L'altro lato del triangolo
  • Poll choices
    Statistics
    Votes
  • 3
    50.00%
    7
  • 4 (max)
    28.57%
    4
  • 2
    21.43%
    3
  • 1 (min)
    0.00%
    0
Guests cannot vote (Voters: 14)

L'altro lato del triangolo

19300 caratteri

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. Snow2
     
    .

    User deleted


    L’altro lato del triangolo





    I.

    Ghighì cammina in una viuzza fra le ultime case, col capo volto in alto, verso la foresta di faggi e castagni.
    Lungo la stradina si ritrova a fiancheggiare il porcile del macellaio: una zaffata di puzza lo assale, il naso risucchia due fili odorosi e lui si piega e tossisce.
    Tira su la felpa che gli ha regalato il fratello e se la pigia contro la bocca, lanciando un’occhiata ai porci che grufolano nello steccato. Alla sua destra il fianco erboso dell’altura sale ripido come il lato di un triangolo. Ghighì si lascia alle spalle il paese e prosegue sul sentiero del bosco.

    “Non succede mai niente”, pensa voltandosi a guardare le case sparse nella valle come sassi aguzzi e rossi.
    In lontananza la gente si raccoglie vicino alla chiesa, riesce a distinguere il prete — dritto come uno spaventapasseri — che saluta i paesani dai gradoni.
    Non c’è molto da fare a Vicchio se hai tredici anni, a parte gironzolare per i boschi e ripensare alla scuola. Immaginare i capelli di una bella compagna, la voluttà di poterli accarezzare, come si fa con una stoffa pregiata.

    Prima Ghighì finiva in ogni sorta d’avventure fra i faggi. C’erano grossi cani neri, soldati con le piume sul cappello e la trombetta d’ottone, tesori nascosti sotto le pietre.
    Ora l’unica cosa a cui pensa è Pia.
    Fra un anno finirà le medie e il babbo lo manderà a studiare a Prato: lui conta i mesi che restano e immagina le giornate fra i nuovi banchi, a cercare quel collo bianco e quella cascata dorata che non ci saranno più.
    Raccoglie un sasso da terra e lo scaglia contro un abete lontano, centrandolo in pieno. La mira non gli fa difetto.

    La domenica la mamma lavora al forno e il babbo dorme, Cesco va a Firenze a lavorare al mercato e lui è libero di fare quel che gli pare.
    Anche il suo unico amico non esce.
    Il padre di Vieri non va per i campi e beve, e se Vieri gli chiede d’uscire lo cinghia, e anche se non gli chiede d’uscire lo cinghia, quindi Ghighì ― dopo la volta che il vecchio l’ha inseguito urlando, con la cinta fra le mani e i pantaloni che gli cascavano ― non ci prova più a chiamarlo dalla finestra.

    A scuola i ragazzi lo prendono in giro perché studia; perché parla garbato e non risponde agli insulti.
    A lui non importa, se non fosse che a volte incrocia gli occhi di Pia.
    Una volta rispose a un ragazzone che ora concia le pelli. Gli disse di star zitto, ché c’aveva il babbo becco. Prima che qualcuno lo cavasse d’impiccio quel ragazzo ― che vantava già i primi peli di barba ― l’aveva steso con uno schiaffo duro come una badilata.
    Tornò a casa piangendo e il giorno dopo, all’uscita da scuola, suo fratello prese da parte quel tipo e benché non s’arrivò alle mani ― Cesco è alto come un campanile ―, la faccenda fu sistemata. Tornati a casa gli disse: “Tutto a posto, Ghighì. Lascialo perdere quello”.
    Da lì in poi a scuola lo hanno canzonato in ogni modo: codardo, piscialletto, Uì-Uì, ma lui non ha più risposto.

    Scaccia i pensieri scuotendo la testa e cammina più veloce per il sentiero.
    In lontananza una bruma sottile dà l’impressione che il bosco sia senza fine, primitivo e imponente. Ghighì calcia via le foglie secche e quando adocchia qualche masso balza di pietra in pietra con grande perizia, come se sbagliando il salto potesse precipitare in un abisso.

