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PFC

di Raffaele Serafini (20000k)

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    PFC



    Turner entra nella palestra del Coach masticando chewingum con la bocca aperta, jeans a vita bassa e una maglietta che lo descrive come un figlio di puttana.
    Un paio di guantoni neri, legati tra loro per i lacci, gli cadono sulle spalle come un trofeo appena vinto.
    Si voltano tutti a guardarlo.
    I muscoli gonfiano il tessuto e ha le spalle larghe, ma non sembra un pugile: ha il viso di un giovane attore viziato e la boria di chi non ha mai preso un pugno.
    Si dirige verso il centro della palestra, buttando un’occhiata al ring. È rinchiuso in un enorme cubo di vetro e non c’è traccia d’angoli o corde; solo un tappeto di gomma antiscivolo blu.
    «Cerco il Coach» chiede al primo che incontra, interrompendo il roteare della sua corda con un piede. L’altro è un nero enorme, la pelle lucida di sudore. La corda gli è sfuggita dalle mani ed è rimasta a terra, come una serpe morta.
    «Tu cerchi guai» gli dice prima di raccogliere l’attrezzo e ricominciare a saltare.
    Due che sono impegnati al punching-ball osservano la scena e sghignazzano, senza smettere di boxare.
    Turner allunga una mano e afferra di nuovo la corda, strappandola via. Stavolta si fermano tutti, anche quelli più lontani, che stanno colpendo i sacchi di sabbia. Gli squittii delle scarpe sul parquet restano nell’aria qualche istante, prima di lasciare il posto al silenzio.
    «Sai con chi stai parlando?» dice il nero, più meravigliato che offeso.
    «La prima domanda l’ho fatta io» ribatte il ragazzo, gettando via la corda, «Ti ho chiesto dov’è il Coach.»
    L’altro fa un smorfia e scatta.
    Un pugno sibila verso il volto di Turner, che lo schiva e lascia partire un colpo d’incontro, rapidissimo. Il rumore del naso che si spacca riempie l’edificio. Poi è il delirio.
    Turner non si ferma, colpisce altre due volte, destro e sinistro, e mentre l’altro crolla gli sferra un calcio nelle costole. Tre secondi e tutti gli sono addosso.
    Non è pugilato, è una rissa gigantesca. Turner riesce a stenderne tre e a spaccare un altro naso, prima che un colpo alla schiena lo stenda e una selva di pedate lo seppellisca.
    A mettere fine a tutto è un fischio prolungato, che richiama il silenzio, sporcato solo dall’affanno dei respiri. Un omino in tuta rossa toglie i mignoli dalla bocca e si drizza il cappello, poi comincia a camminare verso il groviglio di corpi.
    Nessuno si muove.
    Turner è a terra, i lividi che cominciano a farsi spazio sulla pelle. Un occhio è quasi chiuso, ma lui continua a masticare e guarda in su.
    Il nero è ancora svenuto. Il Coach parla senza nemmeno chiedere cosa sia successo.
    «Tu, tu e tu stanotte rimanete qui, a saltare con la corda, senza mai smettere» dice indicando i tre che erano più lontani dalla rissa, poi prosegue: «Cooper, è un naso rotto quello? Sei fuori, trovati un'altra palestra. Lo stesso vale per Jackson. Diteglielo, quando rinviene.»
    Nessuno replica.
    «E tu?» chiede il Coach a Turner «Perché mi cercavi?»
    Il ragazzo si alza in piedi e sputa un grumo di sangue.
    «Perché sono più forte di loro» risponde «e ho i soldi per il waterboxing

