Il Mazapegul
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Il Mazapegul

di Alessandro Bricchi, 13500 car.

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  1. Gordon Pym
     
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    Il Mazapegul




    A farla da padrone lì sono i sassi, forme squadrate o tondeggianti, si espandono numerosi e grigi. È una piazza vecchissima nel cuore di Cesenatico, ormai nascosta alla vista delle strade principali, la si può raggiungere soltanto percorrendo vicoli creati da abitazioni più recenti. Nel centro c’è un grande pozzo in cui un tempo veniva conservato il pesce insieme al ghiaccio. Poi c’è una casa, proprio davanti al pozzo, i cui muri non sono a piombo come quelli di fattura moderna, ma salgono inclinati verso la sommità del tetto. Sopra i muri, sborda un po’ diroccato il tavolato che sorregge i coppi, muscosi e smossi, bellissimi.
    Quando ero piccolo, in quella casa abitava un’anziana che in paese chiamavano Balocia. Per me era un nome strano e non pensavo avesse un significato, ma un giorno mi dissero che voleva dire “occhio ballerino”. Io non le avevo mai visto da vicino gli occhi, perché ricordo bene che scappavamo a gambe levate quando usciva spalancando la porta di legno.
    Noi bambini eravamo soliti giocare a pallone in piazzetta, così chiamavamo lo spazio che si apre fra il pozzo e la facciata di quella casa, e spesso un calcio maldestro, qualche volta intenzionale, mandava la sfera a rimbalzare sull’uscio o sugli scuretti chiusi dell’abitazione. Noi sapevamo che la reazione della Balocia avrebbe tardato poco e ci arrestavamo ammutoliti ad aspettarla. Si sentivano rumori provenire dall’interno, lei sembrava alzarsi da una sedia, spostare qualcosa, chiudere una porta. Forse invece era dietro l’uscio a spiarci e faceva un po’ di baccano per gustarsi le nostre facce smarrite. «Pasì vi’ da que!»¹ ringhiava secca, improvvisamente sulla soglia. Era un donnone. Aveva la pancia. Il viso contratto, la voce sottile, un poco rauca, e mentre parlava sembrava volersi mangiare le labbra. Dei ciuffi di capelli chiari le spuntavano da un fazzoletto nero che teneva legato in testa. Portava vestiti multicolore, ma in tonalità scure: parevano stracci. Noi ci sparpagliavamo all’istante, come biglie gettate su un tavolo, perché dava l’impressione di correrci dietro e raggiungerci, anche se non muoveva un passo. Trascorreva poi qualche minuto e dagli angoli della piazza ricomparivamo tutti, per giocare di nuovo a pallone. La vecchia era sparita.
    Ora vorrei che fosse qui. Le vorrei parlare, come non ho mai fatto, chiedere qualcosa. Quando ripasso da quei posti, i sassi dagli spigoli smussati mi guardano sornioni, come avessero rivisto un amico; le robinie, che già allora crescevano su un lato della piazza, hanno il tronco piccolo, come trent’anni fa; il pozzo e la casa si fanno la compagnia di una volta, anzi, sembrano consolarsi, perché qui non vedo più bambini giocare, non sento mai urla gioiose.
    Ma mentre sono lì e avverto la superficie irregolare dei ciottoli sotto le suole delle scarpe, ci sono due emozioni che mi invadono, più vivide delle altre. Una è il ricordo che nei giorni di festa si vedeva la Balocia vendere leccornie a una bancarella. Mi sembrava impossibile, allora. Quella vecchia cattiva sempre chiusa in casa era lì in mezzo alla folla. E sorrideva. Gli adulti le parlavano, la salutavano. Io non avrei mai comprato i suoi dolcetti, mi facevano schifo. Noi bambini la guardavamo da lontano, nascosti. Secondo noi i grandi non capivano.
