Viva Santa Rosalia!
  • Poll choices
    Statistics
    Votes
  • 3
    61.54%
    8
  • 4 (max)
    38.46%
    5
  • 2
    0.00%
    0
  • 1 (min)
    0.00%
    0
Guests cannot vote (Voters: 13)

Viva Santa Rosalia!

di Antonino Alessandro, Fantastico

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. Alessanto
     
    .

    User deleted


    Pur sapendo che la lunghezza sarà un grosso ostacolo per molti di voi posto una delle mie ultime creazioni: ho bisogno di sistemarlo col vostro aiuto.


    Viva Santa Rosalia!



    14 Luglio 2005

    Maria piangeva mentre la figlia giaceva sul letto.
    La testa avvolta dalle bende bianche punteggiate di rosso e il tubo di plastica trasparente che, arrogante, le usciva dal collo. Il soffiare cadenzato dello stantuffo saturava la stanza più del sole da dietro le tende.
    Nel suo giaciglio pieghevole di nailon e acciaio, stava con il mento sulla mano mentre l’altra, abbandonata lungo il fianco, reggeva un rosario.
    L’aveva snocciolato una pallina dopo l’altro non sapeva quante volte; percorso con cadenza militare come un sergente di quelli dei film, di quelli che urlano, di quelli con in testa un cappello che sembra un disco volante.
    Uno, due!
    Un Padre Nostro.
    Uno, due!
    Dieci Ave o Maria.
    Uno, due!
    Un Gloria al Padre.
    Passo.
    E via, di nuovo ad accarezzare la plastica certe volte a occhi chiusi, certe volte fissando il muro bianco. Ma non riuscendo mai a guardarla.
    Si alzò e, con passo incerto, i piedi prigionieri delle ciabatte di pezza, si avvicinò alla finestra.
    Un’altra mattina.
    Finalmente un po’ di luce al termine dell’ennesima notte passata nel buio della corsia, nel silenzio odoroso di disinfettante.
    Sospirò e osservò il parco intorno l’ospedale.
    Tirò su col naso mentre scrutava il mondo inconsapevole del suo dolore.
    Un infermiere che si affrettava lungo i viali asfaltati con delle provette in mano, una lettiga vuota parcheggiata accanto a un muretto, due vecchi sposi, lui seduto su una panchina, lei su una sedia a rotelle e, vicino il furgone dei panini, tre colombe che facevano piazza pulita di ciò che rimaneva del pasto di chissà chi.
    Si chiese a cosa sarebbe stata la loro vita senza Anna e si ritrovò il solito groppo in gola, la solita pallina da tennis che rimaneva lì a costringeva i singhiozzi a schizzar fuori dalle labbra contratte e le lacrime a scorrere sulle guance.
    Si asciugò velocemente col fazzoletto di carta diventato poltiglia e cercò di dominarsi: aveva promesso di non piangere davanti a lei.
    Guardò di nuovo la figlia: dell’incidente erano rimaste solo alcune tracce di blu sopra l’occhio, un pezzetto di plastica, simile a una molletta con dei fili attaccati, che le stringeva l’indice e gli incavi dei gomiti trafitti dagli aghi.
    Si voltò verso la finestra.
    L’infermiera, in uno dei suoi rari passaggi, le aveva coperto le gambe con un lenzuolo. Quando l’aveva fatto Maria aveva sospirato per il sollievo: non riusciva a sopportare la vista del metallo, delle viti, della plastica semitrasparente, che le teneva insieme.
    La donna conquistò di nuovo la sedia. Quando la gravò col suo peso sperò che il suo scricchiolio la svegliasse.
    «Mamma, sto dormendo!» avrebbe voluto che le dicesse: seccata come quando alzava la serranda la mattina, prima di andare a scuola.
    La donna imbracciò di nuovo il rosario: stava cominciando a recitarlo di nuovo, quando vide il calendario sulla parete, sotto il crocefisso con sopra un ramo di ulivo benedetto.
    «Oggi è il festino….» disse.
    Trasse un sospiro.
    “Ti prego, Santuzza. Fai il miracolo…” pensò.