    ***



    Scott bussa alla scuola di Chen Bo che è quasi sera.
    Una porta di legno è una rarità, per la Pechino moderna. Intorno solo luci e cemento. Il caos è un dragone impazzito che stritola la metropoli.
    Dopo oltre un minuto, un uomo che indossa un kimono bianco apre la porta. Sembra un po’ assente, ma s’inchina e lui risponde al gesto. Ha i capelli rasati, è orientale e parla nella sua lingua. Tutto ciò che Scott capisce è che gli mancano due incisivi, così estrae dalla tasca dei jeans un foglio e glielo porge. L’altro gli fa un gesto, come per dirgli di aspettare, poi rientra, chiudendogli la porta in faccia.
    È un ragazzo a riaprirla poco dopo e stavolta parla inglese. Dei guantoni neri sbirciano dalle maniche della keikogi, il kimono da combattimento.
    «Il Maestro non effettua provini, in questo periodo, mi dispiace.»
    «Aspetterò» risponde Scott, chinando il capo.
    L’altro lo guarda, perplesso: ha il viso segnato di un pugile, ma non ha certo l’età per un provino.
    Quando gli parla di nuovo, nel tono di voce c’è qualcosa di paternalistico: «Non credo sia una buona idea. Sono mesi che il Maestro Chen non accetta nuovi allievi. Non so chi ti abbia detto il contrario.»
    Scott tiene le mani dietro la schiena e i piedi uniti.
    «Aspetterò» ripete soltanto. E muove un passo di lato, mettendosi accanto alla porta.
    «Americano?» gli chiede il pugile, voltandosi a guardare l’interno della palestra, come se temesse di essere sgridato.
    L’altro non gli risponde, costringendolo a rientrare.
    Quando i primi atleti cominciano a uscire, con un borsone in spalla e la stanchezza aggrappata ai passi, è ancora lì, immobile.
    Il maestro Chen Bo, a sera inoltrata, è l’ultimo ad andarsene.
    Spegne la luce e si chiude la porta alle spalle, incamminandosi per le strade di Pechino senza nemmeno guardarlo.
    A notte fonda Scott scorge un’ombra affiancarsi alla sua, contro i riflessi lampeggianti delle insegne. Non si volta.
    L’ombra si muove, si accende un sigaro, fuma lentamente e poi si getta addosso il mozzicone.
    Così com’è venuta, scompare.
    La mattina seguente Scott è appoggiato allo stipite. Qualche curioso si ferma a guardarlo, i pugili entrano in palestra ignorandolo. Solo uno gli rivolge la parola: «Americano, ancora qui?»
    Lui sembra scuotersi, si stacca dal muro.
    «Guarda che non funziona, quando il maestro dice no, così è» continua l’altro. Una macchia umida sul muro, poco lontano, gli dice che non è stato fermo tutta la notte.
    All’ora di pranzo ritorna l’uomo senza denti e gli lascia una ciotola di riso vicino ai piedi.
    Chen Bo arriva poco dopo e un mozzicone di sigaro si tuffa nel cibo.
    Usando il pollice gli solleva il mento e Scott per la prima volta può vederlo.
    È sulla cinquantina, vestito di un completo scuro, con cravatta nera sulla camicia bianca. Gli occhi sono due fessure; la barba, sul mento, si aggroviglia in una treccia spettinata.
    A Scott sfugge l’idea di un sorriso.
    Chen lo colpisce all’improvviso, con un diretto, e il naso va in frantumi.
    Sbatte contro il muro, non cade. Il sangue comincia a sgocciolare sulla maglietta.
    Il Maestro lo lascia lì ed entra.
    Alla sera, quelli che escono non hanno nemmeno il coraggio di guardarlo.
    L’ultimo a lasciare l’edificio è ancora Chen Bo.
    Prima di andarsene si ferma e lo osserva. Il naso è gonfio e nero, un tremito lo attraversa, anche se è di nuovo appoggiato al muro. Chen fa partire un altro pugno ma si ferma a un millimetro dal viso. Scott chiude gli occhi ma non indietreggia.
    Il maestro si accende un sigaro.
    «Come ti chiami?» gli chiede in un inglese stentato.
    «Scott» risponde l’altro, spaccando il sangue incrostato sulle labbra.
    «Torna domani, pulito» gli dice Chen, prima di andarsene.
    Scott, nel buio, sorride.

