S'accabadora
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S'accabadora

Federica Maccioni storico-fantastico 34K car ca

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  1. federica68
     
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    versione riveduta e corretta

    S'accabadora

    I
    Nita Murru sedeva accanto alla ziminera, il camino in pietra, e guardava sua nonna Annica Delogu, che, in piedi dinanzi a lei, gli occhi antichi persi lontano, si abbottonava il corpetto nero.
    La fiamma crepitava, tracciando guizzi di luce rossastra sulle pareti fuligginose.
    “Basilio Mulas sta arrivando”, disse la vecchia. “È per suo padre”. Si legò intorno alla vita il grembiule nero e ne tese uno identico alla nipote.
    La ragazza lo indossò sull'abbigliamento a lutto, fece cenno di sì con il capo e spostò una pietra alla base del caminetto, rivelando un piccolo incavo. Prese l'oggetto che vi era riposto e svolse piano il panno che lo proteggeva. Il passo lento di quattro zoccoli risuonò fuori dalla porta: Nita posò la tela sul tavolo, carezzò il manico lucido del martello di legno d'olivo che aveva tratto dal nascondiglio e lo porse ad Annica. La superficie de su mazzolu, levigata da secoli d'uso, luccicò, mentre la donna lo riponeva fra le sottane. Pochi istanti dopo si udì bussare.
    Quando Nita aprì, Basilio Mulas, sulla soglia, accennò all'asinello alle sue spalle.
    “È ora?” chiese lei.
    “È ora”.
    Nita si strinse nello scialle, chiuse la porta e seguì la nonna.

    Stelle azzurre e grilli dalla voce dorata nella notte di fine estate. Basilio non parlava; il passo cadenzato dell'asino dilatava il silenzio cristallino. Il tragitto fino a Orani si compì senza che i tre dicessero nulla. Così come Annica non disse nulla quando l'uomo l'aiutò a scendere di sella, e neppure quando le aprì l'uscio di casa propria.
    S'accabadora entrò: “Deu ci sia”, salutò.
    Nella cucina illuminata solo dalla bassa fiamma nella ziminera, le donne chinarono appena il capo.
    “Deu ci sia, tz'a Annica Delogu”, mormorò Mariedda Mulas, la più anziana. Accennò verso una porta chiusa, poi si volse e uscì, seguita dalle altre e da Basilio.
    La nonna, rimasta sola con la nipote, trasse dal corpetto un velo nero, lo dispose in modo che le coprisse il volto, imitata dalla ragazza, e varcò con lei la soglia che Mariedda aveva indicato.
    Era una camera da letto. In un angolo, un piccolo cero ardeva sotto una statuina della Vergine; il crocefisso campeggiava al di sopra della testata del letto e diverse immagini di santi erano appese alle pareti.
    Fra le lenzuola ricamate, con il naso affilato e la barba di giorni, la schiena appoggiata a una pila di cuscini, il vecchio Bissente Mulas combatteva un'agonia che durava da giorni. Nella stanza si avvertiva l'odore familiare della morte.
    Nita guardò il moribondo e poi la nonna.
    “Non può partire”, disse Annica, indicando il petto di Bissente, su cui pendevano sas pungas; poi il dito scarno puntò sulle raffigurazioni sacre, una dopo l'altra.
    S'accabadora si avvicinò al letto: le palpebre dell'uomo erano socchiuse sulle cornee gialle, oltre le labbra si intravedeva la crosta nera che era diventata la sua lingua. Gli sfilò dal collo sas pungas, gli amuleti che ancoravano l'anima al corpo disfatto, e gli tracciò un segno di croce in fronte, mormorando formule liberatorie; ma il rantolare del morente, intervallato di lunghe pause, le disse che il filo esiguo di quella vita non era pronto a spezzarsi. A un gesto della donna, Nita si protese al di sopra della testa di lui e staccò la croce dal muro. La portò in cucina e la depose con cura sul tavolo. Prima di allontanarsi baciò i piedi del Cristo.
    Quando rientrò, il respiro faticoso non era scemato ancora del tutto, sebbene si fosse fatto più fievole.
    Annica spense il lumino votivo, prese delicatamente fra le mani la statuetta di Maria e andò a posarla accanto alla croce, recitando litanie.
    Il movimento del petto di Bissente Mulas si fece quasi impercettibile.
    Le due donne staccarono dalle pareti le immagini, una per una; in una muta processione le portarono fuori dalla camera, accompagnate dal gorgogliare sempre meno frequente che proveniva dal letto. Quando infine la stanza fu del tutto spoglia, la ragazza implorò: “Liberatelo, adesso, iàja mia”.
    S'accabadora carezzò il manico de su mazzolu nella tasca della gonna e si avvicinò a Bissente Mulas.

    Il viaggio di ritorno verso Sarule si svolse in silenzio come quello di andata. La prima livida luce del giorno stagliava il contorno dei monti su un mondo che pareva aver smarrito le ombre, in quell'ora in cui l'aria si riempiva delle mille voci alate del risveglio degli uccelli. Annica Delogu cavalcava con le mani raccolte in grembo, mentre Basilio Mulas conduceva l'asinello per la briglia; di tanto in tanto, Nita, che camminava loro accanto, coglieva lo sguardo grato dell'uomo fisso sul volto della vecchia. Null'altro, fino alla casa delle due donne; ma mille pensieri si affollavano nella mente della ragazza, che riviveva quel giorno di primo marzo in cui, al mercato, nel riflesso trasparente dei mandorli fioriti attorno alla piazza, aveva per la prima volta visto Gavino Sedda.
    Come sempre dopo le ore passate ad accompagnare un uomo oltre il confine ultimo, quel ricordo le si faceva presente e vivido.
    Il giovane bandito, ricercato in tutta la Sardegna, le era parso fulgido come un eroe delle leggende che aveva ascoltato bambina negli inverni attorno al fuoco, bello come un sole oscuro, con i suoi occhi ardenti e il suo passo sfrontato. Le donne gli offrivano pani, gli uomini gli porgevano caciotte, e i ragazzi della banda accettavano quei doni con una gratitudine scarna nei netti cenni del capo. Ma lui no, lui non prendeva nulla dalle mani della gente, limitandosi a indicare i suoi compagni, fra cui spiccava la sua guardia del corpo, il monumentale Ziromine Su Mannu.
    Per Nita il tempo si era fermato, quando Gavino Sedda, passandole accanto, l'aveva fissata per un istante eterno, e il cuore aveva perso un battito quando il giovane aveva chinato la testa in segno di saluto e aveva sorriso.
    Immersa nel ricordo di quel momento, non si accorse di essere quasi giunta a casa.
    Fu allora che la videro.
    Seduta sulla pietra della soglia, una bambina di quattro o cinque anni seguiva attenta i loro movimenti.
    “Oooh”, fece Basilio. L'asino, obbediente al segnale del padrone, si arrestò. “Oh picciocchedda! Sei scappata di casa?”
    La bimba scosse il capo e indicò Nita. I tre adulti si scambiarono un'occhiata interrogativa.
    “Hai bisogno di lei?” domandò stupita la donna.
    Lo sguardo intelligente nel visetto rigato di muco e fuliggine si accese.
    “Per che cosa?” chiese ancora la vecchia.
    La manina si alzò di nuovo, con l'indice teso, ma la bimba non aprì bocca.
    “Torna a casa”, ordinò allora Basilio. “Tua madre ti starà cercando”.
    Nessuna risposta.
    “Basta così!” L'uomo cominciava a innervosirsi. “Ora te ne torni a casa tua! Quella povera donna di tua madre sarà disperata”.
    “Lasciate, Basilio”, disse però Annica. “La riaccompagnerò io più tardi, so dove abita. Andate pure”.
    “Sta bene, allora. Salute a voi, tz'a Annica Delogu”.
    “Salute, Basilio Mulas”.
    Le donne condussero la bambina in casa e Nita richiuse la porta con cura, mentre l'uomo si allontanava.
    “Chi sei?” chiese la nonna appena furono sole. “Sei scappata di casa?”
    La piccola fece segno di no. “Non ho casa”.
    “Ascoltami bene”, riprese l'altra. “Ho detto di conoscerti solo per farlo andare via, ma adesso devo riportarti da tua madre, perciò basta giocare e dimmi dove stai”.
    “Io sto dappertutto e da nessuna parte”, affermò la vocina tranquilla, come se fosse la cosa più naturale al mondo.
    “Ho detto basta giocare! Non farmi innervosire. Tua madre sarà disperata, Basilio Mulas aveva ragione”.
    “Non ho madre”.
    Nita rabbrividì. Un'orfana fuggita da qualche orfanotrofio, ecco qui. Guardò i piedini luridi, dalla pianta callosa, le gambe sottili che sparivano nella gonna lacera, e avvertì una stretta al cuore. Quanta strada aveva fatto, minuta com'era, quella bambina?
    “Come ti chiami?” chiese la vecchia. La sua voce si era addolcita, adesso.
    “Potete chiamarmi Anzeledda”.
    Un'angioletta, davvero, venuta da chissà dove, pensò la ragazza, anche se i suoi occhi erano tutt'altro che infantili; ma forse era normale, nelle sue condizioni. Chissà quanto era dovuta crescere in fretta, nell'istituto da cui era scappata. Purché non piombasse in paese una pattuglia di Guardie a rincorrerla, per riportarla indietro: ma era poco probabile. Di quei figli di nessuno, non un'anima si preoccupava; uno più, uno meno, non faceva differenza, per gli invasori spagnoli.
    “Aspetta, qui, Anzeledda”, disse Annica.
    Dalla cucina passò nel piccolo ovile adiacente: la capra la fissò, ruminando interrogativa con la bocca sghemba. “Su, Bibina, mi serve un po' di latte. C'è una picciocchedda affamata di là”. La bestiola rispose con un belato sommesso. “Grazie, Bibina”, sorrise lei. Le ombre di tanti anni di fatiche e dolori svaporarono nel lampo dei denti ancora bianchissimi e nel guizzo degli occhi neri fra le rughe.
    Il sole cominciava appena a sporgersi oltre le montagne, ma Annica non aveva bisogno di molta luce: era sufficiente la consuetudine di quei gesti ripetuti da che aveva memoria. Prese lo sgabello e il secchio, sedette accanto a Bibina e cominciò a mungerla.
    Quando il secchiello fu colmo si alzò e tornò in cucina.
    “Non posso bere il latte”, affermò però la bambina, davanti alla ciotola colma. Nonna e nipote si guardarono perplesse. “Comunque, adesso che ho visto dove state, me ne torno da dove sono venuta”.
    Allora l'aveva, una casa. Era stato tutto un gioco, per lei.
    Annica annuì, mentre Anzeledda imboccava la porta senza salutare nessuno.
    Nita riempì un'altra tazza e la porse alla nonna, poi sedette al tavolo e bevve a sua volta.
    “Che ne pensate?” chiese.
    Annica non rispose subito. Il suo volto era impenetrabile.
    “La picciocca non mi piace. Ha qualcosa di strano”, sussurrò infine.
    “Cosa intendete?”
    “Non so spiegarlo, Nitedda, ma non parlava come una picciocca della sua età, lo hai visto”.
    La ragazza rabbrividì. “Ho visto, infatti. Perché indicava me, prima?”
    “Non si può sapere tutto”. Annica scosse il capo avvolto nel fazzoletto nero dalle cocche rimboccate sotto il mento, si drizzò sulle spalle e le piantò gli occhi in faccia. “Fra poco dovrai cominciare a farlo anche tu”.
    Il repentino cambio di argomento non turbò Nita. Era abituata al modo di esprimersi della nonna, e seguiva in qualche modo misterioso il filo dei suoi pensieri da sempre. Comprese a cosa si riferiva, e chinò la testa. “Quando vorrete, iàja mia”.
    Nita era cresciuta con la nonna Annica, che era accabadora e levatrice; ancora bambina, aveva imparato a comprendere il motivo per cui venivano a chiamarla di notte dai paesi vicini. Quando indossava abiti chiari, andava ad aiutare una vita a vedere la luce. Ma quando si preparava lenta, con le gonne, la camicia e il corpetto neri, quando spostava la pietra alla base della ziminera, svolgeva su mazzolu dalle sue fasce e lo nascondeva negli strati delle sottane, ripiegava il velo nero in seno e si avviava mormorando formule propiziatorie, Nita sapeva che si recava a spegnere un'agonia durata troppo a lungo.
    Appena era stata più grandicella, Annica l'aveva iniziata all'arte di far partorire le donne e gli animali. Le aveva insegnato formule magiche per allontanare gli spiriti che potevano arrestare il travaglio o fare del male al nascituro, le aveva spiegato come confezionare pungas e rizettas di protezione per i neonati, come cucinare la seconda per favorire la risalita del latte nelle puerpere, e come tenere lontano dalle culle le surbiles, le temibili donne vampiro che avrebbero ucciso i piccoli succhiando loro il sangue.
    Per l'altro lato della sua scienza, invece, quello ancestrale, quello che la conduceva nei territori senza tempo dove gli spiriti primordiali vegliavano sulla soglia della morte, per quello aveva atteso i suoi diciotto anni.
    Allora le aveva dischiuso poco alla volta un mondo fatto di parole segrete e gesti atavici, un universo in cui Nita si era immersa, reverente e ammutolita, valicando confini che a pochi altri esseri umani era dato varcare; ma la vecchia aveva atteso ancora, per portarla con sé quando doveva accompagnare un moribondo oltre quel limitare. Nita aveva studiato e ripetuto le formule e i riti seduta al telaio nella cucina fumosa, incrociando i licci battenti, con la spola che andava e veniva al ritmo delle litanie che si snodavano infinite nella sua anima in attesa.
    Infine Annica aveva cominciato a mostrarle come si usava su mazzolu, vibrando decisa, sul capo dei morenti, un singolo colpo alla base del cranio. Ormai erano trascorsi alcuni anni. Fra poco sarebbe toccato a lei impugnare quel manico liscio, levigato da generazioni di mani femminili che si erano avvicendate nel compito antico, per liberare anime incapaci di sciogliere i legami che le incatenavano a corpi sfiniti.
    La ragazza aveva compreso immediatamente le parole della vecchia; sapeva di essere pronta da tempo.

