chiavi. Poi una luminescenza dall’angolo opposto e Emilio con in mano una lanterna. Si muoveva nervoso, quasi febbricitante, tra le librerie e gli scaffali.
    Lo vidi afferrare un volume: appena il tempo di scorgere alla luce tremante della fiamma qualche pagina e di compiere un sospiro, che la sua attenzione venne attratta da un altro libro. Ancora occhi sgranati e un sospiro.
    Le librerie torreggiavano su di noi come montagne di sapere in quello che doveva essere un vero bastione cristiano della conoscenza.
    Emilio si sedette a una scrivania alla spenta luce della lanterna tra le ombre lugubri create dal mobilio. Sfogliò alcune pagine, il dito ossuto correva leggero sulle pagine in linee parallele, le labbra irrefrenabili si muovevano appena come a recitare preghiere.
    «Perché preservare dall’oblio solo le opere non invise a Dio? Perché opere di mirabile ingegno dovevano rimanere precluse agli occhi degli studiosi? Dio di certo non ne avrebbe permesso la creazione per renderle inaccessibili», sussurrò voltano una pagina dai disegni splendenti e dai colori vivaci.
    La voce del monaco si diffuse nel silenzio rimbalzando tra il legno degli scaffali e il cuoio delle rilegature.
    Mentre Emilio proseguiva le lettura l’apparizione svanì, facendo ripiombare nella mia solitudine tra le mie pareti tristi, mille dubbi nella mente e una curiosità che mi attanagliava il cervello.
    Nel cuore della notte, guardavo il vuoto con innanzi un libro appoggiato su un leggio mentre il freddo notturno mi faceva rabbrividire e la voce di Emilio mi rimbombava nella testa.
    Pensai di essere impazzito.
    Solo in quel momento quando l’entità aveva iniziato il racconto e le ore si erano sommate alle ore, ebbi coscienza di me: stavo ascoltando - con le orecchie? Con la mente? Con l’anima? - una voce tra l’infinità che abitavano l’inferno, scoprivo il passato che scene di un film. Stavo scoprendo la vita di un uomo deceduto in peccato mortale e condannato alla sofferenza; una testimonianza formidabile dell’aldilà e di quello che, dopo la morte, aspetta ogni uomo.
    Uno sguardo fugace al libro: splendido come appena scritto, gli ammiccava alla luce soffusa della stanza.
    «Hai visto? Fu in quel momento che completai il mio percorso: Dio mi diede la forza di compiere quel meraviglioso accadimento chiamato il passo della Fede. Se i confratelli avessero visto la bestia che si faceva strada nell’anima. Se avessero compreso la smania che mi muoveva, ora non sarei qui e la mia anima riposerebbe.
    E invece questo non accadde: insieme ai testi canonici iniziai a ricopiare anche quelli proibiti, prendendoli di nascosto dalla biblioteca. Rischiai più di una volta che l’abate scoprisse sul tavolo, accanto al mio Seneca, un libro sull’alchimia o sui metodi per rendere più lunga l’estasi del coito.
    Mi dominava solo la sete di conoscenza.
    Se mi avesse scoperto la mia vita sarebbe stata decisa dai Domenico di Guzmàn e la Santa Inquisizione. Il Braccio Secolare mi avrebbe preso in consegna e avrebbe chiamato “Adoratore del demonio” »

    Emilio si fece una pausa, il ticchettio dell’orologio coprì un sospiro.
    «Un eretico? Io? Forse l’unico benedettino a cogliere in pieno il compito che Dio gli aveva affidato?
    Ogni giorno pregavo Dio affinché non mi facesse mai dubitare e mi desse la forza per poter compiere la mia missione. E mai Lui mi ha abbandonato. “Io mio lavoro è per lui cosa lieta”, pensavo. Ma mi sbagliavo: ricordo di stare recitando l’ennesimo Pater Noster mentre mi aggiravo tra gli scaffali della biblioteca la notte del 27 gennaio del 1225.
    «Mi muovevo da un corridoio e l’altro nel settore egiziano, esaminandone i testi e accertandomi del loro stato di conservazione quando, tra quei codici ove venivano enumerate le dinastie dell’antico regno del Nilo e si tramandavano le gesta di architetti che avevano edificato monumenti eterni, un libro sottile attirò la mia attenzione.»

