Il peso del destino
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Il peso del destino

di Antonino Alessandro, fantastico, 34.600 cc

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  1. Alessanto
     
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    Ecco a Voi:

    IL PESO DEL DESTINO




    Il russare del padre e il sospiro leggero dei suoi fratelli erano sempre i soliti, così come il rumore delle auto che passavano al di là della persiana in un rollio, eppure quella sera dormire era complicato come un’espressione matematica.
    Allacciò le dita e le appoggiò sul petto sopra le coperte. Nel buio, infranto solo dal puntino luminoso della televisione e dalle bacchette luccicanti che ricamavano il muro con la luce dalla strada, chiuse gli occhi.
    Passò qualche minuto ma nulla: ogni rumore si trasformava in un pensiero e ogni pensiero in altri, innumerevoli e decisi a non lasciarlo in pace.
    Decise di provare col suo solito gioco. Lo aveva chiamato “Vestito Rosso”, in onore di una canzone che aveva ascoltato alla radio.
    Semplice nell’attuazione ma dai risultati interessanti: era il suo passatempo quando il sonno tardava ad arrivare, quando la TV veniva spenta anche se nessuno, tranne suo padre – domani mi alzo presto! – aveva voglia di mettersi a letto.
    Giuseppe sospirò pensando alla zia Eliana: moglie trentenne dello Zio Matteo e donna d’esperienza. Mentre lui stava lì immobile a godersi la propria morte, lei saltava dentro la bara; lo baciava strusciandogli contro i seni enormi e trascinandolo in un turbine di porcherie poco chiare ma intriganti.
    Sentendo un piacevole calore tra le gambe, si immaginò circondato di fiori profumati, gente triste in giacca e cravatta e parenti che piangevano bisbigliando frasi spezzate e piagnucolose. Rimase fermo mentre iniziava il viavai di volti e vestiti scuri.
    In un angolo su una sedia impagliata vide nonna Lina con un fazzoletto in mano. Piangeva, la bocca ridotta a una corona di rughe; anche lei era vestita di nero – come al solito, Giuseppe non ricordava di averla mai vista abbigliata diversamente. “Perché non ti vesti colorata, nonna?” le aveva chiesto. Lei aveva sorriso “Ancora sono triste per il nonno”. Accanto a lei, con i pantaloncini corti e una maglietta a righe stirata c’era Giovannino; giocava con un camion dei pompieri emettendo versi di sgommate.
    “Sono morto e a mio fratello non gliene frega niente?” pensò con un fastidio che durò solo il tempo del pensiero stesso. “Giovannino è ancora il piccolo!” si disse, “Io sono grande, invece!”
    Si cullò per un po' nella maturità finta dei suoi quattordici anni quindi, continuò il gioco.
    Vide suo padre e suo fratello maggiore in piedi davanti la porta: ogni nuovo arrivato scambiava con loro un abbraccio per poi cercare posto sul divano, coperto per l’occasione da un lenzuolo a fiori, o su uno dei letti addossati alle pareti.
    L’odore di fumo, di vestiti non lavati e di fiati unito a quello di caffè creava nella stanza una coltre odiosa mentre il borbottio dei visitatori non diminuiva d’intensità: Fu allora che apparve la Zia Eliana.
    Tra il russare del padre e il buio, Giuseppe sorrise, pregustando quei piaceri proibiti; la mano si mosse lenta sotto le coperte.
    La donna si avvicinò. Portava un minuscolo vestito nero, dalla scollatura si intravedeva il bordo del reggiseno. Il volto triste e compassato faceva trasparire un velo di maliziosa compiacenza.
    Quando si chinò su di lui i suoni si allontanarono e si ritrovò tra gli altri a ricevere abbracci da zie, cugini lontani, amici e conoscenti, accomodato su una sedia a fissare il mogano della bara e l’ottone lucido delle maniglie.
    La scena era diventata acquosa, come adagiata sul fondo del mare, lontana, irraggiungibile.
    Giuseppe sentiva una dolenza leggera quando incrociava gli sguardi vacui dei parenti mentre mormoravano parole incomprensibili.
    Due bagliori freddi e bianchi come flash di una macchina fotografica.
    Nonna Lina gli appoggiò una mano sulla spalla e con fermezza lo fece alzare poi gli scoccò un’occhiata triste ma decisa e lo sospinse verso la bara.
    “Avanti, saluta la mamma…”
    Percepì la sua voglia di opporsi che si scontrava con la stretta della donna.
    Altri due lampi.
    Le persone attorno a lui divennero una folla urlante: maglioni a righe, jeans e cappelli luridi.
    Odore di fieno, sterco e benzina incombusta.
    Voci che incitano.
    Scooter che gli sfrecciavano intorno.

    Giuseppe si protese verso il corpo della madre.
    «Tempesta!» gridò ridestandosi dal sogno.
    Udì il padre che imprecava.
    «Cazzo, domani mi devo alzare presto! Finitela!»
    «Porca miseria!» gli fece eco Marcello, il fratello maggiore.
    Il ragazzino sospirò dominando le lacrime e sperando che Giovannino non si svegliasse; poi chi li avrebbe sentiti quei due?
    Per fortuna il fratellino si agitò un poco e riprese a dormire tranquillo.
    Giuseppe rimase attaccato al letto, terrorizzato, gli occhi sbarrati che gli proiettavano dentro l’urlo insanguinato e muto della testa di cavallo appoggiata sul corpo di sua madre.

