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Oro

di Stefano Pastor - 39mila caratteri

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    Revisione integrale. Prima parte ridotta, finale completamente cambiato. Spero che sia di vostro gradimento.

    ORO


    Revisione 3 settembre (39.990 caratteri)



         «Vogliamo discuterne?»
         «C'è poco da discutere, ti ho già detto come la penso.»
         Era sempre così, quando si metteva un'idea in mente non c'era verso di fargliela cambiare.
         «Si tratta solo di un weekend, in fondo, e ormai ha quattordici anni. Non è più un bambino. Capirei se fosse una femmina, ma...»
         La sua voce si alterò. «Tu la pensi così? Credi che io farei certe distinzioni? E poi cosa ti fa pensare che una femmina sarebbe meno giudiziosa? Ma guardati! Guardati! Non mi dire che su di te si possa fare affidamento!»
         «Che c'è che non va, adesso?»
         «Quel cappello! Quegli stivali! Come può un uomo adulto ridursi in questo stato?»
         Iniziai a ringhiare, senza rendermene conto. «Sono stato a pescare! Come bisognerebbe vestirsi per pescare, secondo te? In smoking?»
         «Vedi? Questo è l'esempio che dài ai tuoi figli. Poi ci credo che vogliano andare in campeggio! È tutta colpa tua!»
         «Cosa c'è di male nel fare campeggio?»
         «Non ci vedi niente di male, eh? Non pensi ai pericoli che corre! Eh no, tu sei un amante della vita selvaggia! Peccato che non ti sia allontanato da casa per più di cento metri, da che ti conosco! Persino per pescare vai solo al pontile!»
         L'avevo promesso a Giulio e lui si era proprio raccomandato di resistere, però dubitavo che ci sarei riuscito ancora per molto.
         «Vuoi che tutti lo considerino un pappamolla, sempre attaccato alle gonne di mammina?»
         «Che vuoi che me ne importi degli altri!»
         «Non sei tu che devi viverci con gli altri, è Giulio!»
         E continuò.
         
         Giulio sorrideva, un sorriso triste. Aveva sentito ogni parola e io un po' mi vergognavo. Non è piacevole che tuo figlio si renda conto di quanto poco vali in casa. Ma lui ormai l'aveva scoperto da anni.
         «Fa niente, papà, me l'aspettavo.»
         Ancora più deprimente, sapeva già che avrei fallito.
         Mi accontentai di borbottare: «Vado a riordinare il garage.»
         
         Non facevo altro, ogni volta che ero depresso. E succedeva fin troppo spesso. Riordinavo il garage.
         Si trovava proprio accanto alla fattoria, ma non faceva parte dell'edificio principale. Era poco più che un capanno, ma io l'avevo rimodernato. Lo chiamavo garage, ma in realtà lì dentro non c'era mai stata nessuna macchina. Io non guidavo, anzi, a essere del tutto sincero, non mi allontanavo quasi mai di casa. Forse i cento metri che Sandra mi rinfacciava erano eccessivi, ma non ricordavo di aver fatto passeggiate più lunghe di due chilometri.
         Non amavo la gente, non amavo il contatto diretto. Soprattutto non amavo gli estranei. Talvolta accusavo Sandra di questa mia fobia, e di fatto non ne ero affetto quando ci eravamo sposati.
         Il garage era il mio regno. Lì c'era la mia collezione di canne da pesca e di ami. Vi tenevo pure tutte le mie pipe, perché usarle in casa era diventato peccato mortale. Lì c'erano pace e silenzio, e soprattutto solitudine.
         «Papà, vieni! Papà!»
         Avevo parlato troppo presto. Alessandro, il più piccolo, invase il mio regno urlando. Lui correva sempre, non aveva mai un momento di requie.
         «Vieni, papà! Vieni a vedere cos'ho trovato!»
         «Non è giornata, Ale! Già la mamma sta cercando di...»
         Mi afferrò per un braccio e si mise a tirare come un ossesso. «Vieni!»
         Dovetti aggrapparmi a un bancone prima che mi facesse cadere. «Ma sei impazzito?»
         Accidenti che forza, quella pulce! Di certo aveva preso da sua madre.
         «Vieni, presto, prima che vada via!»
         
         «Ha provato anche con te?» mi chiese Giulio. «Io gli ho detto di togliersi dai piedi.»
         Doveva avermi visto rientrare con Alessandro.
         Aggrottò la fronte, guardandomi. «Che hai, non ti senti bene?»
         Di certo dovevo avere un colorito grigiastro e ancora non riuscivo a spiccicar parola.
         Sentimmo la voce di Alessandro, lontana. «Mamma! Mamma! Vieni a vedere cosa ho trovato!»
         La sentì anche Giulio, perché mi rivolse un'occhiata interrogativa. «Cosa ha trovato?»
         
         Quella sera, a cena, Giulio era rimasto l'unico a non sapere cos'avesse trovato Alessandro.
         Sandra fu la prima a parlare. «Credo proprio che dovresti andare in campeggio.»
         Giulio smise di masticare, certo di aver sentito male.
         «Sì, devi andarci» aggiunsi io. «Domattina puoi partire, è tutto sistemato. Tua madre è d'accordo.» Scambiai un'occhiata con Sandra e lei annuì. «Porta anche tuo fratello con te.»
         Un boccone gli andò di traverso e Giulio quasi si strozzò.
         Alessandro intanto saltellava come un matto. «In campeggio, sì! In campeggio!»
         Giulio mi rivolse uno sguardo disperato.
         «È così» gli dissi a voce bassa. «Non c'è scelta. Se vuoi andare devi portarti dietro anche lui.»
         Sapevo che l'avrebbe fatto. Lo sapeva anche Sandra.
         
         La mattina dopo accompagnammo i ragazzi fino alla strada, dove il pulmino della gita si sarebbe fermato a prenderli. Era solo un chilometro di terreno pianeggiante, avremmo potuto controllarli stando comodamente in veranda, eppure andammo entrambi con loro.
         Giulio comprese che qualcosa non funzionava quando Sandra li lasciò salire senza strapazzarli di baci come suo solito.
         Ci guardò dal finestrino, mentre il pulmino si allontanava, con uno sguardo perplesso.
         «Alessandro glielo dirà?» mi chiese Sandra.
         Era difficile che Alessandro fosse capace di tenere la bocca chiusa e di certo Giulio l'avrebbe spremuto.
         «Non importa» le risposi. «Quando torneranno sarà tutto finito.»
         