    II
    Era quell'ora del giorno in cui il sole si abbassava oltre la giogaia dei monti e le rondini si gettavano in picchiata, in un cielo ancora azzurro infiocchettato di nuvole dorate. Presto gli uccelli si sarebbero radunati per il lungo volo che li avrebbe portati a svernare al di là del mare, in una terra calda, lontana dal brullo orizzonte di Sarule.
    Nita e Annica sedevano l'una accanto all'altra su due scranni sulla soglia, presso la porta spalancata. Era piacevole starsene fuori, sebbene le foglie delle viti andassero già sfumando nell'oro; i pomeriggi erano ancora caldi, benché le mattine e le notti cominciassero a farsi fresche. Con il calare dell'oscurità, da ogni casa saliva fumo dai camini e, per le vie, si respirava il profumo della legna arsa nelle zimineras.
    Le due donne ricamavano, interrompendosi solo per rispondere ai saluti dei passanti che rientravano dal vespro e scambiare con loro qualche parola.
    Sopraggiungeva in quel momento Basilio Mulas con un asino alla briglia; gli uomini che si godevano l'ultimo sole sulla piazza seguirono in silenzio il suo tragitto. Tutti sapevano dove andava. Basilio si fermò davanti alla casetta. “Salute, tz'a Annica Delogu”, disse. “Tz'a Nita Murru”, aggiunse, piegando appena il capo. Il tributo di quel titolo rispettoso spettava a Nita, sebbene più giovane di Basilio, per via del suo apprendistato come accabadora. La ragazza lo accettò con semplicità, come si accetta la pioggia che cade.
    “Salute a voi, Basilio Mulas”, rispose.
    Lui fece un cenno con la mano, indicando il basto carico.
    “Venite dentro”, invitò la nonna, alzandosi dalla seggiola.
    L'uomo portò in cucina due sacchi di farina, un vaso di miele, un orcio di olio e uno di vino, senza pronunciare una sola parola. Quando ebbe finito uscì e montò in sella.
    Annica fece un cenno con la mano. “Portate i miei saluti a tz'a Mariedda Mulas vostra madre, Basilio”.
    “Sarà fatto, tz'a Annica Delogu”.
    Basilio si allontanò senza aggiungere altro, e loro due cominciarono a riporre le provviste.
    “Basilio vi ha portato la farina perché voi avete fatto una cosa, tz'a Annica, non è vero?”
    Nita sobbalzò, si arrestò di botto, si drizzò sulle reni e si volse, al suono di quella voce. Anzeledda, dalla soglia, le osservava, la testa reclinata sulla spalla. C'era qualcosa di inquietante nei dentini aguzzi che si intuivano, più che vedersi, sotto il suo mezzo sorriso.
    Denti da surbile. Il pensiero passò come un fulmine nella mente di Nita.
    “Come lo sai?” chiese la vecchia. Non disse nulla riguardo alla sua improvvisa ricomparsa.
    “Io so tante cose”.
    La ragazza avvertì, alla bocca dello stomaco, una sensazione come un battito d'ali.
    “Cosa vuoi dire?” continuò la nonna senza scomporsi; ma la nipote comprese, dal lievissimo tremito della voce, che era turbata quanto lei.
    “Questa roba è per il padre di quell'uomo”.
    Anzeledda aveva parlato con naturalezza, come avesse detto di aver trovato due uova nel pollaio.
    S'accabadora tentò di dominarsi. “Guarda la minestra, Nitedda”, intimò. “Sta bruciando”. Si volse di nuovo alla bambina, ma questa era sparita, silenziosa come era venuta.
    Nessuna delle due donne affrontò più l'argomento fino a dopo cena; gli sguardi che si scambiavano erano però eloquenti, mentre mangiavano e rassettavano la cucina.
    Quando tutto fu in ordine, Nita si strinse nello scialle. Le braci brillavano nella ziminera; ravvivò la fiamma con rametti secchi e vi pose un ceppo.
    “Iàja mia”.
    “Nitedda”, rispose subito lei.
    “Quanti anni credete che abbia la picciocchedda?”
    La vecchia alzò le mani, mostrando le palme in un gesto di resa. “Non lo so”.
    “Mi fa paura, iàja”.
    Annica la fissò: “Anche a me”.
    Il fatto che qualcuno potesse spaventare s'accabadora era del tutto inusitato. Lei comandava agli spiriti, e nessun essere umano poteva impensierirla.
    Nita ne fu sgomenta. “Che cosa vuole da noi?”
    “Non so neppure questo, Nitedda mia: forse ce lo dirà solo il tempo che passa. Aspettiamo e vediamo”. Le carezzò i capelli. “Vai a dormire adesso, picciocca. È tardi”.
    Nita si alzò, baciò la nonna sulla guancia e ubbidì, ma non riuscì a prendere sonno. Ascoltò il campanile battere inesorabile le ore e le mezz'ore fino a molto tardi.

