Amante Galattico
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NEL LABIRINTO
direttamente dalla Royal Rumble, un racconto che ho considerato per il Circo Massimo, ma che poi ha perso nella mia selezione interna
— Li senti i lupi? — domanda Elisabetta mentre si affretta a sbarrare la porta. Ruggiero alza le spalle. Li ha sentiti, ma non ritiene possibile che i lupi, quelli a quattro zampe, possano minacciare un paese intero, girare per le sue strade fino a entrare nelle case. Anche se ridotti alla fame non lo farebbero mai, non avrebbero il coraggio di affrontare il fuoco dell’uomo. Quelli di cui bisogna aver paura, invece, sono i lupi a due zampe. Quelli non perdonano e non sembrano aver paura di nulla. Elisabetta sospira, scocciata dal silenzio del marito, e sbircia dalla finestra. Ma di fronte alla sua casa, dall’altro lato di una via piena di fango, ci sono solo altre case. Le colline e i boschi sono più lontani, celati alla vista e avvolti dal tepore della notte estiva. — Sei ubriaco? — chiede la donna con un tremito nella voce. Ruggiero non risponde neppure questa volta, ma la domanda gli rode le interiora bruciate dal vino. Perché sì, ha bevuto parecchio, ma non è ubriaco. Lui non vuole essere più ubriaco dopo quello che è successo, dopo che le conseguenze del suo vizio hanno deciso di vivere con lui per il resto della sua vita. Già, per il resto della sua vita, perché non può sperare che sua figlia trovi marito e se ne vada di casa. E poi le parole di Padre Bernardo lo tormentano di continuo: “È la tua colpa, Ruggiero; la punizione dei tuoi peccati. Accettala o il tuo destino sarà l’Inferno! Accettala perché neppure Papa Alessandro, Papa Borgia, potrebbe sollevartene!” — No, non sono ubriaco — risponde. — Sono stato alla taverna, ma non sono ubriaco. Elisabetta lo guarda mentre lui si getta sul mucchio di paglia che sta nell’angolo della stanza e si tira addosso la coperta. Anche se non l’ha più toccata dalla nascita di Gemma, anche se non l’ha più neppure sfiorata, ricorda bene il suo fiato malsano, la sua furia malata, il modo violento in cui la prendeva quasi tutte le sere. Lui si sente in colpa per quello che è successo e lei non può che averne pietà. Il perdono, invece, è affare di Dio. Elisabetta sente ancora i lupi, ma abbassa la testa e si dirige nella stanza accanto, nel letto che divide con la loro unica figlia.
Il sole è alto nel cielo, e l’aria calda fa scorrere il sudore sopra e sotto i vestiti e sembra trasportare le voci ancora più lontano. Oggi è giorno di festa e il paese ne sembra avvolto; tutti hanno tirato fuori gli abiti migliori per il matrimonio celebrato a mezzogiorno e fanno a gara per vedere gli sposi e per farsi notare da loro. Lui e lei sono giovani e belli, eleganti nei loro vestiti di nozze, splendidi nel loro candore. Anche Gemma vuole vedere e per questo cerca inutilmente di alzarsi sulle punte e guardare oltre le teste che li nascondono; ma non può, non è abbastanza alta. Allora si sposta verso una scalinata e inizia a risalirla con fatica, un gradino alla volta. — Che ci fai qui? — domanda Niccolò, uno dei ragazzotti del paese quando se la vede passare accanto. Gli altri ridacchiano, ma fanno anche i consueti gesti di ribrezzo, quelli a cui Gemma cerca sempre di non prestare attenzione. — Voglio vederli. — E allora? Anche se li vedi, che cambia. — Sono belli. Il ragazzo rovescia la testa in una risata e scende dal parapetto su cui stava seduto. —Sì, loro sì. E allora? Vorresti forse assomigliare a loro? Gemma non risponde. — Forse vuole fingere di essere lei la sposa — esclama una delle bambine. Tutto il gruppo rimane per un momento in silenzio e poi scoppia a ridere, ma le loro risa sono coperte dal mormorio della folla, che si interessa solo agli sposi. In quel giorno gli adulti sono più tesi a fare baldoria e non badano certo a quello che fanno i ragazzi del paese. — E così vorresti essere la sposa. Avere quel bell’abito da sfoggiare e farti ammirare da tutti. Magari farti notare da un ricco principe. Altre risate. Gemma abbassa gli occhi verso terra; vorrebbe scappare, ma uno dei ragazzi le blocca la strada. Non è la prima volta che la prendono in giro in questo modo. Lei si sente morire dai loro sberleffi, ma sa anche che si stuferanno presto e lei potrà tornare a casa da sua madre. Ma Niccolò guarda ancora gli sposi e poi dice: — Io so dove si trova un vestito come quello, un vestito che potresti avere e indossare. Gli altri lo guardano straniti, e Gemma fa segno di non capire. — Lo vuoi? È la che ti aspetta — allarga le braccia e si rivolge ai compagni e alle compagne. — Non è vero che è là che la aspetta? Gli altri non hanno ancora capito, ma Niccolò è una specie di capobanda, e allora fanno sì con la testa e pregustano lo scherzo che faranno al mostro.
