La Sveglia (Tempus Fugit)
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La Sveglia (Tempus Fugit)

25.000 k, horror

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  1. Idrascanian
     
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    La sveglia (Tempus Fugit)




    Dario Fassi, detto il Nasca in virtù del suo nasino alla Cyrano, fermò la macchina accanto a un’aiuola piena di ortiche e sterpaglie, lanciando un’occhiata carica di aspettativa alla solida architettura della villetta accucciata nell’ombra. Rimase alcuni minuti nell’automobile, continuando a ripetersi che presto sarebbe passata: i tremori, i goccioloni di sudore freddo che cominciavano a infestargli i peli delle ascelle, una nausea da capogiro che gli consentiva a malapena di pensare, da lì a un’ora sarebbero stati un brutto ricordo. Il “metodo vecchietta,” così l’aveva battezzato, funzionava sempre e gli consentiva di porre rimedio alle violente crisi d’astinenza che gli squassavano l’organismo almeno una volta a settimana.
    La procedura gli era balzata in mente durante un trip a base di funghi allucinogeni e alcool che l’aveva al contempo sbalordito e terrorizzato per la varietà dei suoi colori: era stato come immergere la testa in una piscina in cui un pittore folle si fosse divertito a miscelare migliaia di tonalità cromatiche. Aveva sperimentato il piano d’azione alcune settimane dopo, quando il suo organismo era ripiombato nella spossante astinenza da “polverina magica,” cancellando qualunque altro bisogno o desiderio.
    Attraversata la città con la vecchia Panda sgangherata – certo non poteva permettersi un mezzo migliore –, fasciato nel vestito buono della domenica, aveva raggiunto un piccolo supermercato situato in una zona periferica, un’area in cui l’età media della popolazione si aggirava intorno ai sessant’anni. Era entrato nel negozio, dando un’occhiata distratta ai prezzi dei vini, e aveva scelto il primo agnello sacrificale di quello che sarebbe diventato il suo principale mezzo di sostentamento.
    La vecchina si aggirava nel reparto MAIONESI & SALSE con uno sgambettio veloce, ridicolo, e il suo carrello stracolmo di generi alimentari e cianfrusaglie assortite sembrava pesare almeno una quintalata.
    «Bingo,» aveva sussurrato, seguendo la vecchia che si avvicinava alle casse; afferrata una confezione di wurstel dal banco frigo e superata la donna, aveva fatto la coda alla cassa identificata da uno sgargiante numero otto. Mentre pagava il suo unico articolo, scambiando stupide battute sulla situazione meteorologica con la cassiera, non aveva smesso di fissare la preda, che ormai stava posizionando i suoi articoli sul nastro trasportatore della cassa N° 7.
    Dopo aver pagato i salsicciotti nocivi si era avvicinato all’anziana, esibendo il suo sorriso migliore.
    «Signora, vuole una mano con le buste?» aveva chiesto, sciorinando uno sguardo da galantuomo che avrebbe fatto impallidire Rodolfo Valentino; nonostante l’abuso di stupefacenti il suo viso era ancora gradevole. La signora l’aveva guardato, quasi commossa, poggiandogli una mano sul braccio.
    «Oh giovanotto, sarebbe davvero gentile da parte sua. La vecchiaia è una brutta bestia, sa?»
    Dopo, tutto era andato liscio come l’olio: aveva accompagnato l’anziana a casa facendosi un mazzo così a portare le buste, poi, assicuratosi con un paio di domande discrete che fosse assolutamente sola e non ci fossero antifurti, se n’era andato dicendole che sperava di vederla ancora.
    In effetti la notte l’aveva rivista, e la vegliarda dormiva della grossa: si era infilato nell’appartamento con le chiavi che le aveva sottratto durante la visita pomeridiana, aveva rubato alcuni gioielli e un centinaio di euro, e poi si era dileguato come fumo nella notte. La poveretta non si era accorta di nulla. Mezz’ora dopo era già nell’alloggio del Bruco, il suo pusher di fiducia, a riempirsi il naso di quella merda bianca che l’aveva trasformato in un ladro.
    «Ehi Nasca, dove cazzo hai preso tutti ‘sti soldi?» gli aveva chiesto il Bruco infilandosi tra le labbra una lunga pipetta d’argento.
    «Il metodo vecchietta funziona.»
    «Cheee?» aveva ribattuto il Bruco con l’espressione intelligente di un macaco.
    «Lascia perdere, ti basti sapere che da oggi le cose gireranno un po’ meglio, per il sottoscritto.»
    Aveva perso il conto di alloggi, villette e cascine in cui si era introdotto da quella prima spedizione; il metodo funzionava, le vecchiacce dormivano di brutto – solo un paio di volte era stato costretto a usare le maniere forti – e lui si procurava puntualmente i soldi per la roba. E adesso eccolo lì, pronto a entrare ancora una volta in azione.
    «Oooh, la vita è una pacchia,» pensò, lanciando una rapida occhiata alla falce di luna rossa che squarciava il cielo come una cicatrice mal rimarginata.
    Uscì dall’auto e si avviò verso la villa della simpatica vecchia che aveva conosciuto nel pomeriggio al LIDL, facendo tintinnare le chiavi nella tasca del giubbino. Quel lunedì era giorno di consegna delle pensioni.
    «Mezz’ora e sono da te, Bruco,» bisbigliò nella notte gelida, «stasera per Dario Fassi tieni da parte un bel po’ di zucchero.»
    Avvicinandosi alla casa dovette premersi la mano sulla bocca per non scoppiare a ridere come una iena. L’astinenza cominciava a incasinargli il cervello.


