Pater peccatorum
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Pater peccatorum

Racconto lungo

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    Quid est virtute amabilius?
    Cosa c'è di più desiderabile della virtù?
    Cicerone

    Pater peccatorum



    1.
    L’oscurità calò sulla boscaglia in modo brusco, come un mantello smesso in fretta e gettato sullo sgabello. Dei bimbi armati di bastone stavano a tormentare le canne del fosso insanguinate dal tramonto. Uno scalpiccio li fece sobbalzare. Mossero la testa per guardarsi attorno finché uno dei due, lasciato cadere il ramo di sambuco, puntò il braccio verso gli alberi: un’ombra minacciosa gli veniva contro. Trovarono il coraggio per darsela a gambe solo quando stava per incombere su di loro. S’infilarono dentro l’uscio e lo richiusero con forza. Il colpo destò l’uomo appisolatosi sulla tavola.

    «Cosa diavolo succede? Chi è che fa questo baccano?» I colpevoli non avevano fiato per confessare, sia per lo spavento che per la corsa terminata davanti al padre. «Be’, a quanto sembra l’avete visto davvero Belzebù.» Un nitrito salì alto. Lì fuori c’era un cavallo e quindi un uomo, non il demonio. Tre colpi sull’uscio fecero sollevare il padrone di casa. A lui si aggrapparono i figli. Dopo essersi infilato una mano nelle braghe per darsi una sistemata, con una sbracciata si liberò dell’impiccio. Dall’alto, tra le assi del soffitto, alcuni occhi sbirciarono l’avanzare dell’uomo: la corporatura robusta lo faceva muovere con passo pesante. Arrivato alla porta, l’aprì senza incertezze. Un forestiero era di fronte a lui e un destriero era legato al palo dove macellava le bestie.
    «Iddio vi dia pace, buon uomo. Chiedo dell’acqua per me e per il mio cavallo.» Le parole furono accompagnate da un sorriso. «Cosa vi porta nelle mie terre a quest’ora tarda?» Il tono dell’uomo era scocciato nonostante le apparenti buone intenzioni del forestiero.
    «Sono diretto a Roma. Ma all'ultimo crocevia credo di aver preso la direzione sbagliata,» e così dicendo il giovane si avvicinò di mezzo passo. Aveva le mani di chi non fatica per guadagnarsi il pane. Gli occhi erano marroni, come i capelli; il naso era sottile, una linea netta che intaccava nel mezzo un ovale perfetto. La carnagione rosea non presentava macchie né piaghe, non sembrava portatore di malattie o infezioni. L’uomo non pareva comunque disposto a farlo entrare. «Posso ricompensare per il disturbo.» L’offerta fugò ogni diffidenza. Da un buco nel solaio fecero capolino dei fanciulli: ormai lo straniero destava solo curiosità.
    «Dell’acqua non si rifiuta neppure al diavolo, non fosse mai che l’usasse per spegnere le fiamme dell’inferno, figuriamoci a voi messere,» così dicendo, si scostò per farlo accomodare.
    «Il mio nome è Uberto e oltre ai figli, allevo porci.» Dopo un grugnito rassomigliante a una risata, iniziò a impartire ordini: «Simonetto, per il Buon Dio, va’ alla fonte e riempi due secchi. Uno è per il cavallo, l’altro portalo dentro. Forza, al lavoro, c’è un ospite alla nostra tavola.» Un’ombra fina come un’acciuga sfrecciò tra i due, il rumore di piedi lesti si perse nella penombra del retro. «Lanfranco, piglia del formaggio, un tocco di lardo e aggiungi un altro boccale. E riempi una brocca di vino, ché l’acqua da sola non basta a cacciar via la sete.» Il porcaro gustava già il piacere di ravvivare la sbronza: «Anselmo! Vieni a sgombrare la cucina.» Uno dei fanciulli piombò giù dal soffitto. «Possibile che nessuno in questa casa conosca le buone maniere? Ah, se avessi ancora una donna ci penserebbe lei a rassettare.» Uberto sembrò quasi scusarsi per la morte della moglie. Da quando la malattia l’aveva strappata ai suoi cari, a Uberto non restava che una casa affollata e un giaciglio sempre freddo al momento di coricarsi.
    Il forestiero dopo essersi assettato, non sembrava a disagio né per il fumo opprimente né per l'odore del ribollire delle cotiche che avevano ammorbato il piccolo ambiente. Si accomodò alla tavola, bevve il vino, estrasse un coltello cesellato finemente con cui spartì un tocco di carne messo sul tagliere. Durante il pasto ascoltò con educazione le parole del porcaro: «Son anni balordi che fanno ingrassare i ricchi e debilitano un poveretto come me, con tante bocche da sfamare.»
