CASTELLI
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CASTELLI

di Alberto Priora - fantastico - 37.500 circa

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    CASTELLI
    di Alberto Priora

    Il forte rumore di gomme che strisciano e sacrificano una parte di se stesse sull’asfalto, lo stridio acuto dei freni in azione che fende l’aria come un urlo d’orgasmo spezzato.
    — Ma che fai in mezzo alla strada? A che cazzo stai pensando? — grida l’uomo affacciandosi al finestrino, l’espressione in bilico tra la collera e lo spavento.
    Carlo si volta a guardarlo e ne subisce i particolari: la sigaretta velenosa che perde cenere tra le dita, la bocca spalancata nel rimprovero che illumina denti ingialliti, un rivolo di sudore che scende dalla tempia fino a ispidi spuntoni di barba, la camicia sbottonata su peli scuri che si intrecciano alle maglie di una catenina.
    — Allora, ti vuoi togliere o no? — grida di nuovo nel caldo pomeriggio estivo.
    L’auto si è arrestata a dieci, forse venti centimetri da Carlo, quasi sul punto di offrirgli una pericolosa carezza. Quando lui abbassa lo sguardo capisce di trovarsi in mezzo alla strada, dove si è spinto senza rendersene conto e quasi senza memoria del fatto. E ha torto nell’esserci. Non dovrebbe essere lì.
    C’è un colpo nervoso di clacson, eppure l’attenzione di Carlo torna alla spiaggia: a quella spiaggia che lo ha chiamato in maniera irresistibile, a quella spiaggia che credeva di aver dimenticato, o forse sepolto nel punto più profondo di sé. Fissa la distesa di sabbia che comincia dove termina l’asfalto, con solo uno stretto marciapiede a separarli come una sottile membrana; il mare scintilla e si agita più avanti, in un tormento di segreti e di spruzzi. Poi scuote la testa, fa un cenno facile da interpretare come accondiscendente nei riguardi di chi lo guarda e gli sta parlando, e si incammina.
    — Ma guarda questo! — esclama l’uomo al volante, questa volta rivolgendosi alla donna che gli sta seduta accanto.
    — Ma sei drogato? — gli urla lei, la voce stridula abituata a dire sempre la sua, sporgendosi dalla parte dell’uomo quanto basta per inquadrare Carlo dal finestrino.
    — Sì. Drogato e coglione — sono le ultime parole del guidatore prima che l’auto riparta, lasciandosi dietro il rumore sordo di una marmitta trascurata e il puzzo dello scarico.
    Carlo arriva al limitare della sabbia e i suoi occhi si riempiono di ricordi.

    Quando era bambino aspettava con impazienza l’arrivo dell’estate. Non era solo perché così poteva sfuggire alla scuola, ai compagni che cercavano un senso alla loro vita facendo i bulli nei riguardi dei più deboli, agli insegnanti dalle aspirazioni frustrate, tutte cose che apprezzava senza averne piena coscienza, ma perché in quel modo poteva andare al mare e rivedere Claudia. Così, quando giungeva il momento di preparare le valigie e di salire sul treno che avrebbe portato Carlo e sua madre fino al mare, nella vecchia casa che era appartenuta a nonni di cui serbava un ricordo confuso, forse neppure reale ma generato da fotografie viste in qualche album, l’eccitazione si mescolava alla gioia. Dieci minuti scarsi a piedi attraverso il paese e dalla casa si arrivava alla spiaggia, distesa lungo il mare e accarezzata dalla litoranea che univa come un cordone le cittadine della costa. Dieci minuti percorsi al mattino, dopo le colazioni fatte di latte, biscotti e albicocche, e si arrivava alla spiaggia. Dieci minuti e c’era Claudia ad aspettarlo sulla sabbia.
    Claudia e sua madre erano sempre lì prima di loro. Lui non era mai riuscito ad anticipare la sua amica. Anche quando si affrettava a mangiare, anche quando tirava sua madre per la manica pregandola di sbrigarsi, anche quando aveva spostato in avanti le lancette sia dell’orologio della cucina di casa che della sveglia, aveva trovato Claudia già sulla riva, con il secchiello in mano e la brezza che le scompigliava i capelli.
    Claudia era una bambina bionda con gli occhi più azzurri del cielo delle giornate più limpide e con un sorriso che valeva il mondo intero. Carlo ne era innamorato da sempre, nella maniera più innocente e profonda che un bimbo di otto anni potesse provare, un sentimento di affetto che era cresciuto anno dopo anno, un amore fatto di corse, di tuffi, di pane lanciato ai gabbiani, di piste per le biglie, di fumetti, di parole crociate e di castelli di sabbia costruiti assieme. Nessuno dei due aveva fratelli o cugini con cui potessero condividere una vacanza, e si erano trovati un primo giorno mentre Carlo cercava, senza successo, di rovesciare la sabbia del secchiello a formare la torre di un castello come quelli che aveva visto in televisione.
    “Aspetta che ti aiuto” furono le prime parole che lei gli disse; e da allora, per tutti i giorni d’estate di tutte le estati che seguirono, la vita intera fu la spiaggia e la spiaggia fu la vita intera. E questo tranne per quei rari, sfortunati giorni in cui pioveva e in cui Carlo e sua madre non uscivano di casa, con lui a guardare fuori dalla finestra per ore nella speranza di vedere scomparire le nubi ed evaporare l’acqua caduta. Ma se c’era il sole, o anche se solo non spirava vento e il cielo non minacciava di scaricare pioggia, allora l’intera giornata era sulla spiaggia, assieme a Claudia, castello di sabbia dopo castello di sabbia.


