Cowell

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  1. nescitgalatea
     
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    Mi chiamo Theodor Robert Cowell, facciamo che per il momento ti basti. So che vorresti sapere tutto e subito, ma visto che molto di quello che mi riguarda è rimasto un segreto cementato in fondo al mio stomaco per tanto tempo, usami la cortesia di avere un po’ di pazienza. Certo che se potessi guardarmi ora resteresti di stucco e forse capiresti qualcosa in più su di me.
    Ecco la scena.
    Sono seduto e da circa cinque minuti dovrei essere morto. Invece no.
    Ma andiamo per gradi. Voglio dirti tutto in rigoroso ordine cronologico, senza salti. Sono nato il ventiquattro novembre del millenovecentoquarantasei, all’Elizabeth Lund Home di Burlington, nel Vermont, una struttura che ospitava giovani donne incinte. Mia madre, Louise Cowell, all’epoca, aveva appena compiuto quattordici anni. Una mia zia racconta – più che raccontare è stata una vera e propria deposizione, ma questi sono solo particolari inutili – che appena compiuti tre anni, una fresca mattina di primavera, avevo lasciato scivolare nel suo letto alcuni affilati coltelli da macelleria, piantato lì a guardarla, sorridevo. Lei aveva iniziato a gridare come una cornacchia ma io, me lo ricordo bene, stavo solo giocando. Per cui nessuna predisposizione particolare in età infantile. Anzi, dopo il trasferimento a Tacoma, Stato di Washington, ero considerato da tutti un ragazzo modello; avevo ricevuto un encomio dal Seattle Police Department per la cattura di un borseggiatore, inoltre lavoravo come volontario in una linea telefonica di assistenza anti-suicidio. Davvero un bellissimo periodo quello.
    Poi però è successa una cosa. Una cosa strana perché ero già grande e mi ero abituato. Insomma Cowell mi era sempre piaciuto tanto, invece quella puttana di mia madre si era voluta sposare e non mi chiamavo più Cowell ma Bundy. Cazzo di cognome è Bundy! Semmai poi avrei voluto quello di mio padre che non ho conosciuto mai. Mamma farneticava che era un aviatore e io lo sognavo spesso: arrivava sul suo De Havilland Tiger Moth, un biplano tutto rosso, che ogni volta mi lasciava senza fiato. Scendeva e mi veniva incontro, io lo abbracciavo felice e gli chiedevo il mio nome ma nessuna risposta. Così mi sono tenuto Bundy: Theodor Robert Bundy. E visto che diventato pure un nome famoso, alla fine ho dovuto considerarlo una fortuna. Ovvio io mi chiamo Theodor Robert Cowell, non Bundy, ma di certo non è nel mio nome che ho mai cercato risposte a tutte le mie domande. Per cui va bene così.
    Linda Healy è stata la prima. Occhi verdi e lunghi capelli neri. Molto giovane e bellissima. Le due bastonate al centro del cranio le avevano subito impedito di gridare. Spogliandola l’accarezzavo, era morbida e piacevolmente accondiscendente. Dopo aver riposto i suoi vestiti bene in ordine nell’armadio, eccitato da tutto quel sangue, avevo fatto l’amore con lei e poi mi ero sbarazzato del suo corpo. Era il trentuno gennaio del millenovecentosettantaquattro. Non ho mai più smesso.
    Oggi è il ventiquattro gennaio millenovecentottantanove, sono le ore sette e sei minuti del mattino, come saprai tra poco, sto per essere giustiziato con una scarica elettrica di circa duemila volt per essere stato ritenuto colpevole dell’omicidio di trentasei donne, tutte tra i diciannove e i ventitre anni, con i capelli lunghi e neri. Resisterò in vita fino alle ore sette e sedici minuti di questo ventiquattro gennaio millenovecentottantanove per raccontarti questa storia e poi lasciare dichiarare alle autorità il mio decesso.
     
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8 replies since 27/4/2010, 23:30   106 views
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