    Infilare le chiavi nella toppa della porta esterna si rivelò più difficile del previsto. Mentre cercava di controllare i tremiti delle mani, scrutato dagli occhi neri e insensibili delle finestre, provò per alcuni secondi una sensazione strana, indefinibile; solo quando riuscì a far scattare la serratura con un clack metallico, la identificò come senso di colpa.
    La vecchina che aveva avvicinato nel pomeriggio gli aveva fatto un’immensa pena; era una creatura minuta e strabica, con un’enorme gobba che pareva schiacciarla sotto un peso insostenibile. Non doveva passarsela molto bene. Indossava un vecchio foulard e aveva le spalle coperte da uno scialle consunto, che le conferiva l’aspetto di una civetta stanca. Il Nasca, mentre l’accompagnava a casa reggendo le buste della spesa, si era chiesto se la donna nascondesse i soldi della pensione nella protuberanza che le deformava la schiena. Avevano parlato un po’ e la vecchia gli era parsa in seria astinenza da contatto umano, almeno quanto lui lo era da cocaina. Gli aveva riversato addosso un flusso di parole paragonabile a un’esondazione, di cui adesso ricordava solo brevi passaggi.
    «Oh, ce ne fossero di giovanotti come lei,» aveva detto con voce gracchiante, sbattendo le palpebre sui vispi occhi da furetto che puntavano in direzioni diverse, «quando mio marito è morto, il mondo mi è crollato addosso. Non ero abituata a star sola, ho dovuto provvedere a tutto e mi sono anche inventata un lobby, come dite voi giovani, perché le giornate non passavano mai. Sono autonoma, ma questa artrite deformante,» aveva mostrato a Fassi due mani adunche e rattrappite, simili alle inutili zampette anteriori di un T-Rex, «mi uccide. Nonostante le medicine il dolore non passa e mi sembra sempre di muovermi al rallentatore. E il tempo, alla mia età, è troppo poco per farselo portare via, dagli acciacchi o da qualunque altra cosa.»
    Una volta giunti alla villa il Nasca aveva aspettato che la donna aprisse la porta, poi aveva fatto un paio di domandine discrete e preso le chiavi dimenticate nella toppa.
    «Buona giornata, giovanotto, e grazie,» aveva detto l’anziana, salutandolo con una mano ad artiglio, scagliandogli il sorriso luminoso della sua dentiera.
    Poveraccia. Se la sentiva davvero di togliere il pane di bocca a quell’amabile pensionata? Si stupì del suo eccesso di sentimentalismo, – che cazzo mi prende? – ma quando una fitta violenta al basso ventre lo informò che il suo fisico stava accusando la mancanza di droga, infilò i guanti, accese la grossa torcia Mag-Lite che aveva ficcato nella tasca posteriore dei pantaloni e s’introdusse in casa, scagliando rigurgiti di luce nell’oscurità.