    «Avete giusti motivi per lamentarvi Uberto. Sono tempi di carestia. Il male, come la morte, è dietro ogni angolo di strada, ma non doletevi dei figli. Le buone braccia servono sempre.»
    «So badare ai miei figli e ricavarne vantaggio. Ma sarei un signore se non avessi tanta prole.» Detto questo, afferrò al modo in cui prendeva un maiale il ragazzino intento a raccattare gli avanzi dal pavimento. «Pigliate Anselmo.» Strinse a sé il giovane intrappolandolo contro l’enorme stomaco. «Fosse per lui, starebbero tutto il tempo a cavar ragni dai buchi.» Non soddisfatto, lo serrò sotto al mento: «Questi figli muovono più sovente le mascelle che non le braccia. Ingozzano tanto frumento quanto le macine di un mulino, e indietro non ridanno di certo farina...» e terminò la frase con un altro grugnito.
    «I figli, buon uomo, sono una benedizione del Signore. Gioia per i cuori e sostegno per le gambe, quando la vecchiaia busserà alla porta.» Il forestiero fece il gesto di porgli una carezza in capo, ma il porcaro spinse via il figlio. «La vecchiaia ha da aspettare prima di farmi visita. Per intanto, chi ha bussato alla mia porta siete voi, e non potete capire quanto sia difficile far rigar dritto questi bricconi,» e così affermando, diede una pedata al ragazzo chino a terra. «Basterebbe uno solo di questi furfanti per mettere sottosopra il vostro palazzo, messere. Potete scommetterci le braghe.»
    Il giovane rimase pensieroso e non replicò nulla. La conversazione si affievolì, al pari del bagliore del fuoco. All’ennesimo sbadiglio del suo dirimpetto, l’ospite portò la mano alla borsa e lasciò cadere un soldo accanto al tagliere. Il padrone di casa serrata in pugno la moneta, si sentì in dovere di dare fondo alla sua ospitalità: «Siete convinto ad avventurarvi nelle tenebre? Di notte queste terre abbondano di briganti e spiriti malvagi. Se volete, una sistemazione si trova, modesta, ma in ogni modo sicura.»
    Il nobile prese la via della porta senza rispondergli, sembrava con la testa già rivolto verso il suo viaggio, se non fosse per gli occhi: seguivano le movenze dei fanciulli. Messi a disagio dallo sguardo, questi si nascondevano nell’angolo o rimanevano immobili, a fissare la punta dei calzari. Arrivato alla soglia, accompagnato dal passo lento del porcaro, il nobile gli si rivolse fulmineo: «Siete davvero convinto di quanto affermato?»
    «Certamente, potete restare senza indugio.»
    «Non mi riferivo a questo, ma a ciò che pensate dei vostri figli.» Alquanto stupito, Uberto iniziò a tormentare i peli del mento, arrivò a stropicciarsi la mascella, salendo su, fino alle tempie. «Diamine, certo che sì. Però non capisco dove vogliate arrivare.»
    «Se questi fanciulli sono un peso potrei alleviare le vostre spese: al mio palazzo abbisogno di servitù sveglia.»
    «Be’, rimango senza fiato. Sì, i miei figli mangiano come dannati, però sono pur sempre sangue del mio sangue e…»
    «Vedete? Avevo ragione. I figli sono un dono del Signore e come tali devono essere accolti. Non lamentatevi dei vostri sacrifici, altrimenti farete peccato.» Oltre alle parole, fu il ghigno beffardo a spazientire l’uomo. «Se pensate che io sia schiavo dei miei figli, sapete cosa vi dico? accetto la vostra proposta! Avete una notte intera, poi domani mattina prendete chi volete. Stabilite voi il giusto compenso e l’affare è presto fatto.» Un brusio si sollevò sopra le loro teste, dalla soffitta dove i ragazzi se ne stavano ad ascoltare. «Ebbene, buon uomo, così sia fatto. Resterò per la notte e all’albeggiare saprete chi porterò con me,» e detto questo gli porse la mano. «Bene,» confermò il porcaro rinvigorendo la stretta. «Potete distendervi accanto al tepore della cenere. Simonetto, Lanfranco venite subito qui… Sistemate delle pelli e una coperta, poi filate e avvertite i vostri fratelli: non voglio udire un fiato, altrimenti per quanto è vero Iddio, a tutti vi caccio, a costo di pagare io stesso.» Il porcaro si andò a distendere nel letto, lasciando che fossero i figli a occuparsi dell’ospite.