    L'indomani mattina, Nita si recò a mungere. Doveva sbrigarsi, aveva dormito più a lungo del solito, stremata dai pensieri. Capiva dalla luce che il primo albeggiare era passato da un pezzo: di lì a poco sarebbe passato il figlio di tziu Lussurzu Piras per prendere Bibina e condurla al pascolo, insieme alle sue capre.
    “Gavino è condannato”.
    Il sobbalzo fu così violento che il secchiello del latte si rovesciò, ma Nita non vi badò. Anzeledda le era sopraggiunta alle spalle, silenziosa come la sera prima.
    “Che... che hai detto?”
    “Gavino. È condannato”.
    L'ovile vorticò attorno alla donna. La capretta, che un attimo prima era fuggita con un balzo allarmato, le tornò accanto e si pose fra loro, le mandibole ferme e gli occhi puntati sulla bambina. “Lascia, Bibina. È tutto a posto”, mormorò Nita, carezzandole la testa ispida. La bestiola belò e non si mosse.
    “Cosa stai dicendo, Anzeledda?” boccheggiò la ragazza.
    Il fischio acuto del pastorello che svoltava l'angolo la distolse.
    “Salute, tz'a Nita!” Tutto rideva, in Isteneddu Piras. La bocca, la faccia, le mani strette sul bastone, i capelli incolti come un cespuglio di more.
    “Salute, Isteneddu”, rispose lei distratta. Spinse la capra recalcitrante. “Tranquilla, Bibina, vai. Non mi succede niente”. La bestia guardò la padrona ed emise due o tre belati. “Vai, ti dico”
    Il ragazzetto assisteva in silenzio a quello strano dialogo. Era abituato, sapeva che s'accabadora e sua nipote parlavano con le bestie e con le piante.
    Le comari dicevano persino che comandavano all'acqua e alla terra. Nelle sere di gennaio, quando sa Mama 'e su Ventu ululava per le strade battendo furiosa alle porte e alle finestre, e i bambini piccoli si rintanavano fra le sottane delle madri, le donne anziane abbassavano la voce. Bisbigliavano che talvolta s'accabadora e Nita si inoltravano da sole nei territori dove le ombre vanno vagando senza pace, e che sapevano legare i vivi e i morti perché erano scese nell'inferno ed erano risalite. Portavano loro un rispetto austero perché sapevano cose che nessuno conosceva, guardavano il buio negli occhi e la tramontana non spegneva il loro fuoco.
    Isteneddu non credeva a tutte queste chiacchiere, ma che Nita parlava con Bibina lo aveva visto lui stesso più di una volta; così adesso, seduto a terra, attese con pazienza che la bestiola si lasciasse convincere e, quando fu possibile, la condusse con le altre.
    Il fischio del ragazzino, il segnale che il gregge conosceva e seguiva, si perse per le viuzze di Sarule, dileguando su, su, verso la montagna, fra scampanii, belati e scalpicciare di zoccoli.
    Nita raccolse il secchio. “Come sai di Gavino?”
    “Io so di lui come so di tutto il resto”.
    La ragazza decise di accettare la sfida. “Lo so che sulla sua testa c'è una taglia. Credevi che non lo sapessi?”
    Pensò a tutte le volte in cui Gavino si era fatto vedere a Sarule, vuoi per fare provviste, vuoi per procurarsi una giubba nuova, vuoi per altri motivi. La ragazza si faceva sempre trovare sulla sua strada, e Ziromine Su Mannu sorvegliava che nessuno si avvicinasse ai due giovani, durante i loro convegni fugaci. Ben presto tutti avevano saputo che la nipote di Annica Delogu avrebbe avuto uno sposo alla macchia, e sulle prime credette che qualcuno lo avesse tradito. Ma no, non poteva essere. Tutti sapevano dove si nascondeva la banda, ma a nessuno sarebbe mai venuto in mente di avvisare le Guardie. Di questo era più che certa.
    La risposta di Anzeledda fu come una frustata, per lei. “Non intendevo dire che è condannato dagli uomini. Gavino, presto, morirà”.
    Nita si sentì mancare.
    Per qualche motivo, aveva compreso che era vero. Aprì la bocca ma non ne uscì alcun suono. Crollò sullo sgabello, le mani in grembo, tentando di respirare, ma la morsa che le aveva afferrato il petto era serrata come la mano di tziu Antiogu, il fabbro, sul martello che colpiva i ferri roventi sull'incudine.
    Senza comprenderne il motivo, pensò a quel corredo che da qualche mese aveva preso a ricamare. Un corredo che, sapeva bene, non avrebbe mai potuto usare, perché avrebbe avuto un letto di paglia e un tetto di foglie, per la sua prima notte di nozze e per tutte le altre a venire. Lo sapeva ma non le importava. Ricamava e tesseva come ogni ragazza della sua età, cantando, con le tovaglie e le lenzuola fra le mani, presso la frescura del pozzo nel cortile, nei pomeriggi d'estate, quando il profumo del rosmarino si faceva più intenso. Allora lei si fermava, e fissava il vuoto con un sorriso. Presto, molto presto, il bel Gavino avrebbe deposto il fucile accanto a sé, l'avrebbe presa fra le braccia e l'avrebbe fatta sua sposa.
    E invece, adesso, questa picciocca parlava di cose senza senso.
    “Il confine fra la vita, la morte e l'amore si farà presto confuso”, stava dicendo Anzeledda. “Sono stata mandata qui per condurre con me coloro che vorranno seguirmi”. La bambina parve sogghignare, appena un accenno di movimento degli angoli della bocca, che scopriva i denti affilati posati sul labbro inferiore, gli occhi gelidi. “Io posso salvarlo, se vuoi”.
    “Ma cosa...” balbettò l'altra. Abbassò lo sguardo sulle mani unite in grembo e, quando risollevò gli occhi, la piccola non c'era più.
    Si alzò barcollando e rientrò in casa appoggiandosi, pallida, allo stipite della porta. Le pareva di camminare sospesa da terra, e guardava senza vederlo l'ambiente noto della casetta.
    Annica le corse incontro e la sorresse. “Cosa succede, Nitedda? Stai male?”
    Nita l'abbracciò stretta e scoppiò a piangere.
    La vecchia la lasciò sfogare; si limitò a carezzarla sulla nuca e sulla schiena, rimandando le domande a più tardi. “Nitedda, Nitedda mia”, sussurrava, come quando era piccola, attendendo che le lacrime scemassero. Quando la ragazza si fu calmata, la fece sedere accanto a sé, sulla pietra della ziminera, e le tenne la mano mentre lei le raccontava tutto.
    “Non capisco”, disse la nonna, scrollando il capo. “Interrogherò gli spiriti, stanotte”, concluse dopo un lungo silenzio.
    La giornata trascorse senza altri avvenimenti e, quando venne la sera, Annica fece un cenno alla nipote.
    Nita si ritirò nella sua stanza. Sapeva che la nonna doveva restare sola: era sempre necessario rimanere sole, per questo; e se lei stessa era in grado di evocare gli esseri senza tempo che governavano l'andare degli uomini sulla terra, questa volta toccava a s'accabadora.
    Si coricò, scivolando ben presto nel sonno. Sognò Gavino, con il rosario avvolto attorno alla canna lucida dello schioppo e sas pungas al collo. Non diceva nulla; la guardava, poi si volgeva verso qualcuno alle sue spalle.
    Anzeledda.
    La bambina gli tendeva la mano e indicava un punto lontano. Allora lui tornava a voltarsi verso la fidanzata, come in attesa, ma lei non capiva cosa dovesse fare.
    Si svegliò con un peso intollerabile al petto e il respiro tronco, gli occhi tristi di Gavino confitti nell'anima come una domanda senza risposta.