    ***


    Era la quinta volta che le note metalliche dell’oroscopo riecheggiavano tra i letti disfatti.
    Cercando di interpretare le parole vuote che il televisore vomitava dentro il suo mondo, Giuseppe poggiò sul tavolo la tazzina di caffè; il sogno era diventato un ricordo sfocato.
    Suo padre, sorseggiando il caffè, disse, lo sguardo rivolto alla televisione:
    «Oggi a scuola non ci vai.»
    Giuseppe versò il latte a Giovannino; il padre si passò una mano callosa tra i riccioli.
    «Devi andare dallo Zio Nino, finisci qui e ci vai…» aggiunse.
    Il ragazzino si guardò intorno; i letti da sistemare gli avrebbero preso non più di dieci minuti, lavare i piatti della colazione altrettanto, mettere in ordine le loro cose poco di più.
    Gli dispiaceva non andare a scuola, ma non troppo: stava bene con i compagni, il problema erano i professori. Era passato più di un mese da quando, prima dell’ultima riunione con i genitori, la professoressa di italiano – la coordinatrice –, gli aveva chiesto se qualcuno sarebbe venuto al colloquio. Lui aveva alzato le spalle e aveva risposto che suo padre lavorava tutto il giorno. Aveva visto la donna fissarlo con occhi tristi:
    “Ascolta, Giuseppe. Devo parlare con lui. Noi conosciamo i vostri problemi, ma se tu non vieni a scuola…”
    Quando la sera lo aveva raccontato a casa, il padre si era infuriato.
    “Ora ci penso io!” aveva detto a chiusura di una collezione di parolacce e bestemmie che avevano costretto Giuseppe a portare fuori Giovannino.
    Da allora frequentava solo ogni tanto, giusto per evitare che gli mandassero la lettera con la minaccia di chiamare i Carabinieri. Non andare a scuola, spesso, voleva dire faticare: frugare tra i cassonetti alla ricerca di un po’ di ferro e rame, ferirsi le mani sugli elettrodomestici abbandonati da smontare pezzo dopo pezzo e litigare per qualche rete metallica particolarmente interessante. Per non parlare delle code al deposito; mentre suo padre aspettava di consegnare, lui rimaneva di guardia sotto il sole dentro il cassone della lapa, abbarbicato a qualche scaldabagno arrugginito tra sedie rotte e scaffalature metalliche ormai inservibili.
    Ma quel giorno era diverso: sarebbe stato con Tempesta.
    «Vado» disse il padre allacciandosi la scarpa marrone e logora.
    Fuori Marcello stava fumando una sigaretta.
    «A Giovannino portalo da Mary.»
    «Sì, papà», rispose Giuseppe sorseggiando un po’ di latte.
    «Ci vediamo stasera.»
    «Ciao.»
    L’uomo non rispose, alzò il bavero della giacca lurida e varcò la persiana ritrovandosi in strada.
    Giuseppe li sentì mettersi d’accordo su quale zona coprire, poi il suono singhiozzante della motoape irruppe nel silenzio della mattina così come, ne era certo, il fumo bianco di olio bruciato; due colpi di acceleratore a vuoto, gli sportelli che si chiudevano e la marcia che, con uno scatto secco, entrava senza troppi complimenti.
    Ancora qualche secondo e lo sferragliare del mezzo si allontanò, confondendosi con i suoni della città appena sveglia.

    ***


    «Sei arrivato finalmente!» gli disse lo Zio Nino.
    Come al solito l’uomo aveva uno stuzzicadenti infilato di traverso in bocca. Anche lui portava i capelli lunghi; ciò che Giuseppe non comprendeva era il colore: alcuni giorni erano bianchi altri davano sul giallo. Quando li vedeva di quel colore non poteva fare a meno di pensare alle pannocchie che vendevano bollite sulla spiaggia di Mondello.
    Sospirò: era la seconda volta che pensava al mare quel giorno, la prima era stata sull’autobus quando aveva visto dei ragazzi con gli zaini della scuola buttati per terra e tra i quaderni dei teli di spugna colorati.
    «Mi scusi, Zio. Ho aspettato un sacco la ottocentosei, l’hanno pure fermata gli sbirri. C’erano due che rompevano le palle a quelli con le moto» rispose Giuseppe.
    L’uomo lo squadrò.
    «In mia presenza devi parlare pulito!»
    Giuseppe impallidì e rimase in silenzio guardando .
    «Hai capito?»
    Il ragazzino annuì.
    «Così risponde Tempesta. Ti ho chiesto se hai capito!» disse l’uomo.
    «Sì, Zio Nino, ho capito.»
    «Bene! Corri e vallo a prendere. Io aspetto qui»
    Giuseppe si rianimò e, alzando la testa, gli scoccò un sorriso radioso che lo Zio Nino non ricambiò.
    «Grazie!» esclamò il ragazzino prima di correre lungo la strada non asfaltata che si snodava tra l’erba, verso l’ammasso di lastre metalliche e tavole di legno che costituivano la scuderia di Tempesta.
    Mentre osservava quelle scarpe di tela che sollevavano piccole nuvole di polvere bianca, Zio Nino sbuffò: non lo sopportava proprio. Se non fosse stato per il dono che possedeva lo avrebbe, già da tempo, fatto ruzzolare a calci nel sedere per tutta la campagna.
    L’uomo raccolse una pietra e se la rigirò tra le mani mentre, in un movimento figlio dell’abitudine, il suo sguardo si perdeva nella direzione dell’ippodromo a qualche chilometro dalla tenuta. Scorse la gradinate e i pali alti e sottili come giganteschi fili d’erba che terminavano ognuno con proprio mazzo di fari alogeni. In certe serate di maggio, quando il tempo era favorevole e il vento nell’incanalarsi attraverso la Favorita tra lo stadio e Monte Pellegrino spirava leggero, riusciva a percepire l’odore di erba appena tagliata del prato su cui si sfidavano i campioni. Quelli veri.
    Era un luogo che né gli zoccoli di Tempesta, né i suoi piedi avrebbero mai calpestato.
    Chiamava Giuseppe quando proprio non ce la faceva più. Il suo cavallo era un campione, in molti ne erano convinti, eppure quel ragazzino era l’unico che riusciva ad addestrarlo come Dio comanda. Non ci andava né pesante né leggero, non lo coccolava né non lo maltrattava, lo faceva lavorare e basta; come un professionista. Andava lì, si faceva riconoscere e poi iniziava: una passeggiata, poi un po’ di trotto, quindi una corsa lungo il recinto e infine una strigliata. Dopo quel trattamento sembrava che Tempesta avesse un chilo di peperoncino infilato su per il sedere: correva come un disperato e non si stancava mai. Fino ad allora non l’aveva nemmeno drogato come aveva fatto con il padre – Big Royal – a cui il cuore era scoppiato una mattina, all’improvviso, dopo avergli fatto vincere una gara di quelle da diecimila euro. Lo aveva trovato a zampe rigide su un fianco, un filo di bava schiumosa dalla bocca semi aperta; non c’era stato altro da fare che portarlo dal macellaio. Ne aveva ricavato trecento euro – del resto era drogato – ; giusto i soldi per una mangiata di pesce.
    Per sua fortuna prima di morire aveva ingravidato Beatrice Star.
    Qualcuno diceva che il ragazzino avesse una specie di magia; ma allo Zio Nino non interessava, bastava che i venti euro dati al padre di Giuseppe fruttassero per bene e che il ragazzino lavorasse solo per lui.
    Vide Giuseppe portare per le redini Tempesta; camminavano al passo lungo la staccionata malferma di lamiera e pali di legno. L’uomo gettò la pietra nell’erba e li raggiunse.
    «Zio Nino? Le posso domandare una cosa?»
    «Parla!»
    «Tempesta oggi è nervoso…»
    «E allora? Se non lo sarebbe non saresti qui!»
    «Certe volte è nervoso perché…»
    «Ho capito, ho capito» rispose l’uomo senza permettergli di proseguire.
    Il ragazzino non aggiunse altro, continuò il suo lavoro; lo Zio Nino, invece, fissò un punto lontano. Se ne era accorto di nuovo.
    L’uomo pensò al pomeriggio precedente. Avevano provato sulla statale, non più di cinquecento metri. Era andata uno schifo; Tempesta aveva rischiato di rompersi uno zoccolo due volte, Giulietto era riuscito a stare in sella per miracolo: per farlo andare aveva lavorato pesante di frusta.
    Non aveva funzionato; quando erano tornati aveva dovuto telefonare a Vito e chiedergli del figlio.
    «Ce la facciamo per la gara?» domandò al ragazzino, vergognandosene.
    Giuseppe si era voltato e, con uno sguardo serio che lo sorprese rispose dopo qualche istante:
    «Per favore, dica a Giulietto di andarci piano. Non ce n’è bisogno…»
    L’uomo non disse nulla, emise solo un grugnito.

