|
|
Duo
Quando l'infanzia muore, i suoi cadaveri vengono chiamati adulti ed entrano nella società, uno dei nomi più garbati dell'inferno. B. Aldiss
Il Vangelo aperto sul banco. Un quaderno. La matita ticchettava sui miei denti. Il prete parlava. «Vieni Aurelio» sussurrò Pietro, seduto al mio fianco. «Ti faccio vedere cosa ho scoperto.» Davanti agli occhi avevo la scena di Gesù: venne nella sua casa ma non fu accolto. Pensavo all’atteggiamento di quella gente inospitale ed ero certo che io avrei riconosciuto il Salvatore e l’avrei fatto entrare. Il mio compagno mi afferrò un braccio, uscimmo di nascosto dall’aula gremita di bambini e camminammo lungo un corridoio che portava in canonica. Nel buio strisciavamo i piedi su piastrelle lisce, l’aria odorava di freddo e fiori appassiti, dal coro arrivavano echi di voci melodiose. Entrammo in una stanza appena illuminata da una finestrella con vetri opali. Contro una parete c’era una credenza raggrinzita come la copertina della Bibbia, al suo fianco erano appesi abiti talari in attesa di una nuova funzione. «Guarda» mi scosse Pietro. Sul muro opposto si arrampicavano numerosi ripiani e sopra di questi traboccava una collezione di pipe e tabacchi. Buste, scatole metalliche o di cartoncino erano disposte in file polverose, e fra queste spuntavano foglietti che il prete aveva vergato specificando la provenienza dei trinciati. Era stato più volte in missione in Africa e la sua scrittura scarna sembrava ricalcare gli stili grafici che gli indigeni avevano impresso su ogni confezione insieme a raffigurazioni tribali. Emergevano labbra carnose, silhouette di negri che correvano con foglie in mano, altri seduti a gambe incrociate mentre fumavano attorno a un fuoco; più di tutte si ripeteva l’immagine di un selvaggio con barba grigia e occhi bianchi che ci guardava fisso dalle buste. Dove finivano i tabacchi iniziavano le pipe, talune in gesso, altre in osso e forse ricavate da qualche enorme bestia africana, altre ancora in legno più o meno venato. Erano consumate, bruciacchiate, coi fornelli ormai chiusi dalla crosta di cenere, e tutte avevano i bocchini avidamente morsi dal loro proprietario: recavano i segni dei denti al punto da sembrare masticati, come ero abituato a vedere le cicche sputate per strada o attaccate sotto ai banchi di scuola. «Hai visto che roba?» disse Pietro. «Te lo avevo detto... Gliene rubiamo un pacco, tanto non se ne accorge.» «Mah...» riuscii a dire, sopraffatto dal pensiero del segreto che stavamo violando. L’immagine di mio padre alle prese col tabacco e i racconti di uomini che nelle osterie al fumo accompagnavano ubriachezza, stavano riempiendo la mia mente. «Sei sicuro sia una buona idea? Poi cosa ce ne facciamo, come lo... fumiamo?» Non avevo mai pensato al fatto di poter fumare, tanto meno ero abituato a rubare, però di fronte a quel lato di sé che il nostro sacerdote celava alla vista di tutti d’un tratto sentii lecito coltivare qualcosa di altrettanto nascosto: tutto quello che non faceva parte del mio mondo di bambino mi sembrava ora accessibile, una porta si stava aprendo nella realtà dei più grandi. «Va bene» mi sbrigai a dire, «prendiamo anche una pipa.» Il mio compagno allungò la mano su una busta e alcuni fiammiferi sparsi attorno; le mie dita si richiusero con disgusto su un oggetto ricurvo e rugoso, primitivo, che in qualche modo ai miei occhi raffigurava il peccato. Quando ci fummo riseduti nell’aula gremita di bambini, don Ettore stava continuando la narrazione con l’enfasi di poco prima, ma dal quaderno i miei appunti mi guardavano come fossi un estraneo; il Vangelo mi diceva che in realtà io non avrei aperto la porta al bisognoso che avesse bussato e le acque del Mar Rosso si sarebbero richiuse al mio passaggio. Presi il libro fra le mani, accarezzai la copertina di carta crespa che aveva fatto mia madre, me l’avvicinai al viso e vi poggiai le