    Le braci non fecero in tempo ad annerirsi che il silenzio già regnava all’interno della casa. Gli unici a dormire serenamente furono Uberto e il forestiero. In una notte senza luna, i fanciulli rimasero raggruppati come un gregge intimorito dall’ululare sempre più prossimo, in attesa che uno sconosciuto venuto chissà da dove decidesse del loro destino.

    2.
    Quasi tre anni erano passati dal giorno in cui il misterioso cavaliere aveva sostato in casa di Uberto portandosi con sé non uno, ma due dei suoi figli. «Simonetto e Lanfranco. Son loro che voglio al mio servizio. In due meglio sopporteranno il distacco.» Il padre non si era opposto alla richiesta del nobile. In cuor suo nessun ripensamento, solo un dubbio: quando rinvenne conficcato nel tagliere lasciato sulla tavola il coltello con il manico cesellato. Una dimenticanza o un dono ulteriore, questo aveva supposto mentre l’arraffava e lo faceva sparire insieme alla generosa ricompensa.
    La vita nel cascinale era proseguita senza sconvolgimenti. Gli affari dell’anno precedente erano stati cospicui e la dispensa era colma di grano e orzo; nella rimessa la legna traboccava. I ragazzi la raccoglievano nel bosco, mentre i porci se ne stavano a pascere intorno alle grandi querce.
    Uno dei più grassi ora stava appeso a due pali, con il ventre spaccato, ancora sanguinante. Grazie a due recipienti Guerrino non doveva lasciarne cadere in terra nemmeno una goccia. Da qualche mese la macellazione era compito dei ragazzi e Uberto si affacciava solo per un rapido controllo, altrimenti se ne restava tutto il tempo chiuso in casa a mangiare e bere. Quando la sua bocca era libera dal gozzovigliare non faceva che impartire ordini. In paese non andava più, al massimo incaricava uno dei figli, di solito Iohanni, di mercanteggiare al posto suo. Aveva rinunciato anche ai piaceri della carne, nessuna sosta a godere dei servigi di qualche sgualdrina: «Soldi e fatiche risparmiate,» si ripeteva fra sé.
    Da una mattina di mercato ritornava Iohanni. Insieme a lui c’era un uomo a cavallo. Guerrino si distrasse nel momento di cambiare il coccio. L’atteggiamento del fratello la diceva lunga: la testa china e il cappuccio calato sugli occhi, il nerbo poggiato sulle cosce anziché sulla groppa del mulo. Quando furono vicini ogni dubbio si dissolse, Guerrino aveva riconosciuto il cavaliere. Dopo aver notato le macchie rosse sul terreno, il ragazzino piazzò la ciotola vuota sotto al muso del porco e facendosi scudo di questo, tornò a spiare l’arrivo del carretto. Anche Astolfo, che se ne stava disteso all’ombra del noce a mordicchiare un filo d’erba, alla vista del forestiero balzò in piedi. Uno dei fratelli non fece in tempo a comparire sull’uscio che Iohanni gli ordinò di rientrare: «Iacopo, vai ad avvertire nostro padre che c’è messer Goffredo di Maffeo che desidera incontrarlo. Viene per conto del Marchese di Collemaggio e porta notizie dei nostri fratelli.»