    L’altra è legata al ricordo che alcune donne di paese chiamavano la Balocia affinché scacciasse il Mazapegul.
    Prima di terminare le scuole elementari, io avevo sentito parlare poche volte di quel folletto, e perlopiù da un mio compagno, Matteo, che abitava fuori paese. I suoi genitori erano contadini, avevano diversi animali, e lui sosteneva che nella stalla, di notte, il Mazapegul intrecciasse la criniera del loro cavallo. Un pomeriggio mi aveva persino accompagnato a vedere l’opera: sul collo della bestia, in mezzo a grovigli inestricabili, pendeva qualche treccia perfetta. «Ben fatte...» avevo dichiarato, più dubbioso che sorpreso. Non riuscivo a pensare ad altro che al mio amico Matteo intento a intrecciare i crini.
    Poi, un giorno, poco dopo che ebbi superato l’esame di quinta, anche mia nonna Pina iniziò a pronunciare il nome del folletto. Sempre più spesso. La mattina, quando si alzava, lamentava di non essere riuscita a dormire: il Mazapegul l’aveva infastidita tutta notte, le aveva premuto a lungo sul petto e lei non aveva respirato bene.
    Io non riuscivo a capacitarmi di quanti impegni avrebbe dovuto avere quell’esserino, e pensavo che mia nonna si fosse messa d’accordo con Matteo, per farmi uno scherzo. «Di’ un po’, e le trecce non te le ha fatte?» le chiesi una volta beffardo, col mento all’aria e guardandola da sopra. Eravamo alti uguale, io pensavo che la statura fosse sinonimo di maturità e così la trattavo come mia pari.
    «Noo...» rispose lei alzando le mani come in segno di resa, «quelle le fa ai cavalli!»
    «Eh, ai cavalli» ribattei. Per me non c’era dubbio, aveva parlato col mio amico. Sono anche sicuro che nessuno in casa badasse alle sue lamentele. Probabilmente i miei genitori imputavano all’età le difficoltà respiratorie che manifestava. Però un giorno mia nonna morì. Quella mattina non si decideva ad alzarsi, mio babbo entrò in camera per chiamarla e la trovò nel letto, morta. Con le mani sul petto.
    “Era anziana...”, iniziammo a ripeterci nei giorni seguenti, per giustificare la volontà divina che l’aveva voluta richiamare in cielo. Anche io lo ripetevo, con l’atteggiamento di chi già la sapesse lunga, pur avendo solo dieci anni. Tuttavia smettemmo presto quel ritornello. Non perché ci fossimo dimenticati di lei, ma perché poco dopo fu mia madre che iniziò a lamentare notti insonni e “peso sul petto”.
    La cosa andò avanti per diverso tempo e in casa scese un’atmosfera cupa. Tutti pensavamo al Mazapegul, ma di rado osavamo parlarne. Noi eravamo una famiglia di scettici. Perlomeno mio padre voleva che così fosse. Durante il pranzo talvolta si accennavano discussioni e lui, fiero del suo ruolo in casa, ne decretava l’epilogo. «No dì dal sciuchezi, Teresa!»² spumeggiava verso mia madre. «Vuoi andare dalla Balocia perché tutti ti ridano dietro, Dio cane?» e ammutoliva le sue richieste di aiuto. Si alzava da tavola spingendo via la sedia coi polpacci, accendeva un sigaro e andava alla finestra. Poi soffiava boccate di fumo contro le nuvole, come a sfidare l’Altissimo, guardando ora in alto a destra, ora in alto a sinistra. Mia madre di fronte a quei gesti sembrava nascondersi, il viso sparirle dietro i suoi boccoli castani. Allora prendeva in mano il rosario e iniziava a muovere le labbra velocemente, bisbigliando a occhi chiusi. Quando io poi uscivo per giocare e la salutavo, lei, ancora lì a pregare coi gomiti sul tavolo fra i piatti sporchi, alzava un po’ il tono della voce facendomi percepire pezzi come “... venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà...”. Era il suo modo per farmi sapere che mi aveva sentito, per salutarmi, dirmi di stare attento.
