Testa, coda, lisca.
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Testa, coda, lisca.

di Antonino Alessandro, Fantastico, 35.000 cc.

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  1. Alessanto
     
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    Direttamente dalla RR, opportunamente riviso e ampliato, ecco a Voi:


    Testa, coda, lisca.



    1.
    Giorno




    «Stanno arrivando col resto degli sgombri e noi siamo ancora così! Ci vogliamo sbrigare?» esclamò il signor Miceli. Era il titolare: tale e quale al cattivo delle soap opera: autoritario e arrogante. Ci costringeva, almeno tre volte al giorno, ad alzare gli occhi implorando un Santo qualsiasi di concedergli la forza per continuare.
    «Non lo sopporto…» mi disse Egidio sottovoce.
    Rimasi in silenzio.
    Testa, lisca, coda.
    Il coltello del mio amico, stretto nella mano senza indice e medio, saettava sui corpi esanimi dei tonni come la bacchetta di un direttore d’orchestra: un taglio longitudinale, le dita che si insinuavano tra il rosso delle viscere e le branchie. Altri due colpi netti e la coda e la testa raggiungevano i resti nel contenitore di plastica azzurra sul pavimento.
    Vivevamo dieci ore al giorno immersi nell’odore di pesce: per chiunque sarebbe stato insopportabile, ma per me e gli altri respirare quel tanfo non faceva più effetto.
    Le inscatolatrici lavoravano da ore con ritmo metallico e cadenzato come un plotone di soldati, e così noi, sporchi di sangue fino ai gomiti a maneggiare mannaie, coltelli e forbici tra cassette ricolme di cozze, acciughe, sardine, tonni e resti di ghiaccio gocciolante.
    Osservando la risacca irrompere nello stabilimento e lasciare la solita traccia schiumosa e lurida grattai un’alga filiforme che, arrogante, era rimasta appiccicata sul ripiano di marmo bianco. Avrei rivoluto il mio vecchio lavoro e la mia vecchia vita. Commesso in un negozio di scarpe: orari decenti, clienti a cui, al massimo puzzavano i piedi, gambe gonfie certo, ma quantomeno messo in regola. Tutto filava liscio, poi, a meno di cento metri avevano aperto il Forum. Sei cinema, dieci ristoranti, cinque supermercati e negozi di scarpe, e pure tanti: l’agonia era durata meno di un anno. Si era passati da tre commessi a due, poi a uno, quindi a zero. Il signor Torregrossa, capelli bianchi e sorriso paterno ormai spento, ci aveva invitato a cena – nulla di esotico, del resto non era il tipo – per annunciare il licenziamento di Matteo, il più giovane e, quindi, il primo della lista.
    Lui, poveraccio, ha provato a spiegare, quello che urlavano le scatole rimaste piene e invendute in magazzino e il tempo trascorso a passeggiare in negozio aspettando clienti.
    Io ero stato il terzo di tre; avevo avuto l’onore, davanti agli occhi lucidi di Torregrossa a chiudere per l’ultima volta la saracinesca.
    «Allora, che facciamo? Dormiamo?» gridò Miceli, turbando ancora la tranquillità che avrebbe permesso a ognuno di noi di compiere il proprio lavoro più velocemente.
    Continuai a ripulire le sardine, concentrato su quei pochi movimenti misurati. Poi mi avvicinai alla riva e predisposi tutto quanto: presto il pontile sarebbe stato preda dei pescatori che seguendo un patto non scritto, figlio della consuetudine e di certe amicizie del signor Miceli, gli avrebbero venduto i frutti della notte per pochi euro.
    A quel punto sarebbe toccato a noi chiusi in quello stanzone circoscritto dall’eternit, dalle lastre di metallo e dalla plastica d’occasione.
    «Fai bene a non dire nulla, amico mio…» aggiunse Egidio, aprendo il tonno a metà e ricavando una serie di tranci tutti uguali.
    Udimmo il suono ritmato dei motori dei pescherecci.
    «Voi due, forza, andate a scaricare…» ci sollecitò Miceli.
    Pagato in nero, senza soldi quando non si lavorava: in periodi come quelli, per un disgraziato di mezz’età come me, non c’era tanto da fare gli schizzinosi.

    Notte.