         Un giorno, tanto tempo fa, avevo creduto che i soldi avrebbero portato la felicità. Avevo mandato al diavolo l'odioso lavoro di contadino, che la mia famiglia si tramandava da secoli, avevo abbandonato ogni coltivazione lasciando che le erbacce invadessero i campi e avevo deciso che avrei passato il resto della mia vita a pescare.
         Eh sì, ero un uomo semplice. Quello era il massimo del piacere che riuscivo a immaginare. Pescare. E alla sera fumarmi la mia pipa e bermi un boccale di birra.
         Sandra era stata più creativa, ma solo per poco. Quasi subito si era resa conto che non poteva né voleva allontanarsi da casa, e da quel giorno il suo unico compito era diventato quello di farci dannare. Aveva deciso di fare la mamma e la moglie a tempo pieno.
         Vivere insieme con tanto tempo libero a disposizione poteva essere distruttivo. Convivere ventiquattr'ore su ventiquattro, giorno dopo giorno, poteva persino portare all'odio. Noi per fortuna non c'eravamo ancora arrivati ma ci trovavamo pericolosamente vicini.
         «Non lo so» disse Sandra mentre preparava il pranzo.
         I ragazzi erano già andati via da un paio d'ore, ma noi non eravamo usciti di casa.
         «Non dobbiamo decidere subito, abbiamo tempo. I ragazzi non torneranno fino a lunedì.»
         «Alessandro lo ha visto.»
         «Non preoccuparti, Giulio non gli crederà mai.»
         «E se lo chiedesse a noi? Dovremmo dirgli che Alessandro è un bugiardo? Non mi sembra giusto.»
         «Non ce lo chiederà.»
         Conoscevo Giulio, si sarebbe vergognato a fare certe domande. E a chi, poi? Non certo a sua madre. Al massimo ne avrebbe parlato con me. Non avrei avuto neanche bisogno di mentire, mi sarebbe bastato sorridere. Si sarebbe subito convinto che Ale l'aveva preso in giro.
         «Non è giusto lo stesso!»
         
         Dopo pranzo non andai a pescare, sprofondai su una poltrona in salotto e accesi la pipa. Fu qualcosa di istintivo, come ai vecchi tempi. Quando Sandra se ne accorse, venne da me e mi chiese: «Ci facciamo una birra?»
         E bastava questo a dimostrare quanto fosse sconvolta.
         Portò la birra, due boccali stracolmi e si sedette di fianco a me. Bevve quasi metà del suo boccale, con un solo sorso.
         «Pensi che sia lui?»
         «Il posto è lo stesso» risposi.
         Un lungo silenzio. Poi: «C'è ancora?»
         Mi alzai e andai a guardare dalla finestra. La visuale era perfetta. Non c'era una casa per chilometri. Intorno a noi c'erano solo campi incolti e un arcobaleno dipingeva il cielo. Tutto era immobile, non c'era un filo di vento.
         Tornai a sedermi.
         «Perché è tornato? Sono passati cinque anni, pensavo che si fosse rassegnato.»
         «Che ne sappiamo di come ragiona lui?»
         «Dobbiamo farla finita.»
         Temevo che l'avrebbe detto. «Se ne andrà presto.»
         «No che non se ne andrà! L'altra volta è rimasto tre mesi! Ti rendi conto del rischio che abbiamo corso? Per fortuna era inverno e i bambini erano piccoli. Non è stato difficile tenerli dentro casa, ma adesso... Se Alessandro l'avesse toccato... se invece di correre da noi l'avesse toccato!»
         Si alzò e si mise a camminare per la stanza. «Lunedì torneranno i ragazzi. Figurati se Alessandro non gliel'avrà detto. Lo porterà subito a vederlo. Credi che possa bastare un divieto? Credi che ci darebbero retta?»
         Alessandro no di certo. Giulio forse sarei riuscito a convincerlo, ma non ne ero sicuro.
         Prese la sua decisione. «Dobbiamo ucciderlo.»
         «Non sappiamo neanche se sia possibile farlo.»
         «Tutti possono morire.»
         «Lui se ne andrà» mormorai. «Se ne va sempre.»
         Ma stavolta Sandra era decisa. «Non voglio che sia qui quando torneranno i bambini!»
         
         Tra le parole e l'azione intercorre sempre un certo periodo di tempo. In casa nostra quel periodo in genere era dilatato. Certe volte per molto tempo, anche anni.
         Si tendeva a rimandare, a fare il meno possibile. Era diventata questa la nostra vita, una lunga attesa. Ormai erano anni che non uscivamo più di casa, io almeno, ma anche quando uno di noi era costretto a farlo l'altro restava di guardia. Sì, in certi momenti mi sembrava di essere regredito, di essere solo un animale che difende il suo territorio.
         «Dovevamo andare via» disse Sandra, mentre guardava i campi dalla finestra.
         «Via di qui?» Quell'idea mi sconvolgeva. Io ero nato in quella fattoria, mi era impensabile abbandonarla.
         «Potevamo permettercelo, no? Potevamo permetterci ogni cosa!»
         «Non era necessario.»
         «E allora perché l'abbiamo fatto?»
         Era una domanda che anch'io mi ero posto, mille volte. Avevamo davvero bisogno di quei soldi? A quel tempo dovevamo lavorare, certo, ma non eravamo molto più felici?
         Lei continuava a fissare la finestra.
         «Vuoi andare a vedere?» le chiesi.
         «Possiamo farlo domani.»
         Già, sempre rimandare al domani.
         «Se sei decisa possiamo andare adesso.»
         Restò in silenzio.
         «Prendo il fucile» dissi io.
         Forse speravo che lei si opponesse, ma non lo fece.
         Mentre caricavo l'arma lei arrivò, stringendo in mano un coltellaccio da cucina. Aveva scelto il più grosso.
         «È una pazzia» le dissi.
         Lei restò in silenzio.
         