    14 Luglio 2010

    «Ti ho detto che non ci vengo!»
    «Ci verrai, invece!»
    Anna, in piedi al centro della cucina, guardava la madre che friggeva le melanzane: quella sera, per festeggiare, caponata.
    «Ma lo vuoi capire che non ci voglio venire?»
    Maria continuò a cucinare.
    La ragazza sbuffò e provò a cambiare strategia: aprì il frigo e si versò un bicchiere d’acqua, quindi, si sedette su una delle sedie impagliate, e si fece seria.
    «Mamma, ascoltami. La festa di Marisa per me è importante…» fece una pausa per scegliere le parole giuste.
    Bevve un sorso d’acqua e guardando il crocefisso appeso al muto sopra il tavolo, continuò: «Per favore, fammi andare. Fa diciotto anni, è la mia migliore amica. Già l’anno scorso non mi hai dato il permesso e…»
    La madre prese la carta assorbente e la posò su un piatto, quindi, con la schiumarola cominciò ad adagiarvi sopra le melanzane a cubetti; il tupé ingrigito si muoveva tranquillo.
    «Mamma? Mi ascolti?»
    «Sì, Anna, ti ascolto» disse Maria senza voltarsi.
    «Ma hai deciso di non rispondermi…»
    A quelle parole, Salvatore decise di intervenire.
    «Per favore, voi due potreste smettere?»
    L’uomo, col telecomando in mano, cambiò canale e guardò l’orologio al polso: il suo programma preferito stava per iniziare.
    Anna rivolse gli occhi al cielo, sempre in attesa di una risposta.
    «Allora, mamma?»
    La donna chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro, infine si decise a rispondere:
    «Tu sai perché dobbiamo andare…» disse mentre gli occhi le cadevano sui segni sulle braccia e sulla gola della figlia.
    Fu solo un attimo, poi gettò l’occhio in un punto imprecisato oltre Anna. Si sentì colpevole: «Non c’è nulla da discutere. Stasera andremo alla processione della Santuzza e basta.»
    La ragazza si coprì la gola con una mano, in un gesto diventato istintivo. Sfiorò con la punta delle dita la superficie ruvida della cicatrice. Certe volte riusciva anche a dimenticarsene.
    «Cose da pazzi! Sentite cosa sta dicendo questa!» disse il padre ad alta voce cercando di mitigare la tensione che stava crescendo. Sapeva già come sarebbe andata a finire.
    Madre e figlia proseguirono nella loro discussione.
    «Ma, mamma, perché? Anche Padre Giuseppe ha detto…»
    «Stai zitta!» gridò la madre, sbattendo la mano aperta sulla cerata a quadri e facendo tintinnare le tazze della colazione.
    Il padre alzò un po’ il volume della televisione: il giudice stava ascoltando l’ennesimo caso finto tra figuranti pagati: un’attrice travestita da suocera stava chiedendo un indennizzo a un’altra attrice che faceva la nuora. Secondo lei un anello di un fidanzamento andato male valeva mille euro.
    «Non voglio sentire nulla! Hai capito? Padre Giuseppe non può sapere cosa abbiamo sofferto!» urlò la donna; si alzò di scatto e andò ai fornelli.
    «Dio ci ha aiutati, non padre Giuseppe. Quando eri sul letto a morire sai quante volte è venuto? Te lo dico io: una volta sola. A darti l’unzione degli infermi. Era lì con la stola viola a farfugliare. Sai cosa mi ha detto prima di andarsene? Ovviamente di fretta perché doveva celebrare un battesimo dopo mezz’ora? Mi ha detto: “Sorella mia, siamo nelle mani di Dio!” Siamo? Cosa vuoi dire con siamo? Noi e chi?»
    «Ma…» provò a dire Anna.
    «E io nelle sue mani mi sono messa. E continuo a starci. Noi tutti ancora ci stiamo. E se il Signore ci da la grazia di una vita lunga, ci staremo a lungo! Non voglio storie: sparecchia e vai in camera tua.»
    «Vorrei che quel fuoristrada avesse fatto un lavoro migliore…» disse Anna mentre gli occhi le si appannarono e le cicatrici sulle gambe le prudevano come punture d’insetti.
    Un silenzio di piombo riempì la stanza, denso come il petrolio e altrettanto scuro. Anche il padre attonito le osservava, passando lo sguardo dalla moglie alla figlia come chi segue una partita di tennis; si stava perdendo l’attrice che faceva la suocera che, in un mormorio di disapprovazione di un pubblico ammetteva di aver ascoltato alcune telefonate tra il figlio e la nuora.
    «Anna, cosa stai dicendo?» bofonchiò l’uomo gli occhi bovini strabuzzati come una maschera di carnevale. Nel frattempo Maria aveva smesso di preparare l’agrodolce e si era avvicinata alla figlia; era a pochi centimetri dal suo viso.
    «Vergognati!» le gridò. Alcuni schizzi di saliva, come faville, colpirono la ragazza sul viso e sui vestiti.
    «E perché? È proprio quello che penso…» la pugnalò Anna.
    La madre tirò indietro il braccio e la colpì. Lo schiocco si andò a incastrare tra le parole “ascoltano” e “telefonate” del giudice televisivo dalla figura minuta e dalle sopracciglia a mezzaluna arcuate come falci grigie.
    La ragazza, con la guancia in fiamme e l’umiliazione nel cuore, riuscì a non piangere.
    «Anna…» disse il padre.
    «Lasciami in pace!» urlò la ragazza. Uscì dalla cucina e si diresse verso la sua camera.
    La donna, incurante dello sguardo del marito, iniziò a sparecchiare la tavola.