    Quando spensi il motore della mia Punto grigia, la ventola continuò per un po’ a schiaffeggiare l’aria tiepida di luglio.
    Scesi dall’auto; le sospensioni cigolarono, così come la portiera che richiusi con un gesto annoiato.
    Aprii la porta di casa.
    Il divano a fiori, le sedie ingiallite, il letto disfatto e il tavolo con la tovaglia della cena precedente mi avevano aspettato, pazienti.
    Imboccai il corridoio e, oltrepassando il bagno, arrivai in cucina.
    Quando spalancai l’oblò della lavatrice, una zaffata di odore di sudore misto a puzzo di pesce mi fece arricciare il naso. Mi tolsi la camicia e l’appallottolai tra gli altri vestiti: due misurini di detersivo – uno economico, solo un po’ profumato –, la pressione di un tasto e le mie cose cominciarono a contorcersi nella schiuma.
    Consumai la cena tra macchie di marmellata e una tazzina dove il caffè aveva formato un anello scuro e incrostato.
    Quando cacciai in bocca il primo pezzo di tonno sott’olio, lo innaffiai con un sorso di birra Messina e sorrisi. Ancora una volta il pasto lo offriva il signor Miceli: una scatoletta in più, una in meno, chi l’avrebbe notata? E poi, la consideravo una mia piccola rivincita. Decisamente infantile, certo, ma che mi dava la forza di sorridere e di mandar tutti a quel paese.
    Finii in pochi minuti e mi ritrovai come al solito a petto nudo, disteso sulla sdraio in balcone.
    L’unico momento bello della giornata.
    Osservai Palermo accarezzandomi la pancia prominente; potevo scorgere la cupola della Cattedrale e i campanili del Palazzo Arcivescovile illuminati di giallo tra i tetti scuri del centro.
    Chiusi gli occhi per godermi la frescura: mi piaceva proprio farmi cullare dalle luci rosse degli stop delle auto che tamburellavano sulla buca, sempre la stessa, della Via Perpignano. Spesso mi addormentavo così: respirando la mia Palermo e godendomi il fresco.
    Forse quella sera le mie orecchie percepirono il suo sospiro sotto il letto ma la mia mente assonnata non se ne curò.

    2.
    Giorno



    «Quindi, Antonio, cerca di essere più… hai capito, no?» concluse Miceli voltandomi le spalle. Tra alghe morte e resti di pesce, la pelle nera delle scarpe lucide strideva con l’opaco della plastica che lo riparava dagli schizzi.
    Annuii, gli angoli della bocca in basso, movimenti decisi a strappare lische.
    Alle minacce di licenziamento avevo opposto i miei soliti “ha ragione” e “la capisco” servili al punto giusto. Quando Miceli parlava me lo immaginavo immerso in una di quelle figure sugli egizi, del mio libro di prima media: con la frusta in mano e un cappello strano che sorveglia una marea di schiavi mentre trasportano una statua enorme.
    Mentre mi parlava non avevo smesso di lavorare, il sudore che colava dentro il berretto tra i capelli mi solleticava da pazzi, ma non volevo farmi nervoso. E poi quei gesti riuscivo a deviare, a far girare al largo il fiume triste dei miei pensieri; il problema era che poi riprendevano sempre la stessa penosa direzione.
    «Coraggio, stai sereno… Oggi Miceli è in giornata» disse Egidio gettando con uno sbuffo una rete di cozze dentro la piscina di spurgo. La voce era ferma come lo sguardo che mi piantò addosso.
    «Sì, l’ho notato» risposi.
    «Come andiamo oggi?»
    «Bene.»
    «E sì; proprio bene! Si vede! Hai dormito stanotte?»
    «Sì.»
    «Va bene. Riformulo: hai dormito come i cristiani, stanotte? O ti sei addormentato sul balcone, come al solito?» chiese prendendo dalla tasca del grembiule il coltello per i mitili.
    Non risposi.
    «Ancora? Cazzo! Ma te la vuoi fare una bella dormita come Dio comanda? Anche a me piace sonnecchiare in balcone, ma poi me ne vado a letto!»
    «Senti, Egidio» lo interruppi prendendo l’ultima sardina dalla cassetta e strappandogli testa, lisca e coda con più forza del necessario. «Non ho voglia di prediche oggi. Quindi, non ti seccare, finiscila.»
    Egidio rimase immobile dinnanzi a me, quasi lo implorai: «Ti prego, non voglio litigare oggi. Ho un mal di testa che mi spacca a metà…»
    Raccolsi il contenitore di polistirolo bianco colmo di ghiaccio rosa e mi avvicinai al contenitore dei rifiuti.
    Il mio amico non aggiunse nulla, lo vidi fissarmi qualche altro secondo prima di sbuffare. Si allontanò biascicando tra le labbra quelli che, di certo, erano degli insulti diretti a me e a mia madre.