         Eravamo buffi. Cinque anni ci avevano cambiato molto. Eravamo ingrassati, e parecchio. Io stavo diventando calvo ed ero costretto a usare gli occhiali, lei aveva un gusto orrendo nel vestire e si tingeva i capelli di colori osceni.
         Ora, armati fino ai denti, eravamo la più improbabile coppia di assassini che si fosse mai vista.
         Ci inoltrammo nei campi. Era autunno e l'erba era tutta secca, di un giallo sporco, malato. Man mano che andavamo avanti divenne rada. Si intravedeva ancora l'arcobaleno nell'aria.
         Dopo qualche centinaio di metri lo vidi. «Eccolo, è lì. Non avvicinarti!»
         Non ci provò neppure, lasciò che fossi io a farmi avanti.
         C'era qualcosa che sporgeva dal terreno. Era rotondo e dal suo interno veniva un colore aranciato, quasi un fuoco.
         «Lui dov'è?» bisbigliò Sandra.
         «Dev'essere qui intorno.»
         «Non lo vedo.»
         «Si terrà nascosto.»
         «Come facciamo a trovarlo?»
         «È lui che troverà noi.»
         «Lo vuoi... prendere?»
         «Vedi un'altra soluzione?»
         Finché non l'avessimo toccato, lui non ci avrebbe fatto nulla. Eravamo stati fortunati che Alessandro fosse corso subito da me appena l'aveva trovato.
         Sì, aveva ragione Sandra, tutto questo doveva finire.
         Feci un passo avanti.
         «No!»
         «Che hai?»
         Stavano iniziando i dubbi.
         «Stiamo facendo la cosa sbagliata, di nuovo!»
         «Preferisci non fare niente?»
         «No, no, ma... Com'è? Tu l'hai visto? Com'è fatto?»
         «Di sfuggita, lo sai. Solo un istante.»
         «Ma com'è?»
         «Come vuoi che sia? È un mostro!»
         «Sì ma... un mostro come?»
         Sospirai. Gliel'avevo già detto, e più di una volta. «È piccolo, una specie di nano, ma è orribile. Un mostro, insomma.»
         «Sì, ma come è vestito?»
         «Vestito? Io non ho visto nessun vestito! Che importanza ha adesso se fosse vestito o meno?»
         «È... verde? Indossa qualcosa di verde?»
         Stava degenerando. «Ma smettila, Sandra! Che ti salta in mente? Ti ho detto che è un mostro, tutto lì.»
         «Oh mio Dio!»
         Stava diventando isterica. A un certo punto si voltò e si allontanò di qualche passo. «Non lo possiamo fare!»
         «Sandra!» urlai, e lei si bloccò.
         Andai diritto verso l'oggetto nel terreno. «Facciamola finita.»
         «No!» gridò lei.
         La ignorai. Afferrai con forza i bordi dell'oggetto e tirai. Venne fuori con facilità. Era rotondo come una palla da bowling con un buco in mezzo. Era da quell'apertura che usciva la luce arancione.
         «L'hai fatto!» strillò lei.
         Io posai l'oggetto a terra per avere le mani libere e imbracciai il fucile. «Sttt!» le dissi. «Adesso fa' silenzio.»
         Lei si congelò, lì dov'era, e strinse il coltellaccio con entrambe le mani. Si guardò intorno disperata. «Ho paura!» urlò.
         Non era colpa mia se si era allontanata. Lì era un bersaglio perfetto. Comunque veniva a mio vantaggio. Se lui si fosse fatto avanti l'avrei colpito senza problemi.
         Sandra era sempre più tesa, saltellava cercando di reggersi su un piede solo, quasi temesse l'attacco di un serpente. «Non dovevi farlo!» strillò ancora.
         Io tenevo d'occhio tutto il campo, ma di erba ne era rimasta pochissima e non sarebbe bastata a nascondere neppure un passerotto.
         «Quant'è alto?» gridò Sandra.
         «Pensi che l'abbia misurato?»
         «No, davvero, quant'è alto?»
         «Abbastanza da vedersi, sta' tranquilla.»
         «Dimmi quanto!»
         «Ma non lo so! Trenta centimetri, trentacinque.»
         Lei posò entrambi i piedi per terra. «Solo?»
         Mi pareva che ci fosse delusione nella sua voce. Guardò il coltellaccio che teneva in mano, che di centimetri ne misurava quaranta e fece le debite proporzioni.
         «Credevo che fosse più pericoloso» disse.
         Mi agitai. «Lo è! Lo è! Non importano le dimensioni.»
         E lei: «Mi avevi sempre detto che era un mostro.»
         Non mi andava il suo tono, c'era una nota malevola. Stava tornando a essere la Sandra odiosa, quella di sempre.
         «Ti pare il momento di fare queste storie? Potrebbe aggredirci da un istante all'altro.»
         Lei si guardò intorno, fin troppo tranquilla. «Io non vedo nessuno.»
         «Il terreno! Si nasconde nel terreno!» le gridai, nella speranza di vederla saltellare di nuovo.
         Non funzionò. «Il terreno non è stato smosso da anni. Si noterebbe.»
         Non sapevo più a cosa appellarmi. Neanch'io riuscivo a capire perché non si fosse ancora fatto avanti.
         Sandra fece un paio di passi verso di me e mi rivolse il solito sguardo disgustato. «Su, prendi quel coso e andiamo a casa.» E poi aggiunse, con voce minacciosa: «Trenta centimetri! Sono cinque anni che mi fai vivere in agitazione per trenta centimetri!»
         «Forse trentacinque!» mormorai. «Sì, trentacinque, ne sono sicuro. Forse anche quaranta.»
         «Muoviti!» urlò tanto forte da farmi sobbalzare. Persino il fucile mi scivolò dalle mani.
         Tentai di alzare l'oggetto. «È pesante!»
         «Arrangiati!»
         Misi il fucile a tracolla e mi chinai. Lo presi con entrambe le mani, ai lati. Era proprio pesante! Avrei dovuto essere felice, ma...
         Incontrai due occhi, proprio all'interno dell'oggetto. Occhi gialli, malefici. Non feci in tempo a ritrarmi e neppure a urlare. Il mostro saltò sul mio volto.
         
         «Argh!» urlai, seduto al tavolo della cucina, guardandomi intorno con ansia. Sandra aveva chiuso ogni porta e finestra? Lei aveva detto di sì, ma dovevo fidarmi? Quella cosa sarebbe riuscita a entrare?
         «Non muoverti, vuoi che ti faccia male?»
         «Il mio naso, il mio naso! Me l'ha strappato!»
         «No, che non te l'ha strappato, però è ridotto male. Non toccarlo.»
         Il dolore era tremendo. «Cos'era?» le chiesi.
         «Se non l'hai visto tu che ce l'avevi davanti!» Era un sogghigno quello? «Sembrava che ti stesse baciando!»
         «Stronza!»
         Lei ridacchiò. «È stato troppo veloce per vederlo bene. È fuggito subito. Comunque avevi ragione tu. Sì, trenta centimetri direi.»
         «Come fai a scherzare? Ora sa che siamo stati noi! Non ci darà più pace! Ci farà a pezzi!»
         «Non mi sembrava tanto pericoloso.»
         «Guarda come mi ha ridotto! Tu non li conosci!»
         «E tu sì?»
         «Mi sono informato. Sono vendicativi! Non dimenticano mai!»
         «Non credo...»
         «Hai visto che è tornato! Ci ha persino teso una trappola! E noi ci siamo cascati come allocchi!»
         «Tu ci sei cascato» precisò mia moglie.
         Solo allora mi accorsi che non c'era. «Dov'è? L'hai lasciato là?»
         «Cosa?»
         «Lo sai cosa!»
         «Ma per favore! Già dovevo trascinare te che ti credevi in punto di morte! Figurati se mi portavo dietro quella cosa!» Mi rivolse uno strano sguardo. «Lo volevi? Volevi anche quello? A che ci sarebbe servito?»
         Preferii cambiare argomento. «Ora cosa succederà?»
         Lei sospirò. «Cosa vuoi che succeda? Te ne vai a letto.»
         «Tutto qui?»
         «Preferisci andare al pronto soccorso? Potrebbero farti un'antirabbica, non si sa mai. Sono curiosa di sentire che spiegazione ti inventerai.»
         «Non ci credi? Non credi che ora cercherà di ucciderci? Lo sa che siamo qui dentro, ci attaccherà!»
         «Vai a letto, che è meglio.»
         «È un mostro!» le gridai. «Un mostro!»
         Poi andai a letto.
         