    ***


    Anna si buttò sul letto e a quel punto, nella solitudine rosa della sua stanza ancora da bambina, pianse.
    La crisi le durò una decina di minuti. Poi, si sedette sul letto ancora singhiozzando, gli occhi gonfi, il cuscino bagnato e una rabbia che le faceva formicolare i polpastrelli. Aveva voglia di gridare, di lanciare qualcosa contro un muro, di fracassarlo con le proprie mani. Le braccia conserte, solo con le calze, si mise a passeggiare nella stanza.
    «Perché?» chiese al poster di Robbie Williams che le ammiccava dalla parete di fronte.
    Sua madre era cambiata dall’incidente. Se ne era accorta subito: immagini sacre dovunque, santini infilati in ogni libro e la recita della preghiera prima di mangiare. Oltre che la devozione del festino. Ogni anno a luglio, tre giorni di festeggiamenti e posto in prima fila per assistere allo spettacolo.
    “Viva Palermo e Santa Rosalia!” urlato dal sindaco di turno e i fuochi artificiali, tra Monte Pellegrino e il mare, che rischiavano la notte estiva.
    Ad Anna in passato piaceva, le luci dei carretti della semenza, i dolci, i venditori di pane con la milza e le sedie su Corso Vittorio Emanuele posizionate con ore d’anticipo per vedere il carro della Santa.
    Ma adesso non più.
    Anna aprì lo zaino, raccogliendo tra i fogli spiegazzati la sua Smemoranda. Gravida e deformata per le graffette, gli adesivi e i bigliettini, la appoggiò sul tavolo e lei si aprì, come per magia, alla pagina giusta.
    La ragazza fissò la foto incorniciata dai cuoricini disegnati coi pennarelli colorati.
    Marco e lei erano abbracciati, le teste vicine, le braccia l’uno sulle spalle dell’altra, sullo sfondo una lavagna con ammassate decine di formule e una parabola affettata da una manciata di linee parallele. Sorridevano entrambi all’obiettivo della foto rubata durante il cambio d’ora. Ricordava ogni istante di quell’evento: lui seduto accanto a chiederle qualcosa di matematica, Francesca che li chiama, loro che si voltano e un tempo eterno prima che la luce gialla sulla macchia diventasse verde. Poi un flash e Francesca che esclama ridendo: “Sembrate fidanzati!”.
    Uno sguardo di sottecchi e lui che le aveva sorriso di nuovo.
    “Perché, no?” parvero dirle le labbra cerchiate da un pizzetto trasparente.
    Anna si portò la foto al petto, sognando che quella stretta arrivasse a destinazione.

    ***


    «Non potremo mandarcela alla festa?» chiese il padre pochi minuti dopo che la figlia se ne era andata.
    Maria chiuse gli occhi, una tazza con sul fondo pochi corn flakes ammollati dal latte: «Non ti ci mettere anche tu, Salvo. Per favore! Sai cosa significherebbe.»
    L’uomo prese fiato come per controbattere. Spense la televisione. La sua tattica quel giorno non aveva funzionato.
    «Vado a lavoro. Ci vediamo stasera» disse l’uomo.
    «Ciao, Salvo. Mi raccomando puntuale» disse Maria sorridendo.
    «Va bene, Maria» rispose Salvatore.
    Un’ultima occhiata alla donna affaccendata ai fornelli, una preghiera muta e, trascinando i piedi, l’uomo uscì, il cuore stretto in una morsa per ciò che in quegli anni aveva perduto.
    Maria udì dopo pochi minuti la porta d’ingresso che si chiudeva. A quel punto posò il coltello con cui stava snocciolando le olive per la caponata sul tagliere di legno, e si sedette. La sdraio di plastica, dove ammassava una dietro l’altra le serate davanti alla TV, leggendo le preghiere della giornata, la ospitò di buon grado.
    Alzò gli occhi verso il soffitto ingiallito dai fumi della cucina e il lampadario di ceramica colorata sorretto da una catenella d’ottone, poi si ripulì le mani viscide sul grembiule bianco e le giunse: «Padre celeste, dammi la forza» disse verso l’immagine appesa sopra il frigo. Due lumini rossi dalla luce tremolante su una piccola mensola e l’ulivo benedetto posto in equilibrio sul gancio sul muro.
    Si fece il segno della croce e recitò a occhi chiusi un Padre Nostro.
    Quando completò la preghiera li riaprì: il volto luminoso del Cristo la accolse come una calda coperta. La pelle chiara, i boccoli biondi sulle spalle e il cuore, trafitto da una corona di spine le proiettarono nella mente, come un film muto, l’immagine di sua figlia sul letto che riapriva gli occhi e le sorrideva.
    Anche la donna sorrise: il cammino ancora una volta le era stato indicato senza alcuna possibilità d’errore.
    «Grazie, Signore mio. Scusa per i miei dubbi. Ti prego, porta pazienza e misericordia per la mia famiglia.»
    Quindi si fece il segno della croce e si asciugò le lacrime col grembiule da cucina. Poi si alzò e proseguì a cucinare.
    Le fiammelle tremarono.