    ***


    Giuseppe non si rendeva conto di quanta impressione facesse quando si lanciava al galoppo su Tempesta. Percorreva la pista in terra battuta sollevato sulle ginocchia, la testa che sbucava appena dall’oscillare della criniera mentre rimaneva aggrappato all’animale con una forza che le sue giovani braccia non si credeva potessero avere.
    Compì cinque scatti e attraversò, come una freccia scoccata verso il bersaglio, la spianata ai margini della quale alcuni contadini, interrompendo la raccolta dei primi ortaggi della stagione, stavano a guardare. Già a metà del primo passaggio si scambiavano commenti stupiti.
    «Guarda! Ci sta attaccato come una mignatta!» disse un vecchio grattandosi la luna ritagliata tra i capelli bianchi e radi sotto il cappello.
    «E poi ci va come un pazzo! Mica Giulietto ci riesce così!» gli fece eco un altro mentre, col manico della zappa, si toglieva un po’ di fango dalla scarpe incrostate.
    Altri annuirono; dall’altra parte dello spiazzo lo Zio Nino osservava esterrefatto ciò che il ragazzino era riuscito a fare in meno di una mattinata.
    Quando fu soddisfatto, Giuseppe scese dalla groppa e accarezzò l’animale. Mentre il petto del cavallo si gonfiava come un mantice, il ragazzino lo prese per le briglie e lo portò alla scuderia.
    «Oggi sei stato bravissimo. Ti meriti un premio!» esclamò raccogliendo la striglia e cominciando a passargliela sul collo e sulla schiena.
    Tempesta rimase immobile a godersi il trattamento.
    Il suono soffiato della spazzola, cadenzato e sempre uguale, era gradito a entrambi. Il ragazzino faceva un grosso sforzo per quel lavoro, ma il piacere di farlo e un piccolo sgabello lasciato tra la paglia rendevano tutto più semplice.
    «Così, bravo» disse piano mentre con movimenti rapidi e corti, compiuti con sapienti colpi di polso, usava la brusca per rimuovere la sporcizia dal pelo. Molte volte gli avevano chiesto dove avesse imparato. A quella domanda Giuseppe rispondeva sempre allo stesso modo: “non lo so; lo faccio e basta”. Già conosceva lo sguardo diffidente di chi aveva posto il quesito: lui faceva spallucce e proseguiva il lavoro sicuro della propria verità.
    Tempesta si voltò a guardarlo.
    «Che c’è?» fece il ragazzino fissando i suoi occhi grandi e neri. «Ti piace, vero?»
    Il cavallo nitrì piano; Giuseppe sorrise e gli assestò un paio di pacche leggere sul fianco. Poi si calò e prese imbevette un straccio pulito dentro una latta per vernici riempita d’acqua. Lo passò sugli occhi, sulle narici e la bocca; Tempesta starnutì.
    «Salute!»
    Starnutì di nuovo.
    «Salute!» disse Giuseppe mentre raccoglieva un altro cencio dalla pila di stracci in un angolo della stalla.
    «Avanti, è ora del pallottoliere!» disse infilando lo straccio carico d’acqua sotto Tempesta. Bastarono poche passate perché il cavallo mostrasse i suoi attributi.
    «Eh, porco!» rise il ragazzino.
    Il cavallo nitrì la sua vergogna.
    «Dài, non fare così! Capita anche a me quando mi faccio il bagno…»
    Giuseppe si chinò e gli strizzò l’occhio.
    «Beh, forse i risultati sono un po’ diversi…»
    Tempesta nitrì due volte, abbassò la testa e si voltò per guardarsi.
    «Adesso ti pettino. Forza, mettiti per bene» lo esortò Giuseppe mentre con una spazzola gli lisciava la criniera. Tempesta, riconoscendo il trattamento, si mise dritto e rimase immobile come per una foto.
    «Bravissimo! Forza, adesso passiamo ai piedi…»
    Giuseppe alzò una delle zampe posteriori e passò sullo zoccolo la spazzola dura, controllando che l’unghia fosse della forma corretta. «Mi sembra che tu stia bene, amico mio!» esclamò il ragazzino picchettando uno dei ferri per saggiarne le condizioni. Poi gli toccò le gambe tastando le articolazioni e cercando qualche zona particolarmente calda.
    «Mi raccomando, occhio alla via!»
    Tempesta nitrì, Giuseppe sistemò lo sgabello di lato e gli si portò davanti. Appoggiò la fronte alla macchia bianca che dalle orecchie scendeva giù tra gli occhi, fin quasi alla bocca.
    «Hai capito cosa voglio dire, vero?»
    Il cavallo scosse la testa, il ragazzino lo fissò e allungò un braccio. Tempesta si fece avanti in modo che il muso finisse nell’incavo della mano del padrone.
    Accadde poi che i loro sguardi si incrociassero. Giuseppe sentì i piedi perdere contatto con la terra e la paglia sul pavimento. Respirò a fondo avvertendo una fitta al torace, i polmoni che sembravano accogliere più ossigeno del normale. Leggero.
    Il tempo di una vertigine e di chiedersi cosa stesse accadendo che la massa di sensazioni si sciolse, infranta dalla voce dello Zio Nino.
    «Hai finito?» chiese.
    «S…sì… ehm… noi… abbiamo finito» borbottò il ragazzino riuscendo, con fatica a lasciare lo sguardo di Tempesta.
    «Cosa fai? Piangi?»
    Giuseppe si passò un braccio nudo sugli occhi.
    «Piangere? Io? No!» rispose.
    «Uhm…Qui ci sono i soldi» disse l’uomo porgendogli una banconota azzurrina.
    «Grazie» fece Giuseppe gli occhi ancora un po’ rossi; poi accarezzò il cavallo e si diresse verso l’uscita.
    «Una buona giornata, Zio Nino! Ciao, Tempesta.»
    Lo Zio Nino, distratto dal pelo lucido dell’animale, non ricambiò il saluto; Tempesta, invece, nitrì.