         Mi portò un brodino e la guardai inorridito.
         Quando mi raggiunse a letto si era messa i bigodini. Il mio orrore crebbe.
         «Hai visto che non è successo niente? Sta' tranquillo.»
         «Sei certa che sia tutto chiuso? Che non possa entrare?»
         Mi rivolse uno sguardo disgustato.
         «È qui dentro, lo so! È in questa casa!»
         Lei si coricò e spense la luce. Io urlai come se mi stessero uccidendo. La riaccese subito.
         «Che ti sta succedendo?»
         Non ce la facevo più, stavo crollando. «Mi vuole uccidere!» balbettai. «Mi vuole uccidere, lo so.»
         Lei scese dal letto, seccata.
         «Basta! Non ne posso più. Se dobbiamo fare questa vita tanto vale farla finita!»
         Uscì dalla camera decisa, nella sua camicia da notte. Un attimo dopo sentii uno sgradevole scricchiolio.
         Balzai in piedi urlando e appena misi i piedi a terra mi resi conto che lui poteva essere lì. Cercai un'arma per difendermi, ma trovai solo un battipanni. Servendomi di quello controllai che non si fosse nascosto sotto al letto.
         «Ma sei diventato tutto scemo!» esplose mia moglie vedendomi. E poi disse: «Su, vieni a darmi una mano, da sola non ce la faccio.»
         Quando mi accorsi che aveva abbassato la scala per salire in soffitta lanciai un altro urlo. «Che vuoi fare?»
         Lo disse. Disse quella frase che tanto temevo.
         «Glielo voglio restituire, no? Così dopo ci lascia in pace!»
         «Ma... ma...»
         «Senti, non è nostro. Ci ha portato solo guai da quando l'abbiamo trovato, ha trasformato questa vita in un incubo. Che potrà mai succedere, dopo? Dovrai tornare a lavorare? Non sei stufo di stare tutto il giorno a non fare niente?»
         Lei non capiva. Non poteva sapere.
         «Dai, aiutami a salire. Tienila ferma.»
         «No, no!» continuavo a ripetere.
         Lei salì lo stesso, senza sentir ragioni.
         La soffitta era pulita e ordinata, andavamo spesso lì. Era il posto ideale per nasconderlo, dove i bambini non l'avrebbero mai trovato.
         Era stipata di vecchi mobili e cimeli di tutta la famiglia. Sandra andò diritta verso un mastodontico armadio e lo aprì.
         Era vuoto, eccetto per uno strano recipiente rotondo. Lo prese e lo posò sul tavolo.
         C'era qualcosa di magico in quell'oggetto. Bastava guardarlo per sentir crescere dentro di noi l'avidità.
         Era molto simile a quello che avevamo visto fuori, quasi identico. Sembrava solo un po' più grosso, ma in compenso era più leggero. Una luce arancione veniva dal suo interno e illuminava le pareti.
         Restammo a fissarlo a lungo, affascinati. Poi non riuscii a resistere e infilai la mano al suo interno.
         Ne presi una manciata abbondante e la tenni stretta.
         «Ti pare il momento?» mi chiese Sandra. «Non hai già fatto abbastanza guai?»
         Ecco, si era arrivati a questo punto, mi stava già dando tutta la colpa.
         Spinse l'oggetto verso di me. «Ridaglielo e basta.»
         «Io?» strillai, e ciò che tenevo in mano si sparse sul tavolo. Luccicavano e sembravano pepite d'oro. Sandra le raccolse in un lampo e le ributtò all'interno dell'oggetto.
         Non osai fiatare.
         «Sì, tu. Va' fuori e ridaglielo. Noi non ne abbiamo bisogno.»
         Iniziai a scuotere la testa senza riuscire più a fermarmi.
         «Gliel'hai rubato, e lo sai benissimo. Io non so cosa sia quella cosa, se sia davvero un folletto. Di certo l'oro di questa pentola non si esaurisce mai. Più ne prendiamo più ce n'è. Quindi, se hai tanta paura che si vendichi, prendi la pentola e riportagliela.»
         Non l'avrei toccata per niente al mondo. Mi tremavano le mani.
         «Non posso» mormorai.
         «Va be'» mi concesse mia moglie. «È anche colpa mia. Potevo rifiutare, invece tutto quest'oro ha abbagliato pure me. È giusto che lo si faccia insieme. Vengo con te.»
         Ripresi a scuotere il capo, come un idiota.
         «Si può sapere che ti prende adesso? Non vuoi farne a meno, vuoi tenerlo? Sei tu che stai morendo di paura. E pure di fronte a un esserino di trenta centimetri!»
         Non potevo più tacere. «Non è lo stesso.»
         Si congelò. «Cosa non è lo stesso?»
         «La cosa. Il mostro. Il... folletto. Non è lo stesso a cui abbiamo preso la pentola.»
         Sandra recuperò una sedia e si sedette al tavolo. «Spiegati meglio.»
         La vergogna mi sommerse, però non potevo più tacere. «Quando ho visto quell'arcobaleno, io...»
         «Me l'hai già raccontato cento volte! So come sono andati i fatti!»
         «No, non lo sai. Ti ho mentito.»
         «Oh!» disse soltanto, e non aggiunse altro.
         «Io stavo pescando, e ho visto l'arcobaleno e... sapevo che era una sciocchezza, ma... partiva proprio dal nostro campo, e allora... Sono andato a vedere, così, per curiosità. E c'era davvero! Una pentola piena d'oro! Ti rendi conto? Era assurdo, però c'era. Ho immerso le mani dentro e ho tirato fuori l'oro a manciate. Manciate, capisci?»
         «È tutto esattamente come me l'hai raccontato le altre volte. Poi l'hai portato a casa e...»
         «No, prima è arrivato il folletto.»
         «Ah sì, l'hai intravisto e sei scappato, portandoti via la pentola.»
         «No. Non è andata così.» Sospirai. «Sapevo che se c'era una pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno doveva esserci pure un folletto, avevo sentito anch'io la leggenda. Solo che mi aspettavo... un'altra cosa.»
         «Un omino vestito di verde col cappellino in testa.»
         «Uhm... sì, qualcosa del genere. Quella cosa, invece... Dio com'era brutta! Era proprio un mostro!»
         «E ti ha aggredito?»
         Mi ammutolii.
         «Non ti ha aggredito?»
         «Ecco, si potrebbe dire così. Era arrabbiato, sì, decisamente arrabbiato che avessi preso la sua pentola. Mi girava intorno ed era arrabbiato. Emetteva certi versi!»
         «Ma non ti ha aggredito?» mi chiese ancora.
         «Io... non gliene ho dato il tempo. Ho preso una pietra e...»
         «Cos'hai fatto?» strillò Sandra, così forte da far tremare i vetri.
         Che stupido, mi trovai gli occhi pieni di lacrime come un bambino. «L'ho colpito e colpito. Ho continuato finché non si è più mosso.»
         «Ma perché?»
         Singhiozzai. «Per la pentola. Volevo quella pentola. Non riuscivo a pensare ad altro.»
         Sandra sembrava sfinita. «Tu hai fatto questo? Tu?»
         Singhiozzai più forte. «Non so che mi abbia preso, proprio non lo so.»
         «E cosa ne hai fatto?»
         «L'ho seppellito lì, dove avevo trovato la pentola.»
         «Non mi hai detto niente! Niente!»
         «Mi vergognavo troppo.»
         «Mi hai trascinato in questa storia senza dirmi niente! L'avevi trovata, hai detto! Se non fosse riapparso l'arcobaleno qualche giorno dopo neppure mi avresti detto a chi l'avevi portata via!»
         «Lo sta cercando!» sibilai. «È uno di loro e lo sta cercando!»
         «Una ragione in più per restituirgliela.»
         «Ma capirà che l'abbiamo ucciso noi, il suo amico!»
         «Tu l'hai ucciso!» precisò. «Tu soltanto! E poi ormai lo sa già, non credi?»
         Singhiozzai. «Ci ucciderà tutti.»
         «Ma per favore!» sbottò. «È un nanerottolo di trenta centimetri! Persino tu sei riuscito a farne fuori uno con una pietra!»
         La guardai confuso. «Vuoi uccidere anche questo?»
         «Io non voglio uccidere proprio nessuno!» Afferrò la pentola con rabbia e un po' del contenuto si sparse sul pavimento. Per una volta non corsi a raccoglierlo.
         «Andiamo, muoviti, facciamola finita!»
         Lamentarmi non servì a niente e Sandra mi costrinse a portare la pentola. La seguii attraverso la casa, ma mi bloccai davanti alla porta d'ingresso.
         «No!» dissi deciso. «No, no, no.»
         «Devi riportarlo dove l'hai preso!»
         «È notte!» le ricordai.
         «Sei tu ad aver paura che venga a ucciderti!»
         Mi impuntai e l'ebbi vinta. Alla fine raggiungemmo un accordo e aprimmo appena la porta per spingere fuori la pentola d'oro. La lasciammo lì, sul portico, e ci affrettammo a richiudere tutto a chiave.
         Lei scosse il capo, soppesandomi. «Andiamo a letto, ora.»
         