    ***



    La palestra del Coach non ha nemmeno un nome, né un'insegna. Non ne ha bisogno.
    Si è piantata in mezzo a Manhattan come un chiodo nel burro ed è l’unica in tutta la Big Apple con un impianto per il waterboxing. C’è ne sono altre, in California e nel Texas, altre ne nasceranno, ma è qui che si è allenato il primo campione del mondo, ed è qui che lavora il Coach.
    È un manager e prima di lui questa disciplina non esisteva.
    Ha un nome, ma lo usa solo per depositare gli assegni. Per tutto il resto è il Coach.
    Turner lo guarda con un velo di disprezzo. Non è nient’altro che un pensionato ciccione in tuta da ginnastica, con i baffi grigi e i capelli ridotti a un ciuffo rado e spettinato, che sbircia sotto la tesa del berretto.
    «Sputa quella gomma» gli intima al primo allenamento.
    «Perché?» risponde Turner, alzando le spalle.
    «Perché qui comando io, e anche se mi paghi il doppio, ti caccio quando voglio.»
    «E per il triplo?» ribatte Turner, senza ridere.
    «Per il triplo puoi masticarne due, mentre colpisci quello» replica il Coach, indicandogli con il mento un saccone di sabbia.
    «No.»
    «No?»
    «Non sono venuto qui per prendere a pugni un sacco. Dammi uno sparring, piuttosto.»
    Il Coach lo guarda per un istante, perplesso, poi una luce gli corre negli occhi e fischia.
    La palestra piomba nel silenzio.
    «Timothy!» grida a un gigante che sta sollevando un bilanciere, in fondo alla stanza.
    Il bestione si avvicina.
    «Che ne dici di massacrare questo ragazzino?» gli propone il Coach.
    Turner sorride e comincia a infilarsi i guantoni, stringendo i lacci con i denti.
    Dopo dieci minuti salgono sul tappeto.
    Dopo altri cinque Timothy è steso come un birillo difettoso.
    Il Coach ha assistito senza battere ciglio.
    «La settimana prossima entri in vasca. Se reggi, tra un mese combatti» sentenzia voltandogli le spalle.

    ***



    Lo guardano come una bestia rara e non solo perché è l’unico occidentale e sta seduto in disparte, invece di allenarsi.
    Scott è un vecchio, in confronto a loro, anche se ha un fisico possente e lo sguardo lascia trapelare una determinazione che spaventa.
    Tutti sono impegnati con qualche attrezzo.
    Solo l’uomo un po’ svitato rimane in disparte, asciugando il parquet o allacciando guantoni a chi glielo chiede.
    Chen Bo entra in palestra nel pomeriggio, perché la mattina dorme.
    Indossa una keikogi gialla ed è scalzo, i capelli nerissimi brillano sotto i neon.
    Non fa mistero di come trascorre le notti, consumandole tra bettole e puttane. «Non sono un maestro di vita» dice ai suoi allievi «io vi insegno solo la waterboxing
    Quando entra tutti smettono di allenarsi. Si dirigono rapidi verso un ampio tappeto di gomma, si dispongono a semicerchio e aspettano che parli.
    Solo Scott non è vestito con la keikogi bianca.
    È l’ultimo a posizionarsi, su un lato della fila, e solo allora gli altri si accorgono che zoppica.
    Chen Bo lo guarda e attende il silenzio, poi si rivolge al pugile che due giorni prima aveva tradotto il biglietto di Scott: «Xiang! Vieni qui.»
    Il giovane si sistema davanti al Maestro, concentrato, per tradurre i suoi insegnamenti.
    «Chi non sa, ascolti, chi sa ascolti» esordisce Chen, mentre solleva un braccio, con pollice e indice che sembrano voler sparare verso il soffitto.
    Alcuni hanno sentito quelle parole decine di volte, ma le riascoltano senza fiatare.
    Scott si prepara a cogliere anche la più piccola sfumatura.
    «Solido, liquido e gassoso...» incomincia il Maestro Chen.