    Lo aprii come d’abitudine facevo per ogni libro che avevo tra le mani, e nonostante fossi un uomo abituato a studiare le nozioni più sconvenienti, ciò che lessi ebbe la forza di scuotermi nell’animo.»
    «E quel parlava di...?» chiesi curioso.
    «Sciocco! Io ti sto raccontando la mia storia affinché tu possa trarre insegnamento dalle mie disgrazie. Non ti dirò di cosa parlava il libro giacché tu dovresti già saperlo...» rispose la voce irata.
    Mi sentii davvero uno sciocco.
    «Ti chiedo scusa. Per favore continua» lo invitai memore del furore di poco prima.
    Emilio continuò:
    «La notte stessa iniziai a ricopiare il manoscritto, utilizzando tutta la mia maestria riversai su quelle pagine anni di abilità e conoscenza. Non una parola o un colore errati, non una sbavatura, quella fu la volta che volevo, davvero, creare qualcosa di unico. Dio mi aveva premiato con quel libro. Argomenti agli occhi di molti sconvenienti ma meritevoli, proprio per questo, di maggior cura rispetto a quelli recanti materie meno complesse: mi sentivo come se Dio mi stesse parlando, facendo di me un suo strumento di creazione.
    «Con le mani rattrappite dal freddo, gli occhi iniettati di sangue, smagrito dalla fatica e la barba incolta mi ero richiuso nel mio mondo dal quale nessuno poteva separarmi.
    I miei fratelli continuarono a ignorare il germe che era sbocciato dentro di me e che stava crescendo tenace come l’edera e infestante come l’albero dell’amarena.
    In meno di due settimane, immerso nella follia, completai la mia opera.
    Ecco cosa accadde dopo quanto la bellezza dell’opera unita al turbamento della lettura mi spinsero nel baratro...»
    disse mentre la scena cambiava per l’ultima volta.