         Dormire? Vogliamo scherzare?
         Passai la notte tremando, con la luce accesa, e quella stronza al mio fianco russava pure! Iniziavo a odiarla.
         Ogni minimo rumore che sentivo mi mettevo a urlare e lei neppure si svegliava. Sospettai che si fosse messa i tappi nelle orecchie.
         Alla mattina ero un fascio di nervi e pareva che fossi passato sotto un rullo compressore. Lei controllò il mio povero naso e scosse il capo disgustata. «Fa proprio schifo.»
         La pentola era sul portico dove l'avevamo lasciata. Il nostro espediente non era servito a nulla.
         «Che si fa?» le chiesi.
         E lei: «Riportala nel campo.»
         I suoi desideri erano di nuovo ordini. Così, dopo un'infruttuosa discussione, mi ritrovai ad arrancare tra i campi reggendo quella pentola a cui tanto tenevo, ma che ci aveva procurato solo guai.
         Era bizzarro vedere Sandra maneggiare quel fucile, sperai solo che non finisse per sparare proprio a me.
         Quando giungemmo in prossimità del punto dove si trovava l'altra pentola, Sandra mi afferrò per un braccio, fermandomi. Aveva uno strano sguardo fisso.
         Anch'io feci attenzione.
         Il folletto era là. Be', qualunque cosa fosse, almeno. A me sembrava di più l'incrocio tra una lumaca e un ippopotamo, con un pizzico di Godzilla, ma chi ero io per giudicare?
         Lo vedemmo uscire dall'interno della sua pentola e girarle intorno. Aveva un'andatura un po' goffa, pareva che strisciasse, come una lumaca.
         «Che sta facendo?» bisbigliai.
         A quanto pareva non si era accorto di noi. Girava intorno alla pentola, sempre più velocemente, e sembrava arrabbiato.
         «È verde, vedi? Avevo ragione io» disse Sandra a bassa voce.
         Sì, il suo dorso era verde, ma di certo non indossava alcun vestito.
         Poi fece qualcosa di incredibile, che ci lasciò a bocca aperta. Rovesciò la pentola e se la mise in spalla. Oddio, non che avesse propriamente le spalle, sembrava di più una lumaca che si portasse dietro il suo guscio. Si mise ad arrancare, trascinandosi dietro quel peso.
         «Se ne va?» chiesi, incredulo.
         «E allora?» disse Sandra. «Dovresti esserne contento.»
         Ero molto confuso, invece. Non pensavo che sarebbe stato così facile. La prima volta era apparso dopo una settimana. Quando avevo rivisto l'arcobaleno ero corso a controllare. Avevo trovato una seconda pentola. La cosa mi aveva insospettito e parecchio. Non avevo osato avvicinarmi. Ero rimasto a sorvegliarla da lontano e un paio di volte mi era sembrato di vedere del movimento. Così avevo proibito ai bambini di andare a giocare nei campi ed ero stato costretto a raccontare a Sandra una parte della verità, ovvero che non l'avevo trovata, quella pentola, ma rubata a un folletto, e che ora la rivoleva. Era andata avanti per tre mesi, quel maledetto arcobaleno non voleva andarsene. Poi, all'improvviso, una bella mattina era sparito. Aveva rinunciato. Eravamo liberi, liberi di spendere il nostro oro.
         Lo guardammo allontanarsi sempre di più, senza mai girarsi indietro. Se si era accorto di noi ci aveva bellamente ignorato. Alla fine scomparve in mezzo all'erba alta.
         «È finita!» mormorai incredulo, poi mi rivolsi a Sandra, implorante. «Se n'è andato, torniamo a casa.»
         Ma la sua espressione non lasciava presagire nulla di buono. «Non mi è sembrato affatto pericoloso.»
         «Ma non hai visto cosa mi ha fatto!» esclamai scandalizzato.
         Lei era pensierosa. «Perché avevi così paura di lui?»
         La sua tranquillità non faceva che accrescere la mia agitazione. «Ma non la conosci la leggenda? La pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno? I folletti che si vendicano di chiunque cerchi di rubarla?»
         «E allora? È solo una leggenda e basta.»
         «Sì, ma...»
         Non sapevo più che dire. Quando cercai di girarmi per andar via lei mi bloccò. «Cosa credi di fare?»
         «Ma se n'è andato!» gemetti. «Non serve più!»
         «Non è nostro comunque. Devi restituirlo.»
         «Ma a chi? Non c'è più!»
         «Non importa. Non è nostro lo stesso.»
         Quindi andammo avanti. C'era tanto oro, sparso per terra, che doveva essere caduto quando il folletto l'aveva rovesciata. Posai la pentola, poi non riuscii a resistere e mi riempii le tasche con tutto quell'oro abbandonato.
         «Dov'è il cadavere?» chiese Sandra, congelandomi.
         La guardai sconvolto. «Che vuol dire?»
         «Dove l'hai seppellito?»
         «Che importanza ha?»
         «È meglio che il suo amico sappia che è morto, così smetterà di cercarlo.»
         «E vorrà vendicarlo, però!» strillai.
         Il problema parve non interessarle. «Io preferirei sapere.»
         Non ebbi scelta, mi misi a cercare e individuai il posto, perché la terra formava ancora una lieve montagnola. «Che faccio, porto qui la pentola?»
         Sandra mi passò una ridicola paletta da giardinaggio di plastica rosa. «Scava.»
         «Ma sei matta? Sarà putrefatto!»
         «Sei tu che l'hai ucciso. Scava e non lamentarti. Lo deve vedere.»
         Sbuffai.
         Fu più facile del previsto, perché non l'avevo sepolto a grande profondità. Sandra lo guardò perplessa. «Che roba è?»
         Era una scatola di latta che aveva contenuto biscotti, non avevo trovato altro della sua misura. «Una bara» replicai, offeso.
         Sapevo cosa voleva da me, ma non avevo il coraggio di farlo. «È proprio necessario...» iniziai, ma lei mi diede un colpetto sulla spalla per incitarmi a continuare.
         Tolsi il coperchio della scatola e la sentii trattenere il respiro.
         Anch'io ero stupefatto, non riuscivo a capire. «È intatto!» mormorai. «Non è cambiato minimamente!»
         Oddio, era brutto forte, non si discute, però quello era il suo aspetto. Non era putrefatto, come ci si sarebbe dovuti aspettare dopo cinque anni di sepoltura. Era stata la scatola a preservarlo? Anche l'odore che emanava era leggermente muschioso, ma niente di sgradevole.