    Non so cosa convinse mio padre a chiamare la Balocia. Forse gli atteggiamenti sempre più affranti di mia madre, forse i dolori notturni che non le passavano. O magari aveva iniziato a sentire peso sul petto anche lui. Era ormai autunno, durante il pranzo iniziavamo a tenere la finestra chiusa, e in casa c’era più silenzio perché non giungeva il vociare del paese. «A la vag a ciamè!»³ sentenziò. Il suo orgoglio lo costrinse a mascherare quelle parole con un pugno sul tavolo che fece tintinnare le posate.
    Mia madre si illuminò e reputò conveniente andarsi a stendere a letto, come nell’attesa del dottore durante le febbri invernali.
    Io non mi sarei potuto perdere la chiamata della Balocia per nulla al mondo, così sgattaiolai fuori, poco dopo che mio padre fu uscito. Che coraggio aveva, che grand’uomo mio padre! Stava andando a bussare alla porta di quella strega, proprio nella sua tana, senza scappare quando sarebbe uscita! Per me era incredibile perché come era vero che nei giorni di festa lei andava alla bancarella, potevo giurare che in casa sua non avevo mai visto entrare nessuno. «Vai, falle vedere chi comanda!» ripetevo fra i denti. «Diglielo babbo, di’ che venga a prendersi quella specie di folletto!» Lo ammiravo seguendolo da venti passi di distanza, mentre odoravo la scia del suo sigaro. Si chiamava Guglielmo, non era tanto alto, ma anche fuori casa portava quel carattere dominante che gli riconoscevo fra le mura domestiche. Gli occhi scuri sotto la visiera del berretto marrone, il viso scavato, la barba fatta la sera prima che mi sembrava pepe e sale. Avanzava imprecando, nervoso ma sicuro. Ogni tanto scalciava qualche foglia rossiccia che i tigli avevano già lasciato cadere; al suo passaggio le case sembravano pietrificarsi; la via, che di solito spariva negli incroci del centro, sembrava poter condurre in un luogo solo.
    Arrivato alla casa, mio padre aprì la porta ed entrò chiedendo permesso. La cosa mi lasciò di stucco. Non aveva bussato. Occorreva dunque far così con la Balocia? Pensai che forse lei si trasformava al rumore sull’uscio, che fosse di pugno o di pallone. Di certo, so che mio padre stette meno di un minuto lì dentro. Quando uscì, io corsi a casa precedendolo.
    «Viene alle otto» disse a mia madre, dopo che fu rincasato. E alle otto lei arrivò zoppicando, con un forcone su cui ogni tanto si puntellava. Io l’avevo vista arrivare affacciato dalla finestra e il pensiero di quella vecchia dentro casa nostra mi dilaniava. Cosa voleva fare col forcone? Infilzarci tutti? Corsi in camera da mia madre e mi nascosi nell’armadio, lasciando uno spiraglio di un millimetro fra le due ante: l’ombra che da lì sembrava uscire e dilatarsi nella stanza, gli abiti dei miei genitori che mi accarezzavano le spalle, l’odore di naftalina nelle narici, il mio occhio destro appiccicato alla fessura e le ciglia che strisciavano ritmicamente sul legno grezzo dell’interno. «Fa’ che passi in fretta» sussurrai, congiungendo le mani per un attimo.
    S’intesero a gesti, sguardi. Parlarono poco, ma le cose non dette pesavano come macigni. Udii che accennarono qualcosa su mia nonna e la voce vibrante della Balocia che disse «La Pina, la s’ puteva salvè.»4