    Appreso della visita il porcaro chiamò a sé due figli: «Iacopo, Anselmo, qui, sotto al mio braccio, aiutatemi a sollevarmi dal letto, fate che mi presenti come si conviene.» Seppur con difficoltà, lo misero in piedi; uno prese la sedia e l’avvicinò e dopo avergli rimboccato la camicia dentro alle braghe lo fece accomodare. Uberto rimase in attesa come un re sul suo trono, per scettro un ramo di faggio e due valletti al fianco. Accolse l’ospite con piglio allegro: «Ben trovato messere, spero portiate buone nuove.» Si assestò ben bene sulla sedia quindi scacciò i due giovinetti: «Forza, sparite, che abbiamo da conversare. E qualcuno prepari una brocca del vino migliore, l’occasione merita un degno brindisi.» Detto questo, si soffermò sull’elegante veste del nobile, un fine broccato; a suo giudizio doveva costare un patrimonio. Scrutato il suo aspetto, Uberto tornò a parlare all’ospite: «Allora, qual buon vento vi porta messer Goffredo? Venite a elogiare i figli che vi ho dato o siete qui per dolervene?»
    «Mai potrei pentirmi della scelta fatta, Uberto, e spero che la stessa cosa valga per voi.» Una smorfia di soddisfazione accompagnò la risposta: «Che io possa sprofondare all’inferno se pensassi il contrario!»
    «Bene, vedo che il nostro incontro ha portato vantaggio a entrambi. Me ne compiaccio. Anche se, a giudicare da quel che vedo, il vostro aspetto è di chi non rinuncia a nessun piacere che la vita può offrire. Entrando, ho notato che avete addirittura ingrandito la dispensa. Forse, dei due, chi ha goduto di più della separazione siete stato voi.»
    Uberto ebbe un sussulto come fosse stato punto nel mezzo di una natica. Le guance cadenti si contrassero, le labbra carnose si incresparono neanche avesse ingurgitato una sorsata di aceto. «Voi vi fate gioco dell’amore di un padre! Due figli vi ho dato, strappandoli a queste braccia. E osate accusarmi di esserne lieto? Non dimenticate che vi siete preso i miei fanciulli con la forza del denaro.»
    «Io vi ho solo messo di fronte a una scelta, non vi ho di certo puntato un coltello alla gola,» replicò con voce suadente il nobile.
    «Mentite! Siete un essere spregevole.» Per un attimo Uberto vacillò, pose una mano alla parete e si alzò, facendo cadere la sedia, quindi mosse verso l’ospite puntandogli il bastone. «Voi, dall’alto dei vostre ricchezze, cosa ne sapete della miseria? Per voi è facile. Entrate in casa d’altri, lusingate con belle parole, poi, simile al falco che volteggia ben al di sopra di ogni cosa, adocchiate la lepre e la ghermite prima che si possa rintanare.» Goffredo se ne restava indifferente allo sfogo. Uberto, invece, non voleva saperne di tacere: «Se mi accusate di essere un padre snaturato, allora ridatemi i miei figli.»
    «Buon uomo, se credete di aver commesso un errore, vi si può subito porre rimedio.» Con gesto lieve, Goffredo abbassò il legno che il porcaro gli aveva puntato contro. «Farò in modo che Simonetto e Lanfranco possano far ritorno a queste terre. Come detto, il nostro patto deve soddisfare entrambi. Non escludo, però, che il mio signore terrà conto del valore di quanto ha pagato e di quanto andrà a perdere. Vorrà essere risarcito. E magari i vostri figli potrebbero non essere felici di lasciare il palazzo, dove godono di grande considerazione, vestono abiti comodi, s’ingegnano con lo scrivere e seguono perfino lezioni di canto. Dovreste vederli, sembrano nati per la vita di corte. Chissà, forse una volta tornati a casa potrebbero lasciarla di nuovo per ottenere quanto la vita gli può offrire e voi gli negate.»
    A quelle parole Uberto sollevò di scatto il bastone. Quando sembrava lo volesse usare come un’arma, si bloccò. Goffredo si volse seguendo lo sguardo del porcaro. Uno dei figli era comparso sulla soglia e preso in flagrante a origliare si lasciò sfuggire la brocca. Goffredo approfittò dell’istante di smarrimento: «Davvero volete che i vostri figli vengano su pensando solo a procacciare ghiande per i vostri porci? Quando comprenderanno che oltre questi campi c’è il mondo, non correrete il rischio di perderli senza avere nulla in cambio? Vedete? basta un istante per mandare in frantumi quanto di buono si possegga...»
    Il ragionamento del giovane era accompagnato dalla lenta discesa del bastone. «Rifletteteci. Potreste stare ancora meglio se decideste di spartire fra meno bocche ciò che possedete.»
    Uberto si era ammutolito, le nocche della mano si erano imbiancate a forza di spingere il bastone al suolo, mentre l’altro non smetteva di pungolarlo: «Quale padre non sarebbe lieto sapendo i suoi figli felici?»
    Il porcaro sembrava sbronzo senza aver toccano un boccale, la vista gli si era offuscata, la testa vorticava. Cercò la sedia, ma si rese conto che era rovesciata in terra. Senza bisogno di un comando Iohanni attraversò la stanza, intimorito, quasi che in Goffredo vedesse un cane pronto ad azzannarlo; mise a verso la seggiola e fece da puntello al padre per farlo accomodare.
    Dopo essersi seduto, Uberto continuò a stringere la spalla del figlio. Era difficile da ammettere eppure il nobile l’aveva messo di fronte a un fatto inequivocabile: cosa avrebbe fatto se i suoi figli avessero deciso di abbandonarlo? Comprendeva quel che passava per la testa di Iohanni: ciò che per Lanfranco e Simonetto supponeva fosse stata una condanna si rivelava essere stata la loro fortuna.
    Dopo un interminabile sospiro Uberto portò a sé il figlio e gli confidò: «Iohanni, tu sei sveglio, non a caso mando te a far mercato, osservi tutto e non ti sfugge niente. Non apri molto bocca, ma so cogliere ciò che pensi. C’è un peso che ti addolora. Il tuo desiderio è di andare a unirti ai tuoi fratelli nel palazzo dove messer Goffredo soggiorna, è vero?»
    Iohanni, rimasto impalato con le braccia dietro la schiena, prima di aprir bocca si girò quasi per controllare se il nobile fosse ancora lì. Subito si voltò confuso dallo sguardo che era in attesa dei suoi occhi. Infine, mosse la testa per confermare quanto il padre sospettava.
    Lasciato cadere il bastone Uberto affondò le mani tra la chioma riccioluta, la baciò e quasi in lacrime accettò la nuova perdita. Goffredo si avvicinò alle spalle del ragazzino e lo strappò alla presa del padre. Prese una sacca dalla sporta e colmò il vuoto nella mano dell’uomo, rimasta protesa davanti a lui. Il porcaro serrò al petto il frutto di quell’ultimo affare e chinò il capo. Mentre i due scomparivano oltre la porta, fissò a lungo i cocci e il rigagnolo rosso che pian piano stava per raggiungere i suoi piedi.