         Le parole di Sandra mi fecero sobbalzare. «Sei certo che sia morto?»
         Che assurda domanda, era dentro a una bara, no?
         Sandra si liberò del fucile, passandolo a me, e si chinò su quella bara improvvisata, lasciandomi di nuovo a bocca aperta. Le sue dita sfiorarono la creatura. «È morbido» disse, quasi con stupore. «Non è affatto gelato.»
         «Deve essere morto» mi trovai a ripetere. «Non può essere altrimenti. È morto.»
         «Perché non si è putrefatto, allora?»
         «Che vuoi che ne sappia!»
         Allora lei fece una cosa incredibile. Talmente assurda da farmi fare un balzo indietro, inorridito. Prese quel cadavere tra le mani.
         Era disgustoso, viscido e molliccio, sentii arrivare un conato di vomito. «Che stai facendo?»
         Aveva una strana voce, quasi dolce. «Sembra che stia solo dormendo.»
         L'agitazione aveva accelerato le pulsazioni del mio cuore. «Lascialo! Posalo subito! È morto, ormai è tutto finito. Non si può tornare indietro!»
         Lei sorrideva. «Non è tanto brutto, in fondo. Non credi anche tu?»
         Non avevo alcuna intenzione di guardare quella cosa, cercavo di tenermene lontano il più possibile.
         Lei indicò con un cenno la pentola che avevamo portato. «Vivono lì dentro» disse.
         Sbuffai. «Figurati se vivono lì! Tengono d'occhio il loro oro! Lo proteggono dai ladri!»
         Scosse il capo. «Non mi pare proprio che l'oro gli interessi, l'ha pure buttato via.»
         «Ma...»
         «Dev'essere la loro casa» continuò Sandra con decisione. «Hai visto come se la portano dietro?»
         «Ma...»
         Non vedevo che differenza avrebbe fatto a quel punto.
         Poi Sandra fece qualcosa di ancora più assurdo. Con una grazia a lei insolita depose quel cadavere dentro la pentola.
         «Che stai facendo?» strillai.
         Lei mi sorrise di nuovo. «Non credi che sia giusto? L'ho rimesso dove doveva essere. Questa pentola è sua, no?»
         «Ma...»
         Non avevo proprio argomenti per ribattere.
         Lo sguardo di Sandra si intristì per un istante. «Tu non sei d'accordo, vero? Tu la vuoi ancora. Non ti interessa quello che hai fatto, cosa siamo diventati. Tu desideri ancora quell'oro.»
         Fui costretto ad abbassare il capo, perché aveva colpito pesante. «No... io... ma... tanto è morto... a lui non serve più...»
         «E a noi sì?»
         Scossi il capo. Poi guardai di nuovo la pentola. «Che dobbiamo fare? Lo vuoi seppellire?»
         Tornò a sorridere. «Lo capisci che è giusto? Che va fatto così?»
         Annuii, pieno di vergogna. «Scusami» mormorai. E aggiunsi: «È colpa di quell'oro. È tutta colpa sua. Io non ero così, prima. Anche tu eri diversa.»
         Non lo negò. Mi passò invece la paletta. «Allarga quella fossa.»
         Tentennai. «Non volevi che il suo amico sapesse che era morto? Può pensarci lui a seppellirlo, se ci tiene.»
         Un attimo di dubbio. «Vuoi lasciarlo qui? Così?» Corrugò la fronte. «Lo dici veramente, o hai intenzione di venire a riprenderla?»
         Sobbalzai. «No, no, te lo giuro! È finita! Mai più...»
         «Butta via quello che ti sei messo in tasca, allora.»
         Me ne liberai, con gran dolore. Ne feci una piletta, per terra, e la guardai con nostalgia. «Ma lui non la voleva, non gli interessava, l'hai detto pure tu...»
         «Aiutami a spostarla» disse Sandra, prendendo la pentola da un lato. Indicò il punto. «Lì, dove c'era l'altra.»
         Avrei voluto dire che stavamo perdendo tempo, che non sarebbe servito a niente, ma fu più facile ubbidire.
         Insieme l'alzammo, anche se ora pesava di più. Ma quando i miei occhi videro ciò che conteneva la lasciai andare di colpo e indietreggiai urlando.
         La pentola cadde a terra, perché Sandra non poteva sostenerla da sola. Mi guardò confusa. «Che ti succede?»
         Due occhi mi avevano guardato, dall'interno della pentola! Due occhi gialli, malevoli. «È vivo!» urlai. «Quella cosa è viva!»
         Anche lei indietreggiò, stavolta il timore fu più forte della curiosità. «Che vuol dire? Non l'avevi ucciso?»
         «L'ho colpito!» gridai. «L'ho colpito e colpito, finché non si è più mosso.»
         «Ma era morto? Sei certo che fosse morto?»
         «Non si muoveva! Che altro poteva essere?»
         Nessuno di noi osava avvicinarsi, ma i nostri occhi erano puntati sulla pentola. La luce aranciata che emetteva sembrava più viva, o era solo la nostra immaginazione?
         Poi accadde, all'improvviso, ed entrambi urlammo. Apparve una mano, sul bordo della pentola, solo che non era una mano. Poi pian piano venne fuori il resto del corpo.
         «Che significa? Cosa vuol dire?» urlai.
         Decisamente non era morto. Non lo era mai stato. Eppure l'avevo seppellito, era rimasto sottoterra per cinque anni! «Era in letargo?» azzardai.
         La creatura continuò a venire fuori, poi cadde dalla pentola con un suono viscido. Non sembrava al suo meglio. Pareva confusa e frastornata. Subito si volse verso di me e apparvero quegli occhietti malefici. Iniziò a emettere suoni aspri e squillanti.
         «Mi vuole uccidere!» strillai.
         Sandra non era di questo avviso. «Forse ti sta solo insultando. Ne ha tutte le ragioni, direi.»
         La creatura si mise a girare intorno alla pentola, dando voce a tutto il suo disappunto, poi di colpo smise di interessarsi a noi e si mise a scavare nel terreno. Noi continuammo a guardarla a bocca aperta.
         Quando il buco fu abbastanza largo vi trascinò dentro la pentola, compattò la terra intorno ai bordi e infine scomparve al suo interno.
         Prima che potessi dire una sola parola, una pioggia di pepite d'oro mi sommerse. Arrivavano dalla pentola, sparate fuori come missili. Tutte quante lanciate solo contro di me, Sandra non fu neanche sfiorata.