    “Cosa vi hanno detto gli spiriti, iàja mia?”
    Il campanile aveva battuto da poco tre colpi, ma Nita non era riuscita a pazientare fino al mattino e aveva bussato alla porta della nonna appena aveva udito che si preparava per riposare qualche ora.
    La vecchia sembrava perplessa. “Che la picciocchedda è qui per dirimere una contesa fra la vita e la morte”.
    Nita vagò con gli occhi smarriti sul volto di Annica. I capelli radi e bianchi, legati in una crocchia stretta sulla nuca, le rughe profonde, rese più marcate dalla luce guizzante della candela, parlavano assai più delle sue parole. “Lo sai che ciò che dicono gli spiriti va sempre interpretato, Nitedda. Dovremo pensarci insieme, domani, per capire cosa intendevano”. Sospirò. “Ora sono molto stanca, ho bisogno di dormire un poco”.
    “Sì, iàja mia, perdonatemi se vi ho disturbata”. La ragazza la baciò sulla guancia. “Non sapevo resistere”.
    “Lo so”, sorrise la vecchia. “Riposa anche tu, picciocca”.
    Nita annuì, ma non tornò nella sua camera. Andò in cucina e sedette sulla pietra della ziminera. Il sangue scorreva ghiacciato nelle sue vene, come in dicembre il torrente presso i lavatoi. Non riusciva a liberarsi della sensazione che il sogno le aveva lasciato, e neppure dal turbamento provocato dal responso delle creature dell'invisibile.
    Infine decise.
    Silenziosa, uscì in strada e chiuse la porta alle sue spalle.
    Per le stradine deserte di Sarule, il suo passo echeggiava appena. La ragazza pareva solo sfiorare il selciato, leggera e rapida. Ben presto si lasciò alle spalle le ultime case e la notte l'avvolse.
    Il frusciare delle fronde nel soffio lieve fu come un saluto, a cui lei rispose respirando profondamente, immergendosi in quei suoni e in quei profumi noti, fra lo scricchiolare dei rami e i richiami di un uccello notturno nel folto della foresta, mentre lei imboccava il sentiero verso la sughereta.
    Salendo, il terreno si fece più aspro, irto di pietre sporgenti, ma lei camminava sicura, guidata, più che dalla vista, da qualcosa di interiore, un istinto che faceva più acuti tutti i suoi sensi.
    Quando si inoltrò fra le navate solenni delle querce dai tronchi segnati di larghi squarci rossi, avvertì il silenzio divenire denso. La voce del vento tacque.
    Fu allora che divenne consapevole di una presenza accanto a lei.
    Prima di voltarsi, sapeva già di chi si trattava. “Che vuoi?” chiese.
    “È inutile che lo avvisi”, rispose Anzeledda. “Ho detto che è condannato. Andarsene non gli servirà a nulla: solo io posso salvarlo”.
    Nita si fermò e la fissò. Nella luce incerta della luna fra le foglie fitte, il viso della bambina appariva lattescente, soffuso di un chiarore spettrale. “Chi sei?” domandò Nita. “Sei una surbile?”
    La piccola scoppiò a ridere. “Una surbile! Che idea!”
    “E allora?”
    “Sono molto più antica di una surbile. Io esistevo quando le fondamenta di questa terra venivano gettate”.
    La ragazza comprese che stava dicendo la verità. “Sei uno spirito, allora”.
    “Non del tutto”.
    Un misto di impazienza e timore si fece strada nella mente dell'altra. “Ascolta, dimmi quello che mi devi dire. Io da Gavino ci andrò lo stesso, stanotte, perciò parla e non farmi perdere tempo”.
    Anzeledda la guardò. “Io vengo dai territori di confine: non appartengo alla vita, non appartengo alla morte, non appartengo al sole; solo il crepuscolo e l'alba mi sono dati da sempre, per camminare su questa terra”.
    L'inaspettata solennità che aveva assunto la sua voce sconcertò Nita. Tuttavia si fece coraggio. “Cosa vuoi da Gavino?” mormorò.
    “Renderlo uno del mio popolo. Sono stata mandata per questo”.
    Le parole della nonna presero forma da sole nella mente della ragazza. È qui per dirimere una contesa fra la vita e la morte.
    “E perché hai cercato me?”
    “Perché tu e lui siete legati con i fili del destino”.
    Nita si smarrì, a quelle parole che non sapeva spiegare. “Me lo porterai via? È per questo che sei venuta da me? È questo il prezzo che chiedi per salvarlo?” La voce le tremò suo malgrado.
    D'improvviso, la bambina fu di nuovo solo una bambina. “No. Te lo lascerò. Ma sono stata mandata per renderlo come me: sei tu che gli sfuggirai, quando sa Filonzana ti sarà accanto”.
    “Non comprendo”.
    “Come la mia gente, non apparterrà alla vita e non apparterrà alla morte, avrà l'alba e il tramonto per guardare il sole e sarà giovane per sempre”.
    Nita scosse il capo: “Continuo a non capire”.
    Il silenzio che le fece eco fu il segno che la piccola era scomparsa. Confusa, riprese a salire. Quelle parole enigmatiche le risuonavano dentro; il fatto di continuare a ripetersele non gliele rendeva meno oscure, così come non le si era fatta più chiara la natura della bambina.
    Non seppe quanto tempo trascorse, prima che il tintinnio della cartucciera di una sentinella contro la canna dello schioppo le annunciasse di essere giunta nei pressi del rifugio della banda, ma la luce filtrava ormai grigia fra le foglie.
    Si fermò dietro un tronco e osservò l'uomo di guardia, seduto con la schiena appoggiata a un masso. “Laretu”, sussurrò.
    Il giovane balzò in piedi. “Chi va là?”
    La ragazza non si scompose dinanzi alla bocca nera dell'arma puntata verso di lei, e uscì allo scoperto, mostrandosi nella penombra incerta. “Devo parlare con Gavino. Subito”.
    Laretu annuì e disparve nel folto dei cespugli.
    “Allora?” chiese la voce di Anzeledda, poco distante, appena il giovane si fu allontanato. “Ci hai pensato?”
    A Nita non sembrò strano che lei l'avesse seguita. O preceduta. “Pensato a cosa? Non so nemmeno di cosa parli!”
    “Vedi”, cominciò la bambina, “esistono creature che non sono umane, anche se ne hanno la parvenza. Sono il mio popolo. Io posso offrire a Gavino l'immortalità, renderlo come noi, ma il prezzo è la vita”.
    La ragazza si spazientì: “Se il prezzo è la vita, non può essere immortale! Spiegati una buona volta!”
    “Ricordati, non apparteniamo alla vita e non apparteniamo alla morte”.
    Una pallida luce si fece strada nella mente di Nita. “Una via di mezzo?”
    “Diciamo di sì”.
    “E se lo rendi come te, lui non varcherà mai più le porte dell'aldilà?”
    La piccola fece un cenno con la mano. “La nostra strada è qui, sulla terra, per tutti i millenni a venire”.
    La ragazza provò un senso di vertigine, all'idea del baratro senza fondo di quei secoli e secoli in cui lei non avrebbe potuto seguire Gavino. Un giorno avrebbe visto, ai piedi del letto, sa Filonzana tendere il filo della sua vita fino a reciderlo, e se ne sarebbe andata da sola. Per tutti i millenni a venire, come aveva detto Anzeledda. D'improvviso comprese cosa aveva inteso la picciocca poco prima, dicendo che sarebbe stata lei a sfuggirgli, quando la parca fosse giunta, e tremò.
    “Come faresti a renderlo come te?” chiese.
    “Lo morderò e berrò il suo sangue”.
    Nita rabbrividì. Aveva detto di non essere una surbile, ma le somigliava molto. D'improvviso, seppe di essere di nuovo sola.
    Sedette a terra e si prese la testa fra le mani. Chi era davvero la bambina? Sapeva dell'esistenza di creature del genere, ma non le aveva mai incontrate. Non aveva mai incontrato nemmeno una surbile, se per questo, ma in quel momento non le interessava. Le interessava solo il fatto che sentiva Gavino sfuggirle, e non capiva perché tutto questo stesse accadendo proprio a loro due. Lei voleva solo vivergli accanto finché le fosse stato dato, non chiedeva altro. Forse il fatto di essere così vicina agli spiriti doveva privarla della gioia sulla terra? Non poteva forse lei aspirarvi come ogni ragazza del mondo? Aveva mille domande, nessuna risposta, e poco tempo per cercarle; l'unica cosa che sapeva con certezza, era che la picciocca aveva cercato la persona sbagliata.
    “Non posso decidere per lui”, disse al silenzio intorno. Anzeledda la ascoltava, ne era sicura. “È a lui che devi chiedere”.
    Le foglie delle querce vibrarono, ma non vi fu altro.
    Quel che Nita non disse ad alta voce fu che avrebbe portato a termine ciò per cui era venuta. Avrebbe tentato comunque di liberarlo da quella scelta assurda, di cui non vedeva il senso, e di restituire a entrambi il futuro che avevano sognato e che quella ragazzina, per chissà quale motivo, era venuta a infrangere. Questo pensiero le riportò un poco di serenità e respirò più libera.
    Di lì a poco, la mole imponente di Ziromine Su Mannu si fece largo fra i cespugli, e la guardia del corpo del capo le fece cenno di seguirlo.
    “Nitedda!” esclamò Gavino appena la vide. La bocca di lui fu sulla sua, senza darle il tempo di parlare.
    “Non sono venuta per questo”, mormorò lei, divincolandosi dal suo abbraccio. “Sei in pericolo. Devi fuggire”.
    Il giovane la valutò qualche attimo. “Sarei in pericolo ovunque, sono ricercato in tutta l'Isola. Almeno qui ci sei tu”.
    “Non mi hai capita! Accadrà qualcosa di brutto”.
    “Io sono sempre all'erta, stai tranquilla”.
    Il sorriso rassicurante del ragazzo non riuscì però a convincerla. Nita sospirò. “Senti. Sono accadute cose che non ti posso dire, ma fidati di me. Allontanati da Sarule per un mese o due. Ti prego. Ne va della tua vita”.
    Gavino scosse il capo. “Io resto qui. Qualunque cosa succeda, io e i miei uomini siamo pronti. Non voglio stare senza di te, questo sia chiaro”. Il suo tono era definitivo.
    Lei abbassò gli occhi per nascondere le lacrime che sentiva salire da sotto le palpebre. “Come vuoi tu, Gavino”.

    Nita era rientrata da poco dall'orto, quella stessa mattina, dopo essere discesa dalla montagna. Il peso che aveva dentro non si era attenuato per nulla, mentre entrava in casa, posava le verdure sul tavolo e cominciava a impastare il pane.
    Il campanile aveva battuto mezzogiorno da un pezzo, ma la nonna non c'era. Strano. Si rese conto, ripensandoci, che anche le strade erano deserte e, quando lei era passata poco prima, le donne affacciate si erano ritirate dalle finestre e avevano chiuso le imposte.
    Udì un belato proveniente dall'ovile. Bibina era già qui? Per quale motivo? Eppure aveva incrociato Isteneddu che saliva con il piccolo gregge, compresa la capretta, tornando a casa. Perché l'aveva riportata così presto?
    L'orto era distante dal paese, poteva darsi che fosse accaduto qualcosa e che lei non si fosse accorta di nulla.
    Aprì la porticina. Bibina era accucciata a terra, ruminava e la guardava con gli occhioni spalancati. Belò diverse volte, e Nita sentì campane a morto nella testa. Rientrò in cucina e riprese a impastare, cercando di dominarsi.
    Forse la bestiola non aveva capito bene.
    Fu allora che un'ombra oscurò la luce del sole che entrava dalla porta. Annica Delogu le si era parata davanti, nelle sue vesti a lutto. Alle spalle della vecchia stava Ziromine Su Mannu, con il volto e le mani insanguinate e un odore pungente di polvere da sparo. La donna la guardò, porgendole su mazzolu. “Tocca a te”, disse.
    E a Nita l'anima si gelò dentro.
    Si pulì le mani sul grembiule, con gesti meccanici, rigidi, e seguì la nonna che, in silenzio,
    apriva il cassettone ai piedi del letto.
    Nita si lasciò legare sulla schiena i nastri del corpetto a ricami scarlatti dell'abito da sposa e acconciare le maniche ampie della camicia. La donna le sistemò le pieghe delle gonne di velluto, le dispose sul capo il fazzoletto trapunto d'oro.
    Lei pensava al breve racconto di Bibina, ai pastorelli che erano scesi di corsa in paese, gridando che le Guardie avevano stanato la banda di Gavino Sedda e che nella sughereta si sparava, e agli uomini che avevano imbracciato i fucili ed erano corsi su per i sentieri a dare manforte ai briganti.
    Su Mannu le diede il braccio, la condusse fino all'asinello prestato da tziu Efix e l'aiutò a montare in sella.
    Dalle due ali di gente che costeggiavano la strada verso il bosco si levò una voce, poi altre vi si unirono, una dopo l'altra, e per le vie di Sarule risuonò il canto funebre che accompagnava lei, Nita Murru, alle sue nozze.
    E quel canto risalì a ondate che si rincorrevano, su per il sentiero, nel sussurro delle foglie dei sugheri e nello sciabordare del torrente, nelle fughe delle serpi e nel frullo rapido degli uccelli, ripetuto di curva in curva e di pietra in pietra fino alla radura dove giaceva Gavino Sedda, rantolante, con una salva di carabina incastonata nel petto.
    Allora si fece silenzio, mentre la donna del bandito scendeva di sella; solo il respiro aspro del ragazzo rimase, nel crocicchio di uomini che si erano fatti intorno.
    Le gambe fatte di granito dentro la gonna nuziale, lei mosse quei pochi passi come in sogno e gli fu accanto.
    In quel momento videro Anzeledda seduta lì accanto, che li interrogava con lo sguardo, i denti aguzzi scoperti in un ghigno grottesco, bramoso. Nita seppe, con una certezza assoluta, che la bambina aveva parlato al suo fidanzato, là, sotto le querce nella penombra della foresta, quando lei era tornata in paese, e che gli aveva fatto la sua offerta. Toccava a lui scegliere, per dirimere la contesa fra la vita e la morte. Gavino, le spalle appoggiate a un masso, la fissò a lungo; infine scosse il capo e si volse verso la sua donna.
    “È ora”, gorgogliò con una voce che non gli apparteneva più. “Ti aspetterò oltre la soglia”.
    La nuova accabadora afferrò su mazzolu fra le pieghe delle sottane e subito avvertì le dita gelide del giovane che le stringevano il polso. Lui le guidò la mano fino alla propria nuca e annuì.
    “Baciami, Nitedda”.
    L'attirò a sé, le cercò la bocca. E il colpo secco del martello gli spense il respiro.





