    L’ingresso della villetta era un budello incrostato di tenebra; Dario Fassi detto il Nasca cominciò a procedere con passi misurati e l’ombra del suo nasone lo seguì sulla parete come il becco di un animale preistorico. Raggiunse una porta che si affacciava sulla cucina, un oscuro bugigattolo occupato per metà da una credenza sbilenca; si avvicinò al mobile benedicendo le silenziose suole di gomma delle Nike, allungò una mano verso il cassetto e si fermò. Sul piano della credenza c’era qualcosa che non riuscì subito a identificare, ma che gli trasmise una forte sensazione di disagio. Una forma accucciata, un animale… Due occhi brillarono nell’oscurità mozzandogli il fiato.
    Puntò la torcia, temendo che il cuore gli schizzasse fuori dalla bocca, e rabbrividì. Era un gatto impagliato, che lo fissava con inespressivi occhi di vetro. Il tassidermista non aveva fatto un buon lavoro: dalle orecchie del felino spuntavano fili di paglia e altre meno identificabili sostanze organiche. Una targhetta affermava che il felino era “Belzebù, amico fidato.”
    «Bel nome da dare a un micio,» pensò, continuando la sua ispezione notturna. Rovistò nella credenza e in un piccolo mobile collocato vicino a una stufa in ghisa ancora tiepida, ma la cucina non nascondeva alcun bottino: solo pentole, ciarpame e vecchi documenti ingialliti.
    Uscì dal locale sotto lo sguardo vitreo di Belzebù e si spinse nelle tenebre fino a raggiungere un salottino tappezzato di velluti. Odorava di chiuso.
    Gli fu impossibile non notare la possente libreria che occupava l’intera parete alla sua sinistra: le mensole ingombre di libri sembravano sul punto di collassare sotto il peso della cultura.
    Avanzò storcendo il naso – i libri non gli erano mai piaciuti – e, facendo scorrere il raggio della torcia sulle coste dei volumi, lesse parole che avrebbe preferito non vedere. L’abitazione, pregna di quel puzzo di vecchiaia tipico degli ospizi, cominciava a trasmettergli una tangibile sensazione di angoscia. Titoli come Evocazioni, Il Vino del Sabba, Genius Loci, Demoni & Dei e NecroTassidermia contribuirono a moltiplicare l’inquietudine. Per quanto si sforzasse di distogliere lo sguardo, i suoi occhi sembravano magneticamente attratti dagli strani libri polverosi. Cominciò a sudare, e si disse che avrebbe dato la palla sinistra per una benedetta pippata.
    Non sudava di paura, no. Se lo ripeté come una cantilena, facendo vagare la luce per la stanza, finché illuminò un recipiente poggiato su una vecchia macchina per cucire Singer. Fu lieto di aver trovato qualcosa che distogliesse la sua attenzione dalla libreria.
    Era una vecchia scatola dell’Orzo Bimbo, e il volto idiota del bambino-reclame ammiccava felice dalla confezione. Il suo sorriso candido si era trasformato col trascorrere impietoso del tempo in una massa tartarosa. Il Nasca si avvicinò ghignando e afferrò la scatola. Ormai conosceva i luoghi favoriti dalle vecchiette per nascondere i loro averi: credenze, contenitori di latta e comodini erano tra i prediletti, anche se alcune non disdegnavano di infilare i soldi nel materasso.
    Poggiò la Mag-Lite sulla macchina per cucire e aprì il barattolo. Quando vide il contenuto, la sua bocca si trasformò in una O screpolata di sorpresa e disgusto; dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà per non farsi sfuggire il barattolo dalle mani. Richiuse il tappo con dita tremanti e solo allora si accorse dell’etichetta con su scritto “Malocchi.” Nella scatola di plastica decorata con quel bambino dalla faccia demente – che doveva ormai essere un vecchio –, c’erano delle lucertole essiccate, e attorno alla coda di ognuna di esse era legato un ciuffo di capelli.
    «Puttanamerda, questa qua si è messa a praticare la magia nera, altro che hobby,» pensò, disgustato. Anni prima sua nonna gli aveva raccontato di una “guaritrice di paese” che praticava quel macabro rituale per lanciare iettature.
    Per una frazione di secondo contemplò l’ipotesi di abbandonare l’edificio, poi la mancanza di alcaloidi nel sangue decise per lui. L’unica soluzione era trovare la camera della vecchia; forse avrebbe scovato qualcosa nel comodino. Magari dei gioielli di famiglia.
    Il rischio aumentava, però. Se avesse svegliato la donna sarebbe stato costretto a battersela come Speedy Gonzales: usare metodi brutali non era nel suo stile. Gli era capitato un paio di volte e dopo si era sentito, parafrasando i film di Fantozzi che tanto adorava, una merdaccia.
    Cristo, non era un criminale; era solo uno a cui piaceva la bella vita e come tanti altri era rimasto invischiato in quella merda bianca che ti fotteva fisico e cervello.


    Trovò la stanza da letto cinque minuti dopo, al piano superiore, cui si accedeva affrontando una scala ripida quanto un sentiero del Monviso. La donna russava come un diesel, le coperte tirate sotto il mento.
    «Questa non la svegliano nemmeno le scoregge del Bruco,» pensò Fassi, e ancora una volta dovette trattenersi dal ridere. Dio, non vedeva l’ora di poggiare il culo sul divano del pusher e consumare.
    Aprì il cassetto del comodino tentando di far meno rumore possibile, schermando la torcia con una mano. Bingo. Qualche banconota da venti euro e un paio di orecchini che luccicavano nell’oscurità. Meglio che un calcio nel culo.
    Mentre contava le banconote – 120 euro, l’equivalente di un paio di grammozzi –, vide la sveglia sul comodino. Era un oggetto bizzarro, pieno di strani intarsi che s’intrecciavano sul quadrante a creare forme sinuose. Sotto il perno delle lancette c’era una scritta dorata in caratteri gotici che recitava “Tempus Fugit.” Il Nasca si chiese che cazzo volesse dire, poi pensò che il Bruco avrebbe potuto piazzare la sveglia al mercato nero e ricavarci qualcosa. Se la infilò in tasca, pronto a svignarsela; Fassi non lo sapeva, ma l’orologio segnava mezzanotte spaccata, l’ora delle streghe, dei fantasmi e delle cose che sarebbe meglio lasciar dormire in pace.
    Quando si voltò per abbandonare l’abitazione, parzialmente soddisfatto del furto, pregustando la piacevole sensazione della coca che gli anestetizzava le mucose delle narici, il Nasca si sentì gelare il sangue nelle vene. Gli occhi strabici della vecchia, spalancati nel buio della camera, splendevano come stelle di un cielo alieno.
    «La bastarda si è svegliata,» pensò con scioccato distacco. L’espressione simpatica della donna e il viso triste che avevano mosso a compassione il Fassi nel pomeriggio erano un lontano ricordo. La bocca della vecchia era piegata in una smorfia che esprimeva disprezzo e i suoi occhi dementi avrebbero annichilito topi d’appartamento ben più navigati di lui. La gobba ammiccava dietro i radi capelli bianchi come un astro deforme.
    Il Nasca si mosse per uscire dalla stanza, sperando che la donna, terrorizzata, rimanesse immobile nel letto, e fu proprio allora che lei emise un urlo belluino, un vocalizzo che nel cervello sovraeccitato di Fassi risuonò come le strida di una moltitudine.
    La sua reazione fu repentina, aiutata dallo shock e dall’astinenza: il braccio che reggeva la torcia scattò in avanti come un pistone, colpendo la vecchia tra gli occhi. Sentì un crick disgustoso e l’anziana si accasciò di lato emettendo uno sbuffo tra le labbra. Poi la luce della torcia illuminò per una frazione di secondo il suo viso, una maschera di rughe in cui scorreva il sangue zampillante dalla ferita, piccoli ruscelli cremisi in una carnosa landa di cenere.
    Fassi si chinò sull’anziana per valutare le sue condizioni – l’hai ammazzata, brutto pirla –, e notò che l’occhio sinistro sporgeva un po’ troppo dall’orbita; poi una zaffata gli assalì le narici facendolo indietreggiare. Nasca capì che la poveretta si era cagata addosso e corse fuori dalla camera, tappandosi il naso tra pollice e indice; filò giù per le scale, lungo il corridoio, incespicando e cristonando.
    Raggiunse la macchina. La falce di luna lo osservava tra nubi color dell’oro come un sorriso sghembo.