    Notte



    Ero rimasto in silenzio per il resto del pomeriggio, riducendo al minimo gli interventi consapevoli, trincerandomi dietro la quotidianità che mi avvolgeva come una coperta di lana grossa.
    Testa, lisca, coda. Poi cancello, strada statale, svincolo, autostrada, svincolo, Via Pitré, Piazza Principe di Camporeale, cena, sdraio e balcone.
    Tutto come al solito: tutto per il verso giusto. I soliti, comodi, gesti che mi avevano accompagnato, preso per mano, nella direzione finale di un’altra giornata.
    Voltai la testa compiacendomi del fruscio dei capelli sul cuscino e delle dita che, nude, tamburellando sulla suola dei sandali, si aprivano leggermente facendo passare un po’ di fresco.
    Aprii gli occhi.
    Cosa era stato? Incuriosito, rizzai le orecchie.
    Di nuovo? Un sospiro? Un lamento?
    Mi alzai e rimasi in attesa; il sospiro si ripeté. Feci qualche passo nella stanza; mi fermai vicino al divano. Ancora una volta chiusi gli occhi. Di nuovo.
    Veniva da sotto il letto.
    Mi mossi verso quell’angolo.
    Calpestando un lembo del lenzuolo che come una pelle vuota era rimasto accartocciato per terra, rimasi a fissare il materasso.
    Un altro sospiro si snodò tra le pareti spoglie e le stoviglie sul tavolo.
    Mi inginocchiai e cacciai la testa sotto il letto, il cuore che batteva, la lingua di cartone.
    «Aaaah!» gridai scorgendo, rischiarati da una lama di luce, due occhi gialli.
    Sobbalzai e, strisciando, provai ad allontanarmi ma non ci riuscii: le coperte mi si erano attorcigliate tra le gambe.
    Gli occhi gialli si ingrandirono.
    Gridai di nuovo, mentre con un paio di strattoni riuscivo a liberarmi dalla morsa del cotone.
    «Antonio, non è il caso di fare così» dissero gli occhi dal buio.
    Mi fermai e rimasi immobile, respirando appena.
    Speravo che sparisse col silenzio.
    Mentre sgusciava fuori dal suo loculo in uno scricchiolio di ossa fracassate, lo osservai meglio.
    Era un uomo, o meglio, ciò che ne restava: la testa aveva una depressione sulla fronte dalla quale di dipartiva una ragnatela di sangue coagulato, il corpo gonfio e sfondato sul ventre, le gambe malferme e ossute sembravano sul punto di spezzarsi sotto il peso della carne.
    L’essere mi scrutò, una traccia di sorriso in quella smorfia che gli ornava il volto tumefatto e si sedette sul letto. Le molle cedettero gemendo.
    «Non mi riconosci?» disse l’essere, la voce era cavernosa e sfiatava da un foro tra i muscoli scuri del collo.
    Scosse la testa.
    «Avanti, guardami bene» mi esortò.
    Si protese verso di me; il taglio degli occhi mi sembrò familiare così come la forma del viso e la gobbetta il naso che, nonostante la devastazione ne tradirono l’identità.
    «N-N-Non è possibile!» esclamai, impaurito.
    «Ah! Finalmente! Sono contento che tu mi abbia riconosciuto.»

    3.
    Giorno



    Testa, lisca, coda.
    Testa, lisca, coda.
    Avevo parlato con un morto.
    Testa, lisca, coda.
    Carabinieri e magistrato lo avevano chiamato incidente e anch’io ero certo che fosse proprio questo. Ma gli occhi che mi avevano fissato poco prima che la sua vita si concludesse contro il palo sul quale la mia Punto lo aveva scaraventato, non riuscivo a togliermeli dalla testa.
    L’avevo rivisto centinaia di volte: la testa aperta e il sangue, frutto del parabrezza e della velocità, che colava.
    Testa, lisca, coda.
    «Che facciamo? Il mio discorso di ieri non è servito?» esclamò Miceli, mentre io, con lo sguardo perso, continuavo il lavoro con la solita lena.
    «Allora?» aggiunse.
    Di nuovo la solita manfrina sul lavoro, sulla crisi e sulla necessità “di questi tempi di tenersi stretto quello che si ha”.
    Annuii più volte, forse, pensando al mio nuovo amico sotto il letto, dissi anche un paio di “sì”.
    Quando si allontanò ripresi le mie divagazioni.
    Testa, lisca, coda.
    Certo, rimanere calmo mentre il tizio che hai ucciso ti sta di fronte e ti parla non era stato facile. Ma era bastata mezz’ora perché dimenticassi di voler fuggire.
    “Ce l’hai con me?” era stata la prima cosa che gli avevo domandato.
    «Ero controsenso sulla Circonvallazione. Sai, mi era volato il cappellino mentre ero sullo scooter e stavo andando a riprenderlo» mi aveva risposto.
    Poi gli avevo chiesto perché fosse venuto; a quelle domanda aveva scosso la testa. Nemmeno lui lo sapeva. Aveva aperto gli occhi e si era trovato davanti le molle del mio letto.
    «Oggi mi sembri più fuori del solito» disse Egidio che, approfittando della mia distrazione, mi passato dietro e mi aveva dato un buffetto sul collo.
    Mi voltai di soprassalto.
    «Eh?»
    «Sembri proprio rincoglionito!»
    Rimasi in silenzio.
    «Non hai voglia di parlare, vero?»
    «No.»
    «Okay, solo una domanda: hai dormito stanotte?»
    Annii.
    Volevo togliermelo di davanti: io ed Egidio ci conoscevamo da quando lavoravo da Miceli ed era un amico, anzi era l’amico. Quello che mi aveva ascoltato, quello che mi aveva portato da mangiare costringendomi a ingoiare un boccone dopo l’altro quando riuscivo solamente a piangere, quello aveva cercato di fare qualcosa della mia vita diventata troppo pesante.
    Egidio era la certezza. Egidio era la sicurezza.
    Dopo l’incidente in molti mi avevano messo da parte, alcuni nemmeno mi salutavano più.
    Gli dovevo tanto eppure quando si metteva a farmi la predica non lo sopportavo.
    «Dove hai dormito?»
    «Sul letto» risposi io, con prontezza.

