Il primo
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Il primo

Racconto light - 13.3K

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    Il primo



    Avrò avuto sette anni, forse otto, però ricordo ancora l'odore aspro che mi si era ficcato in gola. Me ne stavo in cantina a impastare cemento, calce e un po' di terra – sabbia non ce n’era – come spesso avevo visto fare da papà. Quel giorno avevo i coglioni girati, se così si può dire. Ero arrabbiato a morte con il primo della lista fra i tanti scassapalle che possono rovinarti l’esistenza.
    Prenderlo e portarlo di nascosto con me era stato un giochetto. Continuavo imperterrito a girare la paletta accovacciato tra bottiglie e damigiane, un prosciutto pendente dal soffitto e la scala a pioli messa per lungo, poggiata a due chiodi arrugginiti ficcati nella parete, tra una pietra e l’altra. Ogni tanto spiavo il riquadro di luce, ma l'unico volto che scorgevo era quello di Sandro Mazzola che sorrideva a braccia conserte dalla mezza anta lasciata accostata, la sua figurina era un bersaglio per le freccette.
    Ero inviperito per il solito pistolotto di mia madre: «Guarda come ti sei ridotto, sei nero come un tizzo. I bravi bambini certe parole non le ripetono: chi è che te le insegna? Quando rientra, lo dico subito a tuo padre.»
    La minaccia di darmi in pasto all’uomo dalla cui bocca uscivano un’enormità di bestemmie non mi spaventava più. Di solito iniziava con il suo rimprovero, io rispondevo che quelle parole le diceva anche lui, così non appena lei sboccava: «Ecco, bell’esempio che dai a tuo figlio,» finiva che litigavano fra loro.
    Mia madre non disperava, per raddrizzarmi aveva concepito l'arma peggiore che qualsiasi mente fragile potesse sopportare: il paragone. Vedi Luca come se ne sta buono a tavola e mangia tutto, anche la bieta e i cavoli, senza fare capricci? Tuo cugino fa ogni mattina trenta chilometri per andare a scuola, si alza alle sei e mezza e non ci mette tutto il tempo che impieghi tu per scendere dal letto. Guarda tua sorella, è sempre così graziosa e non tiene mai il muso.
    Per ogni comportamento sbagliato riusciva a trovare il perfetto esempio. E per l'ennesima volta ci aveva messo di mezzo lui. Era troppo, dovevo fare qualcosa. E mi era venuta in mente questa cosa di fargliela pagare. Avrei rischiato una punizione esemplare, ma ne sarebbe valsa la pena. La volta che avevo messo la molletta all’orecchio del gatto facendolo correre a perdifiato per tutta casa sarebbe stata niente in confronto. Tant’è, ero determinato e ottuso come solo un bambino può esserlo.