    SPOILER (click to view)
    prima versione
    ragazzi abbiate pazienza ma ho dovuto riformattare tutto 2 volte per un incidente di percorso occorso alla presa del pc che ha avuto un litigio con il gatto e con mio figlio, quindi spero di non aver perso nessun corsivo per strada, e, soprattutto, spero che la mia ultima pazzia piaccia

    buona lettura
    :-)

    S'accabadora

    I
    Nita Murru sedeva accanto alla ziminera, il camino in pietra, e guardava sua nonna Annica Delogu, che, in piedi dinanzi a lei, gli occhi antichi persi lontano, si abbottonava il corpetto nero.
    La fiamma crepitava, tracciando guizzi di luce rossastra sulle pareti fuligginose.
    “Basilio Mulas sta arrivando”, disse la vecchia. “È per suo padre”. Si legò intorno alla vita il grembiule nero e ne tese uno identico alla nipote.
    La ragazza lo indossò sull'abbigliamento a lutto, fece cenno di sì con il capo e spostò una pietra alla base del caminetto, rivelando un piccolo incavo. Prese l'oggetto che vi era riposto e svolse piano il panno che lo proteggeva. Il passo lento di quattro zoccoli risuonò fuori dalla porta: Nita posò la tela sul tavolo, carezzò il manico lucido del martello di legno d'olivo che aveva tratto dal nascondiglio e lo porse ad Annica. La superficie de su mazzolu, levigata da secoli d'uso, luccicò, mentre la donna lo riponeva fra le sottane. Pochi istanti dopo si udì bussare.
    Quando Nita aprì, Basilio Mulas, sulla soglia, accennò all'asinello alle sue spalle.
    “È ora?” chiese lei.
    “È ora”.
    Nita si strinse nello scialle, chiuse la porta e seguì la nonna.

    Stelle azzurre e grilli dalla voce dorata nella notte di fine estate. Basilio non parlava; il passo cadenzato dell'asino dilatava il silenzio cristallino. Il tragitto fino a Orani si compì senza che i tre dicessero nulla. Così come Annica non disse nulla quando l'uomo l'aiutò a scendere di sella, e neppure quando le aprì l'uscio di casa propria.
    S'accabadora entrò: “Deu ci sia”, salutò.
    Nella cucina illuminata solo dalla bassa fiamma nella ziminera, le donne chinarono appena il capo.
    Deu ci sia, tz'a Annica Delogu”, mormorò Mariedda Mulas, la più anziana. Accennò verso una porta chiusa, poi si volse e uscì, seguita dalle altre e da Basilio.
    La nonna, rimasta sola con la nipote, trasse dal corpetto un velo nero, lo dispose in modo che le coprisse il volto, imitata dalla ragazza, e varcò con lei la soglia che Mariedda aveva indicato.
    Era una camera da letto. In un angolo, un piccolo cero ardeva sotto una statuina della Vergine; il crocefisso campeggiava al di sopra della testata del letto e diverse immagini di santi erano appese alle pareti.
    Fra le lenzuola ricamate, con il naso affilato e la barba di giorni, la schiena appoggiata a una pila di cuscini, il vecchio Bissente Mulas combatteva un'agonia che durava da giorni. Nella stanza si avvertiva l'odore familiare della morte.
    Nita guardò il moribondo e poi la nonna.
    “Non può partire”, disse Annica, indicando il petto di Bissente, su cui pendevano sas pungas; poi il dito scarno puntò sulle raffigurazioni sacre, una dopo l'altra.
    S'accabadora si avvicinò al letto: le palpebre dell'uomo erano socchiuse sulle cornee gialle, oltre le labbra si intravedeva la crosta nera che era diventata la sua lingua. Gli sfilò dal collo sas pungas, gli amuleti che ancoravano l'anima al corpo disfatto, e gli tracciò un segno di croce in fronte, mormorando formule liberatorie; ma il rantolare del morente, intervallato di lunghe pause, le disse che il filo esiguo di quella vita non era pronto a spezzarsi. A un gesto della donna, Nita si protese al di sopra della testa di lui e staccò la croce dal muro. La portò in cucina e la depose con cura sul tavolo. Prima di allontanarsi baciò i piedi del Cristo.
    Quando rientrò, il respiro faticoso non era scemato ancora del tutto, sebbene si fosse fatto più fievole.
    Annica spense il lumino votivo, prese delicatamente fra le mani la statuetta di Maria e andò a posarla accanto alla croce, recitando litanie.
    Il movimento del petto di Bissente Mulas si fece quasi impercettibile.
    Le due donne staccarono dalle pareti le immagini, una per una; in una muta processione le portarono fuori dalla camera, accompagnate dal gorgogliare sempre meno frequente che proveniva dal letto. Quando infine la stanza fu del tutto spoglia, la ragazza implorò: “Liberatelo, adesso, iàja mia”.
    S'accabadora carezzò il manico de su mazzolu nella tasca della gonna e si avvicinò a Bissente Mulas.

    Il viaggio di ritorno verso Sarule si svolse in silenzio come quello di andata. S'impuddile, la prima livida luce del giorno, stagliava il contorno dei monti su un mondo che pareva aver smarrito le ombre, in quell'ora in cui l'aria si riempiva delle mille voci alate del risveglio degli uccelli. Annica Delogu cavalcava con le mani raccolte in grembo, mentre Basilio Mulas conduceva l'asinello per la briglia; di tanto in tanto, Nita, che camminava accanto, coglieva lo sguardo grato dell'uomo fisso sul volto della vecchia. Null'altro, fino alla casa delle due donne.
    Fu allora che la videro.
    Seduta sulla pietra della soglia, una bambina di quattro o cinque anni seguiva attenta i loro movimenti.
    “Oooh”, fece Basilio. L'asino, obbediente al segnale del padrone, si arrestò. “Oh picciocchedda! Sei scappata di casa?”
    La bimba scosse il capo e indicò Nita. I tre adulti si scambiarono un'occhiata interrogativa.
    “Hai bisogno di lei?” domandò stupita la donna.
    Lo sguardo intelligente nel visetto rigato di muco e fuliggine si accese.
    “Per che cosa?” chiese ancora la vecchia.
    La manina si alzò di nuovo, con l'indice teso, ma la bimba non aprì bocca.
    “Torna a casa”, ordinò allora Basilio. “Tua madre ti starà cercando”.
    Nessuna risposta.
    “Basta così!” L'uomo cominciava a innervosirsi. “Ora te ne torni a casa tua! Quella povera donna di tua madre sarà disperata”.
    “Lasciate, Basilio”, disse però Annica. “La riaccompagnerò io più tardi, so dove abita. Andate pure”.
    “Sta bene, allora. Salute a voi, tz'a Annica Delogu”.
    “Salute, Basilio Mulas”.
    Le donne condussero la bambina in casa e Nita richiuse la porta con cura, mentre l'uomo si allontanava.
    “Chi sei?” chiese la nonna appena furono sole. “Sei scappata di casa?”
    La piccola fece segno di no. “Non ho casa”.
    “Ascoltami bene”, riprese l'altra. “Ho detto di conoscerti solo per farlo andare via, ma adesso devo riportarti da tua madre, perciò basta giocare e dimmi dove stai”.
    “Io sto dappertutto e da nessuna parte”, affermò la vocina tranquilla, come se fosse la cosa più naturale al mondo.
    “Ho detto basta giocare! Non farmi innervosire. Tua madre sarà disperata, Basilio Mulas aveva ragione”.
    “Non ho madre”.
    Nita rabbrividì. Un'orfana fuggita da qualche orfanotrofio, ecco qui. Guardò i piedini luridi, dalla pianta callosa, le gambe sottili che sparivano nella gonna lacera, e avvertì una stretta al cuore. Quanta strada aveva fatto, minuta com'era, quella bambina?
    “Come ti chiami?” chiese la vecchia. La sua voce si era addolcita, adesso.
    “Potete chiamarmi Anzeledda”.
    Un'angioletta, davvero, venuta da chissà dove, pensò la ragazza, anche se i suoi occhi erano tutt'altro che infantili; ma forse era normale, nelle sue condizioni. Chissà quanto era dovuta crescere in fretta, nell'istituto da cui era scappata. Purché non piombasse in paese una pattuglia di Guardie a rincorrerla, per riportarla indietro: ma era poco probabile. Di quei figli di nessuno, non un'anima si preoccupava; uno più, uno meno, non faceva differenza, per gli invasori spagnoli.
    “Aspetta, qui, Anzeledda”, disse Annica.
    Dalla cucina passò nel piccolo ovile adiacente: la capra la fissò, ruminando interrogativa con la bocca sghemba. “Su, Bibina, mi serve un po' di latte. C'è una picciocchedda affamata di là”. La bestiola rispose con un belato sommesso. “Grazie, Bibina”, sorrise lei. Le ombre di tanti anni di fatiche e dolori svaporarono nel lampo dei denti ancora bianchissimi e nel guizzo degli occhi neri fra le rughe.
    Il sole cominciava appena a sporgersi oltre le montagne, ma Annica non aveva bisogno di molta luce: era sufficiente la consuetudine di quei gesti ripetuti da che aveva memoria. Prese lo sgabello e il secchio, sedette accanto a Bibina e cominciò a mungerla.
    Quando il secchiello fu colmo si alzò e tornò in cucina.
    “Non posso bere il latte”, affermò però la bambina, davanti alla ciotola colma. Nonna e nipote si guardarono perplesse. “Comunque, adesso che ho visto dove state, me ne torno da dove sono venuta”.
    Allora l'aveva, una casa. Era stato tutto un gioco, per lei.
    Annica annuì, mentre Anzeledda imboccava la porta senza salutare nessuno.
    Nita riempì un'altra tazza e la porse alla nonna, poi sedette al tavolo e bevve a sua volta.
    “Che ne pensate?” chiese.
    Annica non rispose subito. Il suo volto era impenetrabile.
    “La picciocca non mi piace. Ha qualcosa di strano”, sussurrò infine.
    “Cosa intendete?”
    “Non so spiegarlo, Nitedda, ma non parlava come una picciocca della sua età, lo hai visto”.
    La ragazza rabbrividì. “Ho visto, infatti. Perché indicava me, prima?”
    “Non si può sapere tutto”. Annica scosse il capo avvolto nel fazzoletto nero dalle cocche rimboccate sotto il mento, si drizzò sulle spalle e le piantò gli occhi in faccia. “Fra poco dovrai cominciare a farlo anche tu”.
    Il repentino cambio di argomento non turbò Nita. Era abituata al modo di esprimersi della nonna, e seguiva in qualche modo misterioso il filo dei suoi pensieri da sempre. Comprese a cosa si riferiva, e chinò la testa. “Quando vorrete, iàja mia”.
    Nita era cresciuta con la nonna Annica, che era accabadora e levatrice; ancora bambina, aveva imparato a comprendere il motivo per cui venivano a chiamarla di notte dai paesi vicini. Quando indossava abiti chiari, andava ad aiutare una vita a vedere la luce. Ma quando si preparava lenta, con le gonne, la camicia e il corpetto neri, quando spostava la pietra alla base della ziminera, svolgeva su mazzolu dalle sue fasce e lo nascondeva negli strati delle sottane, ripiegava il velo nero in seno e si avviava mormorando formule propiziatorie, Nita sapeva che si recava a spegnere un'agonia durata troppo a lungo.
    Appena era stata più grandicella, Annica l'aveva iniziata all'arte di far partorire le donne e gli animali. Le aveva insegnato formule magiche per allontanare gli spiriti che potevano arrestare il travaglio o fare del male al nascituro, le aveva spiegato come confezionare pungas e rizettas di protezione per i neonati, come cucinare la seconda per favorire la risalita del latte nelle puerpere, e come tenere lontano dalle culle le surbiles, le temibili donne vampiro che avrebbero ucciso i piccoli succhiando loro il sangue.
    Per l'altro lato della sua scienza, invece, quello ancestrale, quello che la conduceva nei territori senza tempo dove gli spiriti primordiali vegliavano sulla soglia della morte, per quello aveva atteso i suoi diciotto anni.
    Allora le aveva dischiuso poco alla volta un mondo fatto di parole segrete e gesti atavici, un universo in cui Nita si era immersa, reverente e ammutolita, valicando confini che a nessun altro essere umano era dato varcare; ma la vecchia aveva atteso ancora, per portarla con sé quando doveva accompagnare un moribondo oltre quel limitare. Nita aveva studiato e ripetuto le formule e i riti seduta al telaio nella cucina fumosa, incrociando i licci battenti, con la spola che andava e veniva al ritmo delle litanie che si snodavano infinite nella sua anima in attesa.
    Infine Annica aveva cominciato a mostrarle come si usava su mazzolu, vibrando decisa, sul capo dei morenti, un singolo colpo alla base del cranio. Ormai erano trascorsi alcuni anni. Fra poco sarebbe toccato a lei impugnare quel manico liscio, levigato da generazioni di mani femminili che si erano avvicendate nel compito antico, per liberare anime incapaci di sciogliere i legami che le incatenavano a corpi sfiniti.
    La ragazza aveva compreso immediatamente le parole della vecchia; sapeva di essere pronta da tempo.