    ***



    Turner entra nel cubo di vetro attraverso una botola che si richiude ermeticamente, appena il liquido filtra dai bocchettoni posti agli angoli. Indossa il costume da bagno e gli occhialini.
    Il liquido, di un azzurro innaturale, riempie rapidamente il ring. Mentre attende prova un paio di montanti e una abbondante schiuma lo circonda. Il perfluorocarbon è saturo di ossigeno, lo sa, ma non lo immaginava così diverso dall’acqua.
    Il Coach lo sta osservando, al di là del vetro, e lui gli indirizza un gesto di vittoria.
    In realtà è la prima volta che la sua spavalderia vacilla. Sa che non gli succederà nulla, ma sa anche che è come annegare.
    Dicono sia tra le morti peggiori o, per lo meno da quando c’è il PFC, l’unica che si può sperimentare.
    Quando il liquido gli arriva alla gola si stufa e non aspetta più. Piega le ginocchia e s’immerge.
    Obbligarsi a respirare non è così facile come credeva.

    ***



    Disposti a semicerchio colpiscono l’aria con una serie di combinazioni.
    Dovrebbero essere dei jab, ma roteano il busto e le braccia, rallentandoli, quasi fossero i movimenti di una danza. Non indossano i guantoni e le dita partono unite, con la mano aperta, per arrivare alla fine del colpo chiuse a pugno, il polso rivolto verso l’alto. Si muovono in sintonia, mentre Chen Bo cammina avanti e indietro tenendo un braccio sollevato.
    Solo l’indice è puntato verso l’alto.
    Quando lo ritrae, lasciando spuntare il pollice, si avverte come un cambiamento nell’aria.
    È il passaggio dallo stato liquido a quello solido: le posture si irrigidiscono, le dita si chiudono, i colpi si fanno veloci, gli addominali si contraggono. Uno scalpitare di piedi scalzi borbotta sulla gomma. È boxe, non c’è dubbio.
    Poi Chen Bo ritrae il pollice e in aria resta un pugno chiuso, che propaga il silenzio.
    Tutti si fermano, anche se i più continuano ad ansimare o spostare il peso da un piede all’altro. Tengono gli occhi chiusi.
    Il Maestro osserva Scott, in silenzio. È l’unico perfettamente immobile, mentre dietro le palpebre sta boxando, un colpo via l’altro.
    È lo stato gassoso, dove i colpi sono energia psichica, sospesi come il vapore delle nuvole.
    L’indice di Chen Bo scatta di nuovo verso il soffitto della palestra.
    Quasi nello stesso istante Scott si muove, ricominciando la danza dello stato liquido.
    Gli altri sono rimasti fermi.
    Il Maestro Chen Bo, per la prima volta dopo anni, sorride.

    ***



    «Sputa la gomma!»
    «L’altra volta ci ho combattuto.»
    «Quello dell’altra volta era una schiappa, questo è più forte.»
    Turner sputa e poi sbuffa.
    «Coach, posso farti una domanda?» chiede con l’aria sorniona.
    Sono ancora nello spogliatoio, fuori il palazzetto è quasi esaurito. Il Coach guarda il soffitto e sospira. Non ha mai visto un pugile così forte e così arrogante.
    «Non credo di potertelo impedire» gli risponde.
    «Quanti incontri ho fatto finora?»
    «Lo sai benissimo, Turner.»
    «Quindici, Coach, e quanti ne ho persi?»
    «Erano dilettanti, Turner, smettila di montarti la testa. Anzi, qualcuno fuori dal PFC ti avrebbe fatto sudare.»
    «Se mi interessava combattere all’asciutto non ti pagavo, non credi?»
    Il Coach scuote la testa.
    Sa che Turner vincerà anche stasera, non ha dubbi.
    Eppure ha un presentimento, come un velo sottile che deforma la prospettiva degli incontri futuri.
    Non importa quanto sia efficace nel PFC e quanto poco impieghi per abituarsi a respirarlo. Il titolo mondiale ancora non riesce a vederlo.