    Usciti all’aperto il nobile e il giovinetto oltrepassarono il cortile senza che notassero traccia dei ragazzi. Goffredo montò a cavallo e aiutò Iohanni a salire; lui, le gambe ciondoloni, per non cadere gli cinse una mano al fianco. Una lacrima scivolò sul viso del ragazzino, se l’asciugò strofinando sulla spalla la guancia e si poggiò alla schiena del cavaliere. A quel contatto egli si volse: «Sei stato molto bravo mio buon Iohanni.» Goffredo stava per dare uno strattone alle redini quando si fermò. Qualcosa attrasse la sua attenzione. Iohanni ebbe un fremito. Goffredo subito lo rincuorò: «Non temere, come vedi, ogni cosa si sta verificando. A breve tu e i tuoi fratelli potrete ricongiungervi a palazzo. Non ne sei lieto?»
    Il movimento della fronte sfregata contro la morbidezza del tessuto rispose meglio di cento affermazioni. Prima che si avviassero, Iohanni gettò un’occhiata al coccio pieno per metà. Il maiale aveva smesso di sanguinare. A parte il cuore, che era stato asportato e trafitto con un coltello e ora si trovava appeso alla trave del camino a colare le ultime gocce dense e cupe, come le iridi del misterioso cavaliere.

    3.
    Uberto aveva fatto cercare Guerrino per settimane. Interrogati al riguardo, i figli non avevano saputo dire dove poteva essersi ficcato. Nonostante insistesse per prolungare le ricerche, il padre conosceva bene la sorte toccata a Guerrino. Di certo aveva ascoltato i discorsi sulla beltà della vita a palazzo e non si era lasciato sfuggire l’occasione di seguire il fratello. Da quel momento il porcaro era inevitabilmente cambiato. Sempre di pessimo umore e in collera con il mondo, sospettoso verso tutto e tutti; anziché dormire vegliava sui suoi averi nascosti in un punto imprecisato, l’orecchio teso a distinguere il minimo scricchiolio.
    Oltre alle monete teneva sotto stretta sorveglianza anche i figli. Di notte li segregava in soffitta, durante il giorno li seguiva in ogni loro faccenda. Qualcosa di pericoloso si era insinuato nella sua testa. A mandarlo fuori di senno era la questione del coltello. Non riusciva a capire chi l’avesse tolto dal nascondiglio per farlo riapparire infilzato contro la trave del camino. Doveva considerarla una minaccia o quel cuore di porco era un messaggio da decifrare?
    Da quel giorno Uberto portava sempre con sé l’arma ben affilata. Ogni volta che il porcaro si trovava a uscire o rientrare in casa si soffermava sul sentiero che conduceva al paese. Prima o poi nel punto preciso in cui iniziava il folto della boscaglia avrebbe visto apparire Goffredo, pronto a raccogliere il frutto dei suoi patimenti in cambio di un pugno di monete. Uberto era lì ad attenderlo per fargli scontare i suoi peccati.