         Non resistetti e mi chinai di corsa a raccoglierle. Sandra scoppiò a ridere.
         Restai così, perplesso, con tutte quelle pepite in mano. «Che c'è?»
         Lei continuava a ridere. «Non è oro! Non è mai stato oro!»
         Certo che era oro, oro purissimo. Ne avevamo venduti a chili e nessuno si era mai lamentato.
         Lei indicò la pentola. «È viva! È sempre stata viva!»
         Ancora non riuscivo a capire cosa stesse dicendo.
         Fu più esplicita. «Non è una pentola, è quella la creatura!»
         «E il folletto?» chiesi, confuso.
         «Non c'è nessun folletto e nessuna pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno. Sono la stessa cosa! Quella pentola e il folletto sono la stessa cosa.»
         Non aveva alcun senso. «È la sua casa, sì, ma...»
         «No, non è una casa, anch'io mi ero sbagliata. O forse sì, ma non come pensi tu. È un guscio, il guscio che lo contiene, proprio come fosse una lumaca.»
         Scossi il capo. «Le lumache non si staccano dal guscio.»
         «Questa sì. Temporaneamente, almeno, quando deve spostarsi. Può staccarsi, ma solo per brevi periodi.»
         «Come fai a dire...»
         «Voleva rientrare nel guscio! Quando tu l'hai preso e lo stavi portando via, stava cercando di rientrare, per questo era arrabbiato. Doveva assolutamente rientrare.»
         Aggrottai la fronte. «Vuoi dire... che non l'ho ucciso? Che si è... esaurito, come un macchinina alla fine della carica? Che non aveva più forze? Che è bastato rimetterlo lì dentro per rigenerarlo?»
         «Evidentemente sì.»
         «Ma... ma... cos'è?»
         «Non ne ho la più pallida idea, però è viva. Quel guscio è vivo.»
         «Da cosa lo deduci?»
         Il sorriso divenne malizioso. «Da quello che stai tenendo in mano.»
         «L'oro?» chiesi, perplesso.
         «Non è oro» ripeté. «Non hai ancora capito? Eppure hai visto che a loro non interessa, non serve proprio.»
         «E allora?»
         «Si rigenera, dici. Ogni giorno si forma nuovo oro. Giorno dopo giorno, sempre.»
         C'era delusione sul suo volto, ma proprio non riuscivo a capire.
         «Ma come fai a non arrivarci da solo! Non è oro! Cos'è che ogni essere vivente produce ogni giorno, incessantemente, per tutta la vita?»
         Deglutii.
         «Escrementi, mio caro! Quelli che tieni in mano sono i suoi escrementi!»
         Alzai le spalle. Che fossero escrementi poco mi importava, sempre di oro si trattava, e valeva una fortuna. «Per questo dici che è viva? Per quello che produce?»
         «Non può essere solo un guscio. Un guscio non produrrebbe escrementi, non credi?»
         Non ero ancora convinto. «Come è possibile? Perché non ce ne siamo accorti? Eppure sono anni che è in nostro possesso.»
         «Come facevamo ad accorgercene? Non era completa, ne mancava una parte.»
         «Ma non possono essere escrementi! Non mangia! Di cosa si sarebbe nutrita, in tutti questi anni?»
         Il sorriso scomparve. «Qualcosa ha trovato, per forza.»
         «Cosa?»
         «Noi!» mormorò Sandra. «Non te ne sei accorto? Non hai notato come siamo cambiati da quando la possediamo? Cosa siamo diventati?»
         «Lei...»
         «Non so di cosa si sia nutrita, ma qualcosa ci ha portato via. Non eravamo così una volta. Avidi, possessivi, meschini. litigiosi. È lei che ci ha cambiato! Ci ha portato via qualcosa!»
         Era terribile quello che stava dicendo, eppure non potevo negare che fosse la verità. Ero cambiato, eravamo cambiati entrambi dal giorno in cui avevamo portato quella pentola nella fattoria. Era nostra, solo nostra. Avevamo paura che tutti volessero portarcela via. Ci eravamo chiusi al mondo intero, eravamo diventati prigionieri nella nostra stessa casa.
         Indicai la pentola. «E ora? Cosa dobbiamo fare adesso?»
         Non fu necessaria nessuna risposta. La luce aranciata che scaturiva dalla pentola cambiò, si mise a pulsare, poi di colpo si sollevò verso il cielo e apparve l'arcobaleno. Fece un arco perfetto, un cerchio risplendente dai molti colori, e ricadde non molto lontano da noi, in un campo vicino.
         Compresi subito. «Laggiù c'è l'altro? Quello che mi ha aggredito? Si è trasferito là?»
         Sandra osservava affascinata quella luce pulsante, e di nuovo sorrideva. «L'altra» precisò.
         «Eh? Come fai a dirlo?»
         «Era diversa, era più piccola, e poi...» Lasciò la frase in sospeso, poi sogghignò. «Chiamalo intuito femminile.»
         Ero ancora incredulo. «Comunicano? Dici che stanno comunicando? Tramite l'arcobaleno? È a questo che serve?» le chiesi, fiero di esserci arrivato.
         Lei fece uno strano risolino. «Veramente credo che stiano scopando.»
         Mi lasciò allibito.
         «Cinque anni l'ha aspettato» mormorò mia moglie. «L'ha cercato per cinque anni. Non si è arresa. Sì, deve essere amore, non può essere nient'altro.»
         Provavo una strana sensazione guardando quel bellissimo arcobaleno. I suoi colori sembravano danzare. Mi faceva sentire diverso. Quella fame inesauribile che aveva dominato la mia vita finché ero stato il padrone della pentola, ora era scomparsa. Anche Sandra mi sembrava completamente diversa.
         «Lasciamoli in pace» disse Sandra. «Diamo loro un po' di intimità. Penso proprio che se la meritino.»
         E così tornammo a casa e... diamine, ci ritrovammo a letto, anche se era solo mattina. E fu una domenica indimenticabile, altro che pepite d'oro.
         E i nostri folletti? Eccome se scopavano, scopavano come mandrilli, e in breve tempo intorno alla nostra fattoria fu tutto un arcobaleno. Ogni mattina ne contavamo qualcuno in più.
         E io? Be', ora non ho più tanto tempo per andare a pescare. Del resto qualcuno doveva pur assumersi l'incombenza di tenere pulito, di liberare i campi da tutti quegli inutili escrementi!