    ***



    Siedono a gambe incrociate, un bicchiere colmo di liquido azzurro poggiato a terra, stretto tra le mani.
    Sono gli esercizi di respirazione mentale.
    Qualcuno è in apnea, il pensiero sprofondato nel liquido, altri tossiscono, come se veramente stessero annegando.
    Scott e Xiang hanno già finito e parlano tra loro, bisbigliando. L’uomo senza gli incisivi corre qua e là, per ritirare i bicchieri di chi ha finito o i mozziconi di Chen Bo, seduto al centro.
    I suoi allievi, visti dall’alto, sembrano i petali di una margherita divisa a metà.
    A un certo punto comincia a parlare, senza chiedere a Xiang di tradurre.
    Quando termina tutti applaudono e guardano Scott.
    Lui ha capito solo tre parole: il suo nome e Square Garden.


    ***



    Turner fa lo sbruffone prima di ogni match.
    Esibisce i muscoli e bacia le ragazze che annunceranno le riprese. Gigioneggia da quando esce dal tunnel degli spogliatoi a quando entra nel cubo di vetro.
    Lo fa anche all’ultimo incontro di avvicinamento al titolo, anche se in palio c’è il combattimento contro il campione in carica.
    Il Madison Square Garden sembra ribollire come ai tempi di Frazier e Alì.
    Se l’è guadagnata Turner, quella vetrina. Sui giornali lo chiamano Kraken, e anche se il waterboxing è meno violento, bloccato dall’attrito del liquido e dalla confusione mentale degli atleti, non capita di rado che semini scie rossastre, dalle narici o dai sopraccigli degli avversari.
    Lo chiamano anche gradasso e spaccone... ma finché continua a vincere gli perdonano tutto.
    È la nuova febbre sportiva e lui ne è il termometro.
    Gli piace dichiarare che ignora l’identità degli avversari fino al giorno dell’incontro.
    Tutti pensano sia per lo show, ma il Coach sa che è vero: è convinto di poter battere chiunque. È un picchiatore senza criterio e misura.
    Turner entra nella vasca.
    Il suo avversario lo aspetta, seduto a gambe incrociate, con gli occhi chiusi, dietro gli occhialini di plastica. Fisicamente gli pare meno dotato di lui e questo lo fa sorridere.
    Gli hanno detto che viene da Pechino e lui prima lo deride e poi lo insulta, perché non lo vede reagire. Solo un attimo dopo si rende conto che forse non parla nemmeno la sua lingua.
    Il perfluorocarbon questa volta ha i riflessi rossi, perché è il colore dello sponsor.
    Il gong suona e Turner attacca. Lascia partire qualche jab, che l’altro subisce senza giocare d’incontro. Quando il liquido supera il petto si avventura in un corpo a corpo e cerca di fiaccarlo con una serie di ganci. Boxare senza guantoni lo fa sentire vivo.
    Questa volta però è diverso.
    Più il livello del liquido sale, più l’altro si muove in modo strano: si piega, ondeggia, sembra uno che danza. Turner crede lo sbeffeggi e raddoppia la furia, inutilmente.
    Il suo avversario porta i colpi con una velocità impensabile, dentro il perfluorocarbon, e mentre lui supera l’abituale shock da annegamento, l’altro pare non accorgersi nemmeno del cambiamento di stato.
    Lo colpisce alla figura, al volto, entrandogli nella guardia come fosse burro. Turner va in crisi, risponde alla cieca, ma non trova quasi mai il bersaglio.
    A volte gli sembra persino di essere colpito senza che l’altro si muova e davanti agli occhi gli resta solo una scia di schiuma.
    Finisce al tappeto alla terza ripresa e il Coach, allibito, suona la sirena che sospende l’incontro.
    Il pubblico esplode in un boato, che nonostante il liquido, arriva alle orecchie di entrambi.
    Turner vede l’avversario che gioisce e alza le braccia al cielo, togliendosi gli occhialini e lasciandoli galleggiare a mezz’acqua.
    Quando sportivamente gli tende la mano, per farlo alzare, gli occhi a mandorla gli paiono un ghigno.