Gemma ha tredici anni ed è nata così. Un parto lungo e difficile, fatto di dolore e di urla; terminato con un timido vagito e l’urlo della madre nel vedere quella creatura piccola e deforme, con la faccia così storta, le ossa piegate e la gobba. Tutti pensavano che sarebbe morta, perché la natura non permette di vivere a chi è nato così, ma Gemma non è morta, anzi è cresciuta vagando nelle vie del paese, guardata con sospetto da tutti, tenuta in disparte, presa in giro in ogni occasione. Eppure dietro quel viso che sembra visto attraverso uno specchio d’acqua, tanto è distorto, c’è una mente acuta e attenta ai particolari, che imparerebbe volentieri tante cose, se solo ci fosse qualcuno a insegnargliele. — Fiat voluntas Dei! — dice sempre Padre Bernardo quando passa in paese, rispondendo così a ogni domanda che riguarda Gemma. Se Dio vuole che viva, allora è così che deve essere. Ma la vita di un nano deforme è una vita dura, forgiata tra scherzi e derisioni. Anche adesso, che il gruppo dei ragazzi e ragazze del paese l’ha portata ai margini del bosco prima attirandola con il suo segreto desiderio di bellezza e poi costringendola quasi a forza. Niccolò ha lasciato il gruppo per pochi minuti e poi è tornato con il bel vestito delle feste che apparteneva a sua sorella, morta sei mesi prima. È bianco e cremisi, con ricami sui bordi fatti di filo argentato e un merletto intorno al collo. — Eccolo. Lo vuoi? Quando Gemma vede il vestito sente come un tuffo al cuore. I suoi genitori non penserebbero mai di farle fare un abito del genere, sa come la guardino ogni giorno con occhi addolorati, sa come sua madre non abbia potuto avere altri figli dopo di lei e di come suo padre stia lontano il più possibile. Ma adesso quella cosa splendida è lì, a portata di mano. Potrebbe essere sua. Il ghigno sulle labbra del ragazzo le entra negli occhi. Un sorriso maligno, come quello del serpente delle scritture. — No, no — balbetta Gemma facendo un passo indietro. — Come no. Non lo volevi? Non volevi sentirti bella? I ragazzi si stringono attorno a lei. Gemma prova a uscire da quel cerchio, ma loro la urtano, la spingono, non la fanno andare via. — Avanti mettilo — la incalza Niccolò. — Mettilo che è tuo. — No, no. Non lo voglio più. — Adesso ti vergogni? Non vuoi più essere una principessa? Ancora risate. Crudeli. Gemma ha ormai capito, ma non sa cosa fare per sottrarsi a quel gioco che non le piace. — Mettilo. Mettilo. Mettilo — la canzonano tutti. E poi le mani delle ragazze la afferrano e le tolgono gli abiti che ha indosso. — Distogliete gli occhi! — urla Niccolò agli altri maschi, ma non per senso di pudicizia o di rispetto, ma per infierire ancor di più sulla loro vittima. Il bel vestito è troppo lungo per Gemma, che ha le ossa così corte; la gobba tende i ricami, il merletto le sta storto. Adesso che lo ha indosso è ancora più forte in lei il desiderio di scappare, di sottrarsi allo scherzo. Le voci la assordano, le urla la feriscono, sa