    Il tragitto dalla villa a casa del Bruco fu un nebuloso percorso fatto di improperi e luci dei fari che gli ammazzavano gli occhi, accompagnato dalla voce stridula di Loredana Bertè vomitata dall’autoradio.
    A casa del pusher, aspirata la prima dose di coca, smise di tremare. Ma non riusciva a cacciare dalla mente l’urlo animalesco della donna che l’aveva fatto quasi crepare di paura, il sangue che inondava il cuscino, la villa buia col gatto impagliato e i libri inquietanti.
    «Cazzo vuol dire questa frase?» chiese il Bruco, allontanandolo dai suoi pensieri. Lo spacciatore era disteso sul divano – si alzava mai da lì? – ed esaminava la sveglia, picchiettando sul quadrante con le nocche. Fassi si era completamente dimenticato dell’oggetto. Il Bruco l’aveva sfilato dalla tasca del suo giubbotto, abbandonato sulla poltrona: il bastardo aveva il vizio di curiosare negli indumenti altrui.
    «Non conosco l’inglese, Bruco, e non me ne frega un cazzo. A quanto puoi piazzarla?»
    «Nasca, non vale una cippa ‘sta roba,» rispose, «è latta. Però hai visto che bella testa di morto c’è incisa sulla cassa?»
    Dario osservò il teschio intagliato sul retro della sveglia e si fece una pippata che per poco non lo mandò disteso sul tappeto incrostato di patatine e tocchi di fumo. Si alzò dal divano completamente partito, strappò la sveglia dalle mani del Bruco e se ne andò.
    Rientrò in casa col cuore che gli batteva a mille e poggiò la sveglia sul tavolo della cucina; esaminandola meglio considerò che era proprio un brutto affare, pieno di simboli strani, piccoli teschi e facce ghignanti.
    Bevve un sorso di tè freddo, si buttò nel letto sfatto da una settimana e cercò di dormire. Rotolò nelle lenzuola per ore, gli occhi sbarrati a causa della cocaina. Poi, lentamente, le sue palpebre divennero sipari pesanti e polverosi. Prima di addormentarsi pregò di non aver ammazzato la vecchia.