    4.
    All’arrivo dell’inverno Uberto era diventato la metà dell’uomo di un tempo, le camicie gli cadevano ampie sulle spalle, le braghe doveva sostenerle con un pezzo di corda legata ben stretta. Adesso, ogniqualvolta doveva assettarsi o alzarsi dal letto poteva farlo senza bisogno di aiuti, però le forze gli finivano presto e con esse anche le giornate.
    Uberto e i suoi figli avrebbero avuto di che mangiare e vestirsi in abbondanza, ma la volontà del padre obbligava i giovinetti ad andare in giro con le maniche a mezzo braccio, le cuciture ai fianchi sul punto di scoppiare, le calze braghe talmente corte che erano costretti a tirarsele su di continuo. Non c’era verso che Uberto spendesse soldi né che barattasse la carne per le esigenze dei figli. Per ogni cosa venduta voleva sentire il gusto del metallo sotto ai denti. Il ricavato andava così a incrementare il gruzzolo nascosto sotto le assi del pavimento.

    Mancavano tre giorni alla festa di San Nicola e il porcaro, accompagnato dai ragazzi, si incamminò di buonora per raggiungere il paese; le ruote del carretto affondavano nella poltiglia e il mulo aveva il suo bel da fare per trainare il carico. Uberto era di un umore meno cattivo del solito pregustando il ricavato per la vendita dei due maiali. La luce del primo mattino, seppur affettata dai fusti del pioppeto, gli faceva serrare gli occhi. Svoltata una curva il mulo si arrestò. Umberto gli diede due frustate in groppa, ma la bestia si era impuntata. Accecato dal bagliore, tentò di proteggersi con la mano per capire cosa stava accadendo. Notò il tronco messo di traverso a bloccare il sentiero. Stava per scendere per studiare il da farsi quando una voce lo piantò sul sedile: «Ben trovato, Uberto. Vedo che nonostante tutto i vostri affari continuano a essere proficui.» Uberto iniziò a tastarsi il fianco alla ricerca del coltello, senza riuscire a trovarlo. Il suo nervosismo aumentò non appena la voce tornò a risuonare: «State forse cercando qualcosa che mi appartiene? Fareste senz’altro bene a ritornare a casa, qui non siete al sicuro. Non mi avevate messo in guardia, un tempo, che in mezzo al bosco girano briganti e spiriti malvagi?»
    Uberto saltò giù dal carretto e si avvicinò all'ombra. «Chi siete veramente e cosa volete da me e dai miei figli?» Nella foga inciampò sul tronco finendo in ginocchio. Goffredo mosse il cavallo e si tirò indietro per mantenere a distanza l'uomo. «Vengo a portarti i loro saluti. Sai che Lanfranco è diventato il primo valletto di corte? Invece Simonetto aiuta a curare le cucine del palazzo. Devo dire che anche Iohanni e Guerrino si sono trovati subito bene a corte, entrando nelle grazie della signora Marchesa. I tuoi figli ti fanno davvero onore, Uberto.» Il porcaro se ne stava a quattro zampe, la faccia rivolta verso il basso, sbuffando l’alito nell’aria del primo mattino. Poi, in un impeto improvviso prese un ramo dell’albero abbattuto, lo spezzò con quanta forza aveva nella gamba e nel piede e si scagliò contro il cavaliere. «Che tu sia maledetto! Ti romperò quella testa marcia, per quanto è vero Iddio.» Il tentativo di Uberto fu umiliato dalla mossa del cavallo che si lanciò al breve galoppo, fece un ampio giro, prese la rincorsa e con un balzo superò il tronco per fermarsi accanto al carretto. «Pensate davvero di spaventarmi Uberto? Cercate di non essere ridicolo. Suvvia, posate quel bastone. Non voglio fare del male a nessuno. Son qui perché me l’hanno chiesto i vostri figli, glielo devo per la lealtà mostrata nel servire me e il mio signore. Vorrebbero tanto ricongiungersi con i loro fratelli.»
    Dopo un mugolio iniziale il pianto di Uberto salì alto, raggelando l’espressione dei ragazzi che seduti sopra le carcasse dei maiali stavano a seguire l’assurda disputa. «Guardatevi Uberto, siete l’ombra dell’uomo che eravate. Passate le giornate a correr dietro ai figli, senza comprendere che è arrivato il momento di lasciarli andare. Non potete opporvi, se non a rischio di rovinarvi la vita.» Uberto si alzò in piedi grazie all’aiuto del ramo . Si scrollò di dosso terra e foglie col piglio di chi vuol darsi un contegno, ma senza riuscirci. Quando si sentì pronto gettò via il bastone, si avvicinò al tronco riverso sul sentiero e si rivolse a Goffredo con tono lagnoso: «Perché proprio io? Perché avete bussato alla mia porta? Voi siete stato la mia rovina. E non so spiegarmene il motivo. Voi, voi siete il diavolo in persona...»
    Il cavaliere balzò a terra, diede una carezza in capo al cavallo, si chinò come se volesse controllare un'impronta sul terreno, raccolse un ramoscello e tracciò una linea, poi iniziò a batterselo sul palmo. Quindi tornò a guardare l'uomo. «Mio buon Uberto, non dite sciocchezze. Le cose accadono perché devono accadere; per lo stesso motivo che un qualsiasi sentiero conduce sempre in un solo luogo. Non fatevi domande più grandi di voi. Non sono al servizio di forze oscure, e non ho i poteri che mi attribuite. Se li avessi, non verrei a chiedervi nulla. Me lo prenderei e basta.» Agli occhi del contadino Goffredo appariva sincero come non mai. «Il primo giorno che ci siamo conosciuti avevate tanti figli e una casa troppo piccola, e pur se non vi mancava nulla, sentivate che questo non vi bastava. Forse sbagliavate, forse no, chi potrà dirlo? Ma ora è tardi per tornare indietro. Quel che fatto è fatto. Ai figli, oltre che chiedere, bisogna anche dare. Al mio palazzo quattro di loro reclamano i fratelli. Solo questo conta.» Goffredo fece una pausa per prender fiato poi continuò con tono distaccato: «Ho un affare da sbrigare in paese, quindi resterò qui ancora per una notte. Vi servirà per riflettere. Credo di interpretare nel modo giusto le volontà di Simonetto e degli altri concedendovi di scegliere chi dei tre rimasti potrete tenere al vostro fianco. All’alba verrò a prender atto della vostra scelta.»
    Uberto aveva ascoltato impotente il discorso di Goffredo. Non aveva il coraggio di guardare negli occhi i propri figli, né di chiedere quel che pensavano. Era inutile ribellarsi a quelle idee. Sarebbe potuto scomparire nel fitto della macchia o fuggire in un'altra contea, ma non sarebbe servito a niente. Era troppo tardi per mutare il corso degli eventi.
    Mentre saliva guardò l’ombra allontanarsi oltre il pioppeto; il sole si era fatto abbastanza alto e non dava più noia, poco importava ormai. Senza dir nulla Uberto prese le redini, girò il carretto e tornò verso casa.