labbra sentendo l’amore dei suoi gesti; tuttavia lo avvertivo lontano, come vi fosse una patina che mi separava da quell’affetto. Persino il mio banco pareva quello di un altro e lo sospettai finché non trovai le mie iniziali che avevo inciso qualche giorno prima; però vedevo le due lettere più spigolose di come le ricordassi, intagliate male: la A aveva una gamba esageratamente lunga; la B non era morbida, ma fatta di linee rette. Quando le sussurrai credetti non corrispondessero a quelle del mio nome. Mi voltai verso Pietro con una sensazione di smarrimento; di contro lui mi mandò un ghigno complice. Non frequentavamo la stessa scuola ma tutti lo conoscevano come un ragazzo sveglio; aveva un anno in più di noi e spesso lo dimostrava con atteggiamenti da uomo. Da qualche tempo a catechismo sedevamo vicini e io ne andavo fiero. Aveva capelli lisci e neri, il volto lungo e una piccola cicatrice su una guancia che si diceva si fosse procurata facendo la lotta con un ragazzo più grande. Gli altri sostenevano che quel segno sul volto fosse brutto, ma io un po' glielo invidiavo. Nella compagnia della parrocchia era anche risaputo il suo atteggiamento beffardo riguardo la dottrina cristiana, ma benché provassi una certa ammirazione per alcune esternazioni che faceva quando eravamo in gruppo, non mi azzardavo a seguirlo su quella strada per me troppo accidentata. A quel suo sorriso fu come se mi tornasse in mente il percorso di crescita che avevo avvertito nella penombra della canonica, le verità che si celavano dietro le apparenze, i gesti che tanti nascondevano alla luce del sole. Sul momento non ebbi coscienza esatta di questi concetti, ma fiorivano e ribollivano in me e mi spinsero a sorridergli altrettanto allusivo. Considerai anzi necessario ripetere quel gesto nel modo più teatrale possibile, spalancando la bocca a dismisura, ben più di quanto avesse fatto lui. Avrei voluto aggiungere dettagli di dove e come avremmo consumato il nostro segreto e a stento mi trattenni dall’intavolare una conversazione a voce alta; alta perlomeno come quella che in quel momento ci parlava dell’immacolata concezione. Come mi parvero stolti tutti quei bambini disposti in file ordinate: le loro testine andavano su e giù guardando prima il prete poi il quaderno poi di nuovo il prete, mentre i tappi delle penne zigzagavano nell’aria tutti uguali. Se voi sapeste!, pensai, e girai storto il quaderno sul banco sistemandomi seduto sghembo. Finita la lezione io e Pietro con fare altezzoso rifiutammo le proposte di gioco che gli altri ci fecero, e ne fui contento anche perché a pallone ero sempre stato una schiappa. «Abbiamo ben altro da fare» disse lui, e sputò per terra. Con un soffio riusciva a lanciare palline di saliva a una distanza per me inarrivabile, nonostante mi fossi allenato di nascosto fino a sentirmi la bocca asciutta. Percorremmo un vicolo che da dietro la chiesa portava a un piccolo orto. C’erano canne piantate nel terreno e la verdura le ricopriva rigogliosa. In mezzo a pomodori simili a quelli che coltivava mia madre, vicino a una zappa uguale a quella che impugnava mio padre, ci adoperammo per accendere la pipa, ma non prima di averla pulita alla meglio. «Che schifo» dissi io, «guarda come l’ha ridotta.» «Succede così quando ti piace il sapore del fumo» asserì Pietro. Ero profondamente impressionato e affascinato dalle conoscenze del mio amico riguardo il caricamento di quell’oggetto, ma cercai di dissimulare la mia meraviglia mostrandomi altrettanto capace. «Pressa bene» mi affrettai a dire, mentre già lo stava facendo. Aspirammo gran boccate a turno soffocando colpi di tosse, ma fu difficile infiammare il tabacco, inoltre non mi piacque affatto: più di quello che tenevo in bocca qualche secondo, trovavo buono l’aroma del fumo che si spargeva attorno; comunque a entrambi preferivo l’odore di zolfo del cerino perché mi ricordava il focolare domestico, e a quel pensiero per poco non scattai in piedi per scappare dal nostro nascondiglio. Dietro a piccole esalazioni azzurrognole, Pietro eseguiva quei gesti con naturalezza, ma quando ce la fummo passata tre o quattro volte la pipa si spense e noi avevamo finito i cerini. «Questo tabacco non è buono» disse, «sembra bagnato, non ti pare?» «Già» risposi pizzicandone un po’ nella busta, «sarà vecchio.» «No, quello non c’entra. È l’umidità.» Poi mi guardò fisso. «Ce l’hai il coraggio di tenerlo in casa? Se lo conservi al caldo si asciuga e ogni tanto ne fumiamo un po’. Io tengo la pipa.» «Non c’è problema» mi sentii dire con una sicurezza che mi sorprese. «Domani portalo, comunque. Io procuro qualche cerino» concluse. Ci infilammo in tasca le nostre cose e uscimmo allo scoperto. Ero dunque un adulto ora?, mi chiedevo. Il sapore amaro che avevo in bocca diceva di sì; il mio cuore stretto in una morsa lo confermava protestando. Nell’aria avvertivo l’alito di mio padre, ma sapevo provenire da me; tuttavia mi guardavo attorno perché la sua presenza era inquietante. «Andiamo dagli altri!» mi esortò Pietro. Una parte di me avrebbe voluto seguirlo per pavoneggiarsi di fronte ai bambini che stavano giocando a calcetto, ma d’un tratto avvertii nostalgia verso qualcosa che loro avevano e io non più; così tirai fuori una scusa e mi incamminai verso casa, sforzandomi di fischiettare. Quando appoggiai la mano sulla maniglia dell’ingresso, mi parve che un estraneo stesse entrando in casa mia. La porta mi guardava austera e si richiuse con un colpo secco. Appesi il cappottino all’attaccapanni, ma era indegno di stare fra quelli dei miei genitori; in basso il pallone che mi avevano regalato a Natale sembrava dirmi di non poter subire i calci di un adulto. Non ero più io, non ero più il bambino che era uscito quella mattina alla volta della scuola e poi del catechismo per prepararsi alla Cresima; la mia casa lo sapeva e non avrebbe nascosto la busta di tabacco che avevo in tasca. Alla fine decisi di metterla in giardino, nel fitto del cespuglio di oleandro. Durante la cena venni a sapere che mia zia si era rotta una gamba cadendo dalla bicicletta, ma distratto dalle mie preoccupazioni non vi feci caso. Avrei voluto confessare tutto, raccontare di come erano accadute le cose e di come non avrebbero potuto andare diversamente, di come io fossi in buona fede. Ma non potei, non trovai il coraggio. Non volevo che i miei genitori mi considerassero ladro e fumatore, quando in quel momento volevo essere un bravo bambino, così quella sera assunsi atteggiamenti infantili che avevo abbandonato da tempo. Mia madre pensò mi stessi ammalando e mi coprì di attenzioni; le accettai con gratitudine, ma nello stesso tempo esse accentuavano il senso di tradimento che mi lacerava. Quando mi disse che sarei dovuto andare a letto, accolsi l’ordine con sollievo e una volta che le coperte mi furono rimboccate tutto mi fu chiaro: era colpa mia se la povera zia si era rotta una gamba, quella era una punizione che era caduta sulla nostra famiglia e altre ne sarebbero seguite. Ma Dio avrebbe dovuto fulminare me! Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Recitai un numero indefinito di Padre Nostro e Ave Maria finché sprofondai in sogni tormentati. Più tardi fui svegliato, bagnato di sudore, dal ticchettio della pioggia. Pensai alle gocce sulle foglie dell’oleandro e al tabacco che si stava inzuppando. Meglio così, dissi fra me, domani lo butterò in un bidone e sarà come se non fosse mai accaduto. Il sole che al mattino seguente filtrava dalle persiane mi rincuorò profondamente. Affacciato alla finestra assaporai il profumo del prato e abbracciai l’azzurro del cielo: quella bella giornata scacciò i timori della sera prima. Che sciocco, mi dissi. Pensai ai miei compagni, ai giochi, alla scuola, alla parrocchia. Pensai a Pietro e mi sentii coraggioso come lui, più maturo degli altri. Uscito per recarmi a scuola, presi la busta ma con rammarico constatai che l’acqua era filtrata facendo del contenuto una pappa molliccia. Mi incamminai per strada e appena mi fu possibile gettai l’involucro dal quale sgocciolava un liquido nerastro. Al contrario di quanto avevo immaginato durante la notte, quella liberazione non mi riempì di sollievo, ma inondò i miei pensieri di una nuova preoccupazione: cosa avrei detto a Pietro? Come avrei giustificato la mia inettitudine a conservare una semplice busta? Lui avrebbe di certo pensato che non avevo avuto il coraggio di portarla a casa e avrei perso quel barlume di stima che pensavo avesse di me. Passai tutta la mattina chino sul banco a riflettere e decisi che a Pietro avrei detto una bugia: mio padre aveva trovato il tabacco ma non mi aveva picchiato, aveva anzi mostrato rispetto nei miei confronti trattandomi come un uomo e io gli avevo detto di tenerselo, che tanto me lo aveva regalato un amico. Era una versione che avrebbe procurato qualche contrarietà al mio amico, ma mi sembrava la mia reputazione ne uscisse indenne. Finito il doposcuola mi recai nell’edificio attiguo alla parrocchia dove don Ettore teneva lezione, e timoroso presi posto per primo: la stanza era lunga e stretta, c’erano diciotto file di banchi doppi addossati a una parete e all’altra erano appesi i giubbotti che lasciavano giusto lo spazio per la corsia di passaggio. Io e Pietro occupavamo i posti in fondo, vicino alla porta. Entrò il prete e dietro di lui fluirono i miei compagni, ma dopo cinque minuti dall’inizio della lezione Pietro non era ancora arrivato. «Ehi, come mai oggi Pietro non c’è?» chiesi al ragazzo di fronte a me. «Che ne so io? Non è il tuo amico?» mi rispose girando appena la testa. «Sì» dissi orgoglioso, «ma non so che fine abbia fatto.» Tuttavia la sua assenza fu per me un sollievo e tornai ad ascoltare don Ettore come avevo fatto un tempo che mi sembrava lontanissimo. Aprii il vangelo cercando l’intesa che prima avevo con le sue pagine; chiusi gli occhi sognando con la voce del prete e accompagnai Cristo nel suo percorso di crocifissione, sentii il peso della croce e gli insulti della gente. Dopo qualche minuto mi sentii chiamare. «Aurelio» avvertii sussurrare. «Aurelio, vieni a vedere cosa ho scoperto.» Doveva essere Pietro che in ritardo anziché entrare aveva proseguito fino alla canonica. Perplesso, mi feci piccolo dietro i due bambini che avevo davanti e scivolai oltre la porta come avevo fatto il giorno precedente. Ancora buio, piastrelle lisce, la mia mano che correva sul muro, l’odore di fiori appassiti. Poi quella credenza grinzosa che sembrava venire dal passato. «Entra pure, Aurelio.» Sentii come un pezzo di ghiaccio scivolarmi lungo la schiena perché non era la voce di Pietro: possedeva un accento strano, non avevo mai sentito una parlata così. Sulla sinistra, vicino alla collezione di don Ettore, era seduto un uomo incappucciato e vestito di una tonaca marrone: sembrava un frate. Teneva il capo chino e solo un pizzetto acuminato di barba grigia faceva mostra di sé, ma non potevo vedere chi fosse quella persona. Sgomento, tentai di fare dietrofront ma lui mi disse: «Non vuoi altro tabacco?» «Io?» risposi meravigliato facendo un passo avanti «Macché! Non fumo mica!» «Non preoccuparti, Aurelio. Non c’è bisogno che menti a me.» «Non sto mentendo...» «Ah no? E cos’era quello che hai gettato in un cassonetto, stamattina?» Sentii tremarmi le gambe. Come faceva a saperlo? Come conosceva il mio nome? «Siediti» mi disse porgendomi uno sgabello, sempre guardando il pavimento. «Mi sembri stanco.» Cedetti alla sua richiesta e mi abbandonai senza forze. «Al tuo amico non dispiace fumare un po’» continuò. «È proprio un bravo ragazzo, lui. Anzi: un uomo, non ti pare?» Come poteva conoscere Pietro? Chi era questa persona? Tante domande sbocciavano nella mia testa, come margherite in un prato «Sì, sì. Un brav’uomo» dissi, poggiandomi una mano sulla fronte. Poi il frate prese un pizzico di tabacco nella busta e dalla manica, dietro due unghie ricurve e color alluminio, vidi spuntare dita ossute e scure, come di una zampa di gallo; ficcò i filamenti marroni dentro la pipa, premendo, e da sotto al cappuccio cominciò a buttare fumo. Mi sentii confuso: l’aveva accesa con le dita, non aveva usato cerini. Oltre alle nuvolette sospese nella penombra della stanza, vedevo brillare la brace. «Ti piace rubare?» mi chiese. Ero privo di energie, ma soffrire la paura che provavo era quasi un piacere perché sentivo di meritare quello che mi stava accadendo, allora con un impeto di vitalità decisi di essere finalmente sincero, come avrei dovuto essere con Pietro quando il giorno prima non volevo fumare, o come avevo desiderato essere con i miei genitori raccontando loro le mie sventure. «Non lo volevo fare» dissi, mentre una lacrima mi scendeva sul viso. «Ero solo curioso. Poi... volevo provare una cosa da grandi.» «Come pensavo.» «Ma sono pentito!» «Forse lo sei, ma a me non importa. Non è il pentimento che ti chiedo.» La cosa mi dispiacque perché avrei accettato volentieri un rimprovero, una penitenza; li avevo desiderati la sera prima da mio padre e mia madre sperando avessero potuto indovinare le mie colpe. «Cosa, devo fare allora?» sospirai. «Posso andarmene?» «Quello che ti chiedo è di essermi fedele.» «Lo sono» mi affrettai a rispondere, senza sapere più bene quello di cui stavamo parlando. «Ne sono certo, come so che ti credi superiore ai tuoi amici.» «No! Non è vero» obiettai. «Io ti sono accanto!» mi interruppe. «Insieme al peccato» e mi porse la pipa. «Tieni, dopo puoi andare.» Risucchiai una boccata. Mi piacque. Provai ancora, poi ancora. Infine gli diedi indietro quell’oggetto diventato tiepido e piacevole. «Bravo. Bravo» disse compiaciuto, poi sollevò appena il capo e aspirò lui, a fondo, fino a creare un bagliore arancione che illumino il suo volto. Aveva la pelle nera e su questa spiccavano gli occhi: due sfere bianche senza pupille. Quell’uomo era un demone e, mentre questa convinzione si faceva strada in me, notai che l’involucro da cui aveva preso il tabacco non aveva alcuna raffigurazione: era uscito da una delle buste di don Ettore. Ma per salvarmi finsi di non averlo riconosciuto. Come se quegli occhi non fossero nulla di particolare e un giorno avrei potuto averli anch’io; come se accendere una pipa con le dita fosse un gioco di prestigio che avevo visto mille volte. Per accontentarlo avrei voluto esprimere il mio apprezzamento sul tabacco, ma lui scoppiò a ridere. Non so se leggesse il mio pensiero, ma rise forte. Poi batté le mani e io caddi addormentato, col mento appoggiato sul petto. Quando tornai in me ero ancora in quella posizione, però seduto al mio banco. I miei compagni stavano uscendo, la lezione era finita. Corsi fuori anch’io e vidi la giornata ancora luminosa, il cielo azzurro, qualche nuvola che veleggiava verso il mare. In mezzo agli altri, guardando in alto schioccai la lingua, e come se una mosca mi ronzasse attorno, con un gesto della mano scacciai il ricordo di quel sogno. Erano i primi giorni di marzo, in un respiro assaporai la primavera. Che sciocco, dissi fra me, e mi sentii coraggioso, pieno di nuove energie. Drizzai la schiena, poggiai sulle punte dei piedi e feci una smorfia, come se mi desse fastidio una cicatrice sulla guancia. Beh, meglio dormire che ascoltare le storielle del prete, aggiunsi. «Chi gioca a pallone?» fece un bambino con occhiali spessi. Dischiusi i denti e soffiai forte. Uno sfilaccio di saliva per poco non mi cadde sulle scarpe, ma con indifferenza finsi di aver voluto mirare proprio lì. «Ah, ho ben altro da fare io» risposi. E mi incamminai lungo il viale che portava in centro, fischiettando.
Edited by Gordon Pym - 8/7/2010, 14:32
|
|