    ***


    L’uomo vide Giuseppe dirigersi verso la fermata dell’autobus; erano tre giorni che il ragazzino si occupava di Tempesta. Le cose andavano per il verso giusto: i tempi si erano abbassati e il cavallo era in forma, anche Giulietto aveva notato la differenza.
    Sbuffò: i dubbi su come stava gestendo la situazione si facevano più consistenti mano a mano che si avvicinava la gara.
    Lo Zio Nino si passò una mano sui capelli unti e si incamminò verso la stalla.
    Stava per aprire la porta metallica quando Mariuccio uscì dalla scuderia.
    «Che ci fai qui?» chiese lo Zio Nino d’istinto.
    L’altro lo guardò, si richiuse con un movimento lento e misurato il portone dietro.
    «Ho visitato il campione…»
    Mariuccio accese una sigaretta e con fare pensieroso si passò la mano sulla barba rasposa.
    «Quel ragazzino… il figlio di quel cazzomoscio di Vito Barbaro intendo, mi sembra che ci sappia fare…»
    «Lo penso anch’io» rispose lo Zio Nino.
    «Tra quanti giorni è la gara?» disse Mariuccio sarcastico; lo sapeva con esattezza, ma voleva alzare un po’ il tono della discussione.
    «Tra due.»
    «E per allora sarà pronto?» chiese piantando gli occhi azzurri su quelli dell’interlocutore.
    Lo Zio Nino abbassò lo sguardo: non aveva alcuna voglia di stuzzicare l’uomo, sapeva chi era e di cosa era capace. Non che lui fosse un santo, del resto qualche annetto all’Ucciardone se lo era fatto, ma aveva imparato abbastanza dalla vita per comprendere le persone e soprattutto i problemi che potevano causare. E di problemi Mariuccio poteva darne a non finire.
    «Sì…» rispose.
    «Bene!» esclamò Mariuccio. Poi fece un cenno verso la stalla.
    «Lo stai aiutando un po’?»
    «No, non sta prendendo niente»
    L’uomo aggrottò le sopracciglia e inclinò la testa di lato come un bambino che cerca di comprendere una scritta alla lavagna. Tirò due boccate dalla sigaretta facendo sfrigolare la brace e con un gesto fluido la gettò per terra; un colpo dello scarpone da operaio e la cicca rimase esanime tra l’erba.
    «Sai quanto ho intenzione di scommettere?» chiese Mariuccio prendendo dalla tasca della camicia a quadri schizzata di cemento il pacchetto di sigarette.
    «No, non lo so» rispose lo Zio Nino.
    Mariuccio accese un’altra sigaretta e fece subito un tiro.
    «Te lo dico io: assai!»
    «E allora?»
    «Niente: è solo un’ informazione!» esclamò l’altro con un sorriso, una finestra scura e quadrata fece capolino tra le labbra, proprio accanto a un dente scheggiato. «Tu lo sai come vanno queste cose, vero?» proseguì, «Night sarà aiutato…»
    «Me lo immagino ma…»
    «Va bene, fai come credi. Non mi resta che augurarti buona fortuna» disse Mariuccio facendo altri due tiri consecutivi e sparando il fumo azzurrino di lato.
    «Grazie, Mariuccio.»
    Dall’interno della stalla udì Tempesta nitrire.
    «Stai buono!» disse rivolta alla parete, «Pensa a vincere piuttosto!»
    Mariuccio si voltò e sorrise; aveva sentito lo Zio Nino. Adesso aveva la certezza che il messaggio era arrivato a destinazione. Prima di girarsi di nuovo alzò il braccio in un ulteriore sinistro gesto di saluto.
    Mentre lo Zio Nino osservava l’andatura ciondolante di Mariuccio riprese a chiedersi se non si stesse mettendo nei guai.
    Si incamminò verso l’auto con un cenno di saluto al contadino che si occupava di sorvegliare le sue proprietà. Quando si accomodò sul sedile della Punto verde bottiglia, prima di girare la chiave, si concesse qualche minuto per riflettere. Ricordava cosa era accaduto a Big Royal, oltre quanto gli fosse costata quella morte: come minimo centomila euro tra gare e monte.
    Girò la chiave, un brivido gli attraversò la schiena pensando alla possibilità che Tempesta non vincesse.
    Mentre l’auto compiva la manovra nello spiazzo sterrato facendo schizzare le pietre sulle fiancate, lo Zio Nino non udì Tempesta nitrire di nuovo e, con un calcio, colpire il tavolato della sua povera scuderia.