    Il suono esplose nell’appartamento sciatto con la discrezione di una tromba da stadio. Fassi si chiese se per caso non fosse crollato ubriaco su uno degli spalti della curva sud del delle Alpi, dove andava a seguire le partite della Juventus. Poi ricordò la sortita della sera prima, conclusasi nel peggiore dei modi.
    «Ma per Dio, cos’è?» imprecò, pronto a buttarsi giù dal letto per identificare la fonte del rumore. Aprì gli occhi e fu come piantarsi spilloni roventi nella molle polpa del bulbo oculare. Quando tentò di togliersi le lenzuola di dosso, pensò che si era beccato l’influenza. Il suo corpo era un dolore unico, un ammasso di materia organica intorpidita. Fece per scendere dal materasso e urlò. La sua mente urlò, perché gli sembrava di avere la bocca impastata di Vinavil, una cavità collosa e inservibile. I muscoli indolenziti risposero ai suoi stimoli mentali con il male, una sofferenza mai provata prima, nemmeno quando era uscito di strada con l’Opel Tigra fracassandosi il bacino. Per una frazione di secondo immaginò i suoi nervi invischiati in noduli di pece e vetro. Se si trattava di influenza doveva essere una di quelle brutte.
    «Perché cazzo non riesco ad alzarmi?»
    Ancora una volta tentò di strillare, senza riuscirci. Cosa gli stava succedendo, in nome di Dio?
    «Stavolta la coca mi ha fottuto qualche organo importante. Sto morendo.»
    Pensava di muoversi, comandava alle gambe di attivarsi e ogni brandello del suo corpo ululava di disperazione. I toreri sbatacchiati, infilzati e martoriati da bovini poco disposti a farsi prendere per il culo da una mantellina rossa dovevano sentirsi esattamente così.
    Intanto il suono, spietato come una colata di acciaio fuso nei timpani, continuava.
    «La sveglia,» riflettè disperato il Nasca. «Quella cazzo di sveglia.»
    Aveva voglia di mettersi a piangere e ciucciarsi il pollice finché quel martirio fosse terminato. Si sentiva come nei sogni che faceva da piccolo, incubi orribili in cui una cosa nera e vischiosa gli saltava addosso e lui non riusciva a difendersi, a reagire. Il groppo che gli premeva in gola pareva un torsolo di mela.
    Doveva raggiungere il telefono. Subito. Al massimo sarebbe svenuto per il male, una benedizione. Pensò con sgomento che aveva pochissimi amici: molti di loro si erano allontanati quando aveva iniziato a sniffare; potevano passare giorni prima che qualcuno lo trovasse. Sì, doveva raggiungere il cellulare e chiamare un’ambulanza.
    Il suono della sveglia cessò di colpo e scoprì di potersi muovere, piano, molto piano, soffrendo come un cane. Ma poteva farcela, tutto stava nel non farsi prendere dal panico.
    Per districarsi dalle lenzuola impiegò un periodo che nella sua mente gli parve un’era geologica. Le mani gli facevano un male d’inferno.
    «Dio, aiutami.»
    Si spostò nel letto con assurda, inconcepibile lentezza. A volte, in quella orribile fiction della Rai, Un posto al sole, i personaggi si muovevano proprio così. Nei momenti drammatici. Quello era sicuramente un momento drammatico, ma purtroppo non era finzione.
    «Tenta di non pensare alle minchiate,» si disse. «Scendi da questo letto.»
    Prese a impegnarsi, costringendo ogni centimetro del suo corpo a reagire e, per quanto possibile, a ignorare il dolore.
    Tic- Tac, Tic-Tac, diceva la sveglia, in cucina.
    Le pareti indaco della camera cominciarono ad assumere una sfumatura grigiastra. Faceva buio. Calava la notte e lui aveva appena poggiato un piede sul pavimento. Esasperato, aprì la bocca per chiamare aiuto, ma ne uscì un suono rallentato, ridicolo, come quando il suo walk-man aveva masticato il nastro di Uprising di Bob Marley ed era stato costretto a buttare la cassetta.
    Udì i suoni della vita che scorreva normale fuori dall’appartamento; i clacson, il vocio dei ragazzi che andavano al cinema, i passi pesanti dei vicini. Un televisore. Il signor Bisogno che guardava il TG4 al piano di sotto e, come tutte le sere, a causa della sordità, rendeva partecipe l’intero vicinato.
    Le parole di Emilio Fede il Lecchino del Secolo raggiunsero il Nasca come attraverso un muro di ovatta, ma erano piuttosto chiare.
    ...la polizia sta ancora cercando il ladro che ieri si è introdotto in casa di Marina Bunino, ottantasette anni. Le indagini degli inquirenti si muovono verso gli ambienti dello spaccio cittadino. La donna, colpita al volto da un oggetto contundente, è stata trovata morta dalla sorella...
    Rivide la vecchietta con la testa poggiata sul cuscino e l’occhio da trota che le sporgeva dall’orbita.
    «Bene, l’hai fatta secca. Ma avevi i guanti, non hai lasciato impronte. Vai tranquillo.»
    Raggiunse il centro della camera che era ormai notte fonda. La città era scivolata in un sonno silenzioso. Soffriva terribilmente, ma si sentiva un po’ più sciolto, e pensò all’Uomo di Latta del mago di Oz, bello oliato e pronto a intraprendere il suo incredibile viaggio con Dorothy & Co. Continuò a procedere al ralenti.
    L’avanzata fu un’esasperante via crucis, e di tanto in tanto nei pensieri del Nasca si affacciava lo spettro della coca.
    «Forse il Bruco mi ha dato roba tagliata male. Sì. Dev’essere proprio così.»
    Poi, raggiunta la porta della camera, mentre la luce di un’alba infetta filtrava dalle tapparelle disegnando strane forme luminose sulle pareti, la cocaina divenne l’ultimo dei suoi pensieri.
    Nella stanza c’era qualcuno. La sua pupilla sinistra inquadrò per una frazione di secondo una forma scura, color bitume. Impiegò circa mezz’ora a girare la testa, producendo un orrido scricchiolio alla base del collo. Infine vide.
    La sua mente sconvolta impiegò alcuni istanti a metabolizzare la visione d’orrore che s’agitava nella camera. Era una sagoma incurvata e nebulosa, un’accozzaglia di scialli, foulard logori e vestaglie da cui sporgeva un volto antico e terribile. Pelle marcia e occhi strabici. Piccole mani adunche artigliavano il nulla in contrazioni spastiche. Due gambette rachitiche reggevano il fagotto informe, sovrastato da una gobba che sembrava ergersi a sfiorare il soffitto. Un gatto nero carbone faceva le fusa strusciandosi sulle gambe della cosa; aveva gli occhi di vetro e le orecchie piene di paglia.
    La vescica del Nasca perse il controllo, ma le gocce di urina presero a colargli lungo le gambe almeno un’ora più tardi, quand’era già un cadavere disteso sul pavimento e la polizia faceva irruzione nella casa.
    Prima che il suo cuore si afflosciasse come una zampogna vide la cucina della vecchia, la scatola dell’Orzo Bimbo piena di lucertole secche, la scritta dorata sulla sveglia che non era riuscito a tradurre. Tempus Fugit. Cazzo, non era mai stato buono con l’inglese.
    Com’è che aveva detto la simpatica megera, il giorno in cui l’aveva incontrata al LIDL?
    Mi sembra sempre di muovermi al rallentatore. E il tempo è sempre troppo poco, alla mia età, per farselo portare via.
    Il Nasca piombò a terra di faccia, e i suoi denti si serrarono come una tagliola mozzandogli la punta della lingua. L’oscena mostruosità riflessa nello specchio, regalatogli dalla sua ex secoli prima, cadde con lui, dissolvendosi come fumo di candela.
    La sveglia, poggiata sul tavolo della cucina, ricominciò a suonare l’inizio di un nuovo, lunghissimo giorno.
    I suoi trilli esplosero acuti nell’appartamento e crebbero, crebbero d’intensità, sempre più simili a un raggelante ghigno di vecchia.