    Una volta eclissato alla vista di mia madre iniziai a preparare l’impasto. Per timore che venisse magro – ascoltando i loro discorsi mi sembrava fosse quella la preoccupazione di un muratore – infilai le mani nell'angolo strappato del sacchetto e presi un’altra manciata di cemento: pareva che avessi infilato le dita in un ventre molle e caldo. Una svolazzante nuvola grigia e fetente mi tappò il naso e tossii come il gatto tisico dei vicini. Quando la consistenza all'interno del secchiello sembrò perfetta, tanto che la paletta anziché afflosciarsi se ne stava dritta come una vanga piantata in una zolla, mossi i passi verso l'orto. Lui, lo stronzetto, ormai era nelle mie mani e nessuno avrebbe potuto salvarlo.
    Passandoci sotto, osservai le persiane della camera accostate; mia madre se ne stava in casa a rimettere in ordine, la sentivo sbuffare come un ferro da stiro alle prese con un colletto inamidato. Girai lo sguardo intorno, intravidi solo la sdraio su cui mia sorella se ne stava a prendere il sole. Era rivolta di schiena e abbastanza lontana per non far caso alle mie mosse. Di sicuro stava leggendo quelle riviste da ragazzine desiderose del primo reggiseno e di un bacio da Miguel Bosè.
    Il nostro orto era sconnesso e in discesa, risultava insidioso se non si calzavano scarpe comode. Scesi con cautela, le piante dei piedi sguazzavano sulla plastica. Camminavo a papera per paura che si rompesse l’infradito con il rischio di far partire il piede mentre la ciabatta si sarebbe incollata sul posto. Il secchiello era scomodo e pesante, lo passavo da una mano all’altra poggiandolo sul fianco, il bordo ruvido raschiava sulla pelle.
    Scelsi un punto all'ombra della pianta di albicocche, il fusto avrebbe fatto da riparo. Dopo aver strappato qualche erbaccia cominciai a scavare una buca. Sopra di me una cicala iniziò a martellare uno stancante richiamo. A giudicare dal casino pesava mezzo chilo, per zittirla avresti dovuto arrivarle a meno di un palmo, ma scovarla tra le fronde era complicato quanto pisciare all'insù.
    Me ne stavo accucciato a gambe larghe, come quando la devi fare di nascosto dietro a un cespuglio, il sedere a due dita da terra, solleticato dai pantaloncini di spugna e da un ciuffo d’erba rinsecchito. Affondavo la paletta impugnando con forza il manico, era più adatta per la sabbia che non per un terreno asciutto. Mi aiutavo con le unghie per togliere i sassi e i pezzi di mattoni che piegavano la plastica. Il sudore scorreva sulle tempie lasciandomi un senso di fastidio, quasi che in cima al cranio si fosse aperto un piccolo cratere e due file ordinate di formiche riscendessero giù ai lati della faccia. Le mani mi bruciavano per via dello sforzo e del cemento rimasto nelle pieghe della pelle, quelle che dovrebbero predirti il futuro. La fatica era bestiale, così come il mio intento. I capelli erano zuppi e si stavano impastando dato che per asciugarmi, dopo averci strofinato il dorso, ora usavo il palmo.
    All'ennesimo fastidio per il sudore scrollai la testa come un cane a bagno nella tinozza. Tirai su la spallina della canottiera che mi scendeva di continuo e rimasi con lo sguardo sollevato. Intravidi mia sorella che si era alzata e stava parlando con qualcuno. Mi bloccai con la paletta infilata per metà nella buca come in certi film, quando nei tentativi di fuga i prigionieri sentono avvicinarsi i passi del carceriere. Trattenni il fiato. Potei sentire il tono interrogatorio di mamma: «E tuo fratello dov'è?»
    Se una delle tante zanzare che svolazzavano intorno mi avesse punto si sarebbe sentita come al chiosco dei frullati. Mi feci più piccolo possibile. Per il nervosismo e la posizione ci scappò una scoreggia. Nel silenzio, riecheggiò come un buffo singhiozzo. Anche la cicala si azzittì, segno che qualcuno era più vicino di quanto temessi. Aspettavo da un secondo all'altro di veder apparire la faccia stranita di mia madre, i capelli castani vaporosi come il pelo di un gatto persiano, per via della tinta e messa in piega fatte con l’aiuto di mia sorella. Era questione di pochi secondi e i suoi occhi di un verde acqueo, diluito da dodici anni di matrimonio, si sarebbero puntati su di me accendendosi malefici. Invece furono le codine di Cinzia a spuntare da dietro l'albero. La sua voce starnazzante ruppe l'impasse: «Ha detto mamma che tra due minuti ti vuole su che dobbiamo andare a trovare la zia, ché oggi è il suo compleanno.»
    Io mi ero gettato in ginocchio per non far vedere il buco nel terreno, la paletta tenuta dietro la schiena. Lei storse un po' il collo, aggrottò le sopracciglia e chiese con tono da sorella maggiore: «Cosa diavolo stai combinando? Sei zuppo fradicio, quando ti vede mamma vedrai come s'incavola.»
    Anziché fiatare mi passai una mano sopra la testa, lisciandola, neanche avesse ordinato di pettinarmi. La curiosità la faceva avanzare; conoscendomi, si muoveva con cautela. Teneva Cioè davanti all’'ombelico, lasciato scoperto dal top con la faccia di Candy Candy, lentigginosa quanto la sua. «Allora? Non dici niente? Oggi anziché a Zorro giochi a fare il servitore muto?»
    Nel frattempo – saranno passati pochi secondi, ma a me parvero infiniti – cercavo di non far notare le tracce del mio peccato. Ma Cinzia quando ci si metteva aveva il radar sempre acceso: «Cosa tieni lì dietro, non avrai per caso una bestiaccia?»
    Le labbra rimaste per tutto il tempo socchiuse alla fine si mossero: «Be', se davvero ci tieni tanto...»
    Balzai in piedi, deciso a giocarmi la carta che lei stessa aveva suggerito. «Non sarà che una lucertola morta ti fa schifo, vero?»
    Bastò un semplice passo, il gesto del braccio portato in avanti, l'indice e il pollice a fingere di tenere per la coda un rettile, e mia sorella si era già data alla fuga urlando forsennata. Tornai alla buca, non c'era più tempo per allargarla. Lui se ne stava lì accanto, sdraiato nell'erba proprio come una lucertola intontita. Senza pensarci su, lo buttai dentro. Raccattai dei pezzi di mattone, ne feci uno strato e glieli pressai sopra. Afferrai il secchiello, il cemento si era compattato e per svuotarlo l’agitai battendolo sul fondo. Un blocco rinsecchito precipitò a un centimetro dall’alluce. Pestai alla meglio l'impasto lasciandoci impressa la suola zigrinata delle ciabatte.
    Un’ora più tardi, dopo una strofinata con acqua e sapone e un cambio d’abiti, me ne stavo beato a mangiucchiare qualche pasticcino sorseggiando una gazzosa. Durante il rinfresco ero stato perfetto; sul viso un sorriso ininterrotto che poteva essere scambiato per un disturbo nervoso. Non avevo rotto per andare via il prima possibile nonostante Cinzia mi ronzasse attorno come una vespa alla vista di un insetto stecchito sul pavimento. Sapeva che nascondevo qualcosa e non le andava giù che la scampassi. Io continuavo a interpretare la parte del biondino adorabile. Le mie guance avevano resistito senza fiatare alle strapazzate di zia Clelia e delle altre zitelle che popolavano il vicolo. Non mi ero neppure ingozzato di panini all’olio, né bevuto così tanto da gonfiarmi la pancia. Al ritorno, una volta tanto, mia madre ebbe parole di apprezzamento: «Oggi sei stato un angelo.» Tuttavia, prima di spedirmi in camera, mi tenne stretto a sé premendo a lungo la mano sulla fronte. La tolse sentenziando: «No. Non mi sembra che hai la febbre.» Non del tutto convinta, mi lasciò comunque andare.