    ***


    «Me ne fa’ due euro? Miste» disse le ragazza osservando la madre attenta alla sfilata.
    L’uomo compose un coppo con pochi gesti e affondò le mani grinzose tra gli scomparti e i mucchi di ceci secchi, i semi di zucca e noccioline americane.
    Anna approfittò di un gruppo di ragazzi che si frapposero tra lei e Maria e, con l’involucro di cartone marrone ancora tra le mani, si allontanò dalla bancarella ornata di pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, frange, cartoncini, festoni di carta e stagnola luccicante.
    Bastarono pochi passi per essere inghiottita dalla folla.
    Senza voltarsi, guardò l’orologio e si diresse verso il Foro Italico tra la gente che mangiava lumache, anguria e sfincione.
    «Ti sto aspettando da dieci minuti» disse Michele quando la vide.
    «Scusami. Hai visto che casino, no?» rispose lei.
    «Minchia, vero!» ribatté guardandosi intorno, lo scooter già acceso sotto il sedere e una sigaretta di sbieco che pendeva dalla labbra.
    «Non l’avevi visto mai?» chiese Anna montando dietro.
    «Ma che scherzi? Io? Stare in mezzo a quei fissati con la canottiera e il pane con le panelle in mano? Ma sei partita di cervello?»
    «Devo essere proprio una stupida, vero?» disse ridendo.
    «E sì: proprio una stupida» rispose il ragazzo ridendo a sua volta, i capelli lisci ma spettinati che uscivano dai lati del casco.
    «Dai, andiamo va’.»
    «Agli ordini capo! Direzione: casa di Marisa!»
    «Eh, no, gioia. Prima mi devo cambiare.»
    «Che palle!»
    «Dài, ci metto poco.»
    Un fremito attraversò le persone vicine: il carro era stato avvistato, già si sentivano le invocazioni e il “Viva Santa Rosalia” recitato ai bordi della strada, mentre i fiori preparavano il passaggio.
    «Okay. Alla fine con tua madre? Hai risolto?» chiese facendo cader giù lo scooter dal cavalletto.
    «Certo! Siamo rimaste che ne vedevo un pezzetto e che tornavo presto» rispose lei.
    «Alla fine l’hai convinta? Spettacolo!» ribatté lui zigzagando tra auto, persone e bancarelle.
    «Eh, sì! Dài, veloce che oggi mi voglio proprio divertire!» esclamò Anna i capelli nel vento.
    «Agli ordini, capo!»

    ***


    «Dov’è Anna?» chiese Federica osservando la sfilata.
    La donna aveva già fissato l’orologio una decina di volte; il nervosismo le si leggeva in due rughe parallele tra gli occhi.
    «Aveva detto che andava a comprare un po’ di calia e semenza» rispose.
    «Allora starà tornando.»
    «E Angela? Dove l’hai lasciata?»
    «Quest’anno non è voluta venire. Sai, gli amici…»
    Le rughe sul volto di Maria si fecero un po’ più pronunciate.
    «Le permetti di non venire?»
    «E che ci posso fare?» disse Federica sorridendo.
    Maria stava per controbattere ma il fracasso lo rese impossibile. Sei file di tamburellari da quattro ciascuno preannunciarono l’arrivo del carro.
    «Viva Palermo e Santa Rosalia!» dissero i spettatori chi in italiano chi in dialetto.
    Le macchinette stavano passando in quel momento e dietro di loro, trainato da due coppie di buoi, il grande carro con la statua. La linea sinuosa del profilo disegnato dai pilastrini della balaustra, i corrimano modanati, le volute, i festoni in legno lavorato e sul pulpito più alto, sotto i musici, la Santa.
    Le ruote di metallo sferragliavano tra le buche di Corso Vittorio Emanuele, supersiti al solito maquillage delle strade pre-festino, mentre il vessillo della città dietro la statua svolazzava nel vento di Scirocco.
    Dietro il carro un corteo di persone che ballavano sotto le luminarie riflesse dalla stagnola di cui il carro era ricoperto: “Viva Santa Rosalia!” gridavano tutti.
    «A’ Santuzza! Taliate chi biedda!» urlò un ragazzino lì vicino lanciando un fiore verso il carro. Maria osservò la rosa che, nonostante la parabola perfetta, colpì il fianco del carro per adagiarsi sull’asfalto dove l’accolsero decine di suole.
    Un uomo grasso come un otre, con i capelli unti buttati all’indietro, le tracce di pettine che lasciavano vedere la pelle pallida, prese fiato e gridò:
    «Nutti e jornu farìa sta via!»
    «Viva Santa Rusulia!» rispose in coro la folla.
    «Ogni passu e ogni via!» aggiunse il grassone.
    «Viva Santa Rosalia!» gridò alla sua destra un gruppo di persone masticando dei panini con la milza impacchettati nella carta marrone resa traslucida per lo strutto.
    Maria cercò la figlia.
    Il carro passava proprio a pochi centimetri da dove loro, assiepate dietro la transenna, avevano trovato posto. Vicino persone in canottiera che si erano portate le sedie da casa.
    Ancora una volta l’uomo gridò:
    «Ca ni scanza di morti ria!»
    «Viva Santa Rusulia!»
    «Ca n’assisti a l’agunia!»
    «Viva Santa Rusulia!»
    «Virginedda gluriusa e pia
    » urlò l’uomo, ancora una volta con tutta l’energia che aveva in corpo.
    «Viva Santa Rusulia!» gridarono tutti. Un applauso rimbalzò tra i palazzi nobiliari di Corso Vittorio.
    Maria non gridò la sua devozione come faceva ogni anno: continuò a guardarsi intorno.

