Il gattino
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Il gattino

Horror, 35000 circa

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  1. Mastronxo
     
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    Avevo modificato un po' di cose, tipo avevo scelto di aggiungere il nome del vecchio, ma secondo me perde e lo rimodifico. Per il resto,
    SPOILER (click to view)
    ho reso più chiaro il combattimento e ho dato una motivazione finale del non voler ricordare il nome, che ora non è èpiù il nome ma il volto e la fisionomia.
    Ah, e ho modificato la parte in cui sente decisamente una voce che parla a Gloria con un gli sembrò che... meglio.

    Grazie eh!

    IL GATTINO

    «Sei sicura?» le chiese il vecchio. Era una domanda inutile, lui lo sapeva.
    La ragazza chiuse gli occhi, lucidi di febbre e di determinazione, e abbassò un poco il mento in un cenno di assenso. Tossì.
    Il vecchio si sporse in avanti, appoggiò il fucile M-3 alla parete e si schiarì la voce. La guardò in viso. Nonostante il sole stesse calando, il volto scarno e verdastro di lei, infossato nel cuscino sformato e ingiallito, non dava segni di Manomissione. Non ancora.
    «Non è una bella storia…» iniziò.
    Si stava rammollendo. Non poteva permetterselo.
    Sua nipote continuò a scrutare nei suoi occhi, o più a fondo, in attesa. Il vecchio si passò rapidamente la lingua sulle labbra, deglutì e cercò di fermare il tremore delle proprie mani poggiandosi i gomiti sulle ginocchia e abbassando lo sguardo al pavimento, grigio e lurido come i suoi pensieri.
    Inspirò forte, si raddrizzò sullo schienale della sedia posta accanto alla brandina, e proseguì.

    Prese uno dei gattini che piangevano nello scatolone. Cercavano la mamma, avevano fame.
    Questo era il suo preferito. Se fosse riuscito con lui, con gli altri non avrebbe avuto problemi. Non troppi.
    Tenendolo delicatamente con entrambe le mani, se lo portò davanti al volto e si chiese se fosse davvero necessario.
    Lo era.
    Prima di iniziare, si volse in direzione della finestra, cercando coraggio. Non vide altro che un groviglio di assi inchiodate, alcune a imitazione di croci di sant’Andrea, con davanti un cumulo di sedie e uno scrittoio a completare lo sbarramento. Attraverso le sottili fessure che aveva deciso di non accecare, si facevano largo fogli di luce che trafiggevano l’aria polverosa e scura come una vecchia coperta, unico nutrimento per le sue pupille dilatate. Non riusciva a liberarsi del vizio di guardarle. Probabilmente si aspettava che le lame luminose si spegnessero all’improvviso, lasciando intravedere una figura enorme e mostruosa dietro di esse, prima che un pugno violento come un colpo di ariete sfondasse la barricata; ma a lui piaceva pensare che la sua mente, ricordando l’antico paesaggio che le vetrate un tempo incorniciavano, volesse tornare per un attimo al passato, a quei boschi e a quei panorami che si stendevano come laghi gialli e verdi, fino a venir cicatrizzati dalle imponenti figure delle catene alpine.
    Mentre il gattino tremava e muoveva il musetto cieco da un lato all’altro, l’uomo pensò a una palma lucente le cui fronde accarezzavano il vento con la delicatezza di una mano di mamma; al deserto, caldo e soffice come un giaciglio di erba e fieno; al nome di… una persona… che aveva conosciuto, della quale conosceva il sorriso e il volto. Ma che non voleva ricordare, neanche in quel momento.
    Non poteva rischiare che le bestioline perdessero sangue, anche se indossava spessi guanti da giardinaggio. Se avesse usato le forbici o il coltello c’era la probabilità che ne spruzzassero in giro qualche goccia.
    Il metodo più sicuro che gli era venuto in mente era stato quello di infilarli prima in un sacchetto di plastica, uno di quelli che si usano per conservare gli alimenti da surgelare, e poi… lavorare con le mani. Dopo aver chiuso gli occhi.
    Non aveva avuto la forza di lasciarli lì a soffocare, anche se sarebbe stata la decisione migliore.
    Quando ebbe finito, legò fra loro le due estremità del sacco nero mezzo vuoto, cercando di far uscire l’aria che ne rimaneva intrappolata all’interno, e si diresse alla porta d’ingresso.
    «Papà?»
    S’irrigidì, la gola stretta da un pugno ghiacciato. Mandò un colpo di tosse e, senza voltarsi, disse: «Tesoro. Devo portare fuori la spazzatura, torna in camera.»
    Era riuscito a non farsi tremare la voce.
    La piccola alle sue spalle scese gli ultimi gradini della scala interna e fece per corrergli dietro.
    «Vengo con te!» urlò.
    Lui si asciugò in fretta le guance ispide con la manica della camicia e si girò di scatto, inchiodandola con uno sguardo acuminato e gelido. Ogni traccia di pianto, se mai c’era stata, era svanita dal suo volto.
    «No!» le scagliò addosso quel rifiuto con violenza. Troppa. Ma, forse, andava bene così.
    La bambina lo guardò dal basso in su con un indice poggiato sul labbro inferiore. Il diaframma dell’uomo si contrasse e dovette sforzarsi di trattenere un singhiozzo. Le andò di fronte e si inginocchiò, senza lasciare il sacco.
    «Cosa ti ha detto il papà stamattina?»
    Lei abbassò gli occhi. «Che non si esce più…» rispose.
    Il padre le sorrise e ammorbidì il tono. «Brava, piccola. E poi?»
    «… che… che se mi vien voglia di robe crude devo chiamarti...»
    Poi, notando che il papà non diceva nulla: «Carne… carne cruda, se mi vien voglia di carne cruda devo chiamarti. Non ne ho voglia, papà, la carne cruda mi fa super schifissimo. Bleh…»
    Lui le appoggiò la mano sulla nuca e la strofinò forte. La piccola mandò un risolino.
    «Brava, amore» disse con dolcezza. «Ora, vai in soffitta e aspetta che arrivo. Se non ti chiamo tra dieci minuti, sai cosa fare?»
    Gloria sollevò il mento e strinse gli occhi, un po’ lucidi. «Sì!»
    «E cosa devi fare?»
    «Accendo il cellulare e chiamo il nonno. Fa niente se è spento.» Si interruppe e finse di pensare, guardando il soffitto con l’aria sognante di quando doveva iniziare un tema per la scuola. Poi riprese: «Spengo il cellulare, mi nascondo e aspetto che arrivano il papà o il nonno» concluse a memoria.
    Il padre allargò il sorriso, mostrandole il lieve bagliore dei denti anche attraverso l’oscurità opprimente. «Bravissima. Ma ricordati di…»
    «…accendere il cellulare ogni due ore dopo che ho chiamato!» gridò lei, incoraggiata.
    L’uomo le pizzicò una guancia e si diresse verso la porta d’ingresso, sbarrata da una pesante scrivania in legno massello.
    «Papà, dove sono i gattini?»
    Lui sussultò impercettibilmente mentre spostava il mobile quel tanto che bastava per poter passare di traverso. Nascose la sua incertezza dietro un grugnito, facendole credere che il tavolo fosse più massiccio di quel che era.
    «Oh. Ho dovuto mandarli via» rispose l’uomo, passandosi un braccio sulla fronte e forzando la respirazione. «Forse erano malati.»
    «Erano infetti?» chiese la bimba.
    L’uomo attese un istante, in silenzio.
    «Forse» disse senza guardarla. «Ora, fila di sopra. A presto, amore.»
    «A presto, papà!» e corse su.
    Lui sfiorò con gli occhi il sacco che teneva nella sinistra, lucido e pesante di morte. Ascoltò all’esterno. Poi, afferrata la mazza da baseball ammaccata, incrostata di fango e sangue, uscì.