    5.
    Le fronde dell’albero batterono per l’ennesima volta contro l’anta. Uberto si svegliò di soprassalto non solo a causa del rumore. Si guardò attorno come per capire dove si trovasse. Astolfo se ne stava rannicchiato in un angolo a ronfare. Uberto scese dal letto e si avvicinò alla parete. «Bisogna che mi decida a spuntare il fico, altrimenti finirò per ritrovarmelo in casa.» L’uomo parlò come se si rivolgesse alla finestra. Era tentato di aprirla, ma lasciò perdere, il picchiettare del ramo andava aumentando d’intensità segno che una tempesta era in arrivo. Andò verso la cucina per scolare l'ultima sorsata dalla brocca. Una folata ghiaccia lo svegliò del tutto. Dalla porta aperta, oltre il verde della sterpaglia che aveva invaso il cortile, poteva osservare l’ammasso grigio che si stava avvicinando. Alzò gli occhi preoccupato dallo stato del soffitto. Avrebbe dovuto sistemare anche il tetto prima che se ne volasse via, come fosse un berretto dal capo di un bimbo. Si ricordò della sua sete e ritornò verso la cucina. La brocca era in tavola, lì accanto un coltello; accanto al coltello, il viso che ben rammentava spiccava nella desolazione circostante. Senza aspettarsi una parola Uberto crollò sulla sedia, si sostenne sui gomiti, guardò dritto negli occhi il suo ospite: «Eccovi di nuovo qui, Goffredo. Non siete stanco di tormentare un pover’uomo?»
    Il giovane stese il braccio e con un dito sfiorò il manico cesellato, quasi notasse per la prima volta la perfetta decorazione. Continuando a guardare il coltello, rispose alla domanda del porcaro: «Sono venuto a terminare il mio compito, Uberto. Al mio palazzo ci sono sei fanciulli che aspettano l’ultimo dei loro fratelli. Non è più possibile rimandare quel che dev’essere.»
    «Dove sono realmente i miei figli? In quale luogo li avete portati?» Uberto non riusciva a nascondere le sue paure. Aveva riflettuto molte volte su ciò che gli era capitato. Dalla scomparsa di Guerrino aveva tenuto dentro sé un lugubre presagio, ora riaffiorava prepotente. «Adesso che tutto sta finendo, voglio sapere. Sapere ogni cosa.» La testa del porcaro era scivolata lenta dalla presa delle mani, la fronte ora poggiava sulla tavola. Sentì la vibrazione del legno mentre Goffredo estraeva il suo coltello. Per un attimo sperò che glielo conficcasse nel collo. Ma questo non avvenne.
    «Uberto, tu mi chiedi di svelarti ciò che è più grande di noi. Se pensi che queste mani si siano macchiate del sangue dei tuoi figli, cadi in errore. Al tempo stesso, se pensi che siano al sicuro, pecchi di ingenuità.» Il cavaliere si alzò per piazzarsi accanto al camino. Con un tizzo spento scombussolò il mucchio di cenere e carbone, quindi si voltò verso Uberto.
    «Vedi, questa cenere era la legna che tu hai raccolto e poi messo sul fuoco. Questo è il prezzo da pagare per scaldare la tua casa. Così come la vita che ti circonda ravviva il tuo animo, i tuoi figli ora sono cenere, bruciati dalla fiamma eterna che alimenta le passioni terrene.»
    Uberto aveva sollevato la testa, riusciva a malapena a inquadrare la figura del giovane, come se dopo il lieve movimento fosse rimasto pietrificato dalle parole ascoltate. Goffredo tornò verso il tavolo e parlò con tono solenne, al modo di un prete che santifica dei salmi. «Guardati attorno Uberto, il tuo fuoco è spento, la tua rimessa è vuota. Di legna da ardere non ce n’è più. Nessuno andrà per tuo conto a raccattarne nel bosco. Sei rimasto solo con i tuoi errori. L’ultimo dei tuoi figli è l’ultima delle tue debolezze. A volte privarsi delle proprie colpe è peggiore che conviverci.»
    Uberto si alzò come se fosse l’immagine della stanchezza personificata. Non disse nulla, guardò in faccia il giovane, una faccia perfetta e senza tempo. Ricordava dove l’aveva già veduta. Era simile a quei volti dipinti sulla parete della grande chiesa, quando suo padre e sua madre lo avevano portato in pellegrinaggio. Una di quelle figure angeliche pareva essersi staccata dall’intonaco per ritrovarsi di fronte a lui, in corpo e in sangue. Prima di tornare verso il letto Uberto si girò verso la causa della sua disperazione. «Io so chi sei. Ora lo so.» Quindi scomparve oltre la soglia lasciando il suo ospite libero di compiere quanto doveva. «Che accada quel che deve accadere. A me non interessa nulla, ormai.» Una nuova folata spazzò il pavimento dell’ingresso. Quando la porta si richiuse pesantemente lui era già disteso nel letto. Presto, molto presto, l'ultima traccia dei suoi peccati avrebbe cessato di esistere.