    ***


    Erano le quattro di mattina, il sole ancora non aveva fatto la sua comparsa; c’era una luce traslucida, eterea, che illuminava il plesso universitario punteggiato dai fari gialli sui piazzali deserti.
    Mattina ideale per correre.
    Il telefonino dello Zio Nino squillò.
    «Possiamo andare?»
    Dall’altro capo la voce di Antonio lo rassicurò:
    «Niente sbirri; due minuti.»
    L’uomo chiuse il cellulare. Quanto comunicò ai vicini la notizia, decine di scooter si misero in moto, inondando l’aria dei vapori aspri degli scappamenti. Si udì anche qualche clacson intermittente e voci impazienti: di gare di quel tipo ne facevano al massimo una al mese. Non erano molti quelli che potevano giocarsi diecimila euro oltre il cavallo: quelle occasioni erano una festa, eventi a cui nessuno poteva mancare. C’erano decine persone, tutti uomini, lungo Viale delle Scienze. Cercavano un posto per godersi lo spettacolo: operai dell’AMIA dalle tute arancione fluorescente, manovali del terzo turno dei cantieri navali, muratori dai jeans coperti di schizzi di cemento e malta e semplici impiegati di qualche inutile ente comunale che, prima di andare a riposarsi sul posto di lavoro, avevano deciso di assistere all’evento.
    Il telefonino squillò di nuovo.
    «Sì?»
    «State pronti!»
    Lo Zio Nino scambiò un gesto d’intesa con Giulietto che si assestò sulla sella stringendo le gambe magre.
    Ci fu un fischio. I motori degli scooter ruggirono, ancora un’altra salva di clacson.
    Per prima si mosse l’alfa 156 dietro le loro spalle. Si mise di traverso in mezzo alla strada come in un posto di blocco dei film americani. Poi altre due auto chiusero i passaggi per l’inversione di marcia. Infine giunse il turno dell’ultima auto – una BMW grigia con i cerchi in lega e delle luci azzurre sotto la scocca – che definì l’arrivo della pista improvvisata: quasi un chilometro di rettilineo ritagliato in piena città, un tratto di asfalto che avrebbe deciso il nuovo padrone dei cavalli oltre che la qualità dei pasti di molti spettatori.
    Tempesta e Night si allinearono alla bell’e meglio sulla linea tra due semplici punti rossi fatti con lo spray sui i marciapiedi opposti.
    Il signor Vizzini e la sua pancia prominente, appena coperta dal maglione di lana a righe e infeltrito, attraversarono lo schieramento.
    Quando arrivò dall’altra parte della strada gridò:
    «VIA!»
    I cavalli schizzarono come dardi da una balestra, tra due ali di folla urlante, gli scooter iniziarono subito a zigzagare tra di loro.
    Giuseppe si teneva saldo alla schiena di Marcello, il motore a manetta e il cappello calcato sulla testa.
    I due cavalli percorsero i primi cento metri appaiati, i fantini che si tenevano a fatica sospesi sulle selle, pronti a essere strappati dal vento.
    «Dài! Amunì, Tempesta!» gridò Giuseppe.
    Li sorpassò un TMAX giallo, il guidatore dai capelli brizzolati e un codino lungo dieci centimetri, si appostò dietro Tempesta e cominciò a martellarlo di colpi di clacson, brevi e veloci come spari. Nonostante i tappi nelle orecchie, forse per la vicinanza alle zampe posteriori, il cavallo deviò dalla direzione ottimale. Molti insultavano il conducente del grosso scooter ma lui, incurante, proseguì: in gare come quelle tutto era permesso.
    Giulietto usò la frusta e riuscì, con molta fatica, a riassestare la traiettoria giusta ma quella deviazione aveva fatto guadagnare a Night qualche decina di metri.
    «Guarda a quello stronzo!» urlò Giuseppe al fratello.
    Marcello sotto lo zucchetto A-Style sorrise.
    «Adesso ti faccio vedere…»
    Con uno scatto il loro Chiocciola si affiancò al TMAX che, frenato dal cavallo, non poteva sviluppare tutta la potenza del motore. A quel punto iniziò a stringerlo verso la Monster che si era avvicinata dall’altra parte.
    «Oh! Ma che minchia fai?», chiese l’uomo; aveva una voce cavernosa, i gomiti larghi, le mani dalle dita grosse come tubi che stringevano il manubrio.
    Marcello si spostò ancora un po’ verso destra.
    «Che minchiaaa faiii!» gridò l’altro, i colpi di clacson erano cessati. Il Chiocciola continuò a muoversi inesorabile e senza paura verso la fiancata gialla.
    «Ti n’ha ghiri!» gridò Marcello.
    Giuseppe vide il pedalino per il passeggero dello scooter avversario danzare nella vicinanze della sua scarpa da tennis. Strinse le gambe e cercò di farsi piccolo dietro le spalle del fratello.
    Combatterono sui centimetri per qualche altro secondo tra parolacce e minacce, poi il TMAX per scansare una buca deviò leggermente e fu costretto a rallentare. Marcello non perse l’occasione e, con un movimento fluido, costrinse il Chiocciola a prendere il posto del nemico dietro Tempesta.
    “Appena”: questa fu l’unica parola che Marcello e Giuseppe udirono prima che il boato della folla coprissero le parole. Per buona misura entrambi risposero un “suca” che aveva una serie di “u” – quasi “o” in effetti – lunga come un treno merci.
    Intanto, mentre loro avevano vinto la loro battaglia, Tempesta cercava di vincere la sua. Night era a dieci metri mentre l’arrivo, segnalato dai fari accesi delle auto parcheggiate, a non più di cento.
    «Tempesta! Dài!» urlò Giuseppe sollevandosi dal sedile della moto e reggendosi con una mano alla maglietta del fratello. Il cavallo ebbe un sussulto e allungò il passo.
    «Amuni’! Dài! Dàààiii!» gridò di nuovo.
    L’animale scattò di nuovo, accorciando la svantaggio; mancavano cinquanta metri. Mentre Giuseppe continuava a incitarlo Giulietto colpì duro sui fianchi con la frusta.
    Mancavano venti metri, Giuseppe si riempì i polmoni.
    «Dàààiiiiii!»
    Quando Night tagliò il traguardo per primo e decine di spettatori accorsero ad abbracciarlo, Giuseppe vide Giulietto e lo Zio Nino all’unisono, mettersi le mani sulla testa.

    ***


    “Io devo fare un po’ di cose a Palermo, prima di tornare a Borgetto; ci sono problemi se mi prendo Tempesta più tardi? Tra cristiani di bella…” aveva detto Romano, il nuovo proprietario di Tempesta. Lui ovviamente aveva annuito; perciò il cavallo era ancora nella stalla.
    Lo Zio Nino fissava l’ippodromo in lontananza. Aveva cacciato Giulietto e Giuseppe: il primo gli aveva chiesto addirittura dei soldi, il secondo, invece, era venuto moggio e triste a chiedere di poter salutare Tempesta. C’era mancato poco che non gli desse una bella dose di legnate.
    «Magia? Magia un cazzo!» gridò scalciando un pietra che, in rimbalzi disordinati, completò il tragitto contro la scuderia di Tempesta.
    Se non fosse stato per lui e le sue stupidaggini avrebbe aiutato il cavallo; a quest’ora sarebbe lì a godersi Night e i soldi del suo padrone. Senza considerare tutto il resto.
    Udì il rombo di un auto che percorreva la statale.
    Lo Zio Nino strinse la boccetta di vetro all’interno della tasca e la siringa nell’altra.
    «Cazzo!» esclamò tra i denti incamminandosi verso la stalla.
    Al suo interno Tempesta riposava: era stato sconfitto e questo avrebbe cambiato la sua vita, quella di Giuseppe e quella di molti altri.

    ***


    Arrivarono alla nuova stalla poco dopo cena.
    Se avesse potuto parlare, Tempesta, già a metà viaggio, avrebbe detto “non mi sento bene; non riesco a respirare”. Ma visto che, al massimo, poteva nitrire e mostrarsi nervoso nessuno capì ciò che gli stava accadendo.
    «Forza, non rompere la minchia. Abituati presto; non ho tempo da perdere!» aveva detto il suo nuovo padrone chiudendo la porta della stalla e lasciandolo da solo tra odori e paglia sconosciuti.
    Scosse il capo e, con uno zoccolo, colpì due volte la terra battuta.
    Il respiro si fece sempre più pesante; i suoi polmoni poderosi volevano rimanere fermi. Il cervello mandò un segnale per far spostare il diaframma; si mosse in effetti, ma con una fatica immensa. Ci riprovò: ottenne solo pochi litri d’aria, insufficienti a sostenere quella massa di muscoli guizzanti.
    Era esausto e, come davanti a una salita troppo ripida, si lasciò andare rinunciando a sollevare la splendida cassa toracica.
    Si adagiò su un fianco e nitrì piano.
    Si dice che i cavalli siano intelligenti come lampioni – del resto che ingegno ci vuole per catturare un filo d’erba e per correre? – eppure la mente di Tempesta non era vuota. Fame, sete, paura, smarrimento: pensieri istintivi, tracce di una consapevolezza semplice ma presente.
    Una zampa ebbe uno scatto e scalciò impotente contro una balla di fieno.
    Tempesta, immerso nella semplicità del suo cervello, capì che stava morendo e si rassegnò, trasse un lungo e doloroso sospiro e adagiò la testa sulla paglia; chiuse gli occhi.
    Altri due calci al fieno.
    Il petto si alzò e si riabbassò.
    Su, giù.
    Su, giù. E così rimase.
    L’ultima scintilla di elettricità dentro il suo corpo da erbivoro evocò un profumo, una carezza e un suono familiare. Se avesse potuto avere l’intelletto di un uomo, in quelle sensazioni che scemavano come una canzone che finiva, avrebbe riconosciuto l’odore, il tocco morbido e la voce rassicurante di Giuseppe.
    Non era un uomo ma morì contento ugualmente.
    Passarono pochi istanti che irruppe nella stalla il suo nuovo padrone.
    «Cosa cazzo è successo? Dov’è Tempesta?» gridò accorrendo verso il pagliericcio vuoto.