    II
    Era s'immurrughinada, quell'ora del giorno in cui il sole si abbassava oltre la giogaia dei monti e le rondini si gettavano in picchiata, in un cielo ancora azzurro infiocchettato di nuvole dorate. Presto gli uccelli si sarebbero radunati per il lungo volo che li avrebbe portati a svernare al di là del mare, in una terra calda, lontana dal brullo orizzonte di Sarule.
    Nita e Annica sedevano l'una accanto all'altra su due scranni sulla soglia, presso la porta spalancata. Era piacevole starsene fuori, sebbene le foglie delle viti andassero già sfumando nell'oro; i pomeriggi erano ancora caldi, benché le mattine e le notti cominciassero a farsi fresche. Con il calare dell'oscurità, da ogni casa saliva fumo dai camini e, per le vie, si respirava il profumo della legna arsa nelle zimineras.
    Le due donne ricamavano, interrompendosi solo per rispondere ai saluti dei passanti che rientravano dal vespro e scambiare con loro qualche parola.
    Sopraggiungeva in quel momento Basilio Mulas con un asino alla briglia; gli uomini che si godevano l'ultimo sole sulla piazza seguirono in silenzio il suo tragitto. Tutti sapevano dove andava. Basilio si fermò davanti alla casetta. “Salute, tz'a Annica Delogu”, disse. “Tz'a Nita Murru”, aggiunse, piegando appena il capo. Il tributo di quel titolo rispettoso spettava a Nita, sebbene più giovane di Basilio, per via del suo apprendistato come accabadora. La ragazza lo accettò con semplicità, come si accetta la pioggia che cade.
    “Salute a voi, Basilio Mulas”, rispose.
    Lui fece un cenno con la mano, indicando il basto carico.
    “Venite dentro”, invitò la nonna, alzandosi dalla seggiola.
    L'uomo portò in cucina due sacchi di farina, un vaso di miele, un orcio di olio e uno di vino, senza pronunciare una sola parola. Quando ebbe finito uscì e montò in sella.
    Annica fece un cenno con la mano. “Portate i miei saluti a tz'a Mariedda Mulas vostra madre, Basilio”.
    “Sarà fatto, tz'a Annica Delogu”.
    Basilio si allontanò senza aggiungere altro, e loro due cominciarono a riporre le provviste.
    “Basilio ti ha portato la farina perché voi avete fatto una cosa, tz'a Annica, non è vero?”
    Nita sobbalzò, si arrestò di botto, si drizzò sulle reni e si volse, al suono di quella voce. Anzeledda, dalla soglia, le osservava, la testa reclinata sulla spalla. C'era qualcosa di inquietante nei dentini aguzzi che si intuivano, più che vedersi, sotto il suo mezzo sorriso.
    Denti da surbile. Il pensiero passò come un fulmine nella mente di Nita.
    “Come lo sai?” chiese la vecchia. Non disse nulla riguardo alla sua improvvisa ricomparsa.
    “Io so tante cose”.
    La ragazza avvertì, alla bocca dello stomaco, una sensazione come un battito d'ali.
    “Cosa vuoi dire?” continuò la nonna senza scomporsi; ma la nipote comprese, dal lievissimo tremito della voce, che era turbata quanto lei.
    “Questa roba è per il padre di quell'uomo”.
    Anzeledda aveva parlato con naturalezza, come avesse detto di aver trovato due uova nel pollaio.
    S'accabadora tentò di dominarsi. “Guarda la minestra, Nitedda”, intimò. “Sta bruciando”. Si volse di nuovo alla bambina, ma questa era sparita, silenziosa come era venuta.
    Nessuna delle due donne affrontò più l'argomento fino a dopo cena; gli sguardi che si scambiavano erano però eloquenti, mentre mangiavano e rassettavano la cucina.
    Quando tutto fu in ordine, Nita si strinse nello scialle. Le braci brillavano nella ziminera; ravvivò la fiamma con rametti secchi e vi pose un ceppo.
    Iàja mia”.
    “Nitedda”, rispose subito lei.
    “Quanti anni credete che abbia la picciocchedda?”
    La vecchia alzò le mani, mostrando le palme in un gesto di resa. “Non lo so”.
    “Mi fa paura, iàja”.
    Annica la fissò: “Anche a me”.
    Il fatto che qualcuno potesse spaventare s'accabadora era del tutto inusitato. Lei comandava agli spiriti, e nessun essere umano poteva impensierirla.
    Nita ne fu sgomenta. “Che cosa vuole da noi?”
    “Non so neppure questo, Nitedda mia: forse ce lo dirà solo il tempo che passa. Aspettiamo e vediamo”. Le carezzò i capelli. “Vai a dormire adesso, picciocca. È tardi”.
    Nita si alzò, baciò la nonna sulla guancia e ubbidì, ma non riuscì a prendere sonno. Ascoltò il campanile battere inesorabile le ore e le mezz'ore fino a molto tardi.