    In paese si dice che sulle colline della val di Sambro ci sono posti su cui l’uomo posa piede ogni cent’anni. Ghighì ci crede e ci conta.
    Andar nel bosco è una prova di coraggio. Le persone lo intimoriscono, ma è convinto di non essere un codardo.
    Attorno c’è solo natura, Vicchio non è più in vista.
    Ghighì comincia a correre verso il fiumiciattolo lasciando che l’aria gli gonfi i capelli.




    II.

    Sbuca come una fucilata dal fitto del bosco, e quando capisce che avrebbe fatto meglio ad andare piano è troppo tardi. Gli ultimi metri sono scoscesi e sotto di lui il Cuoio, il Balestrini e il Rosso si stanno passando un fiasco foderato di vimini, seduti sopra dei massi sul bordo del torrente.
    ― Merda, ― sbotta Ghighì precipitando. Cerca di virare e alla fine riesce a scansarli di un metro, finendo con le scarpe nell’acqua alta due palmi.

    I tre si guardano stupiti, poi cominciano a ghignare e gli si avvicinano ciondolando.
    Il Balestrini ― volto scavato e becco adunco ― lo indica: ― T’ha’ visto chi c’è, Cuoio? L’è Uì-Uì, quì ragazzino che va ’n giro vestito uguale a i’ su’ fratello.
    Il Cuoio poggia il fiasco e dice: ― In do’ tu vai, ragazzino?
    ― Volevo vedere se c’era acqua al fiume.
    E te tu lo chiami fiume questo rigo di piscio? ― Punta un indice verso la fanghiglia. ― Allora l’è vero che tu se’ tardo.
    Ghighì indietreggia. Vede il Rosso battere le mani per il freddo, un po’ defilato. Ha addosso stracci pieni di buchi, sembra una scrofa messa in costume per una recita di contadini.

    Con un gesto alla Fonzie il Cuoio si pizzica i lembi della giacca nera e fa un passo avanti.
    Tu c’ha’ schizzato di fango i vestiti, a me e a’ mi’ amici.
    Ghighì è un chiodo di garofano, arriva appena ai primi rami di faggio, mentre quei ragazzi sono più grandi di Cesco. Li fissa come un topo potrebbe fissare degli orsi.
    Vien qua, diobono!
    Lui scatta su per la china friabile ma ha le gambe troppo corte; il Cuoio fa due passi e balza in alto con un braccio teso, come a cogliere un fico da un albero; gli agguanta la caviglia e lo strattona giù, facendolo rotolare davanti al fiumiciattolo.
    Ghighì quasi soffoca per l’odore di foglie morte.
    ― Lasciami! Che vuoi?
    Il Cuoio lo tira su mentre gli altri si passano il fiasco eccitati, come pregustando uno stupro.
    Il Rosso ha gli occhi fissi sulla sua felpa. Alla fine apre bocca: ― Che bel disegno, icchell’è un cristallo? Levati la maglia, piscialletto.
    ― No.
    Il Rosso grugnisce qualcosa al Balestrini, che senza dire né grazie né vaffanculo tira giù una lunga sorsata di vino.
    Poi d’un tratto, mentre il Cuoio ancora lo stringe, il Rosso gli pianta una mano alla gola.
    Dammi la maglia. I’ tu’ fratello ce n’ha una uguale, almeno ’un vu parrete più du’ ritardati.
    ― Ritardato sarai tu, palla di merda, ― sbotta Ghighì. ― Mio fratello sa l’inglese, lavora a Fire…
    Schiaffi.