    ***



    Cheno Bo e Scott sono nello spogliatoio, da soli.
    Il Maestro guarda il suo allievo migliore mentre compie gli esercizi di meditazione e prova i suoi colpi, passando per i tre stati dell’acqua.
    Fuori il palazzetto è un delirio di cori che inneggiano al suo avversario.
    Scott è solo un outsider, che i bookmakers di New York danno 120:1.
    «Maestro Chen» gli chiede «Lei crede che io possa ben figurare? Gli altri, prima di partire, mi hanno detto che è una follia affrontare la vasca per la prima volta in un combattimento, soprattutto contro lo sfidante per il titolo.»
    «Se gli altri non avessero questa paura, forse ora sarebbero al tuo posto» gli risponde Chen Bo, serafico, in un inglese stranamente fluente. «E poi» aggiunge «Un altro, prima di te, ha già combattuto e vinto.»
    «Davvero?» chiede Scott con un’incredulità che comincia a suonare falsa.
    «Non serve mentire Scott, so che non è prima volta che combatti in una vasca.»
    Nello spogliatoio scende improvvisamente il gelo.
    Scott fissa gli occhi impenetrabili di Chen Bo e gli ricordano qualcosa, sembra quasi che stia ridendo di lui. Nei suoi invece balena un impeto di rabbia, che subito controlla.
    «Beh...» risponde con una voce che dell’umiltà di prima non ha conservato nemmeno l’eco, «Non crederà mica che abbia imparato tutto alla sua palestra...»
    «No. Non lo credo. Ora preparati, tra poco annunceranno il tuo nome.»

    ***



    In quell’istante in Turner scatta qualcosa.
    La rabbia, l’infrangersi del suo sogno, l’umiliazione della sconfitta…
    Afferra la mano tesa del suo avversario e lo strattona. L’altro, colto di sorpresa, plana a terra.
    Turner gli rifila una gomitata in pieno viso, la nuca sbatte sul tappeto, due incisivi gli cadono in gola.
    L’altro riesce a reagire ed è una furia. Prima che le pompe comincino ad aspirare rapidamente il PFC, lo ha colpito al basso ventre e gli ha spezzato un ginocchio, piegandoglielo nel verso opposto.
    Mentre il pubblico grida per l’orrore, entrambi perdono i sensi.
    Quella rissa gli costerà anni di squalifica.

    ***



    Scott si alza dal pavimento e s’incammina zoppicando.
    Chen Bo lo segue, e prima che arrivi alla porta gli rivolge la parola: «Ancora un’ultima cosa... Turner.»
    L’altro si blocca e rimane basito. Si volta e si trova una pistola puntata contro.
    Da quel momento smette di fingere.
    «E così l’ha scoperto...» dice, con voce spavalda «Da quanto lo sa?»
    «Dalla prima notte, Scott Turner... Io non sono come te. Non dimentico mai una faccia, anche se passano gli anni.»
    Scott ride sguaiatamente.
    «E cosa vorrebbe...»
    Lo sparo interrompe le sue parole e lui crolla a terra, con la rotula sbriciolata dal proiettile. Il grido che riempie la stanza è un misto di dolore e disperazione.
    «Per... Per...» balbetta Scott, mentre si contorce.
    «Perché quello che ti ha spezzato il ginocchio, giocandosi titolo e onore, era mio figlio» gli risponde Chen Bo, con un tremito che veste ogni parola.
    Poi si siede, poggia la pistola in grembo, e aspetta che arrivi qualcuno.


     
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