    Rabbrividii. L’idea che lei avrebbe potuto salvare mia nonna non me la rendeva comunque simpatica, e anzi ai miei occhi la metteva ancor più in relazione con forze oscure e spaventose. Avevo ragione, era una strega.
    Mise il forcone sotto il letto dei miei genitori, sostenendo che avrebbe spaventato il Mazapegul. Inoltre, lei sarebbe entrata di notte, in casa nostra, per rubare il cappellino rosso che il folletto avrebbe dovuto lasciare davanti alla porta della camera. Quel furto lo avrebbe allontanato per sempre.
    La Balocia dentro casa, di notte? Mi sembrava di impazzire. «E perché il Mazapegul ce l’avrebbe con noi?» azzardò mio padre con aria indifferente, come se stesse facendo quella domanda per conto di sua moglie, le labbra curvate in un leggero sorriso. La Balocia girò la testa di scatto verso quell’uomo che mostrava irriverenza; il viso le si contrasse come quando appariva sulla soglia di casa sua e ghignò «Forse perché in famiglia ci sono degli scettici che non credono in lui.»
    In seguito aggiunse, farfugliando come se stesse parlando di malavoglia, che il Mazapegul non era cattivo, solo dispettoso, però quando prendeva in antipatia una donna la molestava fino a ossessionarla. «Ma» e si illuminò puntando l’occhio buono su mia madre, mentre con quello ballerino teneva ancora a bada mio padre, «se quella ha il cuore debole, l’è un guai.»5
    Il cuore! Tremante, posai una mano sul mio. La vecchia parlava di donne, ma quella discriminazione non mi rassicurava affatto. Era debole il mio cuore? Mi sembrava di non sentirlo battere.
    «Com’è fatto?» fu l’unica cosa che riuscì a dire mia madre.
    «È grigio» rispose la vecchia girandole le spalle. «Ha il pelo come quello di un gatto» e si incamminò verso l’uscita. Ma prima di andarsene mi guardò.
    Passando esaminò la fessura nell’armadio dall’alto fino in basso, come fosse stata una voragine. Lei sapeva. Sapeva che cercavo conforto negli abiti dei miei genitori e che speravo lei si togliesse dai piedi alla svelta, sapeva che non avevo creduto alle trecce di Matteo e che avevo mancato di rispetto a mia nonna; sapeva che avevo tirato il pallone contro la porta di casa sua.
    Quella notte, chiuso a chiave nella mia stanza, non dormii. Tenevo la testa sotto le lenzuola, troppo sottili per ripararmi dal buio della stanza, troppo leggere per isolarmi dai rumori della casa. Malgrado la tentazione, non ebbi il coraggio di spiare dalla serratura quando sentii dei passi nel corridoio. Ma sono contento di non averlo fatto, non so che uomo sarei diventato se avessi visto cosa stava accadendo quando udii la Balocia dire «A t’ho ciapè!»6
    La mattina seguente mia madre si svegliò dicendo che stava bene, e così disse per molti anni a seguire.
    Ora provo un vago senso di gratitudine nei confronti di quella signora, ma so che è infondato. Nonostante ciò che è accaduto, nonostante gli eventi che hanno segnato la mia infanzia, crescendo, io sono diventato scettico, come mio padre avrebbe voluto. Non credo a storie di folletti e ho riso quando mi hanno raccontato che alla morte della Balocia, in casa sua, hanno trovato tanti piccoli coni rossi: i cappellini che aveva rubato ai Mazapegul. Chissà, forse in realtà li aveva cuciti lei.
    Vorrei però che la Balocia fosse ancora qui. Le vorrei parlare, come non ho mai fatto. Solo per curiosità, per far due chiacchiere, perché i dottori mi hanno detto il vero motivo per cui da qualche tempo, durante la notte, ho la sensazione di avere un peso sul petto. I malanni cardiaci possono essere ereditari, sostengono.