    Il Cuoio lo sbatte contro un tronco e Ghighì comincia a piangere.
    ― No, la felpa no…
    ― Per favore.
    ― Per favore.
    Giù altri schiaffi, di taglio, e lui incassa, ondeggia come un agnello inchiodato testa in giù per il sanguinaccio.
    Tu lo sai Uì-Uì, perché l’Arnolfo l’ha preso la tu mamma a lavorà’ n’i’ forno? ― sputacchia il Rosso. ― Perché se la tromba mentre i’ tu babbo sta a Prato a lavorà’ co’ cinesi!
    Ghighì tira indietro il braccio e lo scaglia verso il suo volto, ma il Rosso fa un passo indietro.
    In paese e lo sanno tutti.
    Ghighì prova di nuovo a colpirlo ma non ci riesce, e allora arriva il botto.
    Vede la nocche del Rosso macchiate di sangue e capisce che è il suo. Non ci sente bene, non ci vede più.
    Si sente strattonare più volte verso l’alto, poi un alito di vento freddo gli accarezza la gola come un foulard.

    Qualcuno lo spinge, gli assesta un calcio nel culo. Lui cade, comincia a correre mentre uno dei ragazzi lo insegue urlando; sente il sangue nella bocca e il cuore nelle orecchie.
    Scappa finché non si ritrova a strisciare con la schiena sul fango, su un immenso scivolo. Sempre più veloce, sull’altro lato del triangolo.



    III.


    Ghighì cammina con lo sguardo perso. Trema, ha le dita congelate.
    Allunga gli orli della maglia di lana e li stringe nei pugni, ma è cosparso di fango. Fango freddo.
    Si stropiccia il viso e ciò che resta sulla stoffa è un misto di terra e sangue rappreso.
    Non ricorda nemmeno da quanto sta camminando: attorno a lui gli alberi sono tutti uguali; le colline non svettano, si richiudono in saliscendi continui, senza tronchi mozzi sul terreno, senza conche o fiumiciattoli.
    “Devo salire”, pensa. “Dall’alto potrei vedere il torrente”.
    Raccoglie le forze e corre su per una scoscesa aggrappandosi ai cespugli per non scivolare.
    Quando arriva in cima al rialzo lo vede: non il fiume, ma un vecchio color del bosco, con addosso stracci di mille putride nuances tra il verde e il marrone.
    Si muove lento, spulciando cespugli simili al mirtillo ma molto più scuri.

    Ghighì si nasconde dietro un faggio, poi balza dietro un castagno come un ninja.
    A quel punto sente una voce priva d’inflessioni. ― È inutile che fai piano, so che sei lì. È da un po’ che ti osservo.
    Colto in fallo si avvicina.
    Benché il suo volto sia tagliuzzato dalle rughe, il vecchio ha un fisico snello e forte. I capelli castani scompigliati sulla testa ricordano un cumulo di foglie d’acero.
    Ghighì tira su col naso e fa qualche passo avanti, cercando il coraggio di parlare.
    ― Cosa raccogli?
    ― Erbe, ― risponde lui senza guardarlo.
    Ghighì si strofina le braccia tentando di scaldarsi.
    ― Per farci che?
    ― Allora è vero che non sei tanto sveglio... Per curarti, ragazzino.

    ***




    Ghighì si sveglia di soprassalto, ma capisce subito che non è stato un sogno.
    Ha metà del corpo costretta in una culla di corteccia.
    Il rifugio è piccolo, costruito interamente in legno: con tronchi, fronde e fango indurito.
    Per un attimo gli ricorda la casetta che aveva costruito con Cesco da bambino, ma si rende conto che qui le cose sono studiate assai meglio.
    Il vecchio se ne sta seduto in terra, intento a pestare qualcosa in un mortaio. Le rughe sul suo viso sono diramate e sottili come le venature delle foglie.
    ― Sta’ tranquillo, fra poco sarai come nuovo, ― lo rassicura.
    Allora Ghighì si tira su e si rende conto di essere nudo e asciutto. Il legno della culla è caldo come il guscio delle caldarroste.