    Notte



    Anche quella sera aveva fatto capolino dall’orlo del lenzuolo.
    Erano passate le tre, il nostro colloquio era stato interrotto solo dal compattatore dell’AMIA che aveva svuotato i cassonetti.
    «E ce ne solo altri come te?» chiesi a un tratto.
    Marco accavallò le gambe – scricchiolio orribile – e fece un gesto con la mano.
    «Non lo so. Ma ti interessa proprio?»
    Riflettei un attimo: «Credo che sarebbe interessante sapere quante persone al mondo vedono un morto che cammina» feci una pausa, «a parte gli americani che portano un poveraccio alla sedia elettrica.»
    Marco sorrise.
    «Non mi hai chiesto com’è il dopo. Non te ne importa?» chiese.
    Respirai a fondo.
    «No.»
    «Se fossi vivo a me importerebbe.»
    «Farebbe differenza? Il fatto che tu sia qui e non con un bel paio di ali di piume attaccate la schiena già mi ha fatto riflettere a sufficienza. No. Non mi interessa. Mi chiedo come mai tu sia diventato così… saggio. Voglio dire: ti ho investito perché inseguivi un cappellino. Non è…»
    Marco si alzò dal letto – treno di scricchiolii da incubo.
    «…Una cosa intelligente da fare» mi interruppe.
    Abbassai lo sguardo: mi sarebbe dispiaciuto se si fosse offeso.
    «Anche io mi meraviglio di me. Penso che faccia parte della mia condizione» disse passeggiando per la stanza, i piedi scalzi che tamburellavano con leggeri tonfi ovattati sul pavimento.
    «Che vuoi dire?»
    «Credo che la morte mi abbia sbloccato facendomi guadagnare tempo.»
    «Guadagnare tempo?»
    «Sì. Vedi, credo di essere da morto come sarei diventato col tempo da vivo. Del resto sarei andato all’università; mio padre è un avvocato così come mia madre. È come se il passaggio avesse rimosso una specie di guscio che mi conteneva. Non so se è chiaro.»
    Avevo intuito qualcosa, ma non ero certo che tutto mi fosse chiaro.
    «Non ti dispiace non essere comparso nella camera da letto dei tuoi genitori?» chiesi.
    «Eh?»
    «Voglio dire: muori, ti svegli e, invece di rivedere i tuoi, ti ritrovi con me, quello che ti ha ammazzato a parlare del nulla. Non ti girano un po’ le scatole?»
    Marco fissò per un attimo il vuoto; era evidente che alla cosa non aveva pensato.
    «Rivedere mia madre…» disse piano la voce aveva un velo di rimpianto: quella fu l’unica volta che lo vidi indeciso. Proprio quando stavo per spezzare il silenzio imbarazzato con una battuta qualsiasi si decise a parlare. Lo fece con voce ferma.
    «No, credo che non mi sarei fatto vedere così dai miei genitori. Ma te l’immagini mia madre che mi vede con la testa fracassata e le ossa che scricchiolano per rimanere attaccate alla carne? No. Ne hanno passate fin troppe…»
    «Penso che tu abbia ragione. Dopo l’incidente ci siamo incrociati in ospedale e…»
    «Erano disperati?»
    «Sì» risposi.
    «Ecco meglio così allora» disse sedendosi sul pavimento.
    Rimanemmo per una manciata di minuti a goderci il fresco dal balcone e il silenzio.
    «Sai una cosa?» chiesi.
    «Cosa?»
    «Credo che se fossi rimasto vivo non saresti stato troppo male.»
    Mi scrutò con un cipiglio severo, il crocifisso di oro bianco che penzolava sulla pelle pallida. Poi mi fece l’occhiolino.

    4
    Giorno



    Avevo tossito al telefono parlando un po’ col naso e non ero andato a lavorare per due giorni filati. Non appena misi piede nello stabilimento mi accorsi che la mia assenza aveva dato parecchio fastidio: Miceli faceva la spola tra l’ufficio e la mia postazione dove, a lavorare di malavoglia, c’era Gino, l’ultimo arrivato, che puliva le sardine come Jack Lo Squartatore.
    «Ma no! Cosa cazzo fai? Così cosa inscatoliamo? La pelle?» stava urlando il capo appena prima di scorgendomi e dirigesi nella mia direzione verso di me.
    «Finalmente!» disse col dito puntato verso la mia faccia.
    «Buongiorno signor Miceli, mi dispiace ma sono stato malato e…» dissi col tono più servile che potei e tirando su col naso.
    L’uomo sbuffò.
    «Mi metto subito al lavoro!» dissi incamminandomi verso lo spogliatoio a cambiarmi. Non avevo fatto nemmeno tre passi che la voce di Miceli mi costrinse a fermarmi.
    «Ricorda che…»
    «Sissignore, me lo ricordo» completai con voce un po’ cantinelante voltandomi da sopra una spalla.
    Miceli mi squadrò titubando; non capiva se gli stessi facendo un verso, oppure se fossi prostrato a sufficienza.
    Socchiuse le palpebre.
    «Gino, torna al tuo posto. E tu,» mi disse con un cenno dirigendosi verso l’ufficio, «cambiati e vai a lavorare.»
    Io sorrisi e lo feci per tutto il tempo che impiegai a cambiarmi; non smisi nemmeno quando riconquistai la mia posizione.
    Testa, lisca, coda.

    Notte.