    L'indomani mattina, Nita si recò a mungere. Doveva sbrigarsi, aveva dormito più a lungo del solito, stremata dai pensieri. Capiva dalla luce che s'impuddile era passata da un pezzo: di lì a poco sarebbe passato il figlio di tziu Lussurzu Piras per prendere Bibina e condurla al pascolo, insieme alle sue capre.
    “Gavino è condannato”.
    Il sobbalzo fu così violento che il secchiello del latte si rovesciò, ma Nita non vi badò. Anzeledda le era sopraggiunta alle spalle, silenziosa come la sera prima.
    “Che... che hai detto?”
    “Gavino. È condannato”.
    L'ovile vorticò attorno alla donna. La capretta, che un attimo prima era fuggita con un balzo allarmato, le tornò accanto e si pose fra loro, le mandibole ferme e gli occhi puntati sulla bambina. “Lascia, Bibina. È tutto a posto”, mormorò Nita, carezzandole la testa ispida. La bestiola belò e non si mosse.
    “Cosa stai dicendo, Anzeledda?” boccheggiò la ragazza.
    Il fischio acuto del pastorello che svoltava l'angolo la distolse.
    “Salute, tz'a Nita!” Tutto rideva, in Isteneddu Piras. La bocca, la faccia, le mani strette sul bastone, i capelli incolti come un cespuglio di more.
    “Salute, Isteneddu”, rispose lei distratta. Spinse la capra recalcitrante. “Tranquilla, Bibina, vai. Non mi succede niente”. La bestia guardò la padrona ed emise due o tre belati. “Vai, ti dico”
    Il ragazzetto assisteva in silenzio a quello strano dialogo. Era abituato, sapeva che s'accabadora e sua nipote parlavano con le bestie e con le piante.
    Le comari dicevano persino che comandavano all'acqua e alla terra. Nelle sere di gennaio, quando sa Mama 'e su Ventu ululava per le strade battendo furiosa alle porte e alle finestre, e i bambini piccoli si rintanavano fra le sottane delle madri, le donne anziane abbassavano la voce. Bisbigliavano che talvolta s'accabadora e Nita si inoltravano da sole nei territori dove le ombre vanno vagando senza pace, e che sapevano legare i vivi e i morti perché erano scese nell'inferno ed erano risalite. Portavano loro un rispetto austero perché sapevano cose che nessuno conosceva, guardavano il buio negli occhi e la tramontana non spegneva il loro fuoco.
    Isteneddu non credeva a tutte queste chiacchiere, ma che Nita parlava con Bibina lo aveva visto lui stesso più di una volta; così adesso, seduto a terra, attese con pazienza che la bestiola si lasciasse convincere e, quando fu possibile, la condusse con le altre.
    Il fischio del ragazzino, il segnale che il gregge conosceva e seguiva, si perse per le viuzze di Sarule, dileguando su, su, verso la montagna, fra scampanii, belati e scalpicciare di zoccoli.
    Nita raccolse il secchio. “Come sai di Gavino?”
    “Io so di lui come so di tutto il resto”.
    La ragazza decise di accettare la sfida. “Lo so che sulla sua testa c'è una taglia. Credevi che non lo sapessi?”
    “Non intendevo dire che è condannato dagli uomini. Gavino, presto, morirà”.
    Nita si sentì mancare.
    Per qualche motivo, aveva compreso che era vero. Aprì la bocca ma non ne uscì alcun suono. Crollò sullo sgabello, le mani in grembo, tentando di respirare, ma la morsa che le aveva afferrato il petto era serrata come la mano di tziu Antiogu, il fabbro, sul martello che colpiva i ferri roventi sull'incudine.
    Rivisse in un lampo quel giorno di primo marzo in cui, al mercato, nel riflesso trasparente dei mandorli fioriti attorno alla piazza, aveva per la prima volta visto Gavino Sedda.
    Il giovane bandito, ricercato in tutta la Sardegna, le era parso fulgido come un eroe delle leggende che aveva ascoltato bambina negli inverni attorno al fuoco, bello come un sole oscuro, con i suoi occhi ardenti e il suo passo sfrontato. Le donne gli offrivano pani, gli uomini gli porgevano caciotte, e i ragazzi della banda accettavano quei doni con una gratitudine scarna nei netti cenni del capo. Ma lui no, lui non prendeva nulla dalle mani della gente, limitandosi a indicare i suoi compagni, fra cui spiccava la sua guardia del corpo, il monumentale Ziromine Su Mannu.
    Per Nita il tempo si era fermato, quando Gavino Sedda, passandole accanto, l'aveva fissata per un istante eterno, e il cuore aveva perso un battito quando il giovane aveva chinato la testa in segno di saluto e aveva sorriso.
    Da allora, spesso lui si era fatto vedere a Sarule, vuoi per fare provviste, vuoi per procurarsi una giubba nuova, vuoi per altri motivi. Tutti sapevano dove si nascondeva la banda, ma a nessuno sarebbe mai venuto in mente di avvisare le Guardie. La ragazza si faceva sempre trovare sulla sua strada, e Ziromine Su Mannu sorvegliava che nessuno si avvicinasse ai due giovani, durante i loro convegni fugaci. Ben presto tutti seppero che la nipote di Annica Delogu avrebbe avuto uno sposo alla macchia.
    Nita aveva preso a ricamare un corredo che, sapeva bene, non avrebbe mai potuto usare, perché avrebbe avuto un letto di paglia e un tetto di foglie, per la sua prima notte di nozze e per tutte le altre a venire. Lo sapeva ma non le importava. Ricamava e tesseva come ogni ragazza della sua età, cantando, con le tovaglie e le lenzuola fra le mani, presso la frescura del pozzo nel cortile, nei pomeriggi d'estate, quando il profumo del rosmarino si faceva più intenso. Allora lei si fermava, e fissava il vuoto con un sorriso. Presto, molto presto, il bel Gavino avrebbe deposto il fucile accanto a sé, l'avrebbe presa fra le braccia e l'avrebbe fatta sua sposa.
    E invece, adesso, questa picciocca parlava di cose senza senso.
    “Il confine fra la vita, la morte e l'amore si farà presto confuso”, stava dicendo Anzeledda. “Sono stata mandata qui per condurre con me coloro che vorranno seguirmi”. La bambina parve sogghignare, appena un accenno di movimento degli angoli della bocca, che scopriva i denti affilati posati sul labbro inferiore, gli occhi gelidi. “Io posso salvarlo, se vuoi”.
    “Ma cosa...” balbettò l'altra. Abbassò lo sguardo sulle mani unite in grembo e, quando risollevò gli occhi, la piccola non c'era più.
    Si alzò barcollando e rientrò in casa appoggiandosi, pallida, allo stipite della porta. Le pareva di camminare sospesa da terra, e guardava senza vederlo l'ambiente noto della casetta.
    Annica le corse incontro e la sorresse. “Cosa succede, Nitedda? Stai male?”
    Nita l'abbracciò stretta e scoppiò a piangere.
    La vecchia la lasciò sfogare; si limitò a carezzarla sulla nuca e sulla schiena, rimandando le domande a più tardi. “Nitedda, Nitedda mia”, sussurrava, come quando era piccola, attendendo che le lacrime scemassero. Quando la ragazza si fu calmata, la fece sedere accanto a sé, sulla pietra della ziminera, e le tenne la mano mentre lei le raccontava tutto.
    “Non capisco”, disse la nonna, scrollando il capo. “Interrogherò gli spiriti, stanotte”, concluse dopo un lungo silenzio.
    La giornata trascorse senza altri avvenimenti e, quando venne la sera, Annica fece un cenno alla nipote.
    Nita si ritirò nella sua stanza. Sapeva che la nonna doveva restare sola: era sempre necessario rimanere sole, per questo; e se lei stessa era in grado di evocare gli esseri senza tempo che governavano l'andare degli uomini sulla terra, questa volta toccava a s'accabadora.
    Si coricò, scivolando ben presto nel sonno. Sognò Gavino, con il rosario avvolto attorno alla canna lucida dello schioppo e sas pungas al collo. Non diceva nulla; la guardava, poi si volgeva verso qualcuno alle sue spalle.
    Anzeledda.
    La bambina gli tendeva la mano e indicava un punto lontano. Allora lui tornava a voltarsi verso la fidanzata, come in attesa, ma lei non capiva cosa dovesse fare.
    Si svegliò con un peso intollerabile al petto e il respiro tronco, gli occhi tristi di Gavino confitti nell'anima come una domanda senza risposta.