    ***


    Forse Giusy l’aveva salutato prima di andarsene ma lo Zio Nino non se lo ricordava. Dopo aver scaricato la tensione accumulata e il proprio malumore, si era addormentato quasi subito. Del resto la donna conosceva la strada e non gli avrebbe mai fatto uno sgarbo altrimenti chi le avrebbe pagato le bollette?
    Il lenzuolo, il cuscino e la canottiera erano umidi di sudore. Si passò una mano sulla fronte e se l’asciugò sul materasso.
    Si agitò richiudendo a forza le palpebre: voleva riprendere sonno prima che i pensieri lo costringessero a svegliarsi del tutto.
    Un odore acre ben noto alle sue narici circondò il giaciglio solitario, aprì gli occhi: nel buio scorse un’ombra che, come un'eclissi, incombeva su di lui enorme, solida.
    «Tempesta!» gridò lo Zio Nino.
    Inondarono la stanza prima un nitrito poi il tonfo sordo del suo cranio che si apriva.

    ***


    Tempesta aveva un nuovo padrone e lui non lo avrebbe mai più rivisto.
    Nel suo monovano, affollato come al solito di letti e persone che dormivano, Giuseppe rimaneva immobile, gli occhi sbarrati e gonfi e i pugni chiusi serrati in una stretta dolorosa. Aveva smesso di piangere ma il peso che aveva dentro rimaneva lì, determinato a non abbandonarlo.
    Si ricordò della nonna Lina; lui impalato davanti a sua madre sul letto con gli abiti della domenica, lei che si avvicinava e gli parla.
    «Lo sai che il Signore ci fa piangere per far uscire il male? Come quando si lava l’insalata e rimane l’acqua sporca nel cato. Lo sai che non si mangiano le cose sporche.»
    Lui l’aveva guardata; la vecchia aveva sorriso, gli occhi gonfi e rossi.
    «Vedi? Come ho fatto io?» aveva proseguito indicasi, «ho pianto e mi sento meglio! Non voglio restare con il male dentro! Tu vuoi?»
    Giuseppe aveva scosso la testa e, incuriosito, aveva osservato il fazzoletto della nonna: aveva due tracce sbavate di nero – era solo mascara, ma la donna si guardò bene dal confessarlo.
    «Hai visto?» aveva aggiunto abbracciandolo.
    La nonna lo aveva stretto all’abito nero tanto forte da togliergli il fiato, poi Giuseppe aveva sentito i suoi singhiozzi; a quel punto assecondando il vuoto e la tristezza istintiva che lo soffocavano aveva pianto.
    Sospirò nel buio e decise di provare il suo solito passatempo.
    Si mise le braccia lungo i fianchi e si allacciò le dita sul petto.
    Eccolo lì: nella solita bara con il solito codazzo di parenti che piangevano.
    Bagliore sinistro.
    Si ritrovò solo in una stalla sconosciuta, odore di escrementi e paglia, in un angolo la striglia e il secchio; dinnanzi una tenda viola.
    Giuseppe allungò una mano e la spostò.
    «Tempesta!» gridò in quel luogo senza tempo, dando sfogo alla voce muta della sua mente. Accorse dall’amico e gli circondò il collo con le braccia. Il cavallo appoggiò il suo muso sulla spalla, poi con un movimento gentile strinse a sé il ragazzino.
    Giuseppe si sentì leggero come se un peso, di cui non aveva mai avvertito la consistenza limacciosa, fosse evaporato. Si meravigliò quando, avvolto da un fascio di sensazioni mescolate, sentì la necessità di rispondere a una domanda che non gli era mai stata posta.
    «Sì!» disse stringendo l’animale.
    Tempesta fremette; bastò quella parola perché le loro anime si sgravassero.
    Abbassò il collo godendosi le carezze di Giuseppe. Il cavallo non aveva né sella né finimenti ma non ebbe alcuna importanza; il ragazzo salì in groppa, accostò la gambe e si godette le delicatezza del contatto.
    «Corri!» esclamò con tutta la forza della sua anima mentre il letto, vuoto, ancorato a una realtà a cui nessuno dei due apparteneva più, si raffreddava.
    Partirono insieme danzando tra le nuvole e i palazzi di una Palermo che, attonita, li invidiava.

    FINE



    Edited by Alessanto - 6/8/2010, 21:51
     
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  2. Peter7413
     
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    Ola!
    Complimenti, un racconto davvero bello.
    L'unico punto debole, secondo me, è la prima parte: troppo lunga, dovresti asciugarla un po'.
    Il rapporto fra Giuseppe e Tempesta è ben reso e così il contrasto con una Palermo che non sa più sognare.
    Il racconto è lungo, ma si legge d'un fiato. Arrivo a dire che meriterebbe anche una forma diversa, magari un romanzo breve.
    Per me è un 4 più che meritato.
    Bye!
     
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  3. Alessanto
     
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    CITAZIONE (Peter7413 @ 2/8/2010, 11:32)
    Ola!
    Complimenti, un racconto davvero bello.
    L'unico punto debole, secondo me, è la prima parte: troppo lunga, dovresti asciugarla un po'.
    Il rapporto fra Giuseppe e Tempesta è ben reso e così il contrasto con una Palermo che non sa più sognare.
    Il racconto è lungo, ma si legge d'un fiato. Arrivo a dire che meriterebbe anche una forma diversa, magari un romanzo breve.
    Per me è un 4 più che meritato.
    Bye!

    Grazie!
    Per asciugare intendi sfoltire dal punto di vista dello stile? Oppure tagliare qualche evento?

    EDIT
    Intanto ho sfoltito...
     
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  4. Peter7413
     
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    CITAZIONE (Alessanto @ 2/8/2010, 11:56)
    CITAZIONE (Peter7413 @ 2/8/2010, 11:32)
    Ola!
    Complimenti, un racconto davvero bello.
    L'unico punto debole, secondo me, è la prima parte: troppo lunga, dovresti asciugarla un po'.
    Il rapporto fra Giuseppe e Tempesta è ben reso e così il contrasto con una Palermo che non sa più sognare.
    Il racconto è lungo, ma si legge d'un fiato. Arrivo a dire che meriterebbe anche una forma diversa, magari un romanzo breve.
    Per me è un 4 più che meritato.
    Bye!