    Edited by Idrascanian - 2/4/2010, 12:10
     
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    Ci sono un paio di dubbi che mi sono rimasti, ma nel complesso un ottimo lavoro, voto 4.

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    La procedura gli era balzata in mente durante un trip a base di funghi allucinogeni e alcool che l’aveva al contempo sbalordito e terrorizzato per la varietà dei suoi colori: era stato come immergere la testa in una piscina in cui un pittore folle si fosse divertito a miscelare migliaia di tonalità cromatiche.

    Commento fine a se stesso, niente a che fare con il testo o il racconto: in effetti chiunque abbia mai usato delle tempere sa che il risultato che quel pittore otterrebbe sarebbe un liquido verde-marrone, a prescindere dai colori mescolati. :lol:

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Attraversata la città con la vecchia Panda sgangherata – certo non poteva permettersi un mezzo migliore –,

    Trattino e virgola non dovrebbero coesistere.

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    scambiando stupide battute sulla situazione metereologica

    "meteorologica"

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Dopo, tutto era andato liscio come l’olio: aveva accompagnato l’anziana a casa facendosi un mazzo così a portare le buste, poi, assicuratosi con un paio di domande discrete che lei era assolutamente sola e non c’erano antifurti,

    Meglio "che lei fosse" e "non ci fossero"

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    In effetti la notte l’aveva rivista, e la vegliarda dormiva della grossa: si era infilato nell’appartamento con le chiavi che le aveva sottratto durante la visita pomeridiana, rubato alcuni gioielli e un centinaio di euro, e poi si era dileguato come fumo nella notte.

    Ci vuole un "aveva" prima di rubato, non puoi ometterlo perché l'unico verbo a cui riagganciarsi è "si era" (e "si era rubato" non è carino). Eviterei la virgola prima della "e" (o la "e" dopo la virgola), mi sembra superflua.

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Aveva perso il conto di alloggi, villette e cascine in cui si era introdotto da quella prima, campale spedizione;

    "campale"? :huh:

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    il metodo funzionava, le vecchiacce dormivano di brutto – solo un paio di volte era stato costretto a usare le maniere forti – e lui aveva puntualmente i soldi per la roba.

    Non mi convince "aveva", magari "ricavava" o un qualche sinonimo. Se no sembra che lui ce li abbia a prescindere dalle vecchiette.

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Infilare le chiavi nella toppa della porta esterna si rivelò più difficile del previsto.

    Serve dire che è esterna? Ancor meglio, serve dire che la toppa è della porta? ^__^;

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Avevano parlato un po’ e la vecchia sembrava in seria astinenza da contatto umano,

    Direi "gli era sembrata", a meno che non togli quella "e" e dividi le due preposizioni con un punto e virgola o un punto.

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Era una vecchia scatola dell’Orzo Bimbo,

    Credo si scriva attaccato Orzobimbo

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Se svegliava la donna sarebbe stato costretto a battersela come Speedy Gonzales:

    "Se avesse svegliato"...

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Cristo, non era un criminale; era solo uno cui piaceva la bella vita

    Meglio "a cui piaceva"

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Trovò la stanza da letto cinque minuti dopo, al piano superiore, cui si accedeva

    Anche qui, "a cui"

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    e noto che l’occhio sinistro

    Refuso: "notò"

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Fassi si chiese se per caso non era crollato ubriaco su uno degli spalti della curva

    "non fosse crollato"

    CITAZIONE (Idrascanian @ 2/4/2010, 10:32)
    Continuò a procedere al rallenty.