    ***


    «Auguri!» disse quando Marica, nel suo tubino corto e rosso, le spalancò la porta.
    «Sei venuta! Quanto sono contenta!» rispose l’amica mentre si abbracciavano.
    «Non me le sarei persa per nulla al mondo!» esclamò Anna. Poi, appoggiando la maglia sottile sulla catasta di giacche e giubbotti che copriva l’appendiabiti, mise in mostra il decolté.
    «Uao! E questo? Da dove sbuca? Sei bellissima!» disse Marisa osservando un paio di ragazzi che avevano assistito alla scena scambiarsi un gesto d’intesa.
    «Risparmi» rispose Anna ridendo.
    «Dài, vieni ti porto da lui»
    «Okay. Ciao Michele ci si vede!» esclamò Anna all’amico che aveva fatto un timido passo all’interno della casa. Aveva ancora il casco in mano e il pacco del regalo di compleanno dentro il sacchetto di plastica.
    «Ciao, Anna» rispose Michele; non fu certo che l’avesse sentito.

    ***


    «Hai visto? Non è tornata a casa!» gridò la donna uscendo dalla camera di Anna. Il marito annuì e diresse uno sguardo sui vestiti ammonticchiati su una sedia; c’era la maglietta blu che la ragazza indossava quella sera.
    «Lo capisci che è sparita? Dio mio, come facciamo?» gridò la donna percorrendo il corridoio.
    L’uomo la seguì fino in cucina.
    «Maria, sta’ tranquilla. Sarà andata a quella festa…» disse.
    «Cosa? Ci ha disubbidito!» gridò la donna scoccando uno sguardo di fuoco.
    «Per favore, Maria, sta’ calma. Non è successo nulla…»
    «Adesso tu, vai lì e la riporti subito a casa. Hai capito?» lo interruppe lei, gli occhi piantati sui suoi.
    Salvatore fece, senza volerlo, un passo indietro.
    «Credi sia il caso?» chiese piano.
    La donna alzò le braccia al cielo e rivolgendo lo sguardo sopra il frigo.
    «Hai sentito, Gesù mio? Non crede sia il caso!»
    «Ti prego, Maria, non fare così…» la invitò Salvatore.
    «E come dovrei fare? Mia figlia è sparita e il fioretto alla Santuzza è rotto. Solo lui mi rimane!» completò la donna indicando l’immagine dietro i lumini.
    L’uomo la osservò, gli occhi severi di poco prima erano diventati liquidi, cerchiati da una disperazione cieca.
    «Va bene, Maria. Ci vado.»
    Maria lo fissò.
    «Grazie…» aggiunse con un filo di voce.
    Poco prima di uscire Salvatore scoccò un’ultima occhiata alla moglie poi all’immagine appesa.
    Gli occhi azzurri del Cristo gli ammiccarono nella luce incerta delle fiammelle che si agitarono in un refolo di vento invisibile.
    Appena il tempo di un battito di ciglia e tutto ritornò come prima. Non una traccia nella sua consapevolezza rimase di quell’evento.

    ***


    Solo un piano di scale lo separava dall’androne del palazzo. Salvatore ci mise più tempo del solito, colmo di pensieri.
    Cercare la figlia, o no? E deludere Maria e il suo mondo di fede e certezze granitiche? Anna era miracolata e a salvarla era stata Dio: non c'era nient'altro da dire.
    Scese un gradino dopo l’altro, alternando all’eco dei suoi passi, che rimbombavano tra le porte, la ringhiera in ferro battuto e l’ascensore di legno circondato dalla grate d’acciaio, certezze a dubbi.
    Rivide lo sguardo della moglie prigioniera di sé stessa; combattuta tra la paura, la fede buia e ottusa, la voglia di credere e la consapevolezza di stare scambiando la serenità della figlia con un giuramento impossibile.
    Arrivò all’ultimo gradino, rimase in equilibro sul bordo del marmo come se mettere piede nella portineria lo impaurisse, come se quel piccolo passo, creasse uno spartiacque, costringendolo scegliere.
    Maria o Anna?
    Anna o Maria?
    Sospirò alzando la testa verso il lucernario che, tre piani più sopra, divideva il cemento e le pietre dal cielo.
    Poi ruppe l’equilibrio con un movimento impercettibile e il piede atterrò indeciso sul pavimento.
    Sperò di aver dimenticato le chiavi dell’auto. Bastarono pochi movimenti delle dita prigioniere nella tasca della giacca per toccare il metallo freddo e la plastica del telecomando.
    Quando varcò il portone principale, scavalcando il gradino di legno che provava, ogni giorno, a punire la sua distrazione, vide la Punto. Silenziosa e grigia metallizzato, era allineata con altre, sul ciglio del marciapiede.
    La raggiunse.
    Alla luce gialla della lanterna in ferro battuto che pendeva come un frutto maturo le quattro frecce, comandate dal tasto rosso sul telecomando lampeggiarono all’unisono.
    Osservò un cerchione.
    Il pneumatico anteriore destro era sgonfio come una borsa per l’acqua calda vuota. Strinse gli occhi con fare critico poi, meditabondo, concedette al copertone un paio di calcetti; lui si mosse molle sull’acciaio.
    Mentre apriva il portabagagli non riuscì a nascondere un sorriso: il caso aveva scelto.