    Grazie!
    Per asciugare intendi sfoltire dal punto di vista dello stile? Oppure tagliare qualche evento?

    EDIT
    Intanto ho sfoltito...

    Semplificarlo un po' forse. E' l'unica parte del racconto che ho davvero faticato a leggere. Non si capisce bene quale sia il "gioco" che fa e non si capisce chiaramente che la madre è morta. Niente di grave, infatti il 4 non è mai stato in discussione. :-)
     
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  5. marramee
     
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    Ciao.
    Voto quattro, non si discute.
    Il racconto però a mio parere ha un difetto. Ovvero la prima parte. Il gioco della bara, che preso singolarmente è affascinante, però sembra quasi stonare col resto della storia. Ma questa magari è solo una mia idea.
    Per il resto niente da eccepire, una trama davvero coinvolgente che si legge in un fiato.
     
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  6. Alessanto
     
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    CITAZIONE (marramee @ 3/8/2010, 13:11)
    Ciao.
    Voto quattro, non si discute.
    Il racconto però a mio parere ha un difetto. Ovvero la prima parte. Il gioco della bara, che preso singolarmente è affascinante, però sembra quasi stonare col resto della storia. Ma questa magari è solo una mia idea.
    Per il resto niente da eccepire, una trama davvero coinvolgente che si legge in un fiato.

    Grazie!
    SPOILER (click to view)
    Ho inserito il sogno per mostrare al lettore le angosce del ragazzino (pubertà, morte della madre, rapporto con la famiglia, con la scuola e con Tempersta oltre che una buona dose di "premonizione"). Può darsi che sia venuto troppo "denso". Già avevo cominciato a sfoltire; proseguirò...
     
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  7.  
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    Losco Figuro

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    La parte iniziale mi sembra troppo lunga e distaccata dal resto. Tolto quello, un buon lavoro.
    Voto 3.

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Vide suo padre e suo fratello maggiore in piedi davanti la porta:

    "davanti alla porta"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    il borbottio dei visitatori non diminuiva d’intensità: Fu allora che apparve la Zia Eliana.

    Perché la maiuscola dopo i due punti?

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Giuseppe poggiò sul tavolo la tazzina di caffè; il sogno era diventato un ricordo sfocato.
    Suo padre, sorseggiando il caffè, disse, lo sguardo rivolto alla televisione:

    Due caffè ravvicinati. Fanno male. ^_^

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    la professoressa di italiano – la coordinatrice –, gli aveva chiesto se qualcuno

    Dopo il trattino non serve la virgola

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    «Vado» disse il padre allacciandosi la scarpa marrone e logora.

    Magari c'è qualcosa che ancora non so... ma ha una scarpa sola per qualche ragione? Perché altrimenti dovrebbe essere "una scarpa..."

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Scorse la gradinate

    Refuso: "le"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    ognuno con proprio mazzo di fari alogeni.

    Refuso anche se non so quale, "col" o "con il"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Era un luogo che né gli zoccoli di Tempesta, né i suoi piedi avrebbero mai calpestato.

    La virgola è di troppo, la costruzione "né... né" non ne ha bisogno

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    non lo coccolava né non lo maltrattava,

    Il secondo "non" è di troppo

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    un filo di bava schiumosa dalla bocca semi aperta;

    Un filo di bava cosa? Manca un predicato.

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Ne aveva ricavato trecento euro – del resto era drogato – ;

    O metti il trattino o il punto e virgola, non tutti e due

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    si toglieva un po’ di fango dalla scarpe incrostate.

    Refuso: "dalle"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Poi si calò e prese imbevette

    Direi che "prese" è di troppo

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    un straccio pulito dentro una latta per vernici riempita d’acqua. Lo passò sugli occhi, sulle narici e la bocca; Tempesta starnutì.

    O è "sugli occhi, sulle narici e sulla bocca" o è "sugli occhi, le narici e la bocca"

    [QUOTE=Alessanto,1/8/2010, 01:19]
    «Mi sembra che tu stia bene, amico mio!» esclamò il ragazzino picchettando uno dei ferri per saggiarne le condizioni.
    [/QUOTE

    Forse intendi "picchiettando"?

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    «Uhm…Qui ci sono i soldi» disse l’uomo porgendogli una banconota azzurrina.

    Manca lo spazio dopo i puntini

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    «Grazie» fece Giuseppe gli occhi ancora un po’ rossi; poi accarezzò il cavallo e si diresse verso l’uscita.

    Serve una virgola dopo "Giuseppe"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Quanto comunicò ai vicini la notizia, decine di scooter si misero in moto,

    Refuso: "Quando"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    fatti con lo spray sui i marciapiedi opposti.

    C'è una "i" di troppo

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Il signor Vizzini e la sua pancia prominente, appena coperta dal maglione di lana a righe e infeltrito, attraversarono lo schieramento.

    Toglierei la "e" prima di infeltrito

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Quando arrivò dall’altra parte della strada gridò:
    «VIA!»

    Perché a capo?

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Li sorpassò un TMAX giallo, il guidatore dai capelli brizzolati e un codino lungo dieci centimetri, si appostò dietro Tempesta e cominciò a martellarlo di colpi di clacson,

    La virgola dopo "centimetri" è di troppo, separa il soggetto dal predicato

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    L’animale scattò di nuovo, accorciando la svantaggio;

    Refuso: "lo"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Mentre Giuseppe continuava a incitarlo Giulietto colpì duro sui fianchi con la frusta.

    Metterei una virgola dopo "incitarlo"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Quando Night tagliò il traguardo per primo e decine di spettatori accorsero ad abbracciarlo, Giuseppe vide Giulietto e lo Zio Nino all’unisono, mettersi le mani sulla testa.

    E qui dopo "Nino"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    era venuto moggio

    "mogio"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    gridò scalciando un pietra che,

    Refuso: "una"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Se non fosse stato per lui e le sue stupidaggini avrebbe aiutato il cavallo; a quest’ora sarebbe lì

    "sarebbe stato"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Udì il rombo di un auto che percorreva la statale.

    Refuso: "un'auto"

    CITAZIONE (Alessanto @ 1/8/2010, 01:19)
    Si ritrovò solo in una stalla sconosciuta, odore di escrementi e paglia, in un angolo la striglia e il secchio; dinnanzi una tenda viola.

    "dinnanzi" a cosa?
     
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  8. Selene B.
     
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    CITAZIONE
    Se non lo sarebbe non saresti qui!

    : è lo zio che parla così o è un refuso?
    CITAZIONE
    Poi si calò e prese imbevette un straccio pulito dentro una latta per vernici riempita d’acqua.

    : altro refuso, prese/imbevette.
    Scritto nel complesso bene, ma ci sono alcuni passaggi che mi sembrano poco chiari: che tipo di poteri ha il ragazzino? Alla fine muore anche lui o che? Perché muore? Perché fa il gioco del funerale?
    Per questo voto solo 2.
     