    A un metro da lui i vestiti penzolano sopra della brace stretta in un cerchio di pietre, appesi a un ramo che spunta di traverso dal soffitto.
    In alcuni punti del corpo ― su dei lividi ― ha delle macchioline oleose. Si porta la mano al viso e si sfrega le labbra. Sente qualcosa di granuloso sulle dita; quando le ritrae sono coperte d’una sostanza bavosa simile alla schiuma delle lumache.
    ― Non ti toccare, ― ordina l’uomo. ― Fra poco le ferite finiranno di spurgare e si chiuderanno da sole.
    ― Spurgare?

    Ghighì si avvicina alla brace con le mani sul pube. Si infila i suoi abiti caldi.
    ― Grazie. Mi chiamo Lorenzo, anche se tutti mi chiamano Ghighì.
    ― O Uì-Uì.
    L’uomo versa il contenuto del mortaio in una coppa.
    ― Come fai a saperlo?
    ― Mi sono arrivati brani di voci dal limite del bosco. Quando il vento piega i suoni arrivano lontano.
    ― Tu sei il cacciatore… ― sussurra lui. ― Ogni tanto in paese qualcuno parlava di te, quand’ero piccolo. Poi hanno cominciato a dire che eri morto.
    L’uomo si alza e con due dita solleva una larga foglia cosparsa di sangue. La avvicina alla coppa con l’acqua. ― Che vuoi che ne sappiano in paese.
    Ghighì trattiene l’impulso di portarsi una mano alla bocca ― nell’alzarsi il cacciatore aveva mandato un tanfo acre, simile a quello nel letto del rigagnolo.
    ― È vero che hai più di cento anni?
    L’uomo immerge la foglia nell’acqua, cominciando a sbatterla come fanno i gatti per lavarsi una zampa.
    ― Cosa vuoi che contino gli anni. Ti sembro decrepito?
    ― No… ― riflette lui. ― Come ti chiami?
    Il vecchio ride facendosi sfuggire un fischio dai denti. ― Lascia perdere i nomi, piccolo. Si vive meglio senza, te ne sarai accorto.
    È vero quello che hanno detto i ragazzi riguardo ai tuoi genitori? Che tua madre si fa fottere mentre tuo padre lavora?
    Il ragazzo sbianca.
    ― No! Cioè, non so… ― continua più serio. ― Non credo.
    ― Se tuo padre lavora con i cinesi dev’essere forte. Le tessitorie sono dei posti infernali, non ci crederai ma quei gialletti sono dei duri, non è facile stargli dietro.
    Ghighì non sa che dire. Vorrebbe chiedergli come fa a saperlo ― non ce lo vede proprio in una fabbrica ― ma lascia perdere.

    Il vecchio si passa una mano fra i capelli mandando un fruscio crepitante. ― Allora, tuo fratello è tardo?
    Ghighì sente la paura tornare a irrigidirlo. ― No.
    ― E tu?
    ― Insomma che vuoi?
    ― Ti devi decidere, ― continua il vecchio agitando l’intruglio con una radice a forma di cavatappi. ― Non sei un codardo furbo, né uno scemo senza paura. Non dureresti molto nel bosco. Anche degli alberi bisogna guadagnare il rispetto, sai? Non sono amici tuoi solo perché non ti sputano in faccia.
    Ghighì continua a non capire. ― Io non vivo nel bosco.
    Il vecchio gli lancia un’occhiata. Fa una smorfia ma resta in silenzio.

    ― Hai davvero un gatto di cinquant’anni? ― chiede allora il bambino per cambiare discorso.
    ― Non lo “ho”. Siamo compagni. E ti conviene presentarti, ha dei modi un po’ rigidi. Si arrabbierà se non lo fai, ― conclude allungando un indice verso un angolo della capanna.
    Seguendo il dito legnoso Ghighì vede una macchia marrone staccarsi da terra e avvicinarsi a lui con fare solenne.
    È fango incrostato, impossibile dire di che colore fosse prima il pelo. È lungo quanto una mangusta ma più sottile; solo gli occhi sono davvero da gatto.
    ― Piacere, ― sussurra posandogli una mano sul capo. Il gatto fa un breve gesto d’accettazione alzando il collo e lasciandosi scivolare la mano sul dorso.
    Poi torna a sedersi.
    ― Lavati la faccia, ― dice allora l’uomo. ― Le ferite sono guarite.