    ***


    Maria rimase in silenzio per un po’, gli occhi liquidi e un nodo in gola che la opprimeva.
    Stava sbagliando tutto?
    La donna si alzò e con gesti lenti e tristi, aprì il frigorifero. Raccolse la bottiglia di plastica dallo sportello, non appena la afferrò il tappo precipitò sul pavimento, rotolando per qualche decina di centimetri fin sotto il tavolo – mai che la si richiudesse per bene!
    Mentre riempiva un bicchiere alzò gli occhi; era un movimento istintivo, divenuto come un’abitudine in quegli anni, una specie di portafortuna.
    «Ti prego, dammi la forza!» invocò Maria, mentre l’acqua tracimava dal bordo del bicchiere.
    Ancora una volta la sua mente si mosse leggera; pochi attimi e si ritrovò all’ospedale. D’improvviso il suono della macchina che teneva in vita sua figlia le saturava il cervello.
    Bastarono pochi attimi e i dubbi sparirono così come le lacrime.
    La donna aprì il frigorifero e prese un rotoli di sacchetti per congelare quindi iniziò a impacchettare la carne; presto sarebbe arrivata sua figlia, l’avrebbe punita questa era cosa certa, ma non voleva che la trovasse con le mani in mano, come se la stesse aspettando.

    ***


    «Dài, Anna, andiamo!» ridacchiò Marisa. Gli invitati erano andati via, erano rimasti solo Marco, tre suoi amici – Pippo, Davide e un altro di cui non ricordava il nome – oltre Francesca e Marisa.
    “A me queste cazzate non mi piacciono! E poi devo tornare a casa” le aveva detto Michele prima di accendere il motore e di sparire salutandola con un gesto freddo sotto i platani di Via Libertà.
    Entrare al Giardino Inglese con i cancelli chiusi; quando lo avevano proposto le era sembrato proprio un’idea figa, ma adesso mentre cercava di scavalcare il cancello laterale, non le sembrava più così. Tuttavia, adesso, non poteva più tirarsi indietro.
    Le giostre immobili proiettavano sulla vegetazione ombre frastagliate; persino il bidone dell’immondizia a forma di maiale col cravattino e quel sorriso enorme, le dava fastidio.
    «Sapete, dicono che da queste parte si aggiri uno che ammazza i bambini!» esclamò Pippo camminando in equilibrio su un muretto alto una ventina di centimetri.
    Uno scroscio di risate.
    «Ma dài…» ribatté Marco, mentre con un movimento furtivo prese la mano di Anna; il cuore della ragazza saltò un battito.
    «Dico davvero! Ammazza i bambini, cazzo, ne parlano anche i giornali!» insistette Pippo.
    «Non sapevo che i giornaletti che guardi parlassero di queste cose!» esclamò il ragazzo di cui Anna non ricordava il nome.
    Altra cascata di risate.
    «Guardate, in quella saracinesca manca il lucchetto!» disse qualcuno. Dopo mesi Anna, nelle decine di volte in cui aveva ripensato alla scena, ancora non aveva ricordato chi avesse parlato.
    I ragazzi si voltarono nella direzione del baraccone del tiro a segno.
    «È vero! Dài, freghiamoci qualcosa…» fece Marco sorridendole, uno sguardo divertito che gli illuminava le iridi. Anna, d’istinto, gli restituì l’occhiata; anche lei sorrise.
    «Bah! Ci sono solo cazzate lì dentro! Io me ne fotto. Dài ragazzi, continuiamo la passeggiata» esclamò Pippo passando oltre.
    Marisa e Anna si scambiarono un’occhiata di nascosto, i ragazzi fecero altrettanto.
    «Va bene, tanto noi non perdiamo tempo…» disse Marco, «vi raggiungiamo presto.»
    «Okay!» risposero in coro Pippo e Davide; il ragazzo di cui Anna non ricordava il nome annuì solamente.
    «Mi raccomando» esclamò Marisa con un sorriso malizioso.
    I due ragazzi osservarono il gruppo che, tra parole bisbigliate e risolini soffocati, si allontanava; solo la ragazza e Pippo si voltarono un paio di volte verso di loro, scrutandoli da sopra una spalla.
    Quando Anna e Marco furono soli, si sorrisero ancora una volta.
    «Andiamo…» disse Marco avvicinandosi alla saracinesca. Si inginocchiò e impugnò la maniglia metallica; un gesto secco e il metallo verniciato di verde scivolò di mezzo metro lungo le guide.
    Ripensandoci dopo tempo Anna si era chiesta come mai nessuno fosse accorso a quel rumore che aveva lacerto il silenzio. Anche per questa domanda non aveva trovato risposta.
    Scivolarono anche loro, facendosi piccoli, dentro il capanno, ritrovandosi da soli e agitati, tra peluche a forma di conigli, odore di polvere e una tensione calda che dentro i loro corpi si faceva strada inondandoli di sensazioni.
    Mentre lui le si avvicinava la coppia di fiammelle danzò dall’alto del frigorifero.