    La sua risata, sfiatando dal buco grande quando un’arancia, si espanse all’interno monovano; nonostante fosse poco più di un gracchio sospirato ne fui felice.
    «Sei proprio uno schiavo! Scusami ma perché non gli fai anche le pulizie in casa?»
    «Vorrei vedere te! Tu dici che ti ha migliorato la morte. Credimi, uno come quello non riuscirebbe a migliorarlo nemmeno lei» aggiunsi allargando il sorriso.
    «Concordo, un conto è inseguire un cappello contromano, un conto è sanare un’intera esistenza di stronzaggine. Chissà poi quanta ne avrà accatastata di merdate! Le speranze sono davvero poche!» esclamò Marco.
    Ridemmo insieme ancora. Non riuscivamo a smettere: ogni sguardo diveniva un pretesto per proseguire.
    «Lo sai da quanto tempo non ridevo?» gli chiesi.
    Marco portò una mano pallida e tumefatta al mento.
    «No…» disse facendo finta di riflettere. «Non riesco proprio a immaginarlo… Sarà passato tanto tempo! Potrebbe essere dall’ultima volta che hai scopato?»
    «Eh, sì! Forse è passato tanto!»
    «Non mi meraviglio! Tenendo conto che preferisci passare le notti a dormire in balcone oppure a parlare con un morto devono essere passati anni! Magari il tuo bambino lì sotto è morto e tu non te ne sei nemmeno accorto!»
    Stavo ridendo come un matto; lui non accennava a smettere.
    «Che dici, tra un po’ mi trovo accanto lì, sotto il letto, anche il cadavere del tuo uccello?»
    «Senti, caro amico, nel mio piccolo non posso certo lamentarmi…» dissi tra le lacrime.
    «Nel tuo piccolo? Allora mi sa che appare dentro un cassetto! Ma che dico? Basta anche una scatola di fiammiferi!»
    «Vaffanculo!» esclamai fingendomi risentito.
    «Certo già me lo vedo davanti!» disse mettendosi in piedi e cominciando a camminare come uno zombi di quelli dei film dell’orrore: mani tese, occhi sbarrati e voce cantinelante e roca.
    «Anto…onio… Cosa hai fatto? Per…ché… No…n… mi hai… usatoooo!!!»
    «Beh, ripensandoci forse, non ridevo tanto da quella notte in cui ho ucciso qualcuno! Sai uno di quelli intelligenti che vanno contromano sulla Circonvallazione…»
    Rimase a fissarmi divertito.
    «Bastardo!» rispose.
    Scoppiammo a ridere di nuovo come due ragazzini che si raccontano le prime barzellette sporche. Ma era, forse, la situazione a non permetterci di smettere: stavamo lì, nel cuore della notte, un uomo mezzo fallito a scherzare con un cadavere – tutto morto. Un cadavere che, invece di rimanere zitto e immobile dentro una bara di zinco a imputridirsi come tutti i suoi colleghi, ridacchiava e faceva battute andandosene a spasso per la stanza.