    Il vecchio si passò due dita callose sugli occhi. Lanciò uno sguardo all’orologio da polso. Erano quasi le sette, il sole doveva essere già calato. Nella stanza spoglia non c’erano finestre: solo due grossi ceri posati su una mensola impolverata permettevano di distinguere le ombre traballanti dei pochi oggetti che costituivano l’arredamento.
    Si protese verso il teschio che era diventato il viso di sua nipote e piantò le proprie pupille nelle sue. Ancora nessun segno. Poteva continuare un’altra mezz’ora, forse meno, ma sarebbe bastato comunque. Doveva solo trovare le parole giuste per addolcirle una pillola amara.
    O per nasconderle il sapore del veleno contenuto in quella vicenda.
    La ragazza non smetteva di fissarlo, non batteva quasi ciglio.
    Sembra morta, pensò lui. Mi sta fissando una morta.
    Si schiarì la voce, e continuò.

    Quando tornò, qualche istante più tardi, teneva in mano soltanto la mazza da baseball. Stavolta, non era stato necessario usarla. Era sudato, nonostante fuori si sentisse già il vento freddo dell’inverno incipiente. Era già rischioso affrontare un Manomesso con delle armi da fuoco, ma nel corpo a corpo si poteva quasi parlare di suicidio. L’ultima volta gli era andata bene: il sole stava sorgendo e il suo avversario era debole e lento, forse per la fame. Di cibo non doveva essercene più molto, in giro.
    Rimise a posto la barricata improvvisata, poggiò la schiena contro la parete e si lasciò scivolare fino a sedersi sul pavimento, ansante, reggendosi la testa tra le mani. Si sarebbero dovuti spostare entro un paio di giorni: i viveri stavano finendo, l’acqua corrente e l’elettricità mancavano già da qualche ora, e la piccola aveva bisogno di vestiti.
    Cominciò a riflettere su come avrebbero dovuto comportarsi, là fuori. C’era anzitutto il problema delle armi: le aveva portate via suo padre. Dopo aver tirato a sorte, gli era toccato andare a casa di Carlotta, che non sentivano da giorni. Si sarebbero dovuti muovere quando il sole era alto e non c’erano nuvole. A piedi. Gli automezzi facevano troppo rumore.
    Bisognava anche tenere presente un altro problema, ovvero

    una risata. Era la piccola Gloria, di sopra. Gli venne da sorridere, ma tornò serio quasi subito. Gli sembrava stesse parlando con qualcuno. Alla voce acuta della bambina sembravano sovrapporsi dei bisbigli pacati e dei rumori di lievi passi scalzi.
    Si alzò con cautela e afferrò la mazza da baseball. Con l’altra mano estrasse il coltello dalla fondina di cuoio appesa alla cintura e lo sollevò all’altezza della vita, lasciandolo un po’ nascosto ma comunque visibile, come gli aveva insegnato suo padre.
    Una rampa di scale non era mai stata tanto lunga. Doveva fare piano, ma ogni istante che passava senza sapere di Gloria era una tortura fisica.
    La bambina rideva ancora a tratti, poi, nel rendersi conto di fare troppo rumore, cercava di soffocare le risatine contro la manica della felpa, come faceva una volta per non disturbarlo quando lui sonnecchiava.
    «Sssst… il papà non deve sentire, se ti scopre ti manda via. Sssst… sssst…»
    L’uomo si sporse oltre lo stipite della porta che dava sulla mansarda. La stanza, immersa nella penombra, era quasi del tutto vuota, se si escludevano due lunghi armadi che percorrevano la parete opposta. La porta che conduceva alla stanza da letto era socchiusa e i piccoli rettangoli che costituivano le finestre erano sbarrati da sottili pezzi di legno. Seduta a gambe incrociate sul pavimento, c’era lei. Quando vide quello che stava combinando, l’uomo in parte si infuriò, ma il freddo che gli imprigionava lo stomaco si sciolse in un liquido tiepido che gli fece girare la testa dal sollievo.
    «Gloria, cosa stai facendo?» le disse, cercando di mantenere la voce calma.
    Lei sollevò la testa e spalancò le palpebre. «Oh! Papà!No, io… non lo so…»
    L’uomo scoppiò a ridere. La piccola, che stringeva al petto uno dei gattini, a un primo momento di seria perplessità sostituì presto un sorriso colpevole che metteva in mostra la finestrella nuova nuova di uno degli incisivi superiori. Ovviamente, lei si approfittò subito della debolezza del padre.
    «Papà… posso tenerlo? Ti pregooo…»
    Quello del padre è un mestiere difficile, pensò lui.
    Aveva trovato i gattini quand’era sceso in cortile per prendere le assi e i chiodi nel piccolo deposito di fianco al garage. Erano appena nati, e per questo era convinto che non potessero essere… malati. Aveva provato a chiamare la loro mamma, facendo schioccare più volte la lingua contro il palato, ma non era riuscito a trovarla. Allora li aveva raccolti uno a uno e li aveva messi nello scatolone che conteneva i vecchi giochi di Gloria.
    Nel farlo, aveva dovuto appoggiare la mazza contro al muro, e questo errore gli era quasi costato la vita. Per un momento, la situazione gli era sembrata così piacevole, così quotidiana, che aveva dimenticato tutte le regole di sopravvivenza studiate in precedenza. Per fortuna, il Manomesso non era riuscito a coglierlo di sorpresa e lui se l’era cavata senza un graffio.
    Il giorno dopo tutti e nove i gattini avevano già un nome. Quando aveva trovato il cadaverino della micia, nel deposito degli attrezzi, gli si era stretto il cuore, ma poi le aveva visto gli occhi. Un terrore sordo aveva sostituito in un attimo il dispiacere.
    Erano rossi. Non gialli, cazzo, ma rossi e lucidi come pezzi di corniola.
    La faccenda della Manomissione era troppo recente per poter comprendere l’eventualità di un’infezione genetica, ma le circostanze l’avevano portato a considerare una certezza ogni minimo dubbio. E si era comportato di conseguenza, sì. Aveva strappato via i gattini dalle braccia di sua figlia.
    Non tutti, era evidente.
    «Gloria» cominciò il discorso chiamandola per nome, come faceva sempre quando stava per dirle qualcosa di serio. «Mi devi promettere una cosa.»
    «Tutto quello che vuoi, papi…» disse lei.
    Mio Dio, sto crescendo un mostro, pensò l’uomo.
    «Primo: non lo molli un attimo. Dimmi se è okay.»
    «Okay» fece lei, seria.
    «Secondo, se gli vengono gli occhi gialli, o… rossi, me lo dici subito. Dimmi se è okay.»
    «Okay, papi» ripeté Gloria.
    «Ultimo: se ci dà qualche problema, il gatto sloggia. Capito?» concluse lui, cercando di mostrarsi autoritario e di non ridere.
    «No, non ci dà nessun problema! Grazie papi, grazie-grazie-grazie!»
    L’uomo si voltò, nascondendo il sorriso che minacciava di affiorargli sulle labbra. Poi ricordò.
    «Piccola, senti. Non è che parlavi con qualcuno?» le chiese.
    «Sì! Parlavo con Micio!» disse la bambina, sollevando la bestiolina sopra la testa.
    «No, intendevo… con un uomo, poco fa…»
    Gloria fece un’espressione pensierosa. Poi scosse la testa con tanto vigore che i lunghi capelli biondi frustarono l’aria intorno.
    «Va bene» riprese lui un momento dopo. «E tieni d’occhio Micio.»
    «Sì! Micio! Sei il mio Micio adesso… Micio!»
    L’uomo scese in fretta le scale buie. Prima che calasse il sole doveva ancora fare l’inventario delle provviste e di quello che sarebbe stato necessario portare con loro in caso di una partenza obbligata. Sarebbe anche stato necessario tagliare le unghie al gattino e disinfettargli gli occhi, così ne avrebbe facilitato l’apertura.
    Non fosse stato per la faccenda del gatto, con ogni probabilità avrebbe avvertito che qualcosa non andava. Ma questa storia non si può costruire con i forse. Non appena ebbe riposto il suo armamentario,


    tuo padre sentì dei colpi alla porta. La sfondarono in un attimo. Oh, è ovvio, non erano le creature del Diavolo che credeva si stessero impossessando delle menti e dei corpi degli uomini e degli animali.
    Erano poliziotti. Tuo padre era andato fuori di matto. Costringeva la tua sorellina Gloria a…» s’ interruppe per deglutire. «… A stare chiusa in una casa che, a quanto mi han detto, era stata trasformata in una specie di bunker. I poliziotti sono entrati, e gli hanno urlato di star fermo, ma lui ha afferrato la mazza, non li ha ascoltati. Hanno aperto il fuoco.»
    Il vecchio lanciò un’occhiata a sua nipote Carlotta da sotto le sopracciglia ingrigite. Lei non lo guardava più. Adesso fissava il soffitto con una tristezza infinita nello sguardo, socchiuso sotto un bacio di limpide lacrime silenziose.
    «Eh… » tossicchiò lui. «La tua sorellina è scesa di corsa, con il gattino tra le braccia. Eh… Il papà le aveva detto di tenerlo sempre con sé. E… Lei aveva una pistola, hanno detto, e l’ha puntata ai poliziotti. Non volevano spararle, e allora han lasciato che sparasse prima lei. Ha colpito un agente, che adesso è ferito ma sta bene, eh, e poi hanno dovuto ucciderla perché stava per far fuoco ancora. Non so dove possa… Cosa?»
    Carlotta, quel che restava di lei, gli stava dicendo qualcosa.
    «Non riesco a capirti, Carlotta, parla più…»
    «Esci» sussurrò. «Va bene così.»
    «Oh… E non vuoi sapere…»
    Lei distolse gli occhi acquosi dal soffitto e li adagiò su di lui con una smorfia amara sulle labbra, ripetendogli il concetto senza pronunciare una parola. Al vecchio schioccarono le ginocchia, quando si alzò dalla sedia. Raccolse con imbarazzo il fucile e uscì dalla porta blindata, che richiuse alle sue spalle. Poco prima di sparire dietro al pannello in acciaio, gli sembrò che il viso della donna si girasse piano nella sua direzione e gli puntasse addosso i due pezzi di brace rossa che aveva per pupille. Ma, forse, si era solo fatto suggestionare.
    Il vecchio inserì il codice di sicurezza e si allontanò dal rifugio sotterraneo, salendo la scalinata che conduceva al piano terra della casa.
    «Piove» disse l’uomo, non appena il vecchio ebbe richiuso la botola che chiudeva lo scantinato. «Vuoi una coperta?»
    «Non tremo per il freddo» rispose il vecchio.
    Una grossa candela, poggiata al centro del tavolo, illuminava appena la stanza umida.
    «Ti ha detto qualcosa?» chiese l’uomo.
    Il vecchio si voltò a guardare il figlio negli occhi. «Non ci ha creduto. Troppe incongruenze, cazzo. Non mi ha fatto neanche finire di…»
    L’uomo lo zittì sollevando il palmo aperto.«Non fa niente. Volevo che non sapesse, forse ho sbagliato io. Dovevamo dirle la verità.»
    «Ma non ci avrebbe mai creduto, come…»
    «Ah perché, così ci ha creduto?» l’uomo aveva alzato la voce. «Lei voleva sapere cosa era successo alla sorellina, perché inventarsi una balla?»
    Il vecchio abbassò lo sguardo e rimase in silenzio.
    Il figlio si voltò verso le tavole inchiodate storte e gli armadi che bloccavano alcune finestre, dalle cui aperture si insinuavano deboli gemiti di vento umido. Prese il revolver, ne aprì il tamburo e controllò i proiettili. Poi lo richiuse con uno scatto, lo appoggiò sul tavolo del salone, accanto alla candela, e raccolse con delicatezza il micio dalla scatola da scarpe lì accanto, carezzandogli il pelo nero.«Forse è meglio abbassare la voce. È calato il sole.»
    «Mh» annuì suo padre. «Accendo il generatore?»
    «Per cosa?»
    «…lo sai.»
    Lo sapeva. E serviva luce, per farlo.
    «Senti, ragazzo, ora come ora io… Non so se ne son capace. Non è meglio aspettare il pieno giorno? Se avessi visto che espressione che aveva… Potrebbe diventare da un momento all’altro un…» il vecchio si interruppe di botto. La sua espressione era cambiata.
    Soffiò sulla fiammella, prese il figlio per il polso e se lo trascinò dietro un sofà capovolto. Con un indice davanti alle labbra ordinò il silenzio assoluto.
    L’uomo ancora non capiva, ma si fidava di lui. Aveva il fiuto di un cacciatore. Di una preda, ancor meglio.
    Poi, nell’oscurità quasi completa, sentirono qualcosa di incomprensibile. Non sentirono, pensò l’uomo.
    I suoni, all’esterno, erano diventati echi ovattati e lontani, ricoperti da una membrana impermeabile e avvolgente. I timpani dei due uomini percepivano solo fruscii e fischi leggeri, come il rumore della stazione disturbata di una radio in assenza di segnale. L’uomo si portò la mano libera all’orecchio, ma il vecchio strinse più forte e lui riabbassò il braccio con cautela. Voltando la testa, vide qualcosa. Più scuro del buio della stanza, si faceva largo tra il mobilio in disordine a pochi passi da loro. Smise di respirare.
    Suo padre continuava a stringergli il polso e non guardava l’ombra, ma l’uomo sapeva che la percepiva. Era piccola, mostrava la fisionomia di un bimbo di pochi anni.
    L’ombra allungò un’estremità del suo corpo evanescente, lenta, e toccò un cassettone, che si illuminò di una luce magmatica viva, pulsante. Disgustosa. La luce non scaldava e non illuminava; al contrario, sembrava nutrirsi del poco chiarore dell’ambiente intorno, risucchiandolo e alimentandosene con l’avidità di uno stomaco affamato. Il comò iniziò a perdere la propria forma e a liquefarsi, come una scultura di ghiaccio esposta al sole di un mezzogiorno di luglio.
    In quel momento, il minuscolo gattino accoccolato nella mano dell’uomo iniziò a miagolare.
    Il vecchio quasi cadde all’indietro.
    L’uomo riuscì ad afferrarlo per il gomito e a tirarlo verso di sé.
    Entrambi si volsero verso l’ombra. Si era fermata. Li osservava, cieca.
    I due uomini furono invasi da un terrore lacerante e ottuso, primordiale. A qualche metro da loro, un lungo tentacolo arricciato di fumo nero si sollevò dal polso della piccola ombra e serpeggiò in direzione dei loro corpi, imprigionati dal freddo del panico. Ma, prima che potesse sfiorarli, si bloccò. Era a qualche spanna dai loro volti esangui. Pareva in ascolto.
    Poi, rapida come un tuono, l’ombra del bambino fece un balzo e uscì dal vetro rotto di una finestra, sfondando le barricate come fossero di carta e scomparendo nel rinato frastuono della pioggia battente. Il vecchio si lasciò cadere in avanti, tossendo e vomitando acqua.
    «Sttt!» fece l’uomo. «Sentito?»
    L’altro lo guardò attraverso i conati e le lacrime, cercando di trattenersi con entrambe le mani premute sulla bocca.
    Il tonfo sordo proveniente dalla porta metallica del rifugio sotterraneo si ripeté, come fosse un’abissale risposta ai suoi pensieri più oscuri e profondi. Subito dopo, la parodia di un urlo titanico, a metà tra il fischio di una locomotiva e la sirena di una nave, scosse l’abitazione fin dalle fondamenta.
    Il vecchio, che si era sollevato in piedi, cercò appoggio contro una parete, portandosi una mano alla testa. Suo figlio non fece altro che chiudere gli occhi, in attesa che finisse.
    «Papà, non possiamo aspettare il giorno.»
    I due si guardarono. «Sei cambiato» gli disse suo padre.
    Raccolsero le armi da fuoco e si incamminarono piano verso la botola.

    Non fosse stato per la faccenda del gatto, con ogni probabilità avrebbe avvertito che qualcosa non andava. Ma questa storia non si può costruire con i forse.
    Non appena ebbe riposto il suo armamentario, fu travolto da un’esplosione di grossi frammenti di legno che poco prima costituivano la porta d’ingresso e la scrivania. Fu catapultato all’indietro dall’onda d’urto, che gli salvò la vita scagliandolo oltre il divano in pelle e seppellendolo sotto un mucchio di polvere e calcinacci. Non perse conoscenza.
    Sentì l’inconfondibile passo di uno dei Grossi farsi largo tra le cianfrusaglie ammucchiate nel salotto, lento e pesante, deciso e implacabile. A questi esseri non serviva spostare ciò che sbarrava loro il cammino. Gli bastava polverizzarlo con le mani grandi come badili, qualunque cosa fosse.
    I Grossi non erano tra le creature peggiori. Con un fucile riuscivi a farli fuori con relativa facilità, se li prendevi di sorpresa. Se però eri dotato soltanto di coltello e corpi contundenti, la questione si faceva pressoché disperata.
    L’uomo si sporse oltre la base del divano. Dovette trattenere i gemiti per le staffilate di dolore che gli procuravano le schegge nella schiena. Fosse stato colpito di fronte, come minimo sarebbe rimasto cieco.
    Quello che vide gli ghiacciò il sangue. Era difficile abituarsi a quel genere di abomini.
    Il Grosso era alto all’incirca il doppio di lui. Le spalle, sproporzionate rispetto al resto del corpo e larghe come un portone a due battenti, sorreggevano braccia scimmiesche che parevano due robusti tronchi di faggio, nodose e lucide di grasso e sangue. I Grossi non avevano pelle: la carne viva dei muscoli e il pulsare ritmico delle vene erano a diretto contatto con l’aria, protetti soltanto da quello che doveva essere uno spesso strato di sebo. I liquidi organici e maleodoranti che lasciavano al loro passaggio permettevano di distinguere i luoghi in cui erano passati e, di conseguenza, di evitarli.
    Stava pensando che, se fosse rimasto immobile lì sotto e con un po’ di fortuna, era possibile che il Manomesso si stancasse presto di una infruttuosa ricerca e se ne andasse, quando sentì la piccola correre giù per le scale.
    «Papà!» gridò. «Papà, cos’è…»
    Il cuore dell’uomo perse un colpo.«No! Gloria, torna su, corri!»
    La piccola vide il mostro, e il mostro vide lei. Il gattino quasi le cadde dalle mani.
    Il Grosso prese lo slancio e, aiutandosi con le lunghe braccia come un enorme gorilla, zoppicò furibondo verso la bambina. Aveva fame, sarebbe morto per averla.
    «Corri!» ripeté l’uomo mentre si rialzava e sfoderava il coltello da caccia.
    Poi, solo fotografie impersonali, lontane. La bambina che non si muoveva. Il Grosso che sollevava una mano enorme sopra la testa. Lui che si lanciava in avanti. E inciampava.
    L’avrebbe schiacciata. Avrebbe sentito lo scricchiolio delle ossa di sua figlia, prima di vederla sparire nella fornace zannuta che era la bocca del demone.
    «No! Fermo, figlio di…»
    Una fucilata fece tremare le pareti. Il Grosso si piegò su quello che rimaneva del proprio ginocchio, spappolato da un ventaglio di pallettoni sparati a distanza ravvicinata. Emise un verso da primate, sorpreso, poi un secondo colpo gli asportò la nuca e sparse buona parte delle sue cervella sul soffitto. Si accasciò al suolo, privo di vita, con una grazia quasi ultraterrena.
    Il vecchio continuò a tenerlo sotto tiro. Gli tremavano le gambe.«Cristo… Oh, Cristo…» sbuffò.
    L’uomo si alzò e si gettò sulla piccola, sollevandola da terra e camminando veloce verso l’arco sformato che era diventato l’ingresso. Non sapeva dove sarebbe andato, non sapeva niente, voleva solo portarla via da lì, il più lontano possibile da quell’incubo, sui prati verdi e pieni di fiori dove, un secolo fa, lui, lei e la mamma della quale non voleva ricordare il viso facevano i pic-nic, nei boschi a sentire gli scoiattoli grigi rincorrersi tra gli abeti, sulle montagne a guardare in basso e il vecchio lo prese per la cintura e lo scagliò al muro.
    «Ragazzo, ti ho detto che non esci, mi senti?» gli urlò.
    «Papà, spaventi la piccola… Abbassa la voce, spaventi la piccola…»
    Il vecchio prese a schiaffeggiarlo con una mano, prima col palmo e poi col dorso.
    «Ho bisogno di te ragazzo, datti una scrollata o qua siamo morti. Mi senti?»
    «Eh? Sì… Sì, ti sento.»
    Il vecchio gli afferrò una guancia e tirò con forza. Poi continuò il discorso.
    «Dobbiamo filare da qui, fuori ce ne sono altri. Troppo rumore, cazzo. Fammi pensare.» Abbassò la testa. La rialzò dopo un istante.
    «Ho trovato Carlotta a casa sua.» Si interruppe e si schiarì la gola. «Eh… È già infetta, ha gli occhi… Rossi… Mi spiace…»
    L’uomo chiuse gli occhi e strinse la piccola più forte.
    «Papà… Piano, fai male a Micio…»
    Gloria aveva ancora il gattino stretto al petto, e non piangeva.
    «Gatto?» il vecchio fissò il figlio in attesa di una spiegazione che non arrivò. «Va be’, non c’è tempo adesso. Dobbiamo andare là, a casa di Carlotta. Sei ore di sole pieno e ci siamo. Ha un rifugio, una di quelle cantine blindate, volendo ci puoi sopravvivere un mese. Provviste e candele. C’è ancora acqua corrente e un generatore di emergenza. Lei… Lei l’ho lasciata là sotto… Era in uno stato che non si ricordava neanche perché si stesse nascondendo… E da cosa…» la sua voce si era fatta flebile, quasi sognante. Scosse la testa, e continuò:« Dimmi se lo zaino è pronto.»
    «Sì… È pronto. Lo zaino, ci son già le cose, per partire, possiamo, ma prima dobbiamo i viveri…»
    Il vecchio si girò all’improvviso, lasciando andare il volto del figlio e puntando il fucile in direzione delle scale.
    Passi leggerissimi, ma scricchiolanti di secchi tendini, scendevano i gradini. Si fermarono.
    Poi ripresero, cauti.
    Un interruttore scattò nella mente dell’uomo, e il suo sguardo vacuo si riaccese in un istante. Portò Gloria nella stanza accanto e chiuse la porta. Poi, scavalcando i frammenti di cemento e mattoni, si piazzò di fronte al vecchio, coprendogli la visuale. Iniziò a parlargli, con voce chiara, impostata, come in una recita.
    «… Ecco, possiamo andare a prendere lo zaino, è qui in cucina. Poi ce la diamo a gambe, che ne dici?»
    Il vecchio aveva capito il gioco del ragazzo. Gli sorrise compiaciuto, mentre gli porgeva la mazza da baseball e lo vedeva sistemarsi il coltello nel palmo della mano.
    «Un piano semplice, mi piace. Prendiamo lo zaino in cucina, e poi via, per evitare brutte sorprese.» Il vecchio enfatizzò l’ultima parola, mentre si metteva un po’ di sbieco e abbassava il fucile, continuando però a reggerlo a due mani.
    L’uomo era di spalle rispetto alla tromba delle scale, non avrebbe potuto vedere l’essere manifestarsi. Si sarebbe dovuto fidare dei riflessi di suo padre, affidando loro la vita.
    Continuò a parlare con voce piatta, meccanica, senza badare ai contenuti. Il vecchio godeva di una posizione tattica e una visuale perfette: sarebbe stato in grado di individuare la gamba del Manomesso molto prima che questi potesse accorgersi di essere stato scoperto e maciullato da una fucilata a breve distanza.
    Mentre continuava a parlare, l’uomo vide le palpebre del padre chiudersi e riaprirsi in rapida successione.
    Si fece un po’ di lato, poggiandosi la mano sull’orecchio per proteggersi dal rumore della detonazione.
    I passi costanti e gli scricchiolii ossuti si facevano via via più forti, regolari come i movimenti oscillatori di una pendola.
    Il vecchio sollevò l’arma all’altezza dello stomaco e si accucciò per mirare alla parte superiore del corpo del suo obiettivo. Voleva farlo fuori con un colpo solo.
    L’uomo smise di parlare, e il vecchio sparò.
    Clack.
    «Merda!» urlò il vecchio.
    L’uomo restò di pietra a fissare lo scuro cratere da cui si sarebbe dovuta sprigionare la mortale eruzione di scintille e pallettoni. Mai affidare la propria vita a un’arma. Da chi aveva sentito questa frase? Dal vecchio? O forse era un film.
    Si voltò, piano, e sollevò le proprie, di armi. Un automatismo, come quando si guardano le ore appena svegli.
    Quello, che stava immobile e li puntava attraverso gialle orbite purulente, doveva essere stato Manomesso da poco. Era un Magro, aveva ancora le dimensioni di un uomo. Ma era molto, molto più veloce.
    Il Magro si piegò sulle ginocchia, caricando i muscoli rossi e sottili delle gambe come una locusta, e spiccò un balzo impressionante in avanti, scavalcando l’immensa carcassa del Grosso. L’uomo si chiese se un giorno, con l’evoluzione o la selezione naturale, alcuni Manomessi non avrebbero potuto apprendere la tecnica del volo. Anche se, con ogni probabilità, alcuni di loro erano già in grado di farlo.
    Il mostro atterrò con mani e piedi di fronte a lui in una sinfonia macabra di scricchiolii articolari, mentre il vecchio imprecava e bestemmiava nel tentativo di infilare una cartuccia nel caricatore.
    Le vertebre del Magro, cui erano ancora attaccati lembi di pelle verdognola, sporgevano come le scaglie di un sauro. I capelli avevano già iniziato a cadere, lasciando il posto a incrostazioni bruno rossastre e a bolle gonfie di sangue.
    Poi, il Magro sollevò la testa e guardò l’uomo. Che non pensò più.
    Impiegò poco più di un battito di palpebre a fare un piccolo salto all’indietro per evitare l’attacco del Manomesso. Troppo. Il volto scheletrico di quest’ultimo, ghignante spauracchio umanoide, era già davanti al suo. L’uomo, seguendo il proprio istinto di conservazione, sollevò la mazza a protezione del collo, salvandosi la vita. I denti del suo avversario si piantarono nel legno con un rumore di ossa spezzate, frantumandosi. Poi l’uomo vide una freccia arancione partire dal basso e descrivere un arco fin quasi al suo volto. Il braccio del Magro colpì la mazza da baseball, che decollò all’indietro e si schiantò sul soffitto.
    L’uomo sorrise. Fece scattare il braccio con tutta la forza che poteva senza compromettere la precisione, e conficcò dieci centimetri di acciaio nell’ascella dell’essere, con un movimento ascendente e obliquo. Mentre imprimeva una decisa rotazione al polso, portò tutto il peso del corpo in avanti e fece partire il ginocchio verso l’alto. Il potente colpo scagliò il Magro all’indietro, contro lo spigolo del pilastro in cemento armato che troneggiava di fianco alla porta aperta della stanza accanto.
    L’uomo rilassò le spalle e soffiò aria attraverso le labbra.
    «Papà, fallo fuori, ormai è…»
    «Oh, Cristo!» gridò il vecchio.
    Mentre l’uomo si girava verso il padre, vide con la coda dell’occhio una piccola figura ferma sulla soglia della porta, accanto alla colonna. Accanto al Manomesso caduto. Quella porta, quella porta che avrebbe dovuto essere chiusa...
    Gloria, che aveva in mano un nero batuffolo addormentato, guardava l’uomo con aria colpevole.
    «Papà, mi dispiace, è… Aveva gli occhi azzurri, è salito quando sei uscito… Voleva un po’ d’acqua, pensavo ti arrabbiassi e…» La voce cominciò a tremarle. «… Mi ha detto che conosceva la mamma...»
    L’uomo fece cadere il coltello, che tintinnò sul pavimento e smosse una lieve nuvola di polvere bianca. Forse urlò qualcosa alla bimba.
    Il vecchio caricò il fucile.
    Il Magro aprì gli occhi e voltò la testa verso la piccola, con un violento schiocco del collo. Il mostro le era vicinissimo, gli sarebbe bastato allungare un braccio per…
    L’uomo puntò il piede e corse verso di lei.
    Il Magro fece partire un artiglio diretto al bianco collo di Gloria.
    Il vecchio prese la mira e fece fuoco. Troppo tardi.
    Mentre la testa del Magro spariva, soffocata da un’esplosione sanguigna e metallica, e il suo braccio omicida crollava al suolo, due labbra color cremisi si aprirono in un sorriso crudele sotto al mento della bambina. Gloria si accasciò a terra tenendo stretto stretto il gattino, che si era svegliato e aveva ripreso a


    «… piangere. È inutile.»
    «Hai ragione, ragazzo. Ma a volte fa stare meglio.»
    «Fa’ come vuoi.»
    Il fascio di luce della torcia, fissata al revolver con nastro adesivo, illuminò il riquadro digitale della porta del rifugio. Il volto dell’uomo, immerso nelle ombre dello scantinato, somigliava molto a quello del vecchio. «Sai il codice?» gli chiese.
    Il vecchio annuì e tirò su col naso. «Pronto, ragazzo?»
    L’uomo annuì. «Vuoi che tengo io il fucile?»
    «No, ragazzo. Io davanti, tu dietro. Come l’altra volta.»
    Già. L’altra volta.
    Forse, era questo il momento di ricordare il volto di quella persona, il volto della mamma. Sinonimo del suo passato che aveva ucciso assieme al vecchio e seppellito in una buca nera e profonda, sinonimo di profumi e canti e balli notturni e di… una bambina che avevano e della quale stava dimenticando quel modo di ridere tutto suo, con la bocca contro il braccio… per non disturbarlo mentre dormiva…
    Sarebbe stato il momento giusto, sì. Ma sapeva bene che non poteva più permettersi di essere felice.
    Il vecchio rimase immobile qualche secondo, schiarendosi la voce. «Ragazzo, non sono molto bravo con le parole, soprattutto quando… Be’, lo sai, io…»
    «Lo so, papà. Non fa niente, va bene.»
    Il vecchio annuì di nuovo con un grugnito.
    Digitò il codice.
    La porta si spalancò con un sibilo.

    Il gattino, accoccolato nella scatola imbottita di cotone idrofilo, aprì un poco gli occhietti, verdi come il bosco e la speranza, e prese a miagolare piano. Quando gli spari cessarono, la pioggia leggera che bisbigliava all’esterno lo cullò fino a farlo riaddormentare.

    Edited by Mastronxo - 8/9/2010, 22:22
     
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  2. Piscu
     
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    sicuramente un buon racconto, hai trovato un buon equilibrio tra una componente horror e una più "sentimentale". non spieghi l'origine dei "manomessi" ma ormai ci vuole poca fantasia per immaginare una qualche infezione alla resident evil che crei dei simil-zombie. non è granché originale come idea di base, e quando citi per la prima volta la cosa si capisce che si andrà a finire a uno scontro con qualcuno dei mostri, ma hai comunque giocato bene con la premessa.

    mi è piaciuta di più la prima parte, quando il vecchio inizia a parlare con carlotta mi sono perso qualche dettaglio, e in particolare nella sequenza del combattimento non sono riuscito a seguire bene cosa succede.

    buona l'alternanza tra i paragrafi scritti in modo diverso, mi piace come hai incastrato i due livelli di narrazione.


    quattro sarebbe troppo, ma metto un tre che straborda.
     
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    Non ci ho capito niente! Cioè, ok, una mutazione alla Resident Evil, come dice Piscu. Ok, una famiglia distrutta. Ok, un gattino che resta vivo. Ma: che succede alla piccola Glora durante la lotta? E' il gattino che la uccide perché ormai infetto? Con chi diavolo parlava la piccola di sopra? Col gattino? Quindi il gattino che alla fine il padre accarezza, non è lo stesso ma un altro? E perché l'uomo non vuole ricordare il nome della moglie? Questi dettagli, che sembrano avere una qualche importanza, ma che restano inespressi o non spiegati, non hanno fatto che rendermi antipatica una lettura che, grazie a uno stile interessante e all'intreccio di narrazioni, sarebbe stata altrimenti davvero bella. Anche malgrado la storia non sia per niente originale.

    Mi dispiace. Ho avuto l'impressione che tu avessi in mente solo le linee generali della storia, ma che abbia nel contempo voluto forzarle inserendo particolari su cui, però, non hai posta molta attenzione, o che non hai rivisto, che non hai corretto, posizionandoli meglio, ma soprattutto rendendoceli più chiari. Mi ritrovo con un racconto pieno di dettagli spacciati per improtanti ma confusi e ingannevoli.

    Oppure sono io che ho letto male? Spero sia proprio così. Aiutami a capire.

    Intanto metto un voto qui. Se ho sbagliato, se non ho letto bene e me lo farai notare, gli darò di più nel sondaggio.

    Voto: 2

    Edited by Gargaros - 1/9/2010, 03:24
     
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  4. Mastronxo
     
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    Ciao!

    Bè ragazzi grazie per la velocità di lettura e risposta: già noto due lettori attenti che hanno pescato subito cosa non va, ovvero la parte del combattimento.

    Gargaros: di solito non spiego un racconto e non mi interessa granchè il voto, però non so bene lo spirito di USAM e allora provo a darti qualche spiegazioncina.

    SPOILER (click to view)
    Il gattino resta il gattino, è sempre lui e non si infetta (alla fine ha gli occhi verdi, non gialli, non rossi: ergo, non c'è un'infezione genetica, ergo resta una piccola speranza per noi poveri umani). La piccola Gloria viene uccisa dal Magro che è caduto contro la colonna in cemento armato: suo padre l'aveva messa in una stanza e chiuso la porta per nasconderla, sfortunatamente non l'ha chiusa a chiave: quindi la piccola sentendo la battaglia, preoccupata per padre e nonno e in colpa per aver ospitato un infetto, esce dalla porta col gattino in braccio, quella porta che sta proprio di fianco al manomesso caduto... e lui la colpisce.
    La piccola di sopra parlava proprio con l'uomo pre-manomissione, che, come dice lei stessa prima di morire, era un tizio che voleva solo un po' d'acqua e poi l'avrebbe fatto andar via. Si nota anche dal fatto che il padre pensa: 'quello doveva esser stato manomesso da poco'.
    Per il non voler ricordare il nome della moglie, è solo perchè l'uomo non vuol ricordare il suo passato (non a caso, nè l'uomo nè il vecchio hanno un nome...)
    Concordo comunque in pieno coi vostri giudizi, è la parte meno chiara e ora so su cosa lavorare, grazie!
     
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  5. CountlessCrows
     
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    Racconto ben scritto, qualche incertezza di impaginazione risolvibile con minimo impegno. C'è però qualche discrepanza sia nel finale che nella parte di combattimento che la precede nell'immediato. Inoltre non mi è del tutto chiaro come sia possibile che l'uomo che poi si rivelerà infetto riesca a nascondersi nella casa.
    Suggerisco di sostituire ai pallettoni una palla piena (tipo caccia al cinghiale, per intenderci) meno problematica nel fare fuoco in un ambiente chiuso, la rosa dei pallettoni tende ad aprirsi anche in spazi stretti con rischi notevoli. Per curiosità, l'M-3 sarebbe il Benelli Super 90?
    Mi piace che il racconto non riveli l'iter che ha portato alla comparsa dei mostri e che invece si collochi nel pieno delle vicissitudini della famiglia, il risultato è più immediato. Interessante anche l'excursus sulle tecniche per affrontare le creature, reso senza scivolare nell'infodump.
    Racconto da 'registrare' ma già interessante.
    Voto: 3
     
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  6. marramee
     
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    Ciao,
    un racconto simpatico, che riesce a tenere bene la tensione, con una costruzione indovinata. Forse non sarà originalissimo, ma resta comunque scorrevole.
    Alcuni punti non mi convincono del tutto.

    SPOILER (click to view)
    In primo luogo il fatto che la bambina abbia fatto entrare quell'uomo in casa, tra l'altro barricata come un bunker, per bere un bicchier d'acqua, e poi lo abbia pure nascosto al padre, mentendo. In una situazione come quella che stavano vivendo loro, mi è sembrata di un'ingenuità eccessiva, quasi forzata.
    Non funziona il non volersi ricordare il nome della moglie. Lo sostituirei col non voler pensare a lei. Averne dimenticato volutamente il nome mi pare un po' eccessivo.
    La scelta di non conoscere i nomi del padre e del padre del padre talvolta confonde un po' i due personaggi.
    Per finire la tattica del combattimento non è del tutto chiara, andrebbe rifinita un po'.


    La scrittura in certi punti è un po' pesante e le frasi troppo infarcite. Esempio:
    CITAZIONE
    Non sapeva dove sarebbe andato, non sapeva niente, voleva solo portarla via da lì, il più lontano possibile da quell’incubo, sui prati verdi e pieni di fiori dove, un secolo fa, lui, lei e la mamma della quale non voleva ricordare il nome facevano i pic-nic, nei boschi a sentire gli scoiattoli grigi rincorrersi tra gli abeti, sulle montagne a guardare in basso e a scommettere che nessuno dei due sarebbe riuscito mai a volare, e poi tornare con un deltaplano a nolo, e il vecchio lo prese per la cintura e lo scagliò al muro.

    Consiglierei di snellirle un po'.

    Tutto sommato penso che meriti un tre. Forse non pieno pieno, perché ci sono molti punti migliorabili, però è già un ottimo inizio.
     
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    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 10:37)
    Ciao!

    Bè ragazzi grazie per la velocità di lettura e risposta: già noto due lettori attenti che hanno pescato subito cosa non va, ovvero la parte del combattimento.

    Gargaros: di solito non spiego un racconto e non mi interessa granchè il voto, però non so bene lo spirito di USAM e allora provo a darti qualche spiegazioncina.

    SPOILER (click to view)
    Il gattino resta il gattino, è sempre lui e non si infetta (alla fine ha gli occhi verdi, non gialli, non rossi: ergo, non c'è un'infezione genetica, ergo resta una piccola speranza per noi poveri umani). La piccola Gloria viene uccisa dal Magro che è caduto contro la colonna in cemento armato: suo padre l'aveva messa in una stanza e chiuso la porta per nasconderla, sfortunatamente non l'ha chiusa a chiave: quindi la piccola sentendo la battaglia, preoccupata per padre e nonno e in colpa per aver ospitato un infetto, esce dalla porta col gattino in braccio, quella porta che sta proprio di fianco al manomesso caduto... e lui la colpisce.
    La piccola di sopra parlava proprio con l'uomo pre-manomissione, che, come dice lei stessa prima di morire, era un tizio che voleva solo un po' d'acqua e poi l'avrebbe fatto andar via. Si nota anche dal fatto che il padre pensa: 'quello doveva esser stato manomesso da poco'.
    Per il non voler ricordare il nome della moglie, è solo perchè l'uomo non vuol ricordare il suo passato (non a caso, nè l'uomo nè il vecchio hanno un nome...)
    Concordo comunque in pieno coi vostri giudizi, è la parte meno chiara e ora so su cosa lavorare, grazie!

    Devi rivedere la scena della lotta, renderla più chiara, magari descrivendoci prima un po come è fatta la stanza. Vedi tu.

    In ogni caso, direi di dargli un

    Voto: 3
     
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  8. Mastronxo
     
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    Grazie a tutti del commento.

    Crows: sì, è il Benelli :XD: in realtà io di armi so poco o niente, ho solo cercato in internet un po' di fucili a pompa (italiani) che potessero andar bene.



     
    .
  9. Selene B.
     
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    Il tema dell' epidemia è piuttosto sfruttato, e per diverse volte, durante la lettura, mi sono trovata confusa, non ho capito bene alcuni passaggi. Ad esempio: perchè il padre sente la figlia che parla con qualcuno (ne sente proprio la voce) e poi si tranquillizza vedendola giocare con il gatto? Da quando in qua i gatti parlano? Mi sono persa qualcosa? Domande del genere me ne sono fatte parecchie.
    In sostanza ho trovato la lettura un tantino faticosa, il che può essere anche accettabile se mi metto a leggere un romanzo sperimentale, ma per un racconto horror credo sia un difetto. Per cui, almeno per ora, il voto è 2.
     
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  10.  
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    Losco Figuro

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    È un gran bel racconto ma mi ha lasciato più domande che risposte, alla fine non so bene cosa stia accadendo (o sia accaduto), non so dove stia il problema nel ricordare il nome della donna (o cosa le sia successo di preciso) e non ho neanche ben capito il finale.
    Per questo è un 3 e non un 4.


    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    come una vecchia coperta,unico nutrimento

    Hai saltato uno spazio

    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    al sorriso di… una persona… che aveva conosciuto, della quale sapeva il nome. Ma che non voleva ricordare, neanche in quel momento.

    Non vuole ricordare la persona o il nome? Per come è scritto è la persona, ma poi pare sia il nome invece.

    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    Non poteva rischiare che le bestioline perdessero sangue, anche se indossava spessi guanti da giardinaggio. Se avesse usato le forbici o il coltello c’era la probabilità che, dibattendosi, ne spruzzassero in giro qualche goccia.

    Troppa distanza tra il "dibattendosi" e il soggetto a cui dovrebbe fare riferimento.

    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    « Spengo il cellulare, mi nascondo e aspetto che arrivano il papà o il nonno»

    Ti è scappato uno spazio

    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    Aveva trovato i gattini quand’ era sceso

    Come sopra

    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    «No!Fermo, figlio di…»

    Idem

    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    Emise un verso da primate,sorpreso,

    Stessa cosa

    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    Continuò a parlare con voce piatta, meccanica, senza badare ai contenuti. Il vecchio godeva di una posizione tattica e di una visuale perfette:

    Il secondo "di" sarebbe meglio toglierlo visto che l'aggettivo che segue si riferisce a entrambe le cose

    CITAZIONE (Mastronxo @ 1/9/2010, 00:05)
    «No, ragazzo. Io davanti, tu dietro. Come l’atra volta.»

    Refuso: "altra"
     
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  11. Mastronxo
     
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    CMT è un super genio dei refusiii :XD: grazie caro.

    Lo so hai ragione, è un po' confuso, me ne rendo conto e a nulla servono i miei sofrzi per migliorarlo (dovrei riscriverlo ma ormai sto gattino mi sta facendo venire la nausea...mica che mi vengano gli occhi... rossi...
    Grazie, aspettavo con ansia la tua attenzione maniacale :lol:

    Ah Selene, ho modificato la parte poco chiara del 'gatto che parla', ho messo tipo che il padre sente vari bisbigli e ho aggiunto pure una porta socchiusa all'ambientazione della soffitta (dove temo potrebbe nascondersi il tizio che poi l'è infetto). anche così è enigmatico ma almeno non sembra l'animale parlante :asd:

    Edited by Mastronxo - 2/9/2010, 19:06
     
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  12. Fini Tocchi Alati
     
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    Premetto che non sono un grande appassionato del genere ma cercherò comunque di essere il più obiettivo possibile.
    Dunuqe,
    SPOILER (click to view)
    la prima parte del racconto è davvero buona. C'è un atmosfera intrisa di mistero, una buona gestione del ritmo, passaggi temporali molto azzeccati (Stephen King docet!).
    La seconda parte, invece, m'ha fatto venire il mal di testa!
    Pare di essere su una giostra. L'azione si intuisce ma non la si comprende appieno e permangono anche in me molti dei dubbi riportati qui su.
    Pure lo stile si fa meno preciso e curato. Il tutto mi ha lasciato una sensazione di confusione.
    Forse, con qualche migliaio di battute in più, sarebbe stato tutto più equilibrato.

    In definitiva dico 2. E' tuttavia un 2 abbondante soprattutto in considerazione della prima parte del racconto.
     
    .
  13. Mastronxo
     
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    Grazie fini (detto così non suona molto bene...) grazie del commento: appena avrò voglia di rileggere 'sto racconto vedrò cosa posso fare!
    Ciao!
     
    .
  14. shivan01
     
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    ciao.
    Appena iniziato a leggere mi sono detto: "Resident evil e 28 settimane dopo". E poi ho aggiunto: "Fico!"
    Non sono uno che va in cerca di analogie per poi dire "mi ricorda questo quindi non è originale", non mi interessa.
    Invece, se la trama comunque è interessante, io mi ci calo dentro e basta.
    La trama era in effetti interessante, come anche l'ambientazione claustrofobica. Interessante e coinvolgente.
    Poi però ho cominciato a perdermi un po'. Come ti è stato detto già in precedenza, da un certo punto in avanti inizia una certa confusione che rende difficile il seguire gli eventi. Quanto poi hai spiegato in risposta ai commenti chiarisce molti dei dubbi che avevo ma, limitandosi alla sola lettura del racconto, il quadro degli eventi non è chiarissimo.
    Lo stile invece è fluido e il ritmo è appropriato al tipo di storia che hai narrato. Bravo.

    Voto 3
     
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  15. Mastronxo
     
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    Ti ringrazio shivan,
    contento ti sia piaciuto :lol: a questo punto una riscrittura della seconda parte sarà d'obbligo, eccheccappero :ghgh:
     
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32 replies since 31/8/2010, 23:05   447 views
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