    ***


    «Anna?» disse Salvatore riponendo la ruota nel portabagagli.
    «Papà…» rispose la ragazza tra le lacrime.
    «Cosa c’è? Cosa è successo?»
    L’uomo chiuse il portellone, la voce nel silenzio della notte rimbombava tra le stradine strette e i porfidi vicino la Cattedrale.
    «Anna?» ripeté, concitato, passeggiando sul marciapiede.
    «Papà, vieni ti prego…»
    «Sì, piccolina, dove sei?» chiese Salvatore.
    «Al Giardino Inglese, sono scappata. Ti prego vieni…» lo implorò la figlia.
    Salvatore aprì la portiera e girò la chiave, col telefonino tenuto in equilibrio tra la spalla e l’orecchio, con due rapide manovre uscì dal posteggio.
    «Scappata? Rimaniamo a parlare, piccolina, non riattaccare!»
    «Va bene, papà…» aggiunse Anna piangendo.
    «Cosa è successo? Chi ti ha…» disse l’uomo imboccando Corso Alberto Amedeo; la voce che tremava per i sampietrini che tormentavano le sospensioni e l’abitacolo della Punto, mentre le saracinesche chiuse del Mercato delle Pulci di forme e colori differenti si alternavano al di là del finestrino come in una giostra troppo veloce.
    «Non lo so, lui è diventato… Mi ha… Oh papà, scusami!» urlò la figlia al telefono.
    «Non ti preoccupare piccolina mia. Tra un po’ arrivo e mi spieghi tutto.»
    L’auto sfrecciò davanti al Palazzo di Giustizia e in un stridio di pneumatici imboccò la Via Sammartino.
    Attraverso il telefono sentiva il pianto della figlia a cui provava, con parole dolci, di mettere un freno.
    «Sei dentro o fuori il Giardino Inglese?» chiese apprestandosi all’incrocio con Via Dante. Uno sguardo al semaforo: era verde, premette l’acceleratore.
    «Sono vicino l’uscita delle giostre…» rispose lei tirando su col naso.
    «Sono quas…»
    Un suono forte e metallico seguito da alcuni tonfi ovattati di trasmisero attraverso l’etere, snodandosi tra le nuvole grigie e i ripetitori sui tetti dei palazzi.
    «Papà?» chiese la ragazza.
    «Papà?» ripeté, la sua voce era salita di un’ottava; il telefonino viscido tra le mani e la faccia rigata di lacrime.
    L’apparecchio di Salvatore era rotolato giù dalla spalla dell’uomo poco prima dell’impatto; poco prima che la testa si fracassasse contro il parabrezza e che l’olio inondasse l’incrocio.
    «Oh, Dio mio. Papà! Ti prego! Rispondi!» gridò Anna.
    Poi la ragazza sentì una voce sconosciuta: anche quella sembrava disperata.
    «Era rosso! Cosa cazzo passi col rosso?»
    Le fiammelle sopra il frigorifero si agitarono. Di nuovo.

    ***


    Sentiva caldo mentre il respiro dentro quel sacchetto di plastica trasparente si faceva sempre più pesante. Gli occhi strabuzzati in un’espressione di sorpresa e la bocca aperta che pretendeva aria.
    La plastica attorno al collo si attorcigliò un po’ di più mentre le mani della donna cercavano di afferrarla come due artigli.
    Non capiva cosa stesse accadendo, ricordava del Cristo che, dietro l’ulivo benedetto, le aveva sorriso. Lei lo aveva guardato stropicciandosi gli occhi poi aveva visto le proprie dita controllate da fili invisibili lasciar cadere una fettina di carne che stava conservando e stringere il sacchetto di plastica.
    Maria si era guardata intorno, cercando una spiegazione nelle mattonelle sulle pareti e nella televisione spenta. Poi un rapido movimento forzato ma risoluto delle braccia e si era infilato il sacchetto sulla testa, come qualcuno che indossa una maschera per carnevale.
    Per un po’ aveva respirato normalmente, chiedendosi ancora cosa le stesse succedendo ma poi non aveva resistito e si era ritrovata per terra tra colpi di tosse, rantoli, movimenti incontrollati delle gambe. Respirando il suo stesso respiro, poco prima che sua mente si adagiasse nel limbo ovattato della morte, satura di interrogativi che non avrebbero mai avuto risposta, pensò ad Anna e le chiese scusa.
    Tutto durò meno di tre minuti.
    L’ultima cosa che la donna vide furono decine di goccioline calde che scorrevano sulla plastica appannata del sacchetto; muro divisorio invincibile tra i suoi polmoni e l’aria che la circondava.
    Quando il corpo rimase immobile sul pavimento, le candele danzarono qualche istante, quindi si spensero.
    Due rivoli scuri uscirono dagli occhi del Cristo e, colando giù lungo il fianco del frigorifero, picchettarono per terra. Quando la pozza di fluido marrone fu larga dieci centimetri si deformò sul pavimento, propendendosi in un rigagnolo. Il liquido passò lento, tra i piedi delle sedie e del tavolo e sotto il corpo esanime di Maria, serpeggiando, indisturbato e scuro fino ai piedi della cucina.
    Vincendo ogni legge della fisica risalì lungo il mobile, fino all’acciaio del lavello.
    Si immerse dentro lo scarico buio; bastarono pochi minuti perché di ciò che aveva cambiato la vita di tante persone non rimanesse traccia.