    5.
    Giorno



    Mi aspettava all’ombra del portone principale dello stabilimento.
    «Allora?» chiese Egidio.
    «Cosa c’è?» risposi fermandomi.
    «Cosa ti sta succedendo?»
    «Che vuoi dire?» ribattei.
    «Stai male?»
    «Perché me lo chiedi?»
    «Uno che non viene a lavoro da quasi una settimana deve stare molto male, credo…»
    «Ah, sì. Sono stato male» mentii. Avevo semplicemente preferito rimanere con Marco; del lavoro me ne fregava ormai, meno che niente.
    «Lo sai che Miceli per poco non ti ha licenziato?»
    «Sai che perdita…» risposi con un mezzo sorriso.
    «Ho garantito per te! Sei proprio un coglione se pensi che ti tenga a queste condizioni.»
    «Che mi licenzi; mi farebbe solo una cortesia» esclamai camminando oltre.
    Egidio non si mosse, lo sentii irrigidirsi.
    «Per favore, potresti farmi passare?» gli chiesi, non rendendomi conto che la voce mi tremava un po’.
    L’uomo rimase in silenzio ma non si spostò.
    «Mi fai passare?» gli chiesi.
    «No.»
    «Avanti, spostati!» esclamai; provai a strattonarlo afferrandogli la camicia già sudata di prima mattina.
    Non si mosse di un passo.
    «Sai cosa credo?» mi chiese.
    «Cosa, Egidio…»
    «Che tu sia un coglione.»
    «Grazie!» risposi con tono finto ma gioviale, riprovando a spostarlo.
    Non raccolse la mia polemica e proseguì imperterrito: «Voglio dire: uno deve essere proprio un coglione per lasciarsi andare così. Credevo che fosse per l’incidente…»
    Io sorrisi e lo fissai.
    «Okay, hai ragione. Adesso mi fai passare?»
    Mi fissò con disgusto poi un suono di gola raschiata e uno sputo filamentoso e giallo che vorticando andava a impattare sul pavimento di cemento a pochi centimetri dal mio piede.
    «Okay, grazie. Quando ho tempo lo vado a scambiare…» risposi freddo.
    Quelle parole non avevano ancora finito di rimbalzare tra le lamiere come una pallina da tennis, che Egidio mi colpì con tutta la forza delle sue braccia muscolose col pugno sbilenco.
    Caddi per terra, il mio sangue che colava fuori dalle labbra e si mescolava con quello dei pesci.
    «Figlio di troia non capisci un cazzo!» esclamò digrignando i denti «Chi pensi che abbia pagato Miceli per i tuoi giorni di malattia? L’INPS?»
    «Chi cazzo ti ha detto di farlo?» ribattei massaggiandomi la mascella.
    «È vero, nessuno me l’ha chiesto…»
    Rimanemmo a fissarci: lui che mi soppesava come si studia il modo per staccare una merda dalla suola di un sandalo e io che rimanevo in silenzio muovendo la lingua per costatare i danni.
    Ci fu un istante che mi sembrò pentito, sembrava sul punto di porgermi una mano per farmi alzare; stavo già arcuando un po’ un angolo della bocca quando Egidio sbuffò e mi scavalcò lasciandomi per terra.
    Lo osservai andare verso gli spogliatoi prima di alzarmi; presi alla mia postazione abituale e iniziai a lavorare colmo di risentimento.
    Testa, lisca, coda.
    Non era chiaro ciò che stava accadendo? Mi stavo rinfrancando da lui, da quel lavoro di merda, da quella vita di merda. Cosa pretendeva Edigio? Che volessi invecchiare tra i cumuli di pesce puzzolente? Facendomi tiranneggiare da una merda come Miceli?
    Testa, lisca, coda.
    Certo che ero uno stronzo, e pure bello grosso.
    Mentre inghiottivo le sorsate il sapore metallico che mi invadeva la bocca tastando con la lingua un molare diventato frastagliato e tagliente come una bottiglia rotta, pensai a Marco che era lì, sotto il mio letto, ad aspettarmi.
    Vidi Egidio brandire il coltello e creare un piccolo cumulo di tranci di tonno con pochi e abili movimenti; era nervoso e incazzato. Forse avrei dovuto andare a parlargli quantomeno per provare a spiegare.
    Testa, lisca, coda.
    E cosa dovevo spiegare? Che avevo il cadavere del ragazzo che avevo ucciso sotto il letto e che passavo le mie serate a parlare con lui? E divertendomi pure?
    No. Meglio così. Meglio lasciare tutto così.
    Guardai l’orologio. Era ancora mattina presto: dovevo resistere un’altra giornata. Per il resto avevo deciso che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro.
    Ricominciai.
    Testa, lisca, coda.

    Notte



    Quando varcai la soglia avevo ancora il sorriso con cui ero uscito dallo stabilimento dopo aver mandato a quel paese Miceli. Avevo percorso la strada verso casa con la radio a tutto volume, cantando canzoni a discoteca che non conoscevo e ballando, le mani staccate dal volante e il sedere che si agitava sul sedile. Non avendo potuto fare foto della faccia di Miceli quando gli avevo detto ciò che pensava di lui e del suo “in periodo come quelli è meglio tenersi stretti ciò che si ha!”; me la riportavo alla mente per fissarmela per bene in testa: volevo che quel ricordo mi accompagnasse per la vita.
    La cosa bella era stata che mi ero trattenuto fino alla fine, poi, certo della reazione, mi ero cambiato con mezz’ora di anticipo. Lui era sceso dal suo ufficio, per fare il suo tipico passaggio di controllo – quello delle rogne che ti costringevano a rimanere per i soliti dieci minuti oltre l’orario – e, non appena mi aveva visto fresco e pulito era partito con la sua solita rottura di palle. L’ho fermato con un gesto misurato della mano e gli avevo vomitato addosso tutto quello che pensavo. Mentre parlavo mi godevo la mia voce, la sua faccia stravolta e lo spettacolo del pubblico. I miei colleghi fissavano la scena impietriti: persino sul viso di Edigio mi era sembrato di scorgere un’ombra di sorriso.
    «Marco, non sai oggi cosa…» dissi togliendomi le scarpe.
    Il mio amico non mi rispose.
    «Marco?» dissi nella stanza vuota.
    Mi colpì un presentimento cattivo come certi personaggi dei film; provai a metterlo da parte, ma un stretta d’acciaio mi serrò il cuore mentre un groppo alla gola mi impedì di inghiottire.
    Lo chiamai di nuovo.
    Niente.
    Mi diressi, sempre invocandolo, verso il letto.
    «Marcooooo!»
    Spostai la rete e il materasso; si mossero riluttanti con un treno di tonfi sordi descrivendo un semicerchio sulla ceramica.
    Niente. Il suo giaciglio era vuoto. Il luogo dal quale si era manifestato era silenzioso come una tomba.
    Lo chiami altre due, tre, sei, dieci volte. La paura mi era venuta accanto e mi guardava con occhi penosi e fermi.
    «Marcooooo!» gridai disperato.
    Non ottenni nulla, solo il cigolio della portafinestra spalancata e il rumore delle mie calze di spugna che si aggiravano nervose nella stanza.
    Lo invocai ancora, ma la certezza delle mia perdita era ormai definita come la consapevolezza di un malato terminale: Il mio amico era sparito, il mio amico non c’era più.
    In quell’istante, col Palazzo Arcivescovile che, come al solito, si ergeva arrogante, propendendosi verso il buio, la mia mente ebbe l’odiosa freddezza di formulare un dubbio: e se Marco non fosse mai esistito?
    “Senti cose che gli altri non sentono?” mi avevano chiesto sul test alla visita militare. Ai tempi avevo risposto di no, adesso era arrivato il momento di cambiare risposta?
    Cominciai a ridere.
    Non era accaduto nulla. Avevo sognato!
    Risi di nuovo.
    Mi strappai di dosso la camicia e la maglietta, le vene del collo che pulsavano, le unghia che affondavano sulle palme fino a farmi male, le nocche gialle.
    Gridai tenendomi il viso mentre il dolore mi trafiggeva; singhiozzi smorzati dalle risa isteriche, voglia di piangere che si mescolava all’impossibilità di credere.
    Una tempesta di pensieri mi turbinò dentro raccogliendo la mia coscienza sbattendomela dentro come fa una bambina annoiata con una bambola di pezza.
    «Maledetto io!» gridai calciando con i piedi scalzi una sedia che si aggrovigliò sotto il tavolo colpendo le sue sorelle mute.
    Afferrai le coperte, il materasso e il cuscino e ne feci un fagotto. Lo sollevai sopra la testa e lo scaraventai contro il comodino.
    «Maledetto iooooo!» ripetei tra il suono dell’abat-jour che si fracassava sul pavimento.
    Singhiozzi misti a colpi di tosse, misti a un groppo alla gola, misti a risate: le mie sicurezze erano sparite come acqua da uno scarico. Ero solo.
    Respirando a fatica mi sedetti sulla rete nuda, le mani sulla faccia, la stanza diventata improvvisamente vuota e piccola.
    Forse passarono dei minuti prima di scorgere il luccicore che proveniva dal gancio alla parete. Strizzai gli occhi.
    Poi attraversai la stanza e andai da lui.
    Ciondolava con un’altalena abbandonata ma non si sembrò altrettanto triste. Con circospezione lo tolsi dall’appendiabiti e me lo ritrovai in mano.
    Il crocefisso di Marco riusciva a catturare una po’ della luce che si faceva strada attraverso la ringhiera del balcone.
    Lo strinsi nel pugno e non piansi più.