    Il pomeriggio si va spegnendo e il sole cala verso il mare attraversando un cielo quasi privo di nubi, tingendo di rosso l’orizzonte. Carlo fa qualche passo sulla sabbia e poi si guarda attorno. Sono passati molti anni dall’ultima volta in cui è stato qui, molti anni da quando ha trascorso le sue vacanze nella casa che era stata dei genitori di sua madre; molte cose appaiono diverse, ma molte altre sembrano non essere cambiate quasi per niente.
    La distesa che porta al mare ha ancora quell’aspetto un po’ selvaggio, privo degli stabilimenti balneari che altrove hanno trasformato la costa in una specie di eterno e rumoroso cortile pieno di gente. C’è ancora un uomo che affitta le sdraio e gli ombrelloni e che la sera li ripone all’interno della costruzione accanto alla strada, solo che quella che una volta era una baracca di legno dal tetto rosso, adesso è una casetta di cemento grigio sporcata da graffiti fatti con la vernice spray. Ci sono anche il bar dove andavano a comprare bibite e ghiaccioli e il chiosco dei giornali, anche se ora si trovano affiancati da un negozio di windsurf e da un fast food costruiti in tempi più recenti e che non presentano ancora le pareti scolorite e scrostate dei loro vicini. Ci sono ancora pochi bagnanti: qualche famigliola, gruppi di ragazzi, anziani che trascorrono il tempo leggendo il giornale, coppie che discutono per l’intero arco della giornata, bambini che giocano; tante figure umane a popolare quel luogo, come ce ne sono sempre state, anche in passato, ma diverse, nuove, nei dettagli eppure non nella sostanza.
    A Carlo basta un istante per capire, per sentire, come la spiaggia sia la stessa e come invece lui risulti cambiato.
    Si ferma e scuote la testa: non vuole cedere alla sensazione, alla conclusione, che quel luogo lo abbia in qualche modo attirato a sé, che non si sia trattato solo di un caso, di una coincidenza, il fatto che si sia trovato a passare di lì, per quella strada provinciale che fende un paese dopo l’altro sulla costa dopo essere stato costretto ad abbandonare l’autostrada bloccata da un incidente e ingolfata da una lunga coda di veicoli.
    Dovrebbe girarsi e andarsene. Tornare sui suoi passi e risalire sull’auto che ha lasciato dall’altra parte della strada; qualcosa di molto facile da fare.
    Eppure fa ancora dei passi, spargendo la sabbia con le scarpe che non ha pensato di togliersi, lanciandosela nel risvolto dei pantaloni. Pochi passi verso il mare, lontano dalla strada.
    Pochi passi e poi nota qualcosa nella sabbia e il suo cuore perde tre battiti.
    Ventisette anni. Ventisette anni credeva fosse la distanza tra lui e quel luogo illuminato dal sole e bagnato dalle onde.
    Carlo li attraversa in un istante, quando davanti a sé vede le torri di un castello di sabbia che emergono come i ruderi di un maniero dimenticato sulle colline che si impongono sulla pianura circostante.
    — Claudia — mormora. E uno sguardo fatto di occhi azzurri torna da lui.

    Non si poteva dire che sua madre e la madre di Claudia fossero amiche, quanto piuttosto due donne unite da un forte interesse comune: due bambini che si trovavano così bene assieme da risultare inseparabili ogni volta che c’era la possibilità di stare sulla spiaggia. Li osservavano mentre giocavano assieme o passavano il tempo a fare costruzioni con la sabbia, ma raramente parlavano tra loro di qualcosa che andasse oltre i semplici commenti su quello che le circondava o che si vedeva sulla spiaggia. La loro giornata sembrava quasi essere fatta solo in funzione dei figli e dei loro tempi; il momento di mettersi la crema, il momento di tenere il cappellino, il momento di entrare in acqua, il momento di uscire dall’acqua, il momento del pranzo, il momento di mangiare il gelato di merenda, il momento di lasciare la spiaggia. Gli intervalli tra quei momenti erano fatti di riviste e di libri gialli, anche se la madre di Claudia leggeva molto poco e quasi in maniera distratta, e di sguardi fissi sull’orizzonte, come se quella linea lontana, che separava il mare dal cielo, fosse una porta da cui poteva arrivare qualcuno o qualcosa di importante.
    In realtà la madre di Carlo, insegnante precaria di italiano alle medie che stava tirando su da sola il figlio dopo aver rinunciato a inseguire l’uomo che aveva fatto tante promesse poi non mantenute, non sapeva molto della madre di Claudia; per un senso di riservatezza non aveva mai fatto molte domande, limitandosi alle scarse informazioni messe qua e là nei discorsi che facevano. Claudia e sua madre venivano in vacanza d’estate da un altro posto sul mare che era meno bello ma anche più frequentato e caotico, abitavano dalle parti del promontorio, il lavoro di lei era qualcosa di indefinito e non c’era, almeno in quel periodo, un uomo nella loro vita.
    Di una cosa c’era però certezza. Claudia aveva trovato in Carlo un amico e un compagno di giochi, dividendo con lui quella gioia unica che si trova nei bambini.
    Queste erano le cose che la madre di Carlo diceva al figlio quando lui chiedeva notizie o certezze, magari nei giorni di pioggia che negavano il piacere dello stare in spiaggia e del vedere la sua amica, spesso sul treno che li riportava in città agli inizi di settembre al termine di una stagione fatta di castelli realizzati con la sabbia.