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    Note:
    ¹ Pasì vi’ da que = andate via da qui.
    ² No dì dal sciuchezi = non dire sciocchezze.
    ³ A la vag a ciamè = la vado a chiamare.
    4 La s’ puteva salvè = si poteva salvare.
    5 L’è un guai = è un guaio.
    6 A t’ho ciapè = ti ho preso.


    Edited by Gordon Pym - 16/5/2010, 08:58
     
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  2. Daniele_QM
     
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    Molto carino, ben scritto, fila via liscio e lascia un buon sapore di cose antiche. Credo sia il tuo lavoro migliore, almeno tra le cose che ho letto. Buono pure il finale, che lascia il dubbio sulla veridicità del folletto. Esisteva o no? Lui non lo ha mai visto, né sentito.
    Un tre pieno. :D
     
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  3. marramee
     
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    Ciao,
    devo dire che mi è davvero piaciuto. Oddio, una lieve somiglianza con i Monacheddi ce l'ha, però la scelta di mantenerlo nel campo del possibile e dell'indefinito, a mio parere è quella giusta. Molto bella l'atmosfera. Come voto è un tre abbondante, quindi mi sembra giusto mettere quattro.
     
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  4. Gordon Pym
     
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    Grazie Daniele_QM e marramee per la lettura - e per le considerazioni, che ovviamente mi fanno piacere.
    Aggiungo qui che se qualcuno volesse "approfondire" la leggenda romagnola (detta fola - favola) del Mazapegul, trova qualcosa in wikipedia.
    Ciao
     
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  5. rehel
     
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    Ah... il Marzapegul, il dispettoso folletto romagnolo. :P
    Ti leggerò presto; io, intanto, sono alle prese con quella simpaticona della Borda... image
     
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    Losco Figuro

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    È curioso che ogni tanto finisca per imbattermi in un'altra versione regionale di questo folletto, che pare sia diffuso in tutta Italia (da noi si chiama «monaciell'»).
    Un racconto ben costruito e ben scritto, voto 3.

    CITAZIONE (Gordon Pym @ 1/5/2010, 00:58)
    Dei ciuffi di capelli chiari le spuntavano dal fazzoletto nero che teneva rilegato in testa.

    Rilegato mi sembra un termine più adatto a un libro che a un fazzoletto. Anche se lo intendi come legato due volte (ma poi perché due volte?) c'è di sicuro un modo migliore per dirlo.

    CITAZIONE (Gordon Pym @ 1/5/2010, 00:58)
    Le vorrei parlare, come non ho mai fatto, chiedere qualcosa.

    Meglio "chiederle"

    CITAZIONE (Gordon Pym @ 1/5/2010, 00:58)
    «Vuoi andare dalla Balocia perché tutti ti ridano dietro, Dio cane?» e ammutoliva le sue richieste di aiuto.

    Ammutolire è intransitivo, significa zittirsi, non far tacere qualcosa/qualcuno.

    CITAZIONE (Gordon Pym @ 1/5/2010, 00:58)
    ghignò «forse perché in famiglia ci sono degli scettici che non credono in lui.»

    Manca la maiuscola a "Forse"
     
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  7. Gordon Pym
     
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    Grazie per la lettura e per i suggerimenti, CMT.
    CITAZIONE (CMT @ 1/5/2010, 17:51)
    È curioso che ogni tanto finisca per imbattermi in un'altra versione regionale di questo folletto, che pare sia diffuso in tutta Italia (da noi si chiama «monaciell'»).

    Quando ho saputo che il Mazapegul era una leggenda romagnola, mi sono chiesto infatti quale fosse l'interpretazione, nelle altre regioni, di fenomeni come le trecce dei cavalli (di cui io sono testimone). Dunque esiste qualcosa di simile anche altrove...

    CITAZIONE (Gordon Pym @ 1/5/2010, 00:58)
    Le vorrei parlare, come non ho mai fatto, chiedere qualcosa.

    Meglio "chiederle"

    Io avevo inteso porre le virgole come incisorie, però forse suona meglio come dici tu.

    CITAZIONE (Gordon Pym @ 1/5/2010, 00:58)
    «Vuoi andare dalla Balocia perché tutti ti ridano dietro, Dio cane?» e ammutoliva le sue richieste di aiuto.

    Ammutolire è intransitivo, significa zittirsi, non far tacere qualcosa/qualcuno.

    Ho dato un'occhiata e pare che ammutolire sia anche transitivo:
    http://dizionari.corriere.it/dizionario_it...mmutolire.shtml
    http://www.dizionario-italiano.it/definizi...&lemma=A069EC00
    magari però non è molto usato in tal senso, forse è meglio cambiare, ci penso...

    Grazie ancora, ciao.

     
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    Losco Figuro

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    CITAZIONE (Gordon Pym @ 1/5/2010, 18:54)
    Quando ho saputo che il Mazapegul era una leggenda romagnola, mi sono chiesto infatti quale fosse l'interpretazione, nelle altre regioni, di fenomeni come le trecce dei cavalli (di cui io sono testimone). Dunque esiste qualcosa di simile anche altrove...

    Più che altro il monachello è proprio identico: trecce ai cavalli, peso sul petto, cappellino rosso... Solo che il cappellino se lo tiene in testa e non lo lascia fuori dalla porta.
     