    La pioggia batteva contro il tetto e parte della parete esposta alla furia delle intemperie. Uberto ebbe un sussulto, si svegliò nel silenzio che lo circondava. L’immagine del suo incubo si era fatta più concreta. Sette tombe in una radura nel fitto del bosco, una accanto all’altra. Lui che scavava in profondità senza trovare ciò che cercava. Nessun nome sulle croci, nessun corpo seppellito.
    Si rannicchiò e tirò a sé le coperte; dei brividi smossero il suo corpo arrivandogli fino alle ossa. Il turbinio nell'animo era paragonabile all’ammasso di nubi che collassavano nel cielo. Tutto si stava compiendo. Il piacere dei ricordi passati si spense alla luce della solitudine in cui si trovava. Tutto questo era avvenuto dopo la comparsa di un angelo caduto in terra, come ormai si era convinto che fosse il cavaliere.
    Aveva atteso fino all’ultimo che qualcuno dei suoi ragazzi si facesse vivo, per scacciare ogni brutto pensiero, ma questo non avvenne. Poco importava dove si trovassero. Se non voleva impazzire di dolore, era condannato a credere che se ne stavano beati a godere dei piaceri che solo una vita agiata gli avrebbe potuto concedere. Sapeva che se qualcuno lo aveva privato dei figli, nessuno avrebbe potuto fare altrettanto con i suoi peccati.

    Un colpo secco delle fronde del fico mandò in frantumi l’anta della finestra facendo entrare nella stanza delle gocce d’acqua e una ventata gelida che sollevò la coperta. La rigidità del braccio rimasto scoperto la mantenne ancorata al giaciglio per farla poi ricadere sopra gli occhi inespressivi di Uberto in modo brusco, come fosse l’oscurità calata improvvisa sulla boscaglia, presagio di una notte senza il benché minimo chiarore.

    G VanderBan

    Edited by VdB - 16/6/2010, 09:27
     
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