Del delirio di una notte di mezzo… più o meno, da quelle parti

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. nescitgalatea
     
    .

    User deleted




    Ecco dove dovresti essere. E dove sei.
    In un piccolo sistema integrato con tanto di suppellettili sugli scaffali e buchi nel muro. Uno per ogni passo passato. Per ogni sogno appannato. Per ogni desiderio appagato.
    Stai lì, da ore, davanti alla luce opaca di un poco definito congegno elettronico a pensare, rattoppare, sequestrare sensazioni e parole. Sarebbe indubbiamente stato meglio occupare un appartamento appena parcheggiato in un parcheggio. Un piccolo appartamento di quattro ruote, con vista mare in tempesta, una squadra trapezoidale a misurare dieci nuvole scure che ti scavano il petto e il vento raggiante a scompigliare quel vulcano di capelli che ti ricopre la testa. Invece no!
    Stai lì, tra buchi e suppellettili – che ognuno è una stilettata nello stomaco – a dire di qualcosa che ancora non sai, pianificare l’imponderabile, ricercare la percezione marcata di un pensare sacrosanto,ç ma forse abusato. Che già di brutte scritte se ne vedono troppe.
    Stai lì, ma prima eri di là. Ferma e solida sulle certezze che avevi ingoiato a forza, un mattino in cui la fame ti aveva dato i crampi allo stomaco e avevi infilato in bocca la prima cosa che ti era capitata a tiro. Appunto qualche manciata di evidenze e due litri di caffè, giù, di getto. È perché non ti tracci mai. L’arte dell’incisione non ti appaga, nessun bulino per quanto affilato e conficcante, tu devi aprire, introdurre, infilare, configgere fino a toccare l’osso, solcarlo, metterci la firma.
    Eri di là che parevi una statua, tanto ti eri esercitata. E quasi quasi ci credevi pure tu. Intendo… di avercela fatta. Ogni singolo lembo di pelle analizzato, sezionato e squadrato q.b. che pareva rassicurante. Ma quello che non avevi considerato era che, in tutto quel casino di sangue e brandelli di carne sparsi sul pavimento, all’improvviso, quando eri persino caduta in ginocchio a forza di ridere ed essere così soddisfatta dei risultati raggiunti, erano comparse due scarpe strane.
    Grandi. Che a pensarci bene non ci avresti creduto mai potessero oggi trovare posto in un piccolo, striminzito appartamento parcheggiato. Grandi e abitate da due piedi sterminati; non che ti avessero fatto paura, ma quasi. Così quando le mani colossali che torreggiavano quelle due gigantesche scarpe si erano protese a tirarti su, avevi trattenuto il fiato. Cazzo succede, avevi tremato.
    Era solo il cortocircuito che ormai non ti aspettavi più, un singolo sospiro, due occhi di pece e le spalle di mare. Ma tutto così grande da spaventare anche un eroe greco. Due occhi così spaziosi che ci avevi messo una settimana a ritrovarti, e cinque mesi a scalare spalle di mare e di montagna che non finivano più.
    Piccola tu, sotto quel sorriso incauto a pensare di avere forze a sufficienza per difenderti e, se necessario, fargli male. Convinta che nell’ora d’aria non sarebbe potuto accadere nulla di terribile, pochi passi in un cortile circondato da muri maldestri, con le strisce sul pavimento, sicura di te, che gli avresti ficcato gli occhi nello stomaco tanto da non poterli disincagliare più. Due lame affilate dalle promesse di burro che manovravano come bisturi, silenziose e veloci.
    Ma quelle imponenti, smisurate, enormi mani ti avevano presa con coraggio. Disilludendo ogni disillusione, convincendo ogni convincimento, amando il tuo amore, usando tutte le parole parlate, imbracciando le tue stesse armi, indossando le maschere che avevi forgiato, squarciando la pelle come tu sola pensavi di saper fare. Sollevandoti tra le dita, in una dattiloscopia stroboscopica che ti aveva fatto girare la testa.
    Girava la testa e giravi tu, fino a ritrovarti vestita di fiori, di profumi e odori, di pelle sulla pelle, di desideri che scivolavi in bocca, di voglie che stringevi tra le ginocchia sconquassando tutto.
    Piccola tu, vicina alle stelle, che della notte ricordavi solo il passo stanco e lento ora sei qui, e racconti del gelo che ti riscalda le guance, del buio che illumina le strade strane, appartenenti e complici. Come le poche luci fioche, e i fari degli altri appartamenti vaganti. Diresti oggi volanti. Incontinenti contenitori di sospiri e cose belle. Come scatole dei sogni, deformate e inferme che tutti pensano alle bare e invece sono piccoli ritrovi per piedi stanchi dalle lunghe camminate, gonfi e pieni di lividi che a forza di andare, troppo spesso, sono costretti a tornare indietro.
    Ma lui era grande, così come se crescere fosse uno scherzo, così come lasciare a morire le paure lo è stato, e lo è ancora.
    Ora che tra buchi e suppellettili hai parcheggiato il tuo piccolo, splendido appartamento come in un parcheggio. Ora che le assenze sono colorate di sapore e le presenze sembrano mancanze a cercare di raddoppiare il senso. Che quando una cosa manca mentre la stringi tra le mani e ne vorresti ancora, pensi sia il desiderio più straordinario si possa avere. E questo è. Per te, così piccola, che pensavi fosse tutto finito, persino la guerra, persino la vita. Te, che sei proprio qui. Qui accanto a lui che è così grande, che ti avvolge tutta tra le gambe, che ti riempie di vapore, di correnti tumultuose, di abbracci che prendono per il collo, che prendono per la gola, che soffocano.
    Qui dove sei. In questo posto lontano, in quel sorriso che ti piega il viso, intrecciata alle tue montagne, alle scatole mutate in specchi, estesa e distesa in quel sublime spazio di pece che ora abiti, spiega al mondo l’enigma decifrato e raccontalo, raccontalo ancora.
     
    .
0 replies since 30/3/2010, 11:07   36 views
  Share  
.