    Un’aria lieve soffia dal mare verso la costa e fa rotolare qualche granello oltre il suo angolo di caduta, giù dagli spalti e dalle torri di un castello di sabbia che riposa in mezzo alla spiaggia proprio ai piedi di Carlo. Il costruttore deve aver speso parecchio tempo per costruirlo, perché come prima cosa ha spalato sabbia fino a formare una piccola collina, solo quanto basta per arrivare poco al di sotto delle ginocchia di un bambino, ma una discreta elevazione per il complesso maniero che ci ha edificato sopra; abbastanza perché chi voglia girarci attorno camminando spenda almeno una quindicina di secondi nel farlo. Non che quel lavoro preliminare sia stato fatto invano, perché dove è stata prelevata la sabbia c’è adesso un ampio fossato con le pareti appena inclinate superato in due punti da ponti ad arco che collegano il castello al resto del mondo.
    Gli occhi di Carlo si soffermano sul ponte più vicino a lui e indugiano sui dettagli che possiede anche se si tratta all’apparenza di un elemento secondario: a proteggere fantomatici viandanti diretti alla collina da eventuali, e pericolose, cadute nel fossato ci sono infatti due parapetti merlati su cui sono stati iscritti degli stemmi a losanga.
    Ma il suo sguardo, che pure vorrebbe aspettare ancora, cede alla volontà di proseguire, perché non appena attraversato il ponte la strada inizia a salire il pendio della collina; curva a sinistra bordata di un muretto, smettendo solo per un breve tratto di inerpicarsi, e poi riprende decisa ad annullare il gradiente rimasto fino a raggiungere un ampio ingresso dominato da due torri quadrate e sottostante un breve arco di mura completo di merli e camminamento. Ai lati dell’ingresso, sul muro esterno, sono incise nella sabbia due bestie immaginarie della mitologia, alate e rampanti entrambe, dotate di un tratto preciso tanto da renderle del tutto identificabili: un grifone da una parte e una manticora dall’altra.
    La sguardo di Carlo prosegue e varca l’ingresso, perdendosi in un complesso che è quasi difficile abbracciare con un solo sguardo. Il rilievo in miniatura è coperto interamente da un grande castello, tutto un susseguirsi di mura e di torri, di cortili e di passaggi, di scalinate e di ingressi, di finestre e di archetti. È un’opera immensa, o almeno lo sarebbe per un visitatore che fosse in una scala tale da poterne varcare le porte senza chinare il capo.
    Carlo si inoltra in quel labirinto di possibili percorsi, perché già dal primo spiazzo, una piazza d’armi quadrata che confina con stalle e abbeveratoi, è possibile scegliere più vie: varcare una seconda arcata oppure salire una strada lastricata di ciottoli che sale a un livello più alto oppure affrontare un’elegante scalinata oppure esplorare una prima torre grazie agli alti gradini che la circondano come un abbraccio.
    Ma è solo l’inizio, sono solo le prime decisioni che si potrebbero prendere, perché l’opera di sabbia è un continuo susseguirsi di varchi e di accessi, di bastioni e di costruzioni, che non solo coprono la collina, ma la sormontano in altezza con torri più piccole sopra torri più grandi, con terrazze che si affacciano su viottoli, con giardini percorsi da canali e rinfrescati da fontane che danno accesso a edifici, con un girotondo di merli, di feritoie e di caditoie.
    E gli ingressi sono scavati abbastanza da condurre a scale interne, le verande da mostrare saloni dalle pareti istoriate, le finestre da affacciarsi a stanze ammobiliate.
    La mente di Carlo si perde dietro il suo sguardo, non sa come tornare indietro verso l’uscita che riporti all’esterno, ma di una cosa è sicura.
    Carlo sa chi è l’architetto di quel castello.
    Sa anche che è impossibile.