    I due sono in piedi vicino alla fronda che copre l’entrata.
    Ghighì ripensa alla storia di sua madre, a suo fratello che non gliene ha mai parlato ― nonostante ora sa che c’è sotto qualcosa di vero.
    Immagina i tre bulli che nei prossimi giorni lo chiamano, fermi davanti alla conceria con il petto in fuori; il Rosso con la sua felpa dei pinfloid che tira fuori la lingua e si mette una mano sull’inguine ogni volta che passa.
    Poi dà un’occhiata alla brodaglia scura che il vecchio gli porge.
    ― Sa di acqua e liquirizia, ― gli dice. ― Se la bevi non sentirai freddo, né dolori. Per un po’ ti netterà la testa dalla paura.

    Fuori è ancora il primo pomeriggio. Ghighì si sente libero e forte come un animale.
    ― Hai capito come tornare in paese?
    ― Sì.
    ― Bravo ragazzo.
    Il gatto si affianca agli stivali dell’uomo.
    Ghighì china il capo per salutarlo, poi osserva il bosco stagliarsi nitido in ogni direzione.
    I raggi del sole hanno dissolto la bruma.
    ― Puoi dirmi un’ultima cosa?
    ― Chiedi.
    ― Quei ragazzi sono ancora lì, vicino al rigagnolo?
    L’uomo socchiude gli occhi. ― Li ho sentiti poco fa.
    Ghighì percorre alcuni metri. ― Grazie, ― dice lanciando un’ultima occhiata dietro di sé, mentre l’uomo e il gatto già cominciano a confondersi col bosco.



    IV.

    Ghighì è accosciato dietro un albero. Più in basso i tre che l’hanno gonfiato di botte se ne stanno seduti su delle rocce affioranti, con le gote rosse.
    Il Balestrini, appollaiato su un masso come un avvoltoio, tira lunghe boccate di sigaretta sputando ogni tanto fili di tabacco, mentre gli altri due sono intenti a girarne una per loro.
    Ghighì cerca una pietra che sia più grossa del proprio pugno, poi torna ad acquattarsi come un vero animale del bosco.
    “Fallo ora, prima che l’effetto della pozione svanisca”, pensa ruotando la pietra nella mano, cercando una buona presa.
    “Ora o mai più”.
    Dà una frustata col braccio e il sasso schizza come un pallettone, centrando in fronte il Balestrini, facendogli saltar via la sigaretta.
    Gli altri si voltano sentendo il fischio, ma per il Cuoio è troppo tardi: fa appena in tempo a vedere il suo volto rabbioso, che un ramo grosso come un braccio lo colpisce alla tempia.

    Con la spalla intontita Ghighì fissa il ramo spezzato a metà. Poi arriva il Rosso.
    ― Cazzo fai, Uì-Uì? Eh?
    Prima che possa muovere un muscolo si ritrova di nuovo nel fango, schiacciato dal suo peso.
    ― Finocchio, ― ride il porco lanciando goccioni di saliva.
    Ghighì agita le spalle ma il Rosso lo tiene e lo colpisce al volto con una gomitata.
    Lui recupera le forze, che sembravano svanire nel terreno, e gli assesta un calcio di punta nelle palle.