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  9. Piscu
     
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    bel racconto, non ho appunti particolari. forse solo che avresti potuto dire qualcosa di più sul presente del protagonista, piuttosto che riassumere tutto nelle ultime tre righe, ma non è un grosso problema.

    visto che è scivolato benissimo e la storia mi è piaciuto, ti metto un bel 4.









    tanto per fare un po' di conversazione, le leggende specifiche sul folletto non le conosco, ma di storie su un una "presenza" che opprime sul petto la vittima ce ne sono molte (ad esempio ne parla Burroughs nel pasto nudo), e tempo fa mi documentai sulla cosa perché a un amico di mio padre capitavano episodi del genere. qui si parla di qualcosa del genere: http://en.wikipedia.org/wiki/Koro_%28medicine%29
     
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  10. Gordon Pym
     
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    Grazie per la lettura, Piscu.
    Grazie anche per il link, interessante, ma facendo una traduzione con google (non mastico inglese fino a tal punto) non trovo questioni di peso sul petto ecc., solo restrizioni di organi sessuali! :huh: Ti sei forse sbagliato link? Come dicevo è comunque interessante, potrebbe essere d'ispirazione per un racconto - hard, magari! :D

    Grazie ancora, ciao.
     
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  11. Piscu
     
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    CITAZIONE (Gordon Pym @ 4/5/2010, 20:47)
    Grazie anche per il link, interessante, ma facendo una traduzione con google (non mastico inglese fino a tal punto) non trovo questioni di peso sul petto ecc., solo restrizioni di organi sessuali! :huh: Ti sei forse sbagliato link? Come dicevo è comunque interessante, potrebbe essere d'ispirazione per un racconto - hard, magari! :D

    sì in effetti quella non è proprio la stessa cosa ma appartiene alla stessa "famiglia" di patologie più o meno psicosomatiche e più o meno inspiegabili. per quella dell'oppressione al petto e senso di soffocamento prova a cercare qualcosa sul "bangutot".



    fine ot!
     
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  12. Fini Tocchi Alati
     
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    Bello! Mi è davvero piaciuto.
    Addirittura, verso la fine, ci sono rimasto male. Ma come, finisce così presto! Tanto mi stava piacendo...
    Forse e dico forse, potresti svilupparlo e ricavarne un racconto più lungo.
    E' un peccato esaurire una così bella storia in poco più di 12k battute.
    Dico, dunque, 4.
     
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  13. Gordon Pym
     
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    Grazie per la lettura Fini Tocchi Alati, e per il commento, sono contento che ti sia piaciuto!
     
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  14. rehel
     
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    Puff... puff, sono in ritardo. Avrei voluto leggerlo prima, ma non ho avuto tempo.
    Un'ottima prova, devo dire. Non è un racconto roboante in cui succede chissà che, ma credo che il suo fascino sia proprio quello di un delicato bozzetto, col potere di suggestione dato dalla semplicità di una storia esile, ma che esala il fascino dele cose passate via con lo scorrere del tempo, e poi è ben scritta.
    Anche il finale, semplicissimo, colpisce nel segno. <_<
    Segnalo alcune ripetizioni che toglierei:
    Quando ripasso da quei posti.. e poi poco dopo si ripete: Però, mentre ripasso da lì...
    E anche:
    le case sembravano pietrificarsi; e poco dopo: sembrava poter condurre in un luogo isolato.
    Detto questo, sarei fra il tre e il quattro. Allra mi concedo un rigurgito di campanilismo e dico quattro :D
     
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  15. Gordon Pym
     
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    Grazie per la lettura rehel, e soprattutto per il rigurgito! :D
    Ero consapevole dei due punti che mi segnali, ma il primo l'ho lasciato perchè mi sembrava sottolineare, incidere il fatto di "ripassare da quei posti" (idea mia, magari sbagliata) -- EDIT: l'ho cambiata ;) -- ; la seconda ripetizione (o meglio, allitterazione) avevo invece cercato di eliminarla sostituendo uno dei due "sembrare" con "parere", ma "parevano pietrificarsi" o "pareva poter condurre" mi suonava peggio, così ho lasciato. Forse andrebbe ricostruita la frase. Ci penserò. Grazie per le osservazioni generali.

    ps. sai che non conoscevo la Borda cui accennavi sopra? Probabilmente dalle mie parti non ha "attecchito" comunque ho dato un'occhiata su google e ho visto che ne hanno fatto persino una fiction sulla rai! Me la sono persa, voglio vedere se riesco a trovarla...

    Edited by Gordon Pym - 16/5/2010, 09:00
     
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