    Sarebbe "ralenti"

    Mi sa che ti sei dimenticato di votarti. ^_^
     
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  3. Idrascanian
     
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    Grazie CMT, veloce e attentissimo, come sempre. Ho già seguito alcuni dei tuoi consigli. ;-)
     
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  4. Gordon Pym
     
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    Ciao Idrascanian, pur considerando questo tuo pezzo di discreto valore, ti confesso che non l'ho apprezzato a pieno, probabilmente un po' per qualche salto temporale nella descrizione che a mio avviso toglie una certa linearità e che mi ha imposto di rileggere qualche riga, un po' per i punti che ti elenco sotto.
    Aggiungo che:
    SPOILER (click to view)
    mi rimane un punto interrogativo sul cosa, perchè e percome accadesse il tutto e sul significato della sveglia in sé - quale giovamento ne traeva la vecchia? Quando il Nasca l'ha incontrata al supermercato, lei non avrebbe dovuto muoversi al rallentatore? Il fatto che il tempo fosse rallentato, non accorciava di fatto le giornate impedendole di fare più cose e sottraendole, di conseguenza, il tempo stesso?

    Voto 3.
    A rileggerti

    CITAZIONE
    Il “metodo vecchietta,” così l’aveva battezzato, funzionava sempre

    La virgola fuori dalle virgolette.
    Personalmente poi mi piacerebbe di più così: Il metodo "Vecchietta", così l'aveva battezzato, funzionava...

    CITAZIONE
    della cassa N° 7.

    Poco sopra il numero della cassa l'hai scritto in lettere...

    CITAZIONE
    la vegliarda dormiva della grossa

    "della grossa" è dialettale, trovo che stoni.
    CITAZIONE
    La poveretta non si era accorta di nulla. Mezz’ora dopo era già nell’alloggio del Bruco, il suo pusher di fiducia,

    L'ultimo soggetto è la vecchietta (la poveretta), quindi sembra che sia lei ad andare "nell'alloggio del Bruco".

    CITAZIONE
    «Oooh, la vita è una pacchia,» pensò,

    Visto che i caporali li hai usati nel dialogo, troverei più adatte un altro tipo di virgolette per il "pensato". Anche più sotto si ripete.

    CITAZIONE
    Indossava un vecchio foulard e aveva le spalle coperte da uno scialle consunto, che le conferiva l’aspetto di una civetta stanca.

    La virgola sarebbe da togliere, separa il predicato dal complemento.

    CITAZIONE
    il Nasca cominciò a procedere con passi misurati e l’ombra del suo nasone lo seguì sulla parete

    Verrebbe da supporre che l'ombra derivi dalla luce della torcia che ha in mano e in tal caso non riesco a figurarmi la proiezione sulla parete dell'ombra del suo naso.

    CITAZIONE
    Se lo ripeté come una cantilena, facendo vagare la luce per la stanza, finché illuminò un recipiente

    Sarebbe meglio "finché non illuminò" altrimenti sembra che se lo ripetè finché illuminò il recipiente, poi più.

    CITAZIONE
    la sua bocca si trasformò in una O

    Sarebbe meglio mettere le virgolette: in una "O"

    CITAZIONE
    La falce di luna lo osservava tra nubi color dell’oro come un sorriso sghembo.

    Personalmente preferirei: La falce di luna lo osservava come un sorriso sghembo tra nubi color dell'oro.

    CITAZIONE
    curva sud del delle Alpi

    Metterei "del Delle Alpi".
    CITAZIONE
    ciucciarsi il pollice finché quel martirio fosse terminato.

    Anche qui metterei "non fosse terminato".
    CITAZIONE
    Il suono della sveglia cessò di colpo e scoprì di potersi muovere,

    È chiaro che fu Nasca a scoprire di potersi muovere ma l'ultimo soggetto è "suono".

    CITAZIONE
    La vescica del Nasca perse il controllo, ma le gocce di urina presero a colargli lungo le gambe almeno un’ora più tardi, quand’era già un cadavere disteso sul pavimento

    Se l'urina uscì quando era disteso, non poteva "colare lungo le gambe".

    CITAZIONE
    Il Nasca piombò

    Dato che lo abbiamo visto morto, da qui in avanti avrei preferito il trapassato prossimo (era piombato) a mo' di flash back. Altrimenti, precedentemente non avresti dovuto usare il remoto: "le gocce di urina presero a colargli)" (quando lui era appunto morto), ma "gli sarebbero colate... un'ora più tardi... ecc" (spostando l'azione della morte nel futuro e lasciando il remoto nel finale).

    Edited by Gordon Pym - 4/4/2010, 10:24
     
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  5. marramee
     
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    Ciao,
    pur scritto sempre molto bene e con uno stile affascinante, l'ho trovato un po' inferiore a quello di febbraio. Non mi convince del tutto il finale e il tempo rallentato, che non sono certo di aver compreso appieno.
    SPOILER (click to view)
    Tra l'altro è terribilmente simile a un racconto di Dean Koontz che ho letto da poco: Lo Scippatore. Ma la letteratura dell'orrore presenta molte altre variazioni sul tema "ladro deruba strega e subisce la sua vendetta".

    Voto un tre pieno, ma non riesco ad andare oltre.
     