    14 Luglio 2016

    Anna appoggiò la mano sulla maniglia. Pensieri pesanti come sacchi di cemento la costrinsero a indugiare prima di abbassarla.
    Erano passati sei anni esatti.
    Sei anni durante i quali tutto era diventato sfocato come quando si aprono gli occhi sott’acqua e si ha la sensazione che gli oggetti ci siamo ma rimangano lì, indistinti.
    Era stata affidata a una sorella di suo padre. Quanto era rimasta in quella casa, prima di andarsene? Dieci mesi? Undici?
    Un sospiro e finalmente aprì la porta del bagno; lo vide lì, ad attenderla.
    Quello era, tutto sommato, un finale come un altro.
    Per lei non poteva esserci nient’altro: se non fosse fuggita non sarebbe accaduto nulla. A quest’ora i suoi genitori sarebbero ancora vivi e, forse Marco, sarebbe diventato il suo fidanzato. O suo marito?
    Anna sorrise pensando al padre che portava a in giro, su un passeggino colorato il figlio che avrebbe potuto avere, mentre la madre preparava in cucina la caponata per lei e Marco diventato un uomo bellissimo. Un pranzo della domenica come il precedente e come i successivi: risate attorno al tavolo mentre il piccolo Salvuccio – questo era il nome che avrebbe scelto per il figlio, come il nonno – giocava con le costruzioni tra gorgheggi e gridi di gioia, la televisione sintonizzata sulla partita del Palermo e il pacchetto di cannoli e sfince ricolme di ricotta in frigo.
    La donna se li ritrovò tutti davanti che ridevano, inondati dal sole che, dalle tapparelle alzate, irrompeva in quella cucina mai stata così luminosa. Dall’alto del frigo l’immagine del Cristo che li osservava con aria bonaria.
    Un battito di ciglia e si trovò nella stanza illuminata da una piantana di acciaio e da una fila di candele attorno al letto; l’uomo si stagliava sulla parete ingiallita. Impercettibili gocce di sudore sulla fronte tradivano l’impazienza. Quando la vide nel completino intimo di pizzo nero, snudò i denti e si passò la lingua sulla labbra che si erano inarcate in un sorriso untuoso.
    «Sei molto bella» disse, gli occhi fissi sul reggiseno dal quale sbucavano le areole dei capezzoli.
    La ragazza annuì e sorrise ammiccante.
    La sua famiglia era sparita in un turbine di buio, urla e immondizia gocciolante di pioggia, come quella in cui si era rifugiata quando era andata via dal Centro di Recupero.
    “Non è colpa tua. Tu adesso sei una persona che deve recuperare la stima in sé stessa. Ci vorrà tempo, ma alla fine ci riuscirai” quante volte aveva sentito quelle parole?
    Al processo di Marco – aveva pianto tutto il tempo, urlando che non era stato lui, che non ricordava nulla. Quanto gli aveva fatto pena! –, durante le sedute con gli psicologi, persino Marisa glielo aveva detto, quando le aveva comunicato di essersi fidanzata con Pippo. E poi medici e preti di tutti i tipi: ognuno diceva la sua. Con definizioni sempre diverse, certo, ma che esprimevano sempre lo stessa, inutile, pietosa bugia: era colpa sua.
    E tutto il tempo del mondo non le avrebbe tolto di dosso quella consapevolezza dolente.
    Ancheggiando si avvicinò al letto dove, seduto con la sola camicia sbottonata fino alla pancia prominente, la stava aspettando a gambe divaricate.
    Anna con un piede ruotò l’interruttore della piantana, la luce si fece ancora più buia e tremolante. Si fece più vicina. L’odore di sudore di lui le fece arricciare il naso, mentre i calzini blu corti risaltavano sul tappeto chiaro.
    «Mi piace come l’ultima volta…» disse l’uomo, la voce roca per l’eccitazione.
    Ancora una volta Anna sorrise; prese il cuscino quadrato dalla poltrona vicino al letto e, lenta, fissandolo negli occhi, lo gettò nello spazio tra i calzini, quindi si inginocchiò.
    L’uomo si sdraiò e sospirò lasciando che la voluttà lo sommergesse.
    Anna aprì la bocca.
    Mentre con le unghia laccate di rosso, gli graffiava la pelle delle cosce, Anna chiuse gli occhi. Non vide il sussulto che, all’unisono, scosse le candele intorno al letto; non si accorse che la città le era di nuovo accanto.
    Fuori, oltre la vernice scrostata della persiana e la balaustra di ferro del balconicino, la folla era per strada ad aspettare il Carro.
    «E chi semu muti? Viva viva Santa Rusulia!» cominciava già a gridare qualcuno.

    FINE



    SPOILER (click to view)
    Piccola cosetta che spero piaccia: a un tratto nel racconto si parla di un bidone dell'immondizia a forma di maiale.
    Per saperne di più:
    www.scheletri.com/racconto2686.htm

    Una piccola gigioneria. ;)


    Edited by Alessanto - 2/5/2010, 20:03
     
    .
29 replies since 1/5/2010, 00:04   455 views
  Share  
.