    “Cosa vi hanno detto gli spiriti, iàja mia?”
    Il campanile aveva battuto da poco tre colpi, ma Nita non era riuscita a pazientare fino al mattino e aveva bussato alla porta della nonna appena aveva udito che si preparava per riposare qualche ora.
    La vecchia sembrava perplessa. “Che la picciocchedda è qui per dirimere una contesa fra la vita e la morte”.
    Nita vagò con gli occhi smarriti sul volto di Annica. I capelli radi e bianchi, legati in una crocchia stretta sulla nuca, le rughe profonde, rese più marcate dalla luce guizzante della candela, parlavano assai più delle sue parole. “Lo sai che ciò che dicono gli spiriti va sempre interpretato, Nitedda. Dovremo pensarci insieme, domani, per capire cosa intendevano”. Sospirò. “Ora sono molto stanca, ho bisogno di dormire un poco”.
    “Sì, iàja mia, perdonatemi se vi ho disturbata”. La ragazza la baciò sulla guancia. “Non sapevo resistere”.
    “Lo so”, sorrise la vecchia. “Riposa anche tu, picciocca”.
    Nita annuì, ma non tornò nella sua camera. Andò in cucina e sedette sulla pietra della ziminera. Il sangue scorreva ghiacciato nelle sue vene, come in dicembre il torrente presso i lavatoi. Non riusciva a liberarsi della sensazione che il sogno le aveva lasciato, e neppure dal turbamento provocato dal responso delle creature dell'invisibile.
    Infine decise.
    Silenziosa, uscì in strada e chiuse la porta alle sue spalle.
    Per le stradine deserte di Sarule, il suo passo echeggiava appena. La ragazza pareva solo sfiorare il selciato, leggera e rapida. Ben presto si lasciò alle spalle le ultime case e la notte l'avvolse.
    Il frusciare delle fronde nel soffio lieve fu come un saluto, a cui lei rispose respirando profondamente, immergendosi in quei suoni e in quei profumi noti, fra lo scricchiolare dei rami e i richiami di un uccello notturno nel folto della foresta, mentre lei imboccava il sentiero verso la sughereta.
    Salendo, il terreno si fece più aspro, irto di pietre sporgenti, ma lei camminava sicura, guidata, più che dalla vista, da qualcosa di interiore, un istinto che faceva più acuti tutti i suoi sensi.
    Quando si inoltrò fra le navate solenni delle querce dai tronchi segnati di larghi squarci rossi, avvertì il silenzio divenire denso. La voce del vento tacque.
    Fu allora che divenne consapevole di una presenza accanto a lei.
    Prima di voltarsi, sapeva già di chi si trattava. “Che vuoi?” chiese.
    “È inutile che lo avvisi”, rispose Anzeledda. “Ho detto che è condannato. Andarsene non gli servirà a nulla: solo io posso salvarlo”.
    Nita si fermò e la fissò. Nella luce incerta della luna fra le foglie fitte, il viso della bambina appariva lattescente, soffuso di un chiarore spettrale. “Chi sei?” domandò Nita. “Sei una surbile?”
    La piccola scoppiò a ridere. “Una surbile! Che idea!”
    “E allora?”
    “Sono molto più antica di una surbile. Io esistevo quando le fondamenta di questa terra venivano gettate”.
    La ragazza comprese che stava dicendo la verità. “Sei uno spirito, allora”.
    “Non del tutto”.
    Un misto di impazienza e timore si fece strada nella mente dell'altra. “Ascolta, dimmi quello che mi devi dire. Io da Gavino ci andrò lo stesso, stanotte, perciò parla e non farmi perdere tempo”.
    Anzeledda la guardò. “Io vengo dai territori di confine: non appartengo alla vita, non appartengo alla morte, non appartengo al sole; solo il crepuscolo e l'alba mi sono dati da sempre, per camminare su questa terra”.
    L'inaspettata solennità che aveva assunto la sua voce sconcertò Nita. Tuttavia si fece coraggio. “Cosa vuoi da Gavino?” mormorò.
    “Renderlo uno del mio popolo. Sono stata mandata per questo”.
    Le parole della nonna presero forma da sole nella mente della ragazza. È qui per dirimere una contesa fra la vita e la morte.
    “Me lo porterai via? È questo il prezzo che chiedi per salvarlo?” La voce le tremò suo malgrado.
    D'improvviso, la bambina fu di nuovo solo una bambina. “No. Te lo lascerò. Ma sono stata mandata per renderlo come me: sei tu che gli sfuggirai, quando sa Filonzana ti sarà accanto”.
    “Non comprendo”.
    “Come la mia gente, non apparterrà alla vita e non apparterrà alla morte, avrà l'alba e il tramonto per guardare il sole e sarà giovane per sempre”.
    Nita scosse il capo: “Continuo a non capire”.
    Il silenzio che le fece eco fu il segno che la piccola era scomparsa. Confusa, riprese a salire. Quelle parole enigmatiche le risuonavano dentro; il fatto di continuare a ripetersele non gliele rendeva meno oscure, così come non le si era fatta più chiara la natura della bambina.
    Non seppe quanto tempo trascorse, prima che il tintinnio della cartucciera di una sentinella contro la canna dello schioppo le annunciasse di essere giunta nei pressi del rifugio della banda, ma la luce de s'impuddile filtrava ormai grigia fra le foglie.
    Si fermò dietro un tronco e osservò l'uomo di guardia, seduto con la schiena appoggiata a un masso. “Laretu”, sussurrò.
    Il giovane balzò in piedi. “Chi va là?”
    La ragazza non si scompose dinanzi alla bocca nera dell'arma puntata verso di lei, e uscì allo scoperto, mostrandosi nella penombra incerta. “Devo parlare con Gavino. Subito”.
    Laretu annuì e disparve nel folto dei cespugli.
    “Allora?” chiese la voce di Anzeledda, poco distante, appena il giovane si fu allontanato. “Ci hai pensato?”
    A Nita non sembrò strano che lei l'avesse seguita. O preceduta. “Pensato a cosa? Non so nemmeno di cosa parli!”
    “Vedi”, cominciò la bambina, “esistono creature che non sono umane, anche se ne hanno la parvenza. Sono il mio popolo. Io posso offrire a Gavino l'immortalità, renderlo come noi, ma il prezzo è la vita”.
    La ragazza si spazientì: “Se il prezzo è la vita, non può essere immortale! Spiegati una buona volta!”
    “Ricordati, non apparteniamo alla vita e non apparteniamo alla morte”.
    Una pallida luce si fece strada nella mente di Nita. “Una via di mezzo?”
    “Diciamo di sì”.
    “E se lo rendi come te, lui non varcherà mai più le porte dell'aldilà?”
    La piccola fece un cenno con la mano. “La nostra strada è qui, sulla terra, per tutti i millenni a venire”.
    La ragazza provò un senso di vertigine, all'idea del baratro senza fondo di quei secoli e secoli in cui lei non avrebbe potuto seguire Gavino. Un giorno avrebbe visto, ai piedi del letto, sa Filonzana tendere il filo della sua vita fino a reciderlo, e se ne sarebbe andata da sola. Per tutti i millenni a venire, come aveva detto Anzeledda. D'improvviso comprese cosa aveva inteso la picciocca poco prima, dicendo che sarebbe stata lei a sfuggirgli, quando la parca fosse giunta, e tremò.
    “Come faresti a renderlo come te?” chiese.
    “Lo morderò e berrò il suo sangue”.
    Nita rabbrividì. Aveva detto di non essere una surbile, ma le somigliava molto. D'improvviso, seppe di essere di nuovo sola.
    Di lì a poco, la mole imponente di Ziromine Su Mannu si fece largo fra i cespugli, e la guardia del corpo del capo le fece cenno di seguirlo.
    “Nitedda!” esclamò Gavino appena la vide. La bocca di lui fu sulla sua, senza darle il tempo di parlare.
    “Non sono venuta per questo”, mormorò lei, divincolandosi dal suo abbraccio. “Sei in pericolo. Devi fuggire”.
    Il giovane la valutò qualche attimo. “Sarei in pericolo ovunque, sono ricercato in tutta l'Isola. Almeno qui ci sei tu”.
    “Non mi hai capita! Accadrà qualcosa di brutto”.
    “Io sono sempre all'erta, stai tranquilla”.
    Il sorriso rassicurante del ragazzo non riuscì però a convincerla. Nita sospirò. “Senti. Sono accadute cose che non ti posso dire, ma fidati di me. Allontanati da Sarule per un mese o due. Ti prego. Ne va della tua vita”.
    Gavino scosse il capo. “Io resto qui. Qualunque cosa succeda, io e i miei uomini siamo pronti. Non voglio stare senza di te, questo sia chiaro”. Il suo tono era definitivo.
    Lei abbassò gli occhi per nascondere le lacrime che sentiva salire da sotto le palpebre. “Come vuoi tu, Gavino”.

    Nita era rientrata da poco dall'orto, quella stessa mattina, dopo essere discesa dalla montagna. Il peso che aveva dentro non si era attenuato per nulla, mentre entrava in casa, posava le verdure sul tavolo e cominciava a impastare il pane.
    Il campanile aveva battuto mezzogiorno da un pezzo, ma la nonna non c'era. Strano. Si rese conto, ripensandoci, che anche le strade erano deserte e, quando lei era passata poco prima, le donne affacciate si erano ritirate dalle finestre e avevano chiuso le imposte.
    Udì un belato proveniente dall'ovile. Bibina era già qui? Per quale motivo? Eppure aveva incrociato Isteneddu che saliva con il piccolo gregge, compresa la capretta, tornando a casa. Perché l'aveva riportata così presto?
    L'orto era distante dal paese, poteva darsi che fosse accaduto qualcosa e che lei non si fosse accorta di nulla.
    Aprì la porticina. Bibina era accucciata a terra, ruminava e la guardava con gli occhioni spalancati. Belò diverse volte, e Nita sentì campane a morto nella testa. Rientrò in cucina e riprese a impastare, cercando di dominarsi.
    Forse la bestiola non aveva capito bene.
    Fu allora che un'ombra oscurò la luce del sole che entrava dalla porta. Annica Delogu le si era parata davanti, nelle sue vesti a lutto. Alle spalle della vecchia stava Ziromine Su Mannu, con il volto e le mani insanguinate e un odore pungente di polvere da sparo. La donna la guardò, porgendole su mazzolu. “Tocca a te”, disse.
    E a Nita l'anima si gelò dentro.
    Si pulì le mani sul grembiule, con gesti meccanici, rigidi, e seguì la nonna che, in silenzio,
    apriva il cassettone ai piedi del letto.
    Nita si lasciò legare sulla schiena i nastri del corpetto a ricami scarlatti dell'abito da sposa e acconciare le maniche ampie della camicia. La donna le sistemò le pieghe delle gonne di velluto, le dispose sul capo il fazzoletto trapunto d'oro.
    Lei pensava al breve racconto di Bibina, ai pastorelli che erano scesi di corsa in paese, gridando che le Guardie avevano stanato la banda di Gavino Sedda e che nella sughereta si sparava, e agli uomini che avevano imbracciato i fucili ed erano corsi su per i sentieri a dare manforte ai briganti.
    Su Mannu le diede il braccio, la condusse fino all'asinello prestato da tziu Efix e l'aiutò a montare in sella.
    Dalle due ali di gente che costeggiavano la strada verso il bosco si levò una voce, poi altre vi si unirono, una dopo l'altra, e per le vie di Sarule risuonò il canto funebre che accompagnava lei, Nita Murru, alle sue nozze.
    E quel canto risalì a ondate che si rincorrevano, su per il sentiero, nel sussurro delle foglie dei sugheri e nello sciabordare del torrente, nelle fughe delle serpi e nel frullo rapido degli uccelli, ripetuto di curva in curva e di pietra in pietra fino alla radura dovegiaceva Gavino Sedda, rantolante, con una salva di carabina incastonata nel petto.
    Allora si fece silenzio, mentre la donna del bandito scendeva di sella; solo il respiro aspro del ragazzo rimase, nel crocicchio di uomini che si erano fatti intorno.
    Le gambe fatte di granito dentro la gonna nuziale, lei mosse quei pochi passi come in sogno e gli fu accanto.
    In quel momento videro Anzeledda seduta lì accanto, che li interrogava con lo sguardo, i denti aguzzi scoperti in un ghigno grottesco, bramoso. Nita seppe, con una certezza assoluta, che la bambina aveva parlato al suo fidanzato, là, sotto le querce nella penombra della foresta, quando lei era tornata in paese, e che gli aveva fatto la sua offerta. Toccava a lui scegliere, per dirimere la contesa fra la vita e la morte. Gavino, le spalle appoggiate a un masso, la fissò a lungo; infine scosse il capo e si volse verso la sua donna.
    “È ora”, gorgogliò con una voce che non gli apparteneva più. “Ti aspetterò oltre la soglia”.
    La nuova accabadora afferrò su mazzolu fra le pieghe delle sottane e subito avvertì le dita gelide del giovane che le stringevano il polso. Lui le guidò la mano fino alla propria nuca e annuì.
    “Baciami, Nitedda”.
    L'attirò a sé, le cercò la bocca. E il colpo secco del martello gli spense il respiro.


    Edited by federica68 - 8/8/2010, 18:37
     
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