    A cinque mesi di distanza rividi sul volto di mamma l’espressione vaga di quel giorno. Stava in camera a rovistare nel ripiano alto dell’armadio smuovendo vecchie scatole di scarpe. Io la osservavo sornione dalla scrivania; spostavo lo sguardo dal foglio a lei cercando di apparire indifferente. Lei scese dalla sedia e tornò davanti alle pagine di giornale spiegazzate e lasciate aperte sul letto come enormi farfalle fossilizzate. Lanciò un’occhiata verso di me, io continuai imperterrito a colorare un cielo sereno.
    «Ma dove potrà essere finito?» Parlò fra sé, ma in realtà voleva coinvolgermi nella questione. Senza degnarla di uno sguardo, iniziai a muovere energicamente la punta del pennarello azzurro, tanto che due ghirigori sbafarono sul legno. Spostai il foglio e ci buttai sopra la mano. Lei aveva altri pensieri che non badare a me. Si era piantata lì, le mani affondate nei fianchi come faceva le volte che non aveva la forza di sgridarmi per il troppo disordine. Era confusa: qualcosa non le tornava.
    Si avviò in salotto, l’ascoltai chiedere qualcosa a mio padre. La sua risposta arrivò pari a una cinghiata: «E lo chiedi a me? Sarà resuscitato...»
    Corsi alla finestra e cercai di focalizzare un punto preciso, senza riuscirci. La pianta di albicocche seppure spoglia manteneva un aspetto imponente e non mi consentiva di trovarlo. Rimasi tutto il pomeriggio chiuso in camera a osservare il cimitero di statuette deposte sulle pagine del Messaggero. Le misi in fila una dietro l’altra, a parte alcune pecore rimaste con due gambe e l’arrotino senza più il suo banco. Un pastore teneva sulle spalle un agnello che aveva perduto la testa, il fabbro, poggiato all’incudine, anziché il martello sollevava in aria un moncherino, l’elefante aveva una zampa anteriore e parte della proboscide scheggiate. Mi sentivo malmesso quanto ognuno di loro.
    Quando mamma mi avvisò della cena trovai il coraggio di andare fino in salotto; fingendo di ammirare le palle dell’albero buttai un occhio verso il presepe. Tutti i pastori e gli animali erano radunati lungo il sentiero farinoso; gli angioletti tenevano stese le loro scritte gloriose, i contadini e gli artigiani erano intenti ai loro lavori. Nella capanna, davanti al bue e all’asinello, i genitori fissavano estasiati un cumulo di paglia e nulla più.
    Mio padre entrò in casa in quel momento, facendomi sobbalzare; mi buttai contro il bracciolo del divano. Bofonchiava qualcosa e non badò a me. In mano teneva un pacchetto probabilmente comprato all’emporio. Lo scartò e mise in modo frettoloso il Bambin Gesù al suo posto, poi entrò in cucina attirato dall’odore di arrosto. Lanciò con vena acida la sua provocazione: «L’ho preso. Sei contenta adesso, cara?»
    Prima di andare a cena trovai il coraggio di avvicinarmi al nuovo arrivato. In rapporto con Maria e Giuseppe era di una grandezza eccessiva, tanto che i piedi fuoriuscivano dalla mangiatoia. Più che un neonato sembrava già pronto a dare lezioni nel Tempio. Le sue braccia si aprivano in un saluto benevolo e l’espressione stampata sul viso roseo lo facevano sembrare ebete. Lo guardai sornione. Strizzando l’occhio, gli sussurrai: «Ora vedi di non rompere con questa storia di essere buono come te, se non vuoi fare la fine dell'altro.» Quindi me ne andai soddisfatto a spolpare il mio coscio di pollo.

    g VanderBan

    Edited by VanderBan - 16/7/2010, 12:42
     
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