    FINE



    Versione precedente:
    SPOILER (click to view)

    ORO



    «Vogliamo discuterne?»
    «C'è poco da discutere, ti ho già detto come la penso.»
    Era sempre così, ogni volta, quando si metteva un'idea in mente non c'era verso di farle cambiare idea.
    «Si tratta solo di un weekend, in fondo, e ormai ha quattordici anni. Non è più un bambino. Capirei se fosse una femmina, ma...»
    La sua voce si alterò. «Tu la pensi così? Credi che io farei certe distinzioni? E poi cosa ti fa pensare che una femmina sarebbe meno giudiziosa? Ma guardati! Guardati! Non mi dire che su di te si possa fare affidamento!»
    «Che c'è che non va, adesso?»
    «Quel cappello! Quegli stivali! Come può un uomo adulto ridursi in questo stato?»
    Iniziai a ringhiare, senza rendermene conto. «Sono stato a pescare! Come bisognerebbe vestirsi per pescare, secondo te? In smoking?»
    «Vedi? Questo è l'esempio che dai ai tuoi figli. Poi ci credo che vogliano andare in campeggio! È tutta colpa tua!»
    «Cosa c'è di male nel fare campeggio? Dormire sotto le stelle, respirare aria pulita?»
    «Non ci vedi niente di male, eh? Non pensi ai pericoli che corre! Eh no, tu sei un amante della vita selvaggia! Peccato che non ti sia allontanato da casa per più di cento metri, da che ti conosco! Persino per pescare vai solo al pontile!» Riprese fiato, velocissima. «Perché non te lo porti a pescare, allora? Tanto ormai ci sono abituata, un fannullone in più o in meno non fa differenza!»
    L'avevo promesso a Giulio e lui si era proprio raccomandato di resistere, però dubitavo che ci sarei riuscito ancora per molto.
    «Vuoi che tutti lo considerino un pappamolla, sempre attaccato alle gonne di mammina? È questo che vuoi per tuo figlio?»
    «Che vuoi che me ne importi degli altri! Eh sì, adesso dovrei fregarmene della sicurezza del mio bambino solo per far felici gli altri!»
    «Non sei tu che devi viverci con gli altri, è Giulio! Mentre tu te ne stai qui a casa, a scuola lo prendono in giro! Dicono che mammina lo tiene al guinzaglio, sempre pronto a scattare ai suoi ordini.»
    «Ma sei proprio uno stronzo, sai? Ti pare che l'abbia mai trattato così? Questo te lo stai inventando tu adesso. Non ti va giù che io non sia d'accordo.»
    «Perché? Dimmi almeno perché! Dammi una ragione che non sia quell'idiozia del pericolo.»
    «Idiozia? Sai quanti ne sono morti l'anno scorso su quel monte? Tre!»
    «Erano situazioni particolari e lo sai. Si erano messi in testa di scalarlo. I ragazzi non faranno nulla del genere, si accamperanno ai piedi, e...»
    «Certo che non lo faranno! Perché io glielo impedirò!»

    Giulio sorrideva. Seduto sul bordo della finestra, una gamba penzoloni all'esterno, stava giocando con un filo d'erba. Aveva sentito ogni parola e io un po' mi vergognavo. Non è piacevole che tuo figlio si renda conto di quanto poco vali in casa. Ma lui ormai l'aveva scoperto da anni.
    «Fa niente, papà, me l'aspettavo.»
    Ancora più deprimente, sapeva già che avrei fallito.
    Mi accontentai di borbottare: «Vado a riordinare il garage.»

    Non facevo altro, ogni volta che ero depresso. E succedeva fin troppo spesso. Riordinavo il garage.
    Si trovava proprio accanto alla fattoria, ma non faceva parte dell'edificio principale. Era poco più che un capanno, ma io l'avevo rimodernato. Lo chiamavo garage, ma in realtà lì dentro non c'era mai stata nessuna macchina. Io non guidavo, anzi, a essere del tutto sincero, non mi allontanavo quasi mai di casa. Forse i cento metri che Sandra mi rinfacciava erano eccessivi, ma non ricordavo di aver fatto passeggiate più lunghe di due chilometri.
    Non amavo la gente, non amavo il contatto diretto. Soprattutto non amavo gli estranei. Questo non implicava naturalmente la mia famiglia. Talvolta accusavo Sandra di questa mia fobia, e di fatto non ne ero affetto quando ci eravamo sposati.
    Il garage era il mio regno. Lì c'era la mia collezione di canne da pesca e di ami. Vi tenevo pure tutte le mie pipe, perché usarle in casa era diventato peccato mortale. Lì c'erano pace e silenzio, e soprattutto solitudine.
    «Papa, vieni! Papà!»
    Avevo parlato troppo presto. Alessandro, il più piccolo, invase il mio regno urlando. Lui correva sempre, non aveva mai un momento di requie. All'inizio anche Giulio era così, ma con gli anni si era calmato. Dubitavo che ad Alessandro sarebbe mai successo.
    «Vieni, papà! Vieni a vedere cos'ho trovato!»
    «Non è giornata, Ale! Già la mamma sta cercando di...»
    Mi afferrò per un braccio e si mise a tirare come un ossesso. «Vieni!»
    Dovetti aggrapparmi a un bancone prima che mi facesse cadere. «Ma sei impazzito?»
    Accidenti che forza, quella pulce! Di certo aveva preso da sua madre.
    «Vieni, presto, prima che vada via!»

    «Ha provato anche con te?» mi chiese Giulio, quando rientrai in casa. «Io gli ho detto di togliersi dai piedi.»
    Doveva avermi visto rientrare con Alessandro.
    Giulio lo sapeva di essere il mio preferito, ma la cