Pigghiacristiani
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Pigghiacristiani

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  1. bravecharlie
     
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    eccoci qui di nuovo, vi odio per avermi costretto a postare alle 2.30 del mattino per paura di perdere il posto. vediamo come va...







    “... e dunque io sono dell'idea che non solo la Terra sia cava al suo centro e dotata di due atmosfere simili a quella della superficie, ma sostengo anche che una serie innumerevole di cunicoli naturali attraversi perfino gli oceani, e che si vada a congiungere e intersecare con le gallerie scavate dall'uomo, di modo che un labirinto sepolto sempre più intricato va sviluppandosi sotto i nostri piedi mettendo in collegamento le varie zone del mondo. Una persona sufficientemente coraggiosa o disperata che fosse in grado di procurarsi cibo e acqua potrebbe percorrere grandi distanze nel sottosuolo, fino a raggiungere punti anche molto lontani da quello di partenza.”

    Edmund Halley – “Phisolosphical Transactions of Royal Society of London”, 1692

    Pigghiacristiani



    1



    Miniera di Ribolla, Grosseto,1954

    Il sole nacque dalla notte dietro montagne che parevano gobbe di vecchi. In file di otto o dieci i minatori assonnati vennero fuori dalle baracche, diretti alle latrine e poi in mensa, dove avrebbero consumato un pasto veloce prima di scomparire sotto la terra. Erano uomini callosi, senza allegria, strappati dal bisogno ai loro luoghi natali e condotti a un lavoro infame, il più pericoloso di tutti, una scommessa con il destino che si rinnovava al sorgere di ogni giorno. Costretti a un'esistenza che si svolgeva tra le gallerie e i depositi di carbone avevano assunto il colorito fosco della materia attraverso la quale si guadagnavano il pane, la stessa che poco a poco, silenziosamente, faceva il nido dentro di loro intossicandoli con pazienza. Sembravano anziani, corrosi, malati di una peste segreta, ed erano ossessionati da una tosse maligna che li spezzava a metà tramutando i loro respiri in rantoli da animali stanchi. Si trascinavano lenti dagli alloggi alla miniera e poi giù fino alle budella di pietra dove riposavano i giacimenti, con movimenti svelti e guardinghi da intrusi rubavano pezzo a pezzo il tesoro nero che li uccideva. Piccone, pala, dinamite e trivella, ombre che inghiottivano altre ombre, passaggi in cui bisognava inoltrarsi ginocchioni, aria che bruciava le gole. Per ore. Per giorni. Per settimane che diventavano mesi. E intanto le fotografie di un'altra vita ingiallivano nelle tasche, accanto a fazzoletti odorosi di donne lontane, di promesse di fedeltà che forse erano già diventate menzogna, di baci che esistevano ormai solo nella memoria. Il tempo non trascorreva mai a Ribolla.

    – Allora, don France', – fece Cosimato Gana mentre in venticinque entravano nel grosso ascensore di legno. – cosa vi portate oggi da leggere qua sotto?
    – Un libro che amo molto – il prete sorrise e mostrò la copertina. – “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini. Racconta la storia di un uomo che da Milano intraprende un viaggio per tornare alla sua terra natia, la Sicilia, appunto.
    – La Sicilia! – molte bocche si spalancarono e la parola sembrò riempire lo spazio angusto. Quelle sette lettere avevano un significato speciale a Ribolla, in loro c'era il potere di evocare visi cari e lontani, letti puliti, spiagge dove il mare forse non aveva ancora cancellato le impronte dell'ultima passeggiata sulla sabbia. Molti dei minatori erano siciliani, e lo stesso don Francesco, che invece era nato in Emilia, conservava di quella terra un ricordo vivo e affettuoso per avervi trascorso alcuni anni come parroco a Canicattì. Quel luogo, quegli odori, quei volti gli erano rimasti dentro più di quanto avrebbe immaginato, e non di rado si immergeva in letture riguardanti la bella isola nel tentativo di rievocare nella memoria un passato che andava sbiadendo.
    – Se uno legge della Sicilia è un poco come se sta là – il giovane Deodato Spataro sembrò indovinargli i pensieri. – Perché non mi imprestate quel libro, don France'?
    – Volentieri – l'altro gli batté una pacca sul braccio. – Vieni a trovarmi dopo il tuo turno.
    L'ascensore si avviò con uno scossone e i corpi iniziarono la discesa nella pancia della montagna. Parlando al di sopra del cigolio delle vecchie cinghie i minatori iniziarono la preghiera, chiedendo a Santa Barbara di proteggerli nell'ennesima giornata di pericoloso lavoro. Don Francesco li guidava nella veloce invocazione sentendo per loro un affetto fraterno, quasi vergognandosi del fatto che lui si sarebbe fermato al primo livello mentre quei ragazzi sarebbero scomparsi nell'atroce budello di gallerie che si snodavano per centinaia di metri in tutte le direzioni. Aveva lottato tanto per essere con loro, aveva pestato i piedi col vescovo e con i padroni della miniera fino a quando non gli avevano concesso il permesso di tenere una piccola stanza proprio lì, sotto la terra scavata e pericolante. Se doveva seguirli, aiutare il loro spirito, allora bisognava che in qualche modo condividesse pure la loro vita. Aspettarli nella chiesa pulita e soleggiata in superficie sarebbe stata nient'altro che un'ipocrisia, un po' come ammettere che Dio non voleva sporcarsi le mani con il carbone. No, non era così che si aiutavano quei figlioli. Si doveva accompagnarli in quell'inferno e offrire loro una compagnia, un conforto, il segno tangibile che non erano soli in quel mondo di tenebre e pietra nera.

    L'ascensore si arrestò al primo livello interrato e lui fu l'unico a scendere. Salutò i minatori, che risposero calorosi, e si avviò lungo il basso corridoio illuminato da una fila di lampade a carburo incastonate in piccole nicchie. Il rumore della carrucola che ripartiva gli regalò un brutto presentimento, e voltandosi fece appena in tempo a vedere gli elmetti con i fari fissati davanti che sparivano verso il basso. Quanti di quei poveretti sarebbero tornati in superficie alla fine della giornata era una speculazione nella quale non voleva addentrarsi, scacciò il pensiero scuotendo più volte il capo. Alla miniera c'erano troppi modi di morire, e l'unico di vivere si assestava tristemente sul confine tra l'esistenza degli uomini e quella dei ratti.
    Il suo studiolo era stata ricavato in fondo al tunnel principale, accanto al grande deposito degli attrezzi e a quello del carbone da mandar su. Gole insondabili si aprivano nella roccia srotolando lingue di binari e vomitando di tanto in tanto un carrello carico di materia grezza, che un paio di operai fermavano e svuotavano del suo contenuto. Non ci si vedeva molto bene laggiù, e gli uomini sembravano tutti uguali: scuri, sporchi, curvi anche dove il soffitto si alzava di due o tre metri come se la presenza opprimente della montagna avesse fatto loro dimenticare la posizione eretta. Se ne vedevano alcuni camminare a quel modo anche all'aria aperta, dopo il lavoro, con le braccia che sfioravano le ginocchia e la testa che pareva esser stata incassata a martellate in mezzo alle spalle. Non era quello l'aspetto peggiore della vita in miniera, purtroppo: crolli, esplosioni e cadute in fondo ai burroni uccidevano all'istante. La polvere di carbone che si attaccava ai polmoni e il mercurio che avvelenava il sangue lo facevano lentamente.
    Don Francesco spinse indietro la porta malmessa che delimitava il suo rifugio e a tastoni cercò la lampada, che accese e posò sul rozzo tavolo in legno. Si segnò dinanzi al piccolo crocefisso appeso alla parete e poi sedette con in mano il libro di Vittorini, riprendendolo da dove si era interrotto. Più che uno studio quel luogo sembrava una libreria, c'erano scansie piene di volumi di ogni tipo e genere, perlopiù saggi e raccolte di poesia, pochi testi sacri. Al religioso piacevano gli autori italiani, ma anche i naturalisti francesi e i romantici inglesi del primo ottocento, era esperto di letteratura spagnola e (benché i suoi superiori avrebbero trovato qualcosa da ridire a riguardo) divorava romanzi ritenuti sconvenienti come “La regenta” di Clarìn o il “San Manuel” di Unamuno. Prestava con gioia quei suoi tesori di carta quando qualcuno glieli chiedeva, ma si arrabbiava se tardavano a restituirglieli o se glieli riportavano rovinati. Si impegnava a condividere quella sua passione tramite riunioni settimanali che teneva nella chiesa in superficie, pur cosciente che la maggior parte dei minatori non possedeva né il tempo né l'istruzione per comprendere le righe che lui leggeva. Alcuni, come Deodato Spataro, erano accesi da una viva curiosità e si sforzavano di seguirlo, gli altri si limitavano ad annuire con aria stupida e a fingere di ascoltarlo mentre attendevano la fine della tortura. Erano gente semplice, non li biasimava. Non avevano avuto la fortuna di una vita sedentaria che potesse instillare in loro il piacere della lettura.

    Non seppe nulla dell'incidente fino a quando non uscì dalla stanza, a pomeriggio inoltrato. Sull'ascensore che saliva verso la superficie i minatori avevano le facce lunghe, si guardavano le punte delle scarpe e nessuno parlava. Dapprima credette che fossero solo stanchi, ma quando uno che si chiamava Licitra cominciò a piangere capì che doveva essere successo qualcosa di brutto.
    – Che ti prende? – gli chiese. Quello non rispose e allora lo strattonò forte. – Oé, il gatto t'ha mangiato la lingua?
    – Tano Cusimato... – le sillabe gli colarono dalle labbra quasi senza che lo volesse, goccia a goccia come lacrime. – Non avete sentito?
    – No che non ha sentito – si intromise un altro, incollerito. – Don Francesco se ne sta a leggere tutto il giorno, al sicuro. Siamo noialtri che crepiamo.
    – Chi è crepato? – il prete udì l'insinuazione offensiva, ma decise di lasciarsela scivolare addosso. – Com'è successo? Non ho sentito esplosioni.
    Pareva che non volessero spiegargli, improvvisamente li sentiva lontani. Era già successo che qualcuno morisse, ma stavolta la sensazione che lo accusassero, che gli rimproverassero il suo non rischiare era lampante. Poteva biasimarli? Che ne sapeva lui della paura che si provava lì sotto, al buio, dove un passo sbagliato o tre centimetri di miccia in meno potevano costare la vita? Guardò uno a uno quei volti troppo vicini a lui nel poco spazio della bara verticale che si trascinava verso l'alto e gli parve che oltre a quello ci fosse dell'altro, un terrore nascosto sotto il grasso e la polvere, una superstizione taciuta.
    - Pigghiacristiani - sussurrò qualcuno in un angolo. In quel momento l'ascensore raggiunse il livello del suolo e le porte si aprirono.

    Andò dritto all'infermeria, senza chiedere più nulla a nessuno. L'agglomerato di baracche, cisterne, rimesse e officine che circondava la miniera era in subbuglio, ovunque si voltasse vedeva capannelli di uomini intenti a parlottare a voce bassa. Molti apparivano sconvolti, occhi spauriti nelle facce cancellate dal carbone, qualcuno diceva che era solo l'inizio. Le mezze frasi e le parole incomplete che riuscì a cogliere lo innervosirono più di un discorso coerente, e quando raggiunse la porta con su disegnata la croce rossa stava quasi tremando. Entrò senza bussare, avanzò nella stanza che odorava di disinfettante e si diresse verso la schiena del dottore, che era chino su una brandina e non s'accorse di lui se non all'ultimo istante.
    – Chi è? Che volete don France'? – si voltò di scatto e lo spinse indietro. – Avevo detto che non doveva entrare nessuno!
    – Che è successo? Chi c'è su quel letto?
    – Lasciate perdere – la voce del medico era incrinata, le pupille quasi vitree. – Non è roba per voi. Non immaginate nemmeno... oh! Fermo!
    Con uno slancio don Francesco lo aveva superato ed era corso verso la barella, fermandosi annichilito non appena aveva visto quel che ci stava poggiato sopra. Aprì bocca senza riuscire a emettere suono, si portò le mani alla fronte, fu sul punto di cadere e solo con uno sforzo considerevole riuscì a rimanere in piedi.
    – Ve l'avevo detto – qualcosa di pesante gli si appoggiò sulla spalla: la mano del dottore. – Non è un bello spettacolo.
    La cosa sul lettino era stata un uomo, ma a questa conclusione si poteva giungere solo per logica, osservando i rimasugli di stoffa che ne avevano costituito la tuta da lavoro. Non aveva forma di alcun tipo, sembrava un grosso trancio di cotoletta che qualcosa avesse maciullato, pestato, dilaniato fino a ridurlo a una grumosa purea rossastra dalla quale emergevano oscene le ossa spezzate. Un unico occhio, superstite per volere del caso, fissava il soffitto con espressione sorpresa; la sua posizione non era giusta, come se una mano pietosa lo avesse raccolto e appoggiato laddove si immaginava dovesse esserci stata la faccia, affidandosi all'intuito e alla memoria.
    – Cosa gli è successo, perdio? – la bestemmia passò sulla lingua di don Francesco senza che nemmeno se ne accorgesse. – Quale tipo di incidente può ridurre un essere umano... così?
    – Non so che dirvi – il dottore allargò le braccia. – Ho visto qualcosa del genere solo nelle catene di montaggio delle industrie automobilistiche, che hanno ingranaggi a ruota grandi come case e capaci di dilaniare un corpo in questa maniera. Ma giù nei cunicoli non ce ne sono. Sembra che abbiano usato un... attrezzo, colpendolo fino a...
    – Nessuno ha visto niente?
    – No, ma parecchi hanno sentito. Ora sono nell'ufficio del sovrintendente, a rendere le loro testimonianze. Credo che dovrebbe scrivere una lettera, don Francesco. Cusimato aveva famiglia giù in Sicilia...
    Il prete fece un distratto cenno d'assenso, poi girò sui tacchi e uscì dall'infermeria. I brividi gli percorrevano freddi la schiena, non avrebbe dimenticato tanto presto quel marasma di carne abbandonata sulla brandina, così molle da poterla raccogliere con un cucchiaio. Decise di andare di filato dal sovrintendente per saperne di più. Non poteva spedire una notizia di morte ai congiunti di Cusimato senza neppure spiegar loro la causa.

    Il sovrintendente era un certo ingegner Pacioni, un tipo sbrigativo e dall'aria antipatica. Accolse don Francesco con evidente fastidio, gli disse di accomodarsi e lo pregò di venire subito al punto. Il prete non si perse in giri di parole. Voleva sapere cosa avevano riferito i testimoni.
    – Laggiù l'aria dev'essere meno sana di quanto pensavamo – Pacioni si accese una sigaretta. – Stando al racconto dei quattro che erano in squadra con lui nella galleria “R” Cusimato sarebbe stato afferrato da qualcosa annidato in un cunicolo cieco, quindi trascinato nelle tenebre. Gli sono andati dietro, ma come ho detto il tunnel non sbucava da nessuna parte e di lui non c'era traccia sul fondo. A un certo momento sono iniziate le urla, terribili a quanto pare, dopodiché il corpo del poveraccio è letteralmente piovuto loro addosso da un'apertura nel soffitto, già nelle condizioni in cui lo avete visto in infermeria. Perché voi lo avete visto, vero don Francesco?
    – Voi no? – la voce del religioso era sinceramente sprezzante.
    – No – Pacioni fece un anello di fumo. – Mi hanno detto che è conciato male, e non ci tengo a rovinarmi la cena. Si è trattato di un incidente, finiamola qua. Ho già telefonato alla compagnia e mi hanno raccomandato di non fare pubblicità alla faccenda. Hanno raccomandato tutti. Capite, don Francesco?
    – Capisco bene – l'altro si alzò e fece per andarsene. – Era solo un minatore, in fondo, un povero cristo facile da rimpiazzare. Non ci saranno indagini.
    – Bravo, siete uno che afferra le cose al volo. Buona giornata a voi, don Francesco.
    Furioso, il prete uscì sbattendo la porta e si diresse verso la chiesa.

    C'erano pochi presenti alla riunione di lettura, e nessuno pareva molto contento di essere lì. Prima di iniziare pregarono per l'anima di Tano Cusimato, poi don Francesco lesse alcuni passi di “Conversazione in Sicilia”. Non incontrarono molto successo. Quella sera la terra natale sembrava troppo lontana per poterla raggiungere con la fantasia.
    – Vuoi che te lo presto? – disse don Francesco a Deodato Spataro, affiancandolo sul sagrato. – L'ho finito oggi.
    – Magari un'altra volta – il ragazzo appariva stanco, distratto da altri pensieri. – Don France', voi che pensate? Che è successo a Tano, secondo voi? Nei vostri libri deve starci una risposta.
    – Non lo so – sapeva di deluderlo, con quelle parole.– Davvero non lo so, ragazzo mio. Un incidente, una disgrazia... speriamo non succeda più.
    – Tobia Maracudi era là nella galleria “R”. Ha detto che urlava come un porco scannato. E piangeva.
    Don Francesco non disse nulla. Non c'era nulla da dire. Salutò Deodato, che scomparve lungo la strada che portava ai baraccamenti, e tornò in chiesa per buttarsi a letto. L'immagine del povero Cusimato gli danzò a lungo davanti alle palpebre, e non riuscì ad addormentarsi se non dopo molte ore.

    2



    Il mattino dopo si svegliò di soprassalto, sfuggendo a incubi che promettevano di aspettarlo sotto il cuscino quando sarebbe tornato a coricarsi. Pregò senza concentrazione e si dedicò alle abluzioni in maniera rapida, ansioso di uscire nella città mineraria per leggere gli umori degli operai. Li trovò alla mensa, intenti a bere caffè con le tute da lavoro già addosso, caposquadra e semplici operai riuniti agli stessi tavoli. Gravava un'atmosfera tesa, rabbiosa, la scintilla di una protesta che Pacioni si era premurato di soffocare per evitare problemi alla compagnia. I membri del sindacato cospiravano in un angolo, fumando e correggendo le loro tazze di caffè fumante con una fiaschetta di grappa. Quando videro arrivare don Francesco si interruppero e lo guardarono male, riprendendo il loro discorso solo dopo che fu passato oltre. Il prete sospirò, evitando di salutarli. Quella era gente a cui gli uomini di chiesa non erano mai piaciuti.
    Non gli riuscì di scambiare una chiacchiera con nessuno, il nervosismo cresceva con l'approssimarsi dell'inizio del turno e i minatori si chiudevano in un preoccupato silenzio impossibile da scardinare. Don Francesco provò a fermare Deodato, ma il ragazzo fu tirato via da un collega che gli sussurrò qualcosa a un orecchio conducendolo lontano. Era lo stesso uomo che gli aveva rivolto parole dure sull'ascensore, un calabrese grosso e irsuto come un orso che si chiamava Loiacono. Gli gettò una brutta occhiata da sopra la spalla, uscendo. Un attimo dopo il lamento sgraziato della sirena annunciò l'inizio della giornata lavorativa.

    Nell'ascensore furono in pochi a pregare ad alta voce, quasi tutti tenevano gli occhi sulle foto dei familiari o fingevano di aggiustarsi caschi e cinture. Don Francesco si sentiva una presenza inutile e mal sopportata, vedeva l'abisso tra la sua esistenza tranquilla e i problemi dei minatori e capiva di essere stato escluso. Forse con il tempo avrebbero capito che non era sua la colpa, forse sarebbero tornati a confidarsi, di certo non subito. Per quanto potessero essere devoti sapevano che solo i loro occhi e i loro riflessi li avrebbero aiutati là sotto, Dio si fermava al primo livello interrato e non si arrischiava a strisciare assieme a loro nel buio. Erano spaventati, erano soli, erano a mille chilometri da casa con il timore di non rivedere più il cielo. Quella mattina molti avevano cercato il coraggio sul fondo di una bottiglia di vino, e lo stretto cassone che arrancava verso i condotti era pregno di fiati pesanti che provocavano giramenti di capo.
    – Scusate, don France' – gli disse Deodato un momento prima della fermata al primo livello. – Non ce l'abbiamo con voi, ma stiamo assai preoccupati. Una cosa è sapere che si può morire per un incidente con l'esplosivo o le macchine, un'altra è non capire nemmeno cosa ci sta là sotto.
    – Non ti preoccupare – il religioso gli sorrise. – Comprendo perfettamente. Ci vediamo stasera, va bene?
    – Va bene. Così mi date il libro.
    – Certo. Vedrai che ti piacerà.
    L'ascensore si arrestò e la porta fu aperta. Don Francesco scese e si avviò come al solito nella galleria principale, diretto al minuscolo studiolo. Questa volta non si girò indietro. Aveva il sospetto che non fosse di buon auspicio.

    Trascorse quasi due ore a scrivere la lettera per i familiari di Cusimato, sforzandosi di omettere i particolari più raccapriccianti e di rimanere sul vago. Alluse a un incidente con una trivella, poi ci ripensò e lo trasformò in uno scoppio di dinamite. Poteva andar bene, potevano crederci. Prendere in giro della povera gente su un fatto tanto drammatico lo faceva sentire colpevole, ma si diceva che era per il loro bene. Sperò che non vedessero mai il cadavere, che lo seppellissero senza guardarlo.
    Dopo decise di leggere. Aprì senza particolare entusiasmo la sua copia di “Don Chisciotte” e vi si immerse partendo dal decimo capitolo, alla ricerca di risate che non vennero. Non poteva fare a meno di chiedersi cosa stesse accadendo sotto di lui, nel labirinto sepolto, il fatto di essere confinato in quel tugurio solitario lo tormentava. Si costrinse a procedere nella lettura, anche se le frasi stentavano a fissarglisi nella mente. Dopo un po' il monotono rollare dei carrelli che emergevano dalle gallerie, unito alla stanchezza per una notte agitata, gli conciliarono un inatteso sonno.

    Erano in tanti, avanzavano lungo la strada di campagna a bordo di carri lenti e massicci. I soldati avevano divise semplici e mitragliette MP-36, gli ufficiali orribili cappotti neri lunghi fino ai piedi e cappelli a visiera con l'aquila appollaiata sopra la svastica. Li vide da una collina e seppe che di lì a qualche minuto sarebbero arrivati a San Bobbio, avrebbero iniziato a rastrellare le case alla ricerca dei partigiani e allora...
    La mente volò ai dieci uomini nascosti in casa del suo amico Ettore Valanzi, sotto le assi del pavimento.
    La mente ricordò che a Marzabotto, poche settimane prima, era stato l'intero paese a pagare, non solo chi aveva aiutato gli insorti.
    La mente vide i suoi vecchi genitori, rosi da una vita di lavoro nei campi, e decise che non sarebbero morti con le spalle appoggiate a un muro.
    La mente si spense, e lasciò che fosse il corpo ad agire come in un sogno.
    Arrivarono in paese annunciati dal rombo dei loro motori, dal puzzo acre della loro benzina. Scesero dai veicoli, si disposero in semicerchio, fermarono gli automezzi. Un ufficiale biondo lesse un breve comunicato che intimava di consegnare tutti gli eventuali nemici del Reich, pena la rappresaglia indiscriminata. La gente restò muta ai bordi della strada, immobile, senza guardarsi negli occhi. Sapevano tutti dei dieci nascosti dal Valanzi, sotto il pavimento della stanza da letto, ma non avrebbero parlato. Non avrebbero fatto la spia. Donne, uomini, vecchi e ragazzi tutti uniti, tutti a sfidare la morte perché a vivere da vermi non ci tenevano, sapevano che era la cosa giusta da fare. Ne erano convinti. Tutti. Tranne Francesco.
    E così fu lui a parlare. Disse tutto in un attimo, correndo al centro della strada e buttandosi in ginocchio davanti all'ufficiale in cappotto nero, disse sono dal Valanzi ma non prendetevela con noialtri che non c'entriamo nulla, portateli via e lasciateci vivere in pace. Questo disse. Il biondo annuì e sorrise.
    Dopo lui avrebbe voluto dire che l'aveva fatto perché era l'unica soluzione possibile, ma non c'era rimasto più nessuno ad ascoltarlo. I nazisti avevano scoperto i partigiani e li avevano fucilati, poi avevano costretto i paesani a raggrupparsi al centro della piazza e li avevano crivellati con una mitragliatrice anticarro, falciandoli come grano. Tutti. Anche i bambini. Anche i suoi genitori, portati fuori di casa sulle sedie a dondolo perché non ce la facevano a camminare. Tutti, tranne lui, lui lo avevano risparmiato. Dicendogli che era padrone del suo destino l'ufficiale gli aveva regalato la sua pistola, in segno di scherno. Dentro c'era un solo colpo, che un uomo più coraggioso avrebbe usato per evitarsi i rimorsi.


    Si svegliò urlando e “Don Chisciotte” gli cadde dalle mani. Ancora quel sogno, quel ricordo, le unghie del passato che gli sbranavano la coscienza. Non era servito prendere i voti, peraltro senza convinzione all'inizio, la colpa sopravviveva sotto l'abito sacro. E faceva male. Anche dopo dieci anni.
    Un altro urlo gli risuonò nelle orecchie, seguito da molti lamenti e da un singhiozzare cupo, un rantolo che saliva come da profondità gorgoglianti. Impiegò quasi un minuto per capire che non era stato lui a lanciarlo, e un orrendo presagio lo spinse su dalla sedia e fuori dalla stanza, a rotta di collo verso l'ascensore. Lo intravide mentre saliva, affollato di uomini, ma non fece in tempo a fermarlo. Arrivò sul ciglio della tromba vuota ansimando e guardò in alto, scorgendo il pavimento di legno che ascendeva verso la fioca luce del pomeriggio. Qualcosa gli piovve sulla faccia, lasciandogliela viscida e chiazzata. Con la punta di un dito raccolse una goccia, la guardò. Era sangue.

    Quando anche lui riuscì a raggiungere la superficie Deodato Spataro era riverso sul selciato, circondato dagli amici che stavano a capo chino. Aveva uno squarcio grande quanto un'anguria nel petto e il sangue gli usciva dalla bocca e dal naso, gli occhi si muovevano veloci a destra e sinistra senza vedere. Non l'avevano portato in infermeria, non si sarebbe salvato comunque. Il dottore Gli stava auscultando blandamente il cuore, come se servisse a qualcosa.
    – Deodato! – spingendo i corpi immobili dei minatori don Francesco si fece strada fino al moribondo. – Cos'è successo? Oh, Dio...
    – Don France'... – il ragazzo lo riconobbe dalla voce, e sorrise reprimendo un singulto. – Alla fine... non l'ho letto quel libro... eh?
    – Zitto, non ti sforzare – il prete era sul punto di piangere. – Dottore, fate qualcosa. Che volete lasciarlo così?
    Il medico si limitò a scuotere sconsolato la testa e indicare la ferita. La guardò anche don Francesco, e quando vide la cassa toracica sfondata e i polmoni sfrangiati al suo interno sentì un conato acido risalirgli su per l'esofago.
    – Chi è stato? L'hai visto? – gridò con le lacrime nella voce. – Chi t'ha fatto questo? Dimmelo!
    Il giovane era alla fine, ma pareva voler rispondere. Fece un miserevole cenno affinché don Francesco si chinasse di più su di lui, riuscì ad alzare un poco la testa e inspirò l'ultimo alito d'aria della sua breve vita.
    - Pigghiacristiani - sussurrò rivoltando le pupille all'indietro. Un attimo dopo era morto.

    3



    Lo sciopero scoppiò il mattino seguente. Tre quarti degli operai si rifiutarono di scendere in miniera se prima non venivano approntate misure di sicurezza, non si poteva rischiare la vita a quel modo. L'atmosfera alla cava era tesa, elettrica, Pacioni aveva richiamato tutti i suoi sorveglianti privati e intimato loro di mantenere l'ordine a ogni costo. Si pensò di avvisare i carabinieri, ma la proposta venne bocciata perché una larga parte dei minatori non voleva schierarsi a muso duro contro la compagnia. Meglio andare avanti con una protesta circoscritta e aspettare gli sviluppi, piuttosto che rendere pubblica la faccenda e perdere certamente il lavoro.
    Verso le dieci ci furono i primi scontri: un gruppo di crumiri tentò di prendere l'ascensore per recarsi a lavorare come se nulla fosse, ma fu bloccato dagli scioperanti e ne nacque una rissa. Loiacono, il calabrese, rifilò una coltellata a uno del sindacato, i sorveglianti gli diedero man forte ma furono soverchiati. Una decina di ammutinati restò a guardia dell'ingresso per il sottosuolo, impedendo a chiunque di accedervi e giurando che se ci avessero riprovato ci sarebbe scappato il morto. L'agitazione cresceva: da una parte quelli che volevano fermare la produzione, dall'altra coloro che temevano di perdere il posto ed erano disposti ad affrontare qualsiasi pericolo.

    Don Francesco riuscì a fermare un siciliano nel pomeriggio, nella mensa riadibita a sala-riunioni. Si trattava di un catanese analfabeta di mezz'età che tutti chiamavano “Mappina”, la sua aria sempre afflitta e sciatta pareva confermare alla perfezione quel soprannome. Il prete gli offrì un pacchetto di sigarette recuperato allo spaccio per vincere la sua diffidenza, fingendo di non badare agli sguardi torvi degli altri che non lo volevano lì tra i piedi.
    – Che vulite, don France'? Nun è momento di pregare.
    – Voglio sapere cos'è pigghiacristiani– lo guardò dritto negli occhi. – Sono sicuro che tu lo sai, come molti altri tuoi amici qui in giro.
    - U pigghiacristiani - l'uomo fece un assurdo scongiuro muovendo più volte una mano accanto a un orecchio e sputando a terra. – In Sicilia la conoscono tutti la storia. È u' diavolo delle cave, se ne sta sotto a le gallerie e pigghia d'improvviso ai minatori, pe' accirerli.
    – E tu l'hai visto, ieri?
    – Come vedo a voi adesso. Avía la faccia in tra lu focu e lu piccone in le mani, ha pigghiato a Deodato e se lo ha tirato con lui. Noialtri avimu fatto lu culu cincu cincu pe la paura, avimu rimasti come pietre. Dopo un poco avimu cumminciato a sentire li colpi di piccone, e lu chiantu de chillu povero giovine, in mezzo. Colpo, chiantu. Colpo, chiantu, nun finiva mai. Poi iddu è tornato, e arrancava cu pareva nu verme. L'avimo portato sopra, ma nulla ci fu da fare. U pigghiacristiani mai nessuno perdonò. Chi lu talliò nun vivette abbastanza pe raccuntarlo.
    Era una storia sconclusionata e figlia di superstizioni vecchie come l'Italia, per giunta raccontata da uno che era sceso a lavorare ubriaco, ma a don Francesco non fece ridere. Non in quel momento, con due corpi straziati in infermeria e un'agitazione che minacciava di sfociare in rivolta. Qualcosa gli solleticò la memoria, qualcosa che aveva udito in quei giorni, ma non ebbe il tempo di metterla a fuoco perché s'accorse che oltre la porta, concitato, uno dei sorveglianti gli stava facendo cenno di uscire. Salutò Mappina e lo raggiunse, chiedendogli cosa volesse. L'uomo gli comunicò che Pacioni desiderava parlargli.

    4



    – Levatevelo dalla testa! – frappose una mano aperta tra sé e il sovrintendente, che lo fissava fumando all'altro capo della scrivania. – Non vi aiuterò a convincere i minatori a sospendere lo sciopero.
    – Peccato – Pacioni spense la cicca. – Voi esercitate ancora un forte ascendente su parecchi di loro. Potevate riuscirci.
    – Per poi vederli tornare su ridotti come Cusimato e Spataro? Massacrati a morte da qualcosa che nemmeno conosciamo? No, grazie. Ho una coscienza, io.
    – Davvero? – l'altro sorrise preparandosi a calare il carico a coppe. – Ce l'avevate anche dieci anni fa, quando vivevate in quel paesino dell'Emilia?
    Don Francesco restò di ghiaccio, incapace di parlare. Pacioni accese un'altra bionda, poi continuò:
    – Suvvia, non credevate di bruciarvi il passato alle spalle? Ci sono carte, “don Francesco”, documenti che se uno ha un po' di potere e qualche aggancio può facilmente controllare. Mi sono informato fin da quando siete arrivato qui a rompere le scatole con la storia dello studiolo sepolto, mi serviva qualcosa per ricattarvi e tenervi buono. Non sapete che sorpresa è stata scoprire che eravate voi il Giuda di San Bobbio, il traditore che fece la spia ai tedeschi per salvarsi la vita.
    – Non è andata così – riuscì a sibilare il prete, tremando. – Io volevo solo evitare una strage.
    – E invece... – Pacioni allargò le braccia con finto dispiacere. – Be', grazie a un paio di conoscenze nella curia l'avete fatta franca, vi hanno coperto e dato una nuova identità. Avete fatto ammenda, messo il passato sotto il tappeto. Ma ora io quel tappeto posso rivoltarlo. Ci sono delle associazioni rosse che danno la caccia a quelli come voi, i fascisti nascosti, i collaborazionisti che si sono rifatti una vita. Mi basta fare una telefonata e vi verranno a prendere, hanno una sede non lontano da qui. E non vi condurranno alla polizia, no, ma in qualche baracca appartata nelle campagne, per trattarvi con certi riguardi che vi porteranno a desiderare la morte. Che dite? Mi aiutate a risolvere il problema dello sciopero?
    Per un momento fu sul punto di accettare, ma poi pensò che sarebbe stato come condannare altri innocenti. E poi non voleva che Pacioni lo manovrasse, che lo tenesse al giogo con quel ricatto, avrebbe potuto usarlo anche in altre occasioni.
    – No – scandì calmo, alzandosi. – Fate quel che volete, ma non avrò parte in questo. Ora se permettete me ne vado. Ci sono cose di cui voglio occuparmi.
    Si avviò verso la porta, l'aprì e uscì all'aria aperta, nel tramonto incipiente. Dentro l'ufficio immaginò Pacioni che sollevava la cornetta e componeva il numero e capì che non gli restava molto da vivere.

    Non tornò alla chiesa, vagò per la città mineraria mentre la sera scivolava sul mondo inghiottendone i contorni. Aveva ancora la sensazione che ci fosse qualcosa che doveva ricordare, un indizio che poteva risolvere il mistero. Qualcosa che aveva detto Deodato, giorni fa. Una frase...
    "Nei vostri libri deve starci una risposta..."
    La folgorazione quasi lo fece urlare, e a rotta di collo si lanciò verso l'ascensore. Ora non era sorvegliato, perché a nessuno sarebbe venuto in mente di scendere sottoterra di notte, così pote facilmente salirvi e premere il bottone che conduceva al primo livello. Arrivato lì si fiondò nello studiolo, recuperò un libro tra gli scaffali e l'aprì, cercando il racconto che gli serviva. Possibile che fosse quella la soluzione? Se era davvero così ci sarebbe stato da rileggere con occhi nuovi l'autore, forse l'intero movimento letterario.
    "Avia la faccia in tra lu focu" ricordò le parole di Mappina. Posò il volume, prese la sua lampada e un involto di panno sporco e tornò all'ascensore. Spinse il bottone che portava giù, alla galleria “R”, e si preparò a incontrare il
    pigghiacristiani.

    5



    Era buio e freddo laggiù, i tunnel si ramificavano come le vene cave di un titano dissanguato. Puntando la lampada vide dei segni sulle pareti, ma erano tracciati nel linguaggio dei minatori e non gli riuscì di decifrarli. Forse significavano “pericolo”, forse “uscita”, non lo avrebbe saputo mai. Avanzò a istinto, sempre più giù, pregando di non morire prima di essersi liberato del dubbio.

    Dopo un tempo inquantificabile iniziò a udire dei rumori, come singhiozzi intervallati da pezzi di parole. Era il soliloquio gutturale di qualcuno che parlava in fondo alle tenebre, al di là dell'entrata di una caverna piccola e irregolare.
    – Sei là? – chiamò. La sua voce era terribile nel silenzio.
    – Sei là? – ripeté. Qualcosa si mosse nel buco e si udì un suono metallico.

    Attese con la gola secca, il cuore martellante in mezzo alle costole. Poco a poco una sagoma venne fuori dall'apertura, ed era quella di un vecchio centenario tutt'ossa, curvo e malfermo, con un piccone stretto tra le mani. Non gli si scorgeva nulla del volto se non gli occhi giallastri, spiritati, enormi come quelli delle creature che non vedono mai la luce e spalancati come quelli dei folli. E folle lo era, il povero avanzo umano dai capelli assurdamente rossi e dalla barba dello stesso colore, un cespuglio di peli che, come aveva detto Mappina, infondeva l'illusione che avesse la faccia in fiamme. Come fosse arrivato a Ribolla non era possibile saperlo, si poteva solo immaginare che da quand'era scomparso nel sottosuolo avesse seguito una tortuosa e infinita strada di gallerie che lo avevano, infine, condotto in Toscana. Doveva avere dormito solo per tutta la vita, bevuto l'acqua dei ruscelli sotterranei e mangiato cose che era meglio non immaginare, ma ciò che lo aveva tenuto vivo oltre ogni ragionevole possibilità era il suo odio per le cave, il rancore nei confronti dei minatori.
    – Sei tu, vero? – disse don Francesco con un fil di voce. E poi dopo un attimo: – Malpelo?
    Gli si lanciò incontro urlando come una bestia, il piccone pronto a colpire. Il prete estrasse l'involto e svolgendolo rivelò una pistola tedesca con un sol colpo in canna, fece fuoco e lo abbatté. Forse restò immobile per solo pochi minuti, forse fino all'alba, fatto è che fu il rumore della carrucola a ridestarlo da quella specie di trance. Guardò l'ascensore: stava risalendo ed era già troppo in alto perché potesse saltarci sopra. I cacciatori di fascisti dovevano essere arrivati, un rapido appello aveva certamente rivelato che lui era il solo a mancare. Avevano capito che era sceso giù, e la loro rivalsa si compiva ora a distanza di dieci anni. Lo avrebbero lasciato lì, a morire in fondo ai cunicoli.

    Andava bene così, non aveva paura. Era giusto che pagasse, solo gli dispiaceva non avere un'altra pallottola. Restò accanto al corpo ancor caldo di quel vecchio che non era mai stato davvero bambino, quel povero infelice stuprato da una vita cattiva, arida, che lo aveva indotto a rintanarsi lontano dal sole come un proteo o una talpa. Cos'aveva visto in tutti quegli anni, mentre la civiltà sopra di lui andava avanti credendolo un personaggio di fantasia? Quando aveva scelto di uccidere e, soprattutto, perché era parso che mormorasse un ringraziamento prima di chiudere finalmente le palpebre? Forse era stanco, forse aspettava solo qualcuno che arrivasse a mettere fine a una vita che vita non si poteva chiamare, un miserabile vagabondaggio sepolto alla ricerca di una vendetta insensata. Don Francesco lo guardò e cercò di immaginarselo ragazzino alla fine dell'ottocento, mentre assieme a un amico chiamato Ranocchio guardava le stelle in riva alla spianata degli asini morti. Eccolo, lo vedeva, sotto la barba rossiccia c'erano le lentiggini di Malpelo, il piccolo minatore senza sorriso diventato il pigghiacristiani. Si chinò su di lui e lo abbracciò, e pianse. Dall'alto gli giunse lontano il clangore dell'ascensore che riemergeva, vuota scatola di legno tornata in un mondo da cui lui era stato bandito.

    6



    Non morì più nessuno a Ribolla, non massacrato almeno. Il cadavere di don Francesco non fu mai trovato, presto tutti si dimenticarono di lui. Lo sciopero rientrò, la compagnia non ebbe danni economici. Sembrava che le cose si fossero aggiustate, e invece alcuni mesi dopo una fuga di grisù uccise quarantatré minatori e ne lasciò feriti o intossicati parecchi altri, i funerali furono solenni e mobilitarono circa cinquantamila persone. I sopravvissuti non seppero mai dire come andarono davvero le cose, ma ci fu chi giurò di aver visto una specie di scheletro dagli occhi impazziti colpire più volte uno dei tubi del condotto di ventilazione con un piccone, fino a farne fuoriuscire l'aria che reagì con il gas. La versione non fu mai accreditata, e il disastro fu attribuito all'usura delle strutture. Ancora oggi, se li si cerca, quei pochi operai superstiti ripetono la stessa cosa: era bianco, aveva una lunga barba e capelli radi, ed era vestito da prete.

    “Non ho mai avuto bisogno di inventare alcunché, la realtà della mia terra era lì che aspettava di essere raccontata e io, come fa un fotografo sulla celluloide, non ho fatto altro che riportarla nelle mie storie.”

    Giovanni Verga - "Sul Verismo"

    Edited by bravecharlie - 11/7/2010, 12:57
     
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  2. margaca
     
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    Mi è piaciuto e anche tanto! Alfredo, scrivi davvero bene. La storia è molto bella, mischia l'horror classico al dramma in maniera perfetta, i due componenti si mescolano in modo fluido. Ottima la caratterizzazione dei personaggi (da siciliano l'ho apprezzata in modo particolare), unico neo il finale che sembra troppo veloce, avrei voluto continuasse!
    Piccolo refuso (credo): Il dottore Gli stava
    Do un bel 4, mi hai rapito per tutto il tempo che ho letto, sembrava davvero di stare laggiù, centinaia di metri sotto terra.
     
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  3. Salazer
     
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    Ciao,

    ho deciso di leggere il tuo racconto per primo visto che aveva come sottogenere anche quello "storico". Che dire, io non sono un amante degli horror (tutt'altro) e questo mi porterebbe a penalizzare qualsiasi cosa che leggo in merito, se non cercassi di essere il più obiettivo possibile. Potrei dirti che come racconto horror, appunto, funziona, ma io sono facilmente impressionabile e quindi non altrettanto attendibile :P
    In generale comunque mi è piaicuto, l'ho trovato ben architettato e con un buon ritmo narrativo fino alla fine.

    Voto 3 (perdonami, sarebbe stato un quasi 4 ma un minimo devo tener conto dei miei gusti).
     
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  4. bravecharlie
     
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    beh, io sono del parere che i gusti alla fin fine ci sono, uno non li può ignorare del tutto altrimenti saremmo computer e non esseri umani. E' in qualche modo giusto così, è naturale, quindi no problem per me.

    grazie anche a Marcello per le belle parole e la segnalazione del refuso, che ho provveduto a togliere dalla versione originale sul mio HD.
     
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  5. black cat walking
     
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    Ti ringrazio per la bella lettura e per avermi fatto conoscere una storia della mia regione che non sapevo. Secondo me c'è poco dell'horror e molto del realistico, e va bene così.
    Voto 4 senza dubbio alcuno. :)
    A rileggerci e complimenti ancora.
     
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  6. VanderBan
     
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    Voto quattro.
    Quando ti affacci da queste parti il voto è scontato. Non mi dilungo in un’analisi che è superflua, segnalo soltanto qualche ripetizione nei concetti nella prima parte, calchi troppe volte sulle condizione di vita dei minatori e sulle motivazioni (anche letterarie) del prete. Poi la storia prende il via e lascia tutto il gruppo sui pedali...
    Refuso
    CITAZIONE
    così pote facilmente salirvi

    A rileggerci
     
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  7. Jakken
     
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    Ciao Brave.

    Il racconto in generale funziona: personaggi ben disegnati, descrizioni accurate che non appesantiscono la lettura, un connubio ambientazione-momento storico azzeccato.
    Ma c'è qualcosa che non mi convince:
    SPOILER (click to view)
    - Mi piace poco come hai proposto il sogno:
    La mente ricordò che a Marzabotto, poche settimane prima, era stato l'intero paese a pagare, non solo chi aveva aiutato gli insorti.
    La mente vide i suoi vecchi genitori, rosi da una vita di lavoro nei campi, e decise che non sarebbero morti con le spalle appoggiate a un muro.
    La mente si spense, e lasciò che fosse il corpo ad agire come in un sogno.

    È necessario esordire con "la mente"?
    Per me basta narrare e poi far svegliare il prete. Non serve altro. Non so se stavi cercando un modo originale per la fase onirica, ma mi sembra piuttosto controproducente.

    - I brividi gli percorrevano freddi la schiena, non avrebbe dimenticato...
    Bruttino questo passaggio. Non è meglio:
    Brividi (risalirono/si arrampicarono/ecc...) sulla schiena. Non avrebbe mai dimenticato...

    - Il fatto del libro che risolve… : come? Non ho capito cosa ha letto il prete.

    - Il pigghiacristiani, alla fine, è un uomo rimasto là sotto per un sacco di tempo. Sarà impazzito e di conseguenza agisce in quel modo...
    Ma ho empatizzato poco con lui; anche quando lo mostri non provo nessuna sensazione e mi rimane indifferente. Se quell'uomo è una leggenda, quella del pigghiacristiani appunto, forse sarebbe opportuno approfondire proprio per recepirne meglio il dramma.
    Spiegarlo, come hai fatto, raffredda tutta la preparazione precedente.
    Ipotesi: farlo parlare - anche in modo sconclusionato - dopo che il prete lo ferisce a morte? Farlo parlare prima, mentre cattura un minatore?

    Di conseguenza non sono ancora sicuro di che voto metterti. La storia è tra il 3 e il 4, ma i dubbi rimangono.
    Tornerò...
    ;)
     
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  8. bravecharlie
     
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    ho rimosso la risposta a Jak e gliel'ho inviata via PM. rischiava di essere troppo spoilerante per chi ancora non l'ha letto :)
     
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  9. Jakken
     
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    CITAZIONE (bravecharlie @ 5/7/2010, 13:57)
    ho rimosso la risposta a Jak e gliel'ho inviata via PM. rischiava di essere troppo spoilerante per chi ancora non l'ha letto :)

    Ricevuto ;)
     
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  10. Gordon Pym
     
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    Beh, una storia intessuta ad arte, complimenti!
    Hai saputo mescolare con abilità elementi di grande fascino; scrittura ottima.
    Giusto un paio di considerazioni sperando ti possano essere utili:
    SPOILER (click to view)
    vista la novella cui ti ricolleghi ho avuto qualche perplessità per l'età del personaggio in relazione a ciò che fisicamente è in grado di fare; nella stessa misura, all'ultimo paragrafo, l'allusione al prete assassino dopo le buone intenzioni che aveva avuto mi è sembrata "strana".
    Ti dico anche questa, dato che ci sono: precedentemente, lo studiolo sotterraneo del prete posizionato a quella mezza profondità, e il fatto che lui vi trascorresse intere giornate, non mi ha convito molto. Cioè, una camera di lettura sottoterra, ma a un'altezza che non gli risparmiava il biasimo dei lavoratori, nella realtà sarebbe un po' fine a se stessa - ovvio che invece nel racconto serve così

    Tuttavia, al di là delle considerazioni in spoiler che non considero di gran peso, sottolineo ancora la mia ammirazione per il tuo scritto. Voterei 5, facciamo 4 stavolta e 1 la prossima, ok? ;)
    ciao, a rileggerti


    qualche appunto/mia opinione

    CITAZIONE
    Si trascinavano lenti dagli alloggi alla miniera e poi giù fino alle budella di pietra dove riposavano i giacimenti

    una sottigliezza, avrei preferito "fino alla bocca della miniera", perchè con miniera si intende il complesso sotterraneo, cioè già quel "poi giù"

    CITAZIONE
    Il tempo non trascorreva mai a Ribolla.

    perché? poco sopra hai scritto "Per ore. Per giorni. Per settimane che diventavano mesi - baci che esistevano ormai solo nella memoria"

    CITAZIONE
    ... ascensore di legno. – cosa vi portate...

    ci vorrebbe la maiuscola in "cosa", avevi messo il punto

    CITAZIONE
    conservava di quella terra un ricordo vivo e affettuoso per avervi trascorso alcuni anni come parroco a Canicattì.

    secondo me suona meglio "aver trascorso", visto che specifichi "a Canicattì"

    CITAZIONE
    sembrava un grosso trancio di cotoletta che qualcosa avesse maciullato, pestato, dilaniato fino a ridurlo a una...

    anche qui il pronome "lo" si può evitare (anche perché è riferito a cotoletta, femminile) in luogo dell'infinito "ridurre una..."

    CITAZIONE
    L'ascensore si arrestò e la porta fu aperta.

    i tempi verbali di questo periodo non mi tornano, perchè mettere il trapassato al gesto di aprire la porta è corretto se si dice "la porta fu aperta e l'ascensore si arrestò", cioè l'evento di aprire è antecedente quello di arrestare, ma tu non intendi questo

    CITAZIONE
    la cassa toracica sfondata e i polmoni sfrangiati

    è un po' ridotto male per parlare

    CITAZIONE
    Si pensò di avvisare i carabinieri,

    qui ci ho messo un po' a capire che a pensare di avvisare i carabinieri fosserro gli operai, credevo alludessi alle intenzioni della compagnia ma i discorsi non tornavano. Insomma, un soggetto più chiaro credo andrebbe meglio

    CITAZIONE
    un gruppo di crumiri tentò di prendere l'ascensore per recarsi a lavorare come se nulla fosse, ma fu bloccato dagli scioperanti e ne nacque una rissa.

    stessa questione sui tempi. Il gesto di "bloccare" è seguente quello di "tentare" quindi non va al trapassato. Ci vorrebbe qualcosa tipo "ma gli scioperanti lo bloccarono e ne nacque una rissa."

    CITAZIONE
    cos'è pigghiacristiani– lo guardò dritto

    spazio prima del trattino
     
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  11. bravecharlie
     
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    grazie davvero gordon, soprattutto per le annotazioni finali che userò per modificare il racconto (le trovo tutte valide). oggi ho dato un esame e giovedì ne ho un altro, ma spero anche domani di avere il tempo per leggere e commentare. Hasta la vista! :)
     
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  12. kaipirissima
     
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    scusa pensavo che mettendo il commento nello spoiler bastasse. ho tolto tutto, lo rimetterò quando tutti avranno commentato. ciao! :)
    apprezzo la tua correttezza ma sinceramente preferisco non farlo, non siamo qui per darci voti ma per aiutarci.


    SPOILER (click to view)
    Trovo il racconto troppo descrittivo. La condizione dei minatori non ci viene presentata ma descritta, dobbiamo prenderla così come la scrivi tu, avrei invece preferito una narrazione meno onnisciente.
    Avrei voluto trovarmi di fronte a quella miseria, perché solo così avrei potuto partecipare al dramma del loro esistere. Manipoli troppo il lettore, dicendogli cosa deve pensare di tutti.
    Anche il passato di don Francesco con l'inserimento storico, rimane un tassello a sé. Cioè mi sembra che contribuiscano a definirlo di più le sue letture, il suo studiolo.


    Edited by kaipirissima - 9/7/2010, 11:32
     
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  13. bravecharlie
     
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    uelà Kapirissima, accetto il tuo commento per carità però magari puoi togliere il nome del personaggio così non spoileri agli altri?

    il tuo commento mi interessa molto proprio perché sei un'amante di quel personaggio, mi propongo di rispondere e tentare di spiegarti alla fine dell'USAM (sempre per non rovinare "la sorpresa" agli altri).

    comunque se non ti è piaciuto ritengo giusto che tu voti come credi, mi pare che non ci siano siolo motivazioni personali ma anche questioni "tecniche".

    a rileggerci :)
     
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    Il racconto è ben scritto come sempre, e mi stava prendendo fino alla soluzione del mistero che invece mi ha completamente affossato. A prescindere dalla credibilità della soluzione, è quasi assurdo che il prete arrivi a pensarla, e inoltre ci sono altre cose che non quadrano esattamente (tipo come si faccia a sapere cosa ha fatto lui al villaggio se l'unico rimasto vivo per potrelo raccontare, a parte i tedeschi che non sanno praticamente neanche chi sia, è lui, o che cosa ci faccia un tubo di gas nel sottosuolo).

    Voto 3.

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    Costretti a un'esistenza che si svolgeva tra le gallerie e i depositi di carbone avevano assunto il colorito fosco della materia attraverso la quale si guadagnavano il pane,

    Metterei una virgola dopo "carbone". Così com'è si fatica a capire quale sia il soggetto di "avevano assunto" e sembra che manchi un pezzo di frase.

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    la stessa che poco a poco, silenziosamente, faceva il nido dentro di loro intossicandoli con pazienza.

    Checché se ne dica, a volte gli avverbi in mente servono. Io toglierei "silenziosamente" perché "in silenzio" va bene lo stesso, ma metterei "pazientemente" perché così pare che la pazienza sia tossica e non che sia paziente l'intossicare.

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    Il suo studiolo era stata ricavato

    Refuso: "stato"

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    scuri, sporchi, curvi anche dove il soffitto si alzava di due o tre metri come se la presenza opprimente della montagna avesse fatto loro dimenticare la posizione eretta.

    Anche qui ci vorrebbe una virgola dopo "due o tre metri, altrimenti il "come" sembra riallacciarsi al fatto che il soffitto si alzi.

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    Stando al racconto dei quattro che erano in squadra con lui nella galleria “R” Cusimato sarebbe stato afferrato da qualcosa

    Serve una virgola dopo "R"

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    Hanno raccomandato tutti. Capite, don Francesco?

    Intendi "L'hanno raccomandato a tutti"?

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    Dopo un po' il monotono rollare dei carrelli che emergevano dalle gallerie, unito alla stanchezza per una notte agitata, gli conciliarono un inatteso sonno.

    "Gli conciliò", il soggetto è solo "il monotono rollare" perché la stanchezza sta in un inciso.

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    Don Francesco riuscì a fermare un siciliano nel pomeriggio, nella mensa riadibita a sala-riunioni.

    "sala riunioni", senza trattino

    CITAZIONE (bravecharlie @ 1/7/2010, 02:34)
    così pote facilmente salirvi e premere il bottone che conduceva al primo livello.

    Refuso: "poté"
     
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  15. bravecharlie
     
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    ciao CMTa, riguardo le tue osservazioni in effetti il sospetto che gli viene può essere accettato unicamente come una deduzione improvvisa, mentre per la questione della sua nuova identità credevo fosse chiaro che Pacioni, utilizzando agganci e conoscenze, avesse fatto ricerche in ambienti "che contavano" dove erano rimaste tracce del suo passato (vedi ambienti ecclesiastici che lo avevano coperto).

    per il tubo di gas nelle miniere ce ne sono e per vari usi, ti rimando direttamente alla pagina di wikipedia che tratta dell'incidente di Ribolla: http://it.wikipedia.org/wiki/Ribolla
     
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30 replies since 1/7/2010, 01:34   676 views
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