    ***


    Vidi Emilio seduto a una scrivania, ancora librerie colme di manoscritti, cumuli di libri e boccette di inchiostro colorato che, dalle mensole, punteggiavano le pareti. Una luce pallida dalla luna illuminava il letto dove le coperta di lana pesante prometteva solo calore e nient’altro.
    Il monaco raccolse da una secchiello di rame un pugno di pomice; con movimenti lenti, misurati la strofinò sul manoscritto. Un sorriso solcò il viso scavato mentre rimirava il prodotto delle sue fatiche.
    Diede un’occhiata al quaderno di appunti che, diventato inutile, era in bilico sul bordo del ripiano di legno scuro.
    Chiuse il volume con un tonfo di soddisfazione e analizzò la copertina e il dorso; se lo rigirò tra la mano più e più volte, quindi lo riaprì. Con sguardo critico ammirò le pagine, gli occhi liquidi, il respiro mozzato.
    Emilio sussultò, poi scosse la testa, come ad allontanare un pensiero indesiderato.
    Guardò il soffitto.
    Con movimenti febbrili, nervosi, toccò il libro, poi si sfiorò il petto. Rivolse gli occhi verso la luna, il respiro superficiale e agitato.
    Chiuse gli occhi e scosse di nuovo la testa.
    «No!» bisbigliò con voce cavernosa.
    Si inginocchiò, il libro sorretto nell’incavo del gomito.
    «N-N-No!», sospirò.
    Poi fu come se la schiena scattasse comandata da un filo invisibile; si mise in piedi. Col respiro spezzato, scattò e, in un’estasi mistica guardando la luna, si sfilò il saio.
    Il corpo ossuto e glabro ammicco alla luminescenza eterea della luna, il membro eretto da un ciuffo di peli neri e ricci.
    Si portò sul letto, afferrò la coperta e la trascinò sul pavimento.
    «No, non posso!» bisbigliò tirandosi indietro ma la sua indecisione durò pochi istanti.
    Appoggiò il libro sul lenzuolo candido e lì, con pochi e rapidi movimenti profanò l’oggetto come solo un uomo può fare, aspergendolo di seme che in zampilli chiari fuoriuscivano incontrollati dal suo corpo.
    Quando l’estasi del piacere si estinse Emilio vuoto e tremante, col fiato spezzato dall’ebbrezza, raccolse la mano per rivestirsi.
    «Emilio, cosa hai fatto?»
    La voce si sparse nello spazio nebbioso che occupava la scena; il mio cuore saltò un battito.
    Emilio si guardò intorno; non sembrava esserci nessuno. Con movimenti svelti ma impacciati cerco di ricomporsi.
    «Chi è?», disse tremante.
    «Mi hai invocato tanto volte nelle tue preghiere e adesso non mi riconosci...»
    «Signore? Sei tu?»
    «Sì», rispose la voce.
    Emilio cadde in ginocchio:
    «Ti prego, Signore. Perdonami!»
    Mi voltai verso l’angolo buio alla mia destra; uscendo dallo spazio tra due librerie – uno spazio che notai però troppo angusto per poterlo contenere – si fece avanti un bambino. Vestito di stracci, aveva i piedi nudi martoriati da ferite. I capelli neri, il viso rotondo e gli occhi duri; scrutò Emilio che accasciato sul letto bisbigliava parole di perdono.
    Le labbra del bambino rimasero immobili ma la voce maschile e piena mi colpì di nuovo.
    «No.»
    Quella sillaba risuonò nell’ambiente rimbalzando tra i muri come le campane a morto.
    Vidi il bambino, forse marionetta dell’eterno o magari, solo, messaggero del demonio tendere un braccio come una lancia. Dalla mano chiusa, anch’essa gocciolante di sangue della crocifissione, spiccò un dito sottile. Come uno stilo quell’estremità indicò Emilio.
    «Il tuo peccato è grande e non merita perdono», disse la voce; ancora una volta le labbra del bambino rimasero immobili.
    «Signore. Ma...», bofonchiò Emilio.
    «Cosa ti aspettavi? Il Dio misericordioso? Il Dio che perdona i peccati, qualunque essi siano? Ebbene, così non è. Tu insieme agli altri volete credere a qualcosa che non esiste. Cullandovi nella speranza che ogni azione e ogni peccato siano sempre rimediabili. Ma il vero Dio è cosa ben diversa.»
    Emilio osservò l’apparizione; gli occhi troppo aperti e la bocca spalancata.
    «Il Diavolo... Tu sei il Demonio», gridò Emilio, facendosi il segno della croce.
    A quel punto iniziò a pregare:
    «Ti prego, Padre nostro che sei nei cieli, salvami dal male. La Bestia vuole la mia anima. Aiutami a resistere, perdonami per i peccati e liberami dal Male. Signore Mio nella tua immensa gloria scaccia il Demonio che mi confonde...»
    Il bambino lo fissò, mentre la voce di Emilio, impastata di lacrime continuava la sua litania fatta di farfugliamenti intercalati ogni tanti dalla parole “Prego” e “Dio”.
    «Emilio, queste invocazioni sono inutili. Il Dio in cui tu credi non ti ascolta perché non c’è»
    «No, non è vero: Dio è buono e misericordioso. Tu sei il Diavolo! Tu mi hai fatto trovare questo libro. Mio Signo...»
    «Adesso basta!» disse la voce perentoria.
    «Ecco la punizione per il tuo agire perverso: quel libro che ti ha fatto diventare simile all’animale diventerà la tua dimora. Finché lui esisterà tu esisterai perdurando nel rimorso. Racconterai la tua storia a chi, mosso da una smania simile alla tua, non potrà fare a meno di leggerlo. A quel punto sarà ciò che vuole il lettore. Vorrà egli essere uno strumento di Dio o del Demonio?»
    «Ti prego...»
    Non appena completò la frase, vidi Emilio sollevarsi dal suolo e come un cencio strizzato da una lavandaia, in un vortice multicolori fu proiettato verso la copertina del libro, che sul letto, umido lo aspettava.
    L’implorazione di Emilio si sparse nella nebbia in un’eco distorta, poi ritornai nel mio studio; una coltre muschiosa di paura e dolore aleggiava in quello spazio confinato, in quel mondo esterno insensibile a ciò che Emilio aveva vissuto.

    ***


    «Adesso anche tu conosci la mia storia. Passando di mano in mano, di epoca in epoca, il libro che possiedi mi incarcera tra le sue pagine, rinnovando in eterno il dolore e il peccato», disse Emilio.
    «Ma...»
    «Lasciami andare. Distruggilo, e te ne sarò grato per l’eternità.»
    «Ma di te? Cosa sarà?» chiesi indeciso.
    «Non curartene: voglio che il mio tempo finisca. Aiutami, ti prego.»
    La voce di Emilio si era fatta lamentosa; la dolenza del monaco mi arrivava come una lama sottile fin dentro l’anima.
    «Ti prego...» mi implorò di nuovo. «A me è permesso solo raccontare. “Sarà ciò che vuole il lettore” ecco cosa l’entità ha detto. Non posso far nulla per intervenire: libero arbitrio.»
    Null’altro c’era da aggiungere.
    Aprii il cassetto della scrivania.
    Due scintille bianche prima che la fiamma azzurrina danzasse vicino un angolo del libro.
    Alzai gli occhi per qualche secondo poi, con uno scatto, chiusi l’accendino che emise con un click soddisfatto.
    Appoggiai il libro.
    Mentre ammiravo di nuovo l’opera d’arte silenziosa, illuminata dai raggi sottili dell’alba sentii Emilio piangere.

    Edited by Alessanto - 1/3/2010, 19:20
     
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