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  9. Alessanto
     
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    CITAZIONE
    Se non lo sarebbe non saresti qui!
    : è lo zio che parla così o è un refuso?

    Lo zio parla così.
    CITAZIONE
    Poi si calò e prese imbevette un straccio pulito dentro una latta per vernici riempita d’acqua.
    : altro refuso, prese/imbevette.

    Questo è un refuso. ;)

    CITAZIONE
    Scritto nel complesso bene, ma ci sono alcuni passaggi che mi sembrano poco chiari: che tipo di poteri ha il ragazzino? Alla fine muore anche lui o che? Perché muore? Perché fa il gioco del funerale?
    Per questo voto solo 2.

    SPOILER (click to view)
    Per quanto riguarda la prima domanda: credo che nel testo sia chiaro che poteri abbia il ragazzino.
    Per quanto riguarda la seconda: dipende cosa intendi per morte. E se ne fosse andato e basta? Si è portato il suo guscio mortale, e dove esso sio non è fondamentale. Ma poi, in generale, è davvero importante saperlo? L'importante era liberarsi dal peso del destino. Un destino fatto di povertà e mediocrità di cui lui stesso non era consapevole.
    Per quanto riguarda la terza: vedi sopra.
    Per la quarta: tu perché giocavi con le bambole? Io quando ero piccolo avevo un amico immaginario. Perché l'avevo? Boh? Lui gioca così, i suoi trascorsi e gli eventi che ha vissuto lo portano a giocare così...


    Grazie per la lettura.

    Edited by Alessanto - 5/8/2010, 07:22
     
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  10. CountlessCrows
     
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    Bell'ambientazione e un tocco poetico di fondo che mi piace molto. O dovrei dire assai per conformarmi? :-) Come detto da altri la parte iniziale non è chiarissima ma il resto scorre molto bene. Ritrovo un pezzo di Sicilia che non amo ma che non posso ignorare.
    Qualche refuso, ottimamente segnalato da CMT.

    voto: 3
     
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  11. Alessanto
     
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    CITAZIONE (CountlessCrows @ 5/8/2010, 11:23)
    Bell'ambientazione e un tocco poetico di fondo che mi piace molto. O dovrei dire assai per conformarmi? :-) Come detto da altri la parte iniziale non è chiarissima ma il resto scorre molto bene. Ritrovo un pezzo di Sicilia che non amo ma che non posso ignorare.
    Qualche refuso, ottimamente segnalato da CMT.

    voto: 3

    Grazie per la lettura.
    Mi accontento del "mi piace molto". Giusto per questa volta però! :)

    Per il resto: purtroppo, no. Non si può ignorare; anche perché, ormai, d'altro è rimasto ben poco...

    PS
    Siciliano/Palermitano?
    Mi piacerebbe un parere su questo: https://xii.forumfree.it/?t=49112606 e se hai tempo su questo: https://xii.forumfree.it/?t=47841675.

    Un saluto!
     
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  12. CountlessCrows
     
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    No, non sono siciliano. Sono emiliano ma conosco per vari motivi ambienti e problemi della Sicilia, sarebbe lungo e poco interessante spiegare.
    Quando avrò finito la scansione di questo USAM seguirò i link, promesso.
     
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  13. Alessanto
     
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    User deleted


    CITAZIONE (CountlessCrows @ 5/8/2010, 12:44)
    No, non sono siciliano. Sono emiliano ma conosco per vari motivi ambienti e problemi della Sicilia, sarebbe lungo e poco interessante spiegare.
    Quando avrò finito la scansione di questo USAM seguirò i link, promesso.

    Grazie! :)
     
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  14. federica68
     
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    ciao Antonio
    eccomi anche da te

    devo dire che il racconto, sebbene sia scritto con il tuo stile inconfondibile (ormai è come un ottimo marchio di fabbrica, una specie di garanzia di qualità si può dire) mi ha lasciata un po' con l'amaro in bocca perchè anche se l'ho letto con piacere, ed è filato via liscio come un treno, non l'ho capito tutto...

    cioè

    non ho ben capito come muore la madre. Ha un incidente durante una corsa dei cavalli? perchè lui vede la testa del cavallo su di lei... boh questo farebbe pensare a un incidente, e anche il contesto di scooter e gente che grida

    poi non ho capito il "primo" finale: il cavallo va a spaccare il cranio allo zio Nino? cioè, il fantasma del cavallo, o qualcosa che lui interpreta come un cavallo... quella parte non l'ho proprio capita

    e non ho ben capito nemmeno il "vero" finale, cioè, Giuseppe sa che Tempesta è morto, o sa che non lo vedrà più solo perchè ha cambiato padrone?

    c'è qualche refuso ma te lo hanno già segnalato,

    metto un 3 per via delle parti poco chiare, e mi dispisce davvero perchè sarebbe da 4 per come scrivi e per la storia

    un bacio
    alla prossima




     
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  15. Alessanto
     
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    User deleted


    CITAZIONE (federica68 @ 6/8/2010, 21:15)
    ciao Antonio
    eccomi anche da te

    devo dire che il racconto, sebbene sia scritto con il tuo stile inconfondibile (ormai è come un ottimo marchio di fabbrica, una specie di garanzia di qualità si può dire)

    :wub:

    CITAZIONE (federica68 @ 6/8/2010, 21:15)
    non ho ben capito come muore la madre. Ha un incidente durante una corsa dei cavalli? perchè lui vede la testa del cavallo su di lei... boh questo farebbe pensare a un incidente, e anche il contesto di scooter e gente che grida

    Trattandosi di un sogno ha fatto una commistione tra la morte della madre, la corsa che sarebbe avvenuta, la paura di perdere Tempesta così come ha perso lei; il suo è in una specie di sogno premonitore con innesti delle sue paure e del passato. Credo risolverò la cosa con un corsivo che stacchi il gioco dal sogno vero e proprio. Oppure dire con precisione come è morta la madre per eliminare ogni dubbio.
    Tu che dici?

    CITAZIONE (federica68 @ 6/8/2010, 21:15)
    poi non ho capito il "primo" finale: il cavallo va a spaccare il cranio allo zio Nino? cioè, il fantasma del cavallo, o qualcosa che lui interpreta come un cavallo... quella parte non l'ho proprio capita

    Questo lo elimino cambiando un frase... vado a correggere il testo.

    CITAZIONE (federica68 @ 6/8/2010, 21:15)
    e non ho ben capito nemmeno il "vero" finale, cioè, Giuseppe sa che Tempesta è morto, o sa che non lo vedrà più solo perchè ha cambiato padrone?

    Anche questo lo risolvo con una frase. Vado a correggere.


    CITAZIONE (federica68 @ 6/8/2010, 21:15)
    un bacio
    alla prossima

    Grazie per la lettura, per il voto e per le belle parole!
     
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27 replies since 1/8/2010, 00:19   536 views
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