    Claudia e Carlo non sembravano mai essere del tutto soddisfatti dei loro risultati. Ogni volta che terminavano un castello ci trovavano sempre qualche difetto, qualche errore o qualche dimenticanza. A volte era lei a dirlo, a volte lui, molto più spesso lo dicevano entrambi di comune accordo.
    Visti dall’esterno, visti dagli altri frequentatori della spiaggia, erano sempre delle costruzioni invidiabili per dettagli o dimensioni, per cura o precisione; ma loro due non sembravano esserne mai contenti.
    Non era mai un castello di sabbia perfetto; e invece cercavano il castello di sabbia perfetto. Quel castello che corrispondesse ai loro sogni, quel castello in cui fosse desiderabile perdersi, camminare sui contrafforti, girovagare in cerca di passaggi segreti, danzare nei saloni, passare in rassegna gli eserciti nelle piazze d’armi.
    Eppure quel castello non arrivava mai se non nei loro discorsi, quando ne facevano i progetti tornando con il gelato o con la focaccia; e le costruzioni che dominavano al termine della giornata erano alla fine sempre al di sotto delle loro aspettative. Così qualche volta li distruggevano loro stessi e qualche volta godevano nel vedere le onde salire con la marea e distruggerli poco a poco, facendone franare i pezzi, riprendendone la sabbia, devastandone i particolari.
    Diventava un gioco nel gioco. Un gioco che abbracciava l’estate. Un gioco in cui Carlo poteva stare accanto a Claudia e perdersi nelle sue risate e nel suo sorriso.
    Il loro sogno.
    Finché questo fu possibile.
    Si avvicinava la fine dell’estate. Carlo aveva tredici anni e, per quanto fosse realistico per la sua breve esperienza di vita, cominciava a capire certe cose; quelle certe cose che avvenivano tra ragazzi e ragazze di due sessi diversi, tra uomini e donne. Se fino all’anno precedente la presenza di coppiette di fidanzati sulla spiaggia faceva solo parte del paesaggio, un fenomeno in bilico tra la scocciatura quando occupavano le zone migliori in cui giocare e il massimo distacco verso qualcosa di ancora quasi del tutto alieno, adesso iniziava a prevalere la curiosità e il pensiero che quello che poteva accadere tra quei lui e quelle lei, i baci, gli abbracci, fossero cose desiderabili. Anzi che fossero desiderabili specialmente con Claudia.
    Ma era già una strana estate. A differenza di quelle precedenti Carlo notava una certa assenza nella sua amica, non nel senso che mancasse di venire in spiaggia, perché la sua presenza era una costante come sempre, ma nei suoi comportamenti. Spesso la vedeva fissare a lungo il mare, come ipnotizzata dal continuo ciclo di onde sempre uguali eppure sempre diverse. C’erano dei giorni in cui sembrava che quella fosse la sua aspirazione principale: fissare la distesa d’acqua che si apriva davanti a loro come se fosse più importante, almeno più attraente, della spiaggia e della terra. Con il castello costruito solo in parte, le torri da rovesciare dal secchiello, le mura da completare, Carlo si scopriva all’improvviso l’unico al lavoro della coppia.
    Quando cercava la sua amica, ecco che Claudia era presso la riva, i piedi accarezzati dalla schiuma a guardare il mare; seria e assorta se si escludevano strani sguardi che scambiava con la madre, momenti di cui Carlo si accorgeva e che capiva ancora di meno.
    Poi la ragazza tornava accanto a lui, di nuovo all’opera sul castello ma senza dire nulla a proposito del mare, senza spiegare il suo interesse o i suoi motivi. Il sorriso illuminava di nuovo il suo viso e le sue mani riprendevano a modellare la sabbia in archi e passaggi, a intagliare merli e a creare finestre. E tornava la Claudia di prima, la Claudia di sempre.
    E queste cose Carlo le notava. Perché Carlo era molto attento a Claudia e a quello che faceva; ne notava i movimenti, meravigliandosi come quel suo camminare fosse così diverso da quello dell’anno prima, e di come adesso lo notasse malgrado fosse qualcosa di scontato. E scoprendo che la sua gola aveva come un sussulto quando notava i particolari del costume da bagno di lei, non più per i disegni di coniglietti o orsetti, ma per come il tessuto si modellasse su di lei, si curvasse morbidamente sul petto e dietro i fianchi. Per come questo lo colpisse e attirasse il suo sguardo.
    E così i suoi occhi azzurri.
    Carlo si chiedeva se quello fosse l’Amore.
    E ne aveva un po’ timore.
    Ma lo attirava e ne aveva paura allo stesso tempo; e proprio per questo si decise, un giorno, quando erano andati a prendere i fumetti appena usciti, ad avvicinarsi a lei in modo diverso, in maniera più vicina di quanto avesse mai fatto. Mentre giravano attorno al chiosco per vedere gli albi esposti nelle teche di vetro, lui l’aveva fermata e aveva avvicinato il viso a quello limpido e sorridente di lei.
    E l’aveva baciata.
    Un bacio lieve, più che una carezza sulle labbra, ma meno di quegli incontri lunghi visti tra le coppie sulla spiaggia, quelli dotati di una meccanica ignota e nascosta che però tanto appassionava i partecipanti.
    Eppure quel bacio era come aprire una porta su di un mondo; un gesto che Carlo aveva fatto ad occhi chiusi, stretti all’ultimo momento per quella paura che gli bloccava lo stomaco.
     Ti amo  aveva aggiunto. Una dichiarazione di intenti eterna.
    Quando aveva aperto gli occhi, però, Claudia non sorrideva. Forse era sorpresa quella che si agitava sul suo viso, forse altro. Però non sorrideva. Non sorrideva come invece facevano tutte le ragazze che venivano baciate sulla spiaggia, quelle che Carlo aveva osservato dal principio dell’estate.
    Lei si era voltata, senza dire nulla, e si era allontanata, lasciando lì Carlo e il suo cuore.
    Quando, dopo minuti in cui i suoi piedi rifiutavano di muoversi, lui era tornato verso la riva, sua madre gli disse che era giunta l’ora di fare l’ultimo bagno della giornata, il momento abituale, come tutti i pomeriggi, di quell’ultimo tuffo, di quell’ultimo sguazzare tra le onde che lui andava a fare con la sua amica.
    Claudia era poco lontana e lo fissava serio, gli occhi azzurri come velati di qualcosa.
    Carlo fece un passo, sua madre che quasi lo spingeva.
    Claudia scosse appena la testa, sua madre che la fissava.
    Carlo si fermò e disse che oggi no, non se la sentiva, che forse aveva ancora il mangiare sullo stomaco, che forse era meglio se restava a riva.
    Il mare accennava appena delle onde, la superficie increspata ma incapace di nascondere chiunque se non per pochi attimi.
    Claudia si girò ed entrò in acqua, nuotò incontro alla spuma.
    Non tornò mai più.
    La cercarono a lungo. La cercarono gli altri bagnanti, la cercò la polizia con la motovedetta, la cercarono i pescatori con le lanterne. Anche Carlo voleva andare a cercarla, ma fu trattenuto da sua madre che gli faceva cadere le lacrime addosso sotto lo sguardo immoto della madre di lei, che rimase a fissare l’orizzonte senza dire che poche parole, gli occhi asciutti e strani.
    Claudia non tornò mai più a riva.
    Non la trovarono più.