    6.
    Giorno.



    «Cosa vuoi?» chiese.
    «Volevo chiederti scusa per ieri» risposi, lo sguardo fisso sul pavimento.
    Egidio mi squadrò poi si grattò la testa attraverso il cappello sudicio.
    «Cosa credi di fare? Non ti sei licenziato?»
    «Sì, ma io volevo solo…»
    «E allora vattene, che ci stai a fare qui? Non hai più bisogno di questo posto di merda, no?» mi domando.
    «Il fatto è che…»
    «L’hai pure detto ieri a Miceli. Aspetta come hai detto? Ah! “Non voglio più vedere la sua faccia di cazzo e quei falliti che lavorano qui.”»
    Non ricordavo ciò che avevo detto il giorno prima, ma ero certo che Edigio non mentisse, provai a giustificarmi.
    «Scusami, ma vedi ieri è stata una giornata difficile e…» bofonchiai.
    «Ieri è stata una giornata difficile? Ma guarda! Beh, mi dispiace per te, ma oggi è la mia giornata difficile e quindi ti mando a fare in culo. Non voglio perdere tempo con te, vattene!» mi interruppe mandando in frantumi i miei propositi notturni e le parole, elaborate come un affresco che mi ero preparato per chiedergli scusa.
    «Per favore, Egidio, io…» riprovai.
    «Ascolta: io non sono Miceli. A me quella faccia non fa nessun effetto…»
    Alzai la testa.
    «Non ho più intenzione di ascoltariti. Vattene!» disse, gli occhi azzurri contornati di rughe, duri come diamanti.
    «Per favore…» implorai.
    «Ho detto: vattene!» urlò.