    Il Rosso ulula rotolando su un fianco.
    Ghighì si alza, e conscio di aver finalmente procurato del male a qualcuno, lo guarda con occhi non più da bambino.
    Gli tira un calcio facendolo rigirare nel rigo di piscio, poi gli mette le ginocchia sul petto e stringe le dita. Mira dritto al naso.
    ― Ridammi la felpa.
    ― …ulo.
    Tunf.
    ― Ridammela. Se no ti ammazzo.
    ― …ai… in culo.
    Al secondo colpo il naso del Rosso manda il rumore di un lapis che si spezza.
    Ora gli sembra proprio una scrofa: con la bocca di bava e il naso pieno di sangue incorniciati da un elmo di capelli color ferro vecchio.
    La tu’ mamma… l’è ’na troia! Faccia di ’azzo!
    Almeno la mia l’è ancora viva.
    Il Rosso sgrana gli occhi ma prima che possa reagire Ghighì artiglia un pugno di terra e glielo spinge in gola. Il Rosso si strozza, ma riesce a sputarlo.
    Ghighì prende un’altra manata di fango e gliela spinge fra i denti, poi gli tira un diretto a tutta forza sulle labbra.
    Il grassone si piega di lato a vomitare melma.
    Nel frattempo il ragazzino si rialza: il Cuoio sembra svenuto, riverso in terra come un cartonato di James Dean, mentre il Balestrini tira su il capo di qualche centimetro, confuso.
    Ghighì si avvicina e gli sferra un calcio in testa.
    Poi torna dal Rosso, afferra l’orlo della felpa e gliela strattona su fino ai capezzoli. Gli gira alle spalle e comincia a tirare più forte che può.
    I piedi gli scivolano: Ghighì li affonda nel fango e indietreggia trascinando il Rosso per un metro buono.
    Finché la felpa non si sfila.



    V.

    Si richiude la porta alle spalle.
    Dal corridoio che dà sulla camera di Cesco vede spuntare il fratello dalla nube musicale nella sua stanza. Il vinile dei pinfloid continua a girare.
    ― Ghighì dove sei stato? ― strepita. ― Guarda come sei concio! Lo sai che ore sono… Diobono, ti hanno picchiato!
    Cesco, davvero alto come una colonna, si piega a metà per osservargli il viso. ― Come stai?
    ― Sto benissimo, non ti preoccupare.
    ― Dimmi chi è stato, diobono, dimmelo!
    ― Ti ho già detto non ti preoccupare. È tutto a posto.
    Bloccato dal tono serio di Ghighì, Cesco abbassa lo sguardo e gli scruta le mani. Due grumi rossi e marroni.
    ― Il babbo non lo sa, ma la mamma è uscita a cercarti.
    Lui lo guarda pensieroso. ― Mi fai un favore, Ce’? Valla a chiamare tu. Dille che sono tornato.
    ― Va bene... Tu intanto togliti i vestiti, però. Mettili a lavare.
    Cesco riapre la porta.
    ― Ah, Cesco.
    ― Sì.
    ― Non devi più chiamarmi Ghighì, capito? Mi devi chiamare Lorenzo.
    Il fratello lo fissa per alcuni secondi, poi esce.


    Lorenzo va in bagno e comincia a spogliarsi.
    Arrotola la felpa e la mette insieme alle robe sporche.
    Si avvicina allo specchio: le ferite curate dal cacciatore si sono cicatrizzate, lasciando uno strato di pelle più chiara simile a quella che si scopre grattando le croste.
    L’ultimo colpo del Rosso invece lo sente addosso. “L’effetto della pozione dev’essere finito”, pensa punzecchiandosi il livido sulla mascella.

    Pondera come potrebbe finire la storia con quei tre. Se non la racconta in giro potrebbero far finta di nulla per non svergognarsi.
    “Oppure domattina mi ammazzeranno di botte. O mi accoltelleranno proprio”.
    “Chissenefrega”, pensa.
    Avvicina il naso allo specchio, socchiude gli occhi e protende le labbra.
    Sta di nuovo pensando a Pia.
    Tira indietro il capo e continua a rimirarsi ― un cane tornato da una zuffa epocale.
    Ma c’è qualcosa che non quadra nel suo riflesso; si vede abbruttito.
    La sua immagine non lo convince; forse per via dello sguardo spento, diverso da quello che aveva prima.

    Appoggia i palmi sul bordo del lavandino e si allunga a baciare il vetro.
    “Meglio parlarle, prima che mi riveda con quelli”.
    “Sì”, decide. “Domani avvicino la Pia”.


    Edited by Snow2 - 9/7/2010, 11:48
     
    .
24 replies since 30/6/2010, 23:52   454 views
  Share  
.