    Il sole si immerge nel mare disegnando un cono rossastro sulle onde e colorando le nuvole sfrangiate di un violetto sprizzante. I bagnanti si allontanano secondo mute carovane e gli addetti ritirano le loro cose già pensando a quando dovranno tirarle fuori l’indomani.
    Le ombre delle torri si allungano nel grande cortile dove si trova Carlo. Non c’è più una spiaggia per lui, ma solo un castello che si innalza attorno a lui e lo circonda.
    Che lo avvolge.
    Si trova nel centro del grande spiazzo, presso una fontana dominata dalle figure di tre delfini immobilizzati nell’atto di tuffarsi, le code in alto e le bocche aperte sospese sulla vasca.
    Carlo si china e sfiora le mattonelle della pavimentazione e le incide con il dito indice.
    Sabbia. Sono fatte di sabbia.
    Fa due passi e si sporge sulla fontana, il cui bordo gli arriva all’altezza del bacino.
    Anche la fontana, che è priva d’acqua, è fatta di sabbia. I delfini ne sono scolpiti, la vasca ne ha la superficie levigata inclinata verso l’interno. Quando Carlo si sporge per toccarne l’interno, però, ne sbreccia l’orlo e un pezzo si rompe, rotolando silenzioso all’interno e andando a sgretolarsi in granelli e pezzi più piccoli.
    Carlo si volta, sentendosi colpevole per quel sacrilegio, ma non c’è nessuno che sia pronto a sgridarlo. Il cortile è una distesa deserta che si inonda di ombre; che punta a una scalinata principale splendida nel suo salire fino a un sontuoso ingresso, più solenne delle molte porte delle torri, più invitante delle arcate delle scuderie.
    Sale gradino dopo gradino, sentendo i piedi che affondano di poco, fissando davanti a sé i portoni spalancati e coperti di motivi floreali istoriati nella sabbia. Un breve atrio lo attende, ma non buio, perché oltre di esso si apre un grande salone che attinge ancora la luce del tramonto da ampie finestre dalle intelaiature lavorate. Quella luce si spande sui tavoli e sulle panche di un banchetto, sui piatti alternati alle brocche, sulle armature che sorvegliano dagli angoli, sugli arazzi disposti lungo le pareti.
    E tutto è silenzioso nel castello di sabbia, anche l’aria che spira e che si intrufola dentro di esso è circospetta al punto da non fare alcun rumore, lieve da far correre qualche granello, ma rispettosa dei luoghi che attraversa.
    Più corridoi si separano dalla sala, scavati ad arte nella sabbia, misteriosi nel loro procedere. Carlo si avvicina a ognuno di essi, indeciso su quale scegliere, fino a quando non ne trova uno che mostra piccole orme che ne escono e poi ne rientrano.
    Un invito a cui non può resistere.

    Carlo e sua madre non tornarono su quella spiaggia l’estate successiva. E neppure in una di quelle seguenti.
    Non parlarono neppure dell’eventualità di tornare e per tacito accordo spostarono le loro vacanze altrove: un anno in montagna in un albergo di poche pretese, un altro in visita da una zia che viveva in campagna, un altro ancora a visitare la capitale, e via così, in località sempre diverse in pensioni di cui si faceva presto a dimenticare l’aspetto. Come se entrambi non volessero mai più legarsi a un luogo e a qualcuno in particolare.
    La casa dei nonni rimase abbandonata a lungo finché sua madre non si servì di un’agenzia per venderla e acquistare quella in cui abitavano in città. Fu anche il periodo in cui lei riuscì a ottenere una cattedra fissa e a tentare una relazione che, invece, rimase sempre precaria e inconcludente.
    Quando Carlo finì le superiori e si trovò a contemplare il diploma di geometra pensò a lungo se valesse la pena, se valesse la pena per lui, diventare un architetto e decidere cosa costruire, o se invece gli bastasse lavorare sulle costruzioni e sulle opere degli altri. Ma non giunse mai a una scelta vera e propria perché fu anche il periodo in cui sua madre iniziò ad ammalarsi. Così trovò un posto in uno studio e si risolse di lavorare sulle misure dei progetti che studiavano i titolari.
    Lì, tra le segretarie, incontrò anche quella che sarebbe diventata sua moglie.
    I capelli ricci e scuri, gli occhi sempre agitati, la figura esile anche se proporzionata, Elisabetta era sempre in conflitto con qualcosa: se non era il capo, era la politica; se non era la vicina di casa, era il fidanzato; se non era il film che trasmettevano, era lo spettacolo che vi sarebbe seguito. Per fortuna lei odiava il mare e amava piuttosto la montagna, anche se Carlo non imparò mai a sciare e si limitava a salutare mentre lei sfrecciava sulle piste.
    Fu una lunga successione di anni, poco più di venti, intervallata da pochi, singoli fatti:una promessa fatta davanti a un altare, la morte di sua madre, il trasferimento in uno studio più grande, la vittoria ai mondiali di calcio, qualche evento di politica mondiale, un viaggio in un altro continente, un ruolo di maggiore responsabilità sul lavoro che lo portava, qualche volta, a girare per il paese.
    E proprio in un’occasione del genere si è trovato a passare dalle parti della spiaggia quasi senza accorgersene. Ma è bastato dover deviare dall’autostrada ed essere costretto a percorrere la provinciale per entrare in paese, per sfiorare quella linea di sabbia che aveva solo riposto, e non cancellato, nella sua memoria.
    È bastato così poco, in fondo, per tornare lì, lì dove non è mai più tornato.


    Carlo percorre corridoi e sale scale, attraversa stanze e gira ballatoi, si affaccia su terrazze che danno su pericolosi baratri di sabbia e sfiora merli che non hanno mai visto nemici all’assalto. Segue sempre le tracce che ha trovato, piedi esili che sembrano sempre sapere dove andare nel labirinto enorme che è il castello.
    Il sole è tramontato, è sorta la notte, ma la pallida luce della luna riveste le mura e scivola da esse, penetra all’interno e si riflette sugli infiniti granelli replicandosi in ogni angolo nascosto. Quando si ritrova all’esterno, su di un passaggio ad arco che valica il vuoto tra due torri, scopre che una brezza leggera ha cominciato a spirare da terra verso il mare.
    Proprio allora scorge una figura più in basso, che affretta il passo su di una scala a chiocciola che si attorciglia a una delle torri. Ha il corpo esile, i capelli chiari che scintillano, la pelle che riflette i raggi lunari.
    Carlo non ha dubbi, neppure per un istante.
    Si mette a correre, supera una balaustra e poi inizia a scendere gli stessi gradini, scalfendoli a ogni passo, rischiando di incespicare più volte, cercando di afferrare la parete sfuggente di sabbia per tenere l’equilibrio ed evitare di cadere di sotto.
    Quando arriva nel cortile si guarda attorno. Chi sta inseguendo è adesso sotto una serie di arcate: a tratti sparisce per riapparire dopo una delle colonne. È ancora lontana, troppo avanti per essere raggiunta se non rallenta il suo incedere.
    Carlo è indeciso se chiamarla ad alta voce: crede che non sarà quello a fermarla. Così cerca di rammentare le forme del castello e scarta di lato, verso uno stretto passaggio che lambisce le mura sotto una delle torri rettangolari più alte. Si toglie le scarpe e corre veloce sollevando la sabbia dietro di sé.
    Quando sbuca in un cortile, lei vi sta entrando da un angolo poco lontano. Si incontrano quasi nel centro, dove c’è un pozzo che affonda nella collina, dove la luce della luna sembra farsi più intensa.
    È diversa e anche uguale. Ma anche quando è differente è sempre lei. A tratti è la Claudia bambina, quella dei suoi primi ricordi, ma a tratti diventa la giovane adolescente che gli agitava la coscienza, ma a tratti è anche una Claudia che non ha mai visto, quella che è cresciuta dopo essere scomparsa. Non dovrebbe essere, eppure sono quegli stessi occhi azzurri, quegli stessi capelli biondi che si agitano con dolcezza, quelle stesse labbra che promettono di aprire universi. Sono solo più adulti e maturi.
    Fa per parlare, ma è lei che lo anticipa.
    — Anche io — risponde.

    Anni.
    Anni trascorsi in un vortice di vita tranquilla, nel lasciarsi trascinare sperando solo di aver scordato, di aver lasciato dietro di sé quell’improvviso seguirsi di eventi belli e brutti, di aver sepolto un’immagine spezzata.
    Certo c’erano dei sogni, sogni che esplodevano di notte e all’alba tornavano confinati dentro di lui, che arretravano al mattino di fronte alla realtà delle cose, a un presente a cui si era abituato, a cui sopravviveva per inerzia, per mancanza di coraggio.
    E non aveva mai osato tornare, in tutti quegli anni, in qual luogo, in quella spiaggia. Forse per il timore inconscio di affrontare i ricordi, di decidere per sempre che erano solo ricordi di una realtà che era finita, di togliergli ogni sospensione, di rinunciare a ogni attesa. Aveva detto, aveva pensato, di aver dedicato la sua vita a un’altra. Lo aveva creduto fino a quel momento.
    Anni.
    Anni che restavano.
    Anni accorciati in un solo istante.


    La vita, a Carlo, sembra adesso una cosa trasportata dalle onde che si infrangono sulla riva. Come qualcosa che gli è stato strappato e che viene trascinato via dall’acqua, qualcosa che ha guardato mentre si allontanava, con la disperazione di vederla sempre più separata da sé. E che poi ha mutato direzione ed è tornata con l’onda seguente, è tornata fino a lui.
    Adesso non è più il timido, magari impacciato, tredicenne. Con gli anni e con le esperienze maturate sa meglio cosa fare. Potrebbe abbracciarla di nuovo, stringerla, avvicinare la bocca alla sua, sussurrare, o magari gridare, le parole che ha dovuto forzatamente tenersi dentro.
    Perché quella di fronte a lui è Claudia. Claudia scomparsa nel mare e mai più tornata. La Claudia che non ha mai smesso di amare anche se è rimasta separata da lui da un abisso di acqua e di tempo.
    Carlo si tende, socchiude le labbra, ma lei alza un dito e lo ferma portandoselo alle labbra. Gli porge l’altra mano e lo accompagna verso l’ingresso della torre che si innalza dal cortile. Quando ne varcano l’ingresso sono all’interno di una camera dal soffitto alto, con le pareti incise da una serie di immagini su cui la luce della luna passa come una carezza.
    Rappresentano una storia.
    La storia di una creatura che nuota nel mare, che respira il mare stesso senza timore così come respira l’aria, che ne percorre gli abissi e ne sfiora le coste; una creatura che può anche mutare il suo aspetto in modo da apparire a chi la guarda come vorrebbe che fosse il suo osservatore, più ancora che come vorrebbe essere vista.
    Una creatura che è solo femmina.
    Una creatura che sale sulla riva per potersi riprodurre; che di generazione in generazione, giunta al momento della maturità, attrae il suo sposo, umano, dentro i flutti e lo usa un’unica volta, quell’unica volta, per poi scartarlo per sempre e destinarlo a una tomba d’acqua. Un ciclo vitale che è per lei naturale, che non può avvenire altrimenti, e che darà solo figlie femmine, creature a loro volta destinate a ripetere quella danza senza permettersi rimpianti.
    Perché la natura è la natura.
    E Carlo è imbevuto da quella storia, che lo attraversa al di là delle immagini disegnate sulla sabbia e si calcifica dentro di lui.
    — Ma io ti amo — le dice.
    — Anche io. Ed è per questo che sono dovuta andare via.
    La sua voce è un sussurro dolce e forte, leggero e fragrante.
    Ma Carlo non vuole andarsene, non vuole fuggire. E non vuole neppure che lei vada via di nuovo. Fa la sua scelta in quel momento, anche se gli sembra di averla fatta da sempre e si stringe a lei.
    La bacia di nuovo, come fece quel giorno sulla spiaggia, ma adesso deciso a non farla allontanare di nuovo, a non perderla. È un bacio in cui perdersi, in cui far passare un cuore nell’altro. Eppure gli occhi di Claudia hanno un velo di tristezza che le spezza il sorriso come allora.
    In quel momento il silenzio che ha avvolto il castello di sabbia si infrange. Qualcosa crolla con rumore di frana, più avanti, lungo le mura. Carlo esce nel cortile e spia nel buio le sagome dei bastioni e delle torri cercando il punto esatto di origine.
    Ma pare tornata la calma.
    In realtà è tornata solo per poco.
    C’è un nuovo crollo, questa volta ben visibile, che riguarda il muro esterno e che si porta dietro un tratto di camminamenti e una serie di arcate. Nella breccia inizia a penetrare dell’acqua. Non si tratta di una semplice onda, anche se adesso si sente lo sbattere del mare contro la costruzione di sabbia, ma di un crescere continuo e inarrestabile.
    La marea sale sul castello. Lo bagna. Lo permea. Lo violenta. Lo scioglie. Lo abbatte.
    Carlo si volta verso Claudia. Il volto di lei è quasi più tranquillo, come se accettasse quell’assoluzione liquida, in attesa di un abbraccio finale.
    Lui la afferra per un braccio e la tira via, trascinandola di nuovo all’interno della torre e poi su per una rampa di scale che porta a un primo piano.
    Sotto di loro si sente il rumore assordante degli spruzzi, il gorgoglio della sabbia che assorbe acqua fino al punto di esserne talmente pregna da scivolare su se stessa, di trasformarsi in una massa vischiosa che ricade e si spande perdendo la forma che le era stata data.
    La torre trema mentre loro due salgono insieme. Dalle feritoie Carlo scorge altre torri che si inclinano e poi franano, le mille sculture che le adornavano in superficie che diventano un liscio informe.
    Ma le pareti attorno a loro rimangono ancora e hanno anche loro una storia da raccontare, una storia che si svolge gradino dopo gradino. Il fatto che si trovi lì è una coincidenza che non sfugge a Carlo, anche se continua a volerne rifiutare il senso ultimo. Narra di come la creatura, in attesa di raggiungere la sua maturità, desiderosa di capire di più quella parte di mondo in superficie da cui deve rubare così tanto, da cui deve rubare una vita per averne un’altra, viva con la madre nelle grotte presso la scogliera e si avvicini così al futuro sposo.
    Lo conosce, ne condivide i desideri, si perde con lui nei suoi sogni.
    Quelli che diventano i loro sogni. Sogni di bambini di un castello maestoso, unico, perfetto; desideri di raggiungere e dominare la sfida che si erano imposti.
    Ed è la storia di come l’essere che non dovrebbe conoscere amore, invece si innamora. Al punto di sacrificarsi. Al punto di sacrificarsi malgrado la sua natura urli e strepiti per fare ciò che sarebbe necessario fare.
    Quel castello da sogno è il suo regalo per lui.
    Quando raggiungono la sommità della torre c’è un nuovo tremito. Il mare circonda il castello e colpisce duramente la collina, troppo bassa per poter resistere al salire della marea di quella spiaggia.
    Ma anche quella è stata una scelta precisa, un modo di scandire il tempo necessario per potersi ritrovare, ma anche per non rimanere pericolosamente assieme troppo a lungo, oltre il momento da cui non ci potrebbe essere ritorno. Carlo questo lo legge negli occhi di lei.
    Le mura cedono, le torri crollano, i dettagli si appiattiscono, le scale si sgretolano, i delfini di una fontana si inabissano per sempre. La terrazza si inclina di colpo e i merli rotolano loro addosso. Claudia sfugge alla presa; Carlo annaspa nella sabbia e la riprende, tende le dita, ma non sa dove agganciarsi in un mondo che si disfa, che si liquefa, che disperde e annulla se stesso.
    La riperde di nuovo mentre la sabbia si mescola e cade verso l’acqua. Per un ultimo attimo scorge i suoi occhi azzurri, poi non li vede più.

    Qualche volta, con il passare degli anni, si era ritrovato a guardare da lontano, sempre rigorosamente da lontano, un qualche mare e a chiedersi un perché delle cose. Non aveva mai osato avvicinarsi, non aveva mai tentato di tornarci.
    Aveva deciso che la sua vita, adesso, era un’altra. C’era un’altra donna per lui, che aveva imparato a conoscere, a cui si era dedicato.
    Non aveva senso farsi domande.
    Quindi non servivano neppure risposte.


    L’alba coglie Carlo seduto sulla spiaggia. Il sole sorge alle spalle del paese e inizia a scaldare la sabbia; una lieve brezza di mare crea piccoli mulinelli strappando i granelli superficiali man mano che si asciugano.
    Accanto a lui c’è una massa informe su cui ha infierito la marea prima di cominciare a ritirarsi. Nessuno saprebbe dire cosa potesse essere in precedenza se non un semplice cumulo scavato senza scopo.
    Carlo si alza. Non ha più le scarpe e i suoi vestiti sono incrostati di sale.
    Il mucchio di sabbia non gli arriva neppure al ginocchio, ma in esso vede ancora le torri e le guglie, le arcate e le merlature, i saloni e le fontane. Resteranno con lui, loro sì che resteranno con lui. Sogni che custodirà.
    Dà un’ultima occhiata al mare, alle sue onde incessanti, e poi si allontana per tornare da una donna che gli resterà per sempre estranea.
     
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