di non poter essere una principessa, che non lo sarà mai e il pianto le sgorga dal petto. Dietro di lei c’è il bosco, quel bosco pericoloso che si estende a partire dai margini del paese e risale il pendio di una prima collina, per poi ridiscendere ancor più fitto. I ragazzi sembrano più attenti a sbarrarle la strada che torna alla case e allora lei scappa via nell’unica direzione libera che le resta, tra gli alberi che già velano la luce del pomeriggio e gettano ombre scure. — Ma dove vai? Torna qui! — urla Niccolò senza accennare a inseguirla e frenando gli altri. E così Gemma, con il suo passo zoppicante e con le mani che sollevano l’orlo del vestito si allontana da sola, gli occhi pieni di lacrime che non vedono dove sta andando e il cuore gonfio di dolore. Il bosco è di un intenso verde scuro, le fronde sono cariche per l’estate, la luce si sparge in maniera ineguale tra i cespugli e gli accenni di sentieri quasi abbandonati, perché in pochi si avventurano in quella selva ormai presa dai lupi, se non per le poche decine di passi necessarie per fare legna. E di quei pochi alcuni non tornano neppure indietro. Molto meglio passare attorno alla selva che perdersi nei suoi meandri e girare senza meta cercando di indovinare dove sia il sole e l’uscita. Gemma lo sa, ma è troppo tardi quando decide di fermarsi. Gli scherzi non si sentono più, le voci di festa sono svanite da tempo, ma anche la strada per tornare sembra svanita e alberi e cespugli sembrano disporsi in fila a creare strade e a sbarrarne altre. Ogni volta che vorrebbe cambiare direzione una radice troppo alta la ostacola e la costringe a desistere o le strappa troppa fatica. Ogni volta che crede di avvicinarsi ai margini, scopre di essersi ingannata e che altre file di alberi la aspettano oppure sbuca in piccole e inutili radure. E poi ci sono i rumori. Fruscii e squittii, movimenti lenti e veloci tra le frasche e tra i cespugli, rami che si spostano anche senza vento, ombre che cambiano e ingannano. A tratti le pare di sentire dei mugolii da una parte e quando cerca di allontanarsene li sente poi proprio davanti a sé; passi felpati che smuovono foglie, respiri pesanti nell’aria. Eppure Gemma non si da per vinta; sa di essersi persa, ma non vuole fermarsi e rinunciare, non vuole desistere. E allora guarda i pochi raggi che passano in alto, osserva i muschi che crescono sui tronchi, fissa le foglie d’edera che si nutrono del sole e si crea una strada da seguire anche quando è costretta a interromperla, anche quando deve superare qualcosa o deviare. Male ombre si allungano, il sole sta calando, e i passi si fanno più vicini, si fanno più inquieti. Il primo lupo ulula e Gemma si blocca per poi abbandonarsi a un tremito. Il gelo la avvolge e ha paura di fare il passo successivo. Altri lupi, altri passi, altri ululati. Gemma non ha più lacrime, ma riprende a camminare; sa che ormai non tornerà più a casa, che il bosco la prenderà e la terrà con sé per sempre.
Quasi non si accorge della grande radura in cui entra. Gli alberi ai suoi margini si muovono appena per un brezza estiva che scende dal cielo che sta diventando di un blu sempre più intenso, anticamera del nero. Il rumore che fanno è intenso e continuo. Domina una penombra che avvolge tutto. Gemma potrebbe ributtarsi nel bosco, ma i rumori dei lupi glielo impediscono; e invece cammina nell’erba che le sfiora le caviglie, zoppica con il suo passo malfermo verso il centro. Si fermerà lì, non ha più le forze di proseguire. Che vengano i lupi a prenderla, non può più fuggire. E poi, dal centro della radura si innalza la sagoma di un lungo collo e due occhi gialli, grandi e che raccolgono la luce del cielo, la fissano. — Che cosa fai tu qui? — rimbomba una voce calda e fredda insieme, aspra come l’acqua di una fonte. — Io… io — balbetta la ragazza. — Non ho molti ospiti, di solito. Non amo gli ospiti — attorno agli occhi c’è un enorme muso di serpe, scaglie verdastre che sfumano nel colore della terra. E la grande testa scende con un collo affusolato e prosegue in un corpo possente, accucciato su quattro zampe che sembrano tronchi. — I lupi, c’erano i lupi nel bosco. — I lupi? Ah, esserini pelosi che se ne stanno alla larga. Anzi di solito tutti mi stanno alla larga — gli occhi si muovono attorno a lei, la guardano di lato e poi tornano a fissarla. — Anche gli uomini mi stanno alla larga. Gemma deglutisce a fatica. Il drago è immenso, così tanto grande che le nasconde il cielo. Le sue ali fremono anche se stanno piegate lungo il corpo. — Non volevo disturbarti. — Solo tre generi di uomini arrivano fin qui. Quelli troppo coraggiosi, quelli troppo stolti e quelli troppo umili. E due di questi generi non li gradisco affatto — le creste sulla testa si innalzano. — Mi dispiace se ho interrotto il tuo riposo, se solo avessi saputo… — Se lo avessi saputo, non saresti venuta qui? — Io, non sarei venuta. È stata colpa loro, volevano per forza darmi questo vestito, e poi ridevano e ridevano. Dicevano che ero una principessa, ma ridevano perché la verità è un'altra. Le creste si abbassano. — E la verità è? — Che sono un mostro. I lupi non si sentono più; non osano avvicinarsi alla radura dove domina il drago. — Come ti chiami, ragazza? — Gemma. — Orbene Gemma. Tu forse pensi di essere qui da me per un caso, ma non è detto che sia così. C’è un disegno ben più grande di quello degli uomini, un disegno che si tesse a formare un enorme arazzo, che determina i destini di una intera popolazione, anzi di più popoli. E questo disegno lo guidiamo noi. Noi decidiamo cosa sia meglio e cosa sia peggio, cosa deve accadere e cosa invece è meglio che non accada. Decidiamo noi chi deve vivere e chi deve morire. — Ma vivete nascosti? — Sì. Meglio non farci vedere troppo in giro, se non quando serve. Ma, diciamo che ci sono sempre utili delle mani umane, per fare quello che vogliamo che sia fatto. Alcune mani umane ci sono molti utili e noi sappiamo ricompensarle. E mani umili e acute sono le più utili di tutte. La ragazza scuote la testa, stanca del lungo vagare. — Vieni adesso. Qui da me c’è acqua da bere e anche da mangiare. Puoi fermarti qui stanotte e dormire sotto la mia ala. Domani parleremo, parleremo a lungo.
La colonna armata prosegue sulla strada per il castello del cardinale Adriano Castellesi; è Cesare Borgia, il duca di Valentino, a guidarla. Ormai è già signore di Romagna e vuole estendere i suoi domini alla Toscana, alle città di Siena, Pisa e Lucca. È anche sicuro del suo prossimo successo, visto l’appoggio che ha dal padre, il Papa. Truppe, soldi, favori, mediazioni. È l’idea di riunire una gran parte dell’Italia, ma sotto il governo della sia famiglia. Una volta presa la Toscana, e protetti dalla Chiesa, si potrebbe puntare a nord, verso Milano, verso Venezia. Ma sono piani da decidere assieme, con attenzione. Proprio per questo si sta recando alla cena organizzata dal cardinale e a cui ci sarà anche papa Alessandro. È agosto e l’aria è secca. I contadini sollevano la testa con timore al passaggio dei cavalieri, mormorano poche parole. Poi, a un tratto, oltre una curva ecco un carretto che sta fermo nel centro della strada. Subito uno dei suoi capitani si fa avanti, nel timore di una imboscata, ma Cesare scorge, intenta a cercare di spingere il mezzo reso pesante da una botte fuori da una buca, una figura bassa e tozza, che si affanna a tirare un mulo per le briglie. Cesare avanza assieme alle sue guardie e quando è a pochi passi si ferma. È una donna, forse poco più che una bambina, ma tutta deforme nell’aspetto, con un viso che è orrendo a vedersi tanto è deforme, gli occhi storti, la bocca che si chiude male. — Intralci la strada, spostati — dice il capitano. La ragazza si volta e fa un inchino sgraziato. Indossa un vestito elegante, di stoffa argentata e rossa, con ricami d’oro. —Vorrei tanto, ma il mio mulo non vuole proseguire. Si è fermato qui e non sente ragioni. — E dove andavi? — domanda il Valentino incuriosito. — Al castello del cardinale. Volevo offrire del vino e il mio spettacolo di danza a lui e soprattutto al Papa. — Di danza? — Cesare non sa se ridere o se ignorarla. La guarda e poi scoppia a ridere. —E con la danza vorresti ottenere più favori di quanti ne puoi ottenere con quella botte di vino? — Sì, mio Signore. — Come ti chiami e quanti anni hai? — Il mio nome è Gemma, mio Signore, e di anni ne ho quindici. — Danza! Una vera follia che tu voglia osare apparire al Santo Papa Alessandro VI. Non sarà quell’abito che potrà negare le tue forme. Gemma abbassa lo sguardo. — Danza! — ripete il Valentino. — Non credo che ti farebbero entrare nel castello, ma sei ugualmente fortunata perché anche io sto andando lì. Sono uno degli ospiti. — Davvero? Mi porterete con voi? Mi farete entrare? — gli occhi della ragazza si illuminano, ma Cesare distoglie lo sguardo con ribrezzo. — No. Ma il tuo vino entrerà ugualmente. E delizierà il Papa, il cardinale e tutti i suoi ospiti. Anzi, ti porgo fin da adesso i loro ringraziamenti. Goffredo, togli quel carro dalla strada e poi legaci un cavallo. Ce lo portiamo via. — Ma mio Signore? — protesta la ragazza. — Cosa vuoi? Il tuo desiderio non è stato accontentato? O vuoi protestare? La ragazza pare farsi ancora più piccola e poi si fa da parte mentre i soldati staccano i muli e attaccano uno dei cavalli di scorta al carro. — E di lei cosa ne facciamo? — domanda il capitano al Valentino. — Lasciatele il mulo, che non mi sembra neppure buono. E poi, se Do ha voluto che questa creatura vivesse fino a ora, non sarò certo io ad andare contro la sua volontà. Passano pochi minuti e Gemma si ritrova a fissare la colonna che si allontana, poi sale in groppa al mulo e lo spinge verso una strada secondaria, che si inerpica su una delle vicine colline. Questa volta l’animale non esita e si incammina docile ai comandi della ragazza. È scesa la sera quando Gemma arriva in cima. Il drago la aspetta. Non mostra impazienza. I suoi occhi fissano paesaggi lontani. — È andato tutto bene? Gemma scende dal mulo, che anche se innervosito dalla presenza del grande rettile, non osa resistere al suo addestramento. — Come abbiamo stabilito, Fuoco della Sibilla. Ha preso il vino senza sospettare di nulla e lo berrà con il Papa suo padre. Il veleno è potente; sarà difficile che si possano salvare. E se anche si salvassero, avranno di fronte un lunga malattia. — Gli uomini sono prevedibili — risponde il drago stirando le ali. — Prevedibili, crudeli e sciocchi. Meno male che ci siamo noi a guidarli. Ma adesso è tempo di andare; ci sono altri compiti per te, altre cose da organizzare. Anzi penso che sia anche ora di darti qualche aiutante. — Come desideri, mio Signore. — Bene. E un’altra cosa. — Cosa? — Quel vestito ti sta molto bene.
Edited by Alberto Priora - 4/5/2010, 13:59
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