    Notte



    La pioggia stava disperdendo la cappa di umidità e caldo che gravava su Palermo.
    Osservai le gocce che, grandi come chicchi di caffè, picchettavano sulla ringhiera del balcone schizzando la sdraio chiusa e appoggiata sul muro.
    Obaka – o come diavolo aveva detto di chiamarsi – se ne era appena andata. Dalla via Lincoln a casa mia eravamo stati in silenzio, io chiedendomi che cosa stessi facendo e lei domandandosi se valesse la pena per cento euro rischiare che fossi uno che ammazza le puttane. Dopo che Egidio mi aveva cacciato avevo girato in macchina senza meta. Mondello, il Foro Italico, il Giardino Inglese, la Cattedrale: me li ero girati tutti come un turista che guarda dentro una di quelle macchinette fotografiche che a ogni click mostrano le foto dei luoghi caratteristici di una località.
    Avevo condito il mio ciondolare con l’assurda speranza che qualcosa cambiasse.
    Quando varcammo la soglia, così come facevo ogni volta che entravo in casa, pregai di ritrovare Marco: oggi sarebbe stata tutta da ridere, pensa se mi avesse visto con una puttana! E pensa cosa avrebbe detto la puttana di lui!
    Anche quella sera, però, le mie preghiere erano rimaste inesaudite.
    La turca aveva gettato uno sguardo leggero alla mia casa aveva appoggiato la borsetta piccola e di plastica sul tavolo e si era cominciata a spogliare. Non so perché l’avevo scelta: forse perché era la prima disponibile o, forse, solo perché mi aveva sorriso.
    “Aspetta, aspetta” gli avevo detto. Lei mi aveva fissato con occhi grandi e indecisi. Ero andato a prendere una coca in frigo e gliel’avevo versata in un bicchiere, pulito per l’occasione. Lei mi aveva sorriso, ma non aveva bevuto: era una professionista.
    Aveva proseguito nel suo spogliarello svogliato.
    “Dài, tu vieni! Noi scopa!” aveva detto mentre si toglieva il reggiseno. Aveva capezzoli grandi quanto cd e una vita stretta, fasciata da una cinta larga dieci centimetri laccata bianca con un fibbia assurda.
    Avevo sorriso.
    “Aspetta, vedi io prima di scopa voglio…” avevo lasciato la frase a metà.
    Cosa si poteva volere da una puttana? Oltre scopare? Oltre qualche movimento sapiente della bocca e un po’ di mugugni finti come una moneta da tre euro?
    Parlare?
    “Scusami, mi sono sbagliato…” le avevo detto.
    Mi aveva fissato con occhi grandi, per un istante mi ricordò uno di quei bambini affamati del Biafra.
    “Rivestiti!” avevo aggiunto prendendole il top rosso sul pavimento e lanciandoglielo.
    “Noi no scopare?” mi aveva domandato.
    “No.”
    Le avevo dato i soldi per un taxi e le avevo richiuso la porta dietro. Non aveva detto una parola. Si era rivestita e mi aveva salutato.
    «Vaffanculo tu e l’Africa!» le avevo detto dallo spiocino mentre scendeva le scale in un suono cadenzato di tacchi e sculettamenti malfermi.
    Ero di nuovo solo.
    Mi voltai verso il letto, il crocifisso sul comodino brillò nel buio.

    7
    Giorno



    Quando entrai nello stabilimento lo vidi al suo solito posto, con pazienza certosina sfilettava un tonno prima di predisporlo per l’inscatolatrice. Era ancora presto, i colleghi non erano ancora arrivati, solo Miceli era nel suo ufficio a sbraitare al telefono. Anche la sua presenza faceva al caso mio.
    Camminai verso Egidio in punta di piedi nonostante il pavimento viscido. Il mio amico mi dava le spalle: lo raggiunsi, non gli diedi il tempo di far nulla.
    Un movimento deciso, netto come un tratto di gesso sulla lavagna e dal suo collo un fiume di sangue.
    Lo lasciai per terra a gorgogliare osservandolo mentre il suo sangue si mescola a quello dei tonni e delle sardine. Mi scoccò uno sguardo incredulo.
    «Lo so, amico mio. Mi dispiace» mormorai triste.
    Rivolsi la mia attenzione all’ufficio di Miceli, posto alla fine di una traballante scaletta metallica.
    Mentre facevo attenzione a non appoggiarmi alla ringhiera pensai a quante volte l’avevo visto affacciarsi dal suo ufficio come il duce dal balcone di Palazzo Venezia, rimaneva lì anche dei minuti a godersi il suo triste regno puzzolente.
    Raggiunsi la porta del suo ufficio, con passo lento; lo sentivo ancora parlare al telefono. Avevo le mani appiccicose, il coltello da tonni in mano.
    Sbirciai attraverso la vetrata: mi dava le spalle.
    «Puoi dire al nostro amico di stare tranquillo. Pensano sia un nuovo assunto; nessuno sa chi è…»
    Solo un poco incuriosito lo colpii quando posò il ricevitore.
    Lo vidi traballare tenendosi le mani alla gola mentre, con rantoli soffocati, provava a di dire qualcosa. In ogni caso nessuno lo avrebbe udito.

    Notte.



    Era passato quasi un mese dall’ultimo interrogatorio. L’inchiesta era chiusa: regolamento di conti tra mafiosi, Egidio si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
    Tutto filava alla perfezione, ma cominciavo a credere che non avrei ottenuto ciò che desideravo.
    Quando girai la chiave nella toppa mi ritrovai, per l’ennesimo volta, a pregare; trattenei il respiro e chiusi gli occhi.
    Il cuore saltò qualche battito: eccolo!
    Lo trovai lì: seduto sul letto che si toccava i lembi netti della ferita.
    Sorrisi.
    «Egidio…» dissi al cadavere del mio amico. Alzò la testa e mi osservò da sopra lo squarcio che, largo un paio di centimetri, aveva assunto un colorito grigiastro. Sembrava meravigliato si poter udire le mia voce.
    Mentre mi dirigevo verso di lui a braccia aperte, scorsi Miceli che, come un pupazzo, era adagiato sul pavimento; si muoveva piano. Sperai che almeno la morte lo avesse migliorato. C’era tanto tempo da passare tutti insieme e tante cose di cui parlare; forse, dopo un po’, avremmo potuto, anche, chiedere a Egidio chi fosse Gino in realtà.

    Edited by Alessanto - 1/7/2010, 10:17
     
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23 replies since 30/6/2010, 23:07   464 views
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