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  6. rehel
     
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    La classe non è acqua. Stile e bravura trasudano dalle tue pagine. Ottime metafore assai godibili. Allora cosa non va?
    Una storia troppo semplice, scontata e banale. Letta chissà quante altre volte.
    Ora, io non sono un patito dell'originalità a tutti i costi, ma qui andiamo troppo su un tema quasi stereotipato.
    Aggiungo anche che nel finale alcune cose (già segnalate) non sono chiare.
    Io, di mio, rilevo solo che una vecchietta che fa la spesa all'Idl non dovrebbe vivere in una villetta. Sarebbe forse meglio precisare che si tratta di una casa piccola e vecchia, malmessa.
    Becchi comunque un tre perché (e lo sappiamo bene) con le parole ci sai fare. :shifty:
     
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  7. Munzic Reload
     
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    Sì, la storia è trita e ritrita e la trama è un solco dritto che sappiamo subito dove si dirigerà, ma leggerti è sempre divertente e molto piacevole.

    Lo stile è ricco di immagini riuscite e il tutto è permeato da un'atmosfera e un'ironia che funzionano bene.

    Non ho capito molto la funzione della sveglia. L'effetto che aveva sulla vecchiarda. Rallentava il tempo? E su di lui lo ha accellerato?

    Uff, che voto?

    È un 3 e 1/2. Ma sì, dai famo 4. :)
     
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  8. ferru
     
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    ciao Gigi
    SPOILER (click to view)
    Hai una facilità di scrittura che fa impallidire il carbone. Un racconto che fila dall’inizio alla fine in modo disarmante. Buona la presenza di cromatismi stilistici che arricchiscono la forma senza dare comunque la sensazione di orpelli retorici. Manca, come dire, il guizzo, quel quid che rende un racconto memorabile, ma questa mancanza può essere dovuta anche al tipo di storia che hai narrato che non si presta molto a colpi di testa, forse un po’ troppo semplice. Che altro dire? Per quanto riguarda lo stile e altre rogne (linearità, verosimiglianze) ci hanno pensato gli altri. Quindi voto.
    Per me vale quattro, magari non pieno, ma il racconto mi è piaciuto.
    Temo (con piacere, comunque) che tra breve, con qualche aggiustamento, lo ritroverò in cima alla classifica di qualche concorso.


    :P
     
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  9. nescitgalatea
     
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    Anche a me è piaciuto molto. Si vede una buonissima mano e il racconto prende, è fluido, ben scritto. L'unica perplessità sono i continui riferimenti a: Rodolfo Valentino, LIDL, Orzobimbo, un posto al sole, Bob Marley... etc
    che sinceramente verso la fine del racconto stancano un po'.
    Ultima considerazione: credo dovresti essere più incisivo sul concetto del Tempus Fugit che non è così forte come, forse, avresti voluto. Lo metterei in evidenza con più forza.

    3 abbondante che lascio 3 (sempre per pigrizia... eheheh)

    Grazie
     
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  10. Fini Tocchi Alati
     
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    Buon racconto.

    SPOILER (click to view)
    L'impressione che ne ho avuto è che la tua abilità narrativa supera la storia narrata.
    Però, nel complesso, ho letto con interesse sino alla fine, pur conoscendo da subito la fine.

    Ci sono momenti in cui tendi a essere ironico o sarcastico. Mi pare che spengano un po' la tensione che magistralmente riesci a creare.


    In deifnitiva, dico 3.
     
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  11. Peter7413
     
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    Eccomi!
    Scritto molto bene. Come al solito., si legge che è un piacere.
    Non mi ha convinto il finale, in effetti non ho ben capito cosa gli è successo, il significato del gatto, cosa fosse in verità la vecchia... In sintesi: troppo ermetismo dopo 25000 caratteri all'insegna del narrato semplice.
    Così com'è mi sembra un ottimo esercizio di stile e nulla più. Tra l'altro ho tremato (appena) solo quando la vecchia ha aperto gli occhi nella notte, e per un racconto horror non è un bene.
    Voto 3, abbondante.
    Comunque penso che con la tua capacità e semplicità di scrittura tu sia in grado di narrare ogni tipo di storia, con un pizzico di attenzione in più per il finale però, ne? (Da piemontese a piemontese qualche ne ci è anche concesso...) :D
     
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  12. $haman
     
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    Bel pezzo, scritto bene come sempre. Mi piacciono gli horror classici, e la figura indifesa che diventa fonte di morte fa sempre il suo effetto e forse questo è un po' un punto debole del racconto in quanto la seconda parte, con la fuga e la "maledizione" della sveglia è giocata molto peggio della prima ed è un peccato. Non è chiarissimo il ruolo della sveglia, del gatto e della vecchia alla fine. Non interessa una spiegazione complessiva eh, anzi, a me vanno bene anche i finali aperti, però allora meglio semplificare. E secondo me stona il suo ultimo pensiero su cosa ha detto la vecchia, che fa troppo spiegazione al lettore, e non si fa!
    Comunque un buon lavoro, con descrizioni e dialoghi equilibrati, un senso di tragedia incombente sul protagonista e un andamento classico ma ben gestito, da sistemare nel finale.
     
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11 replies since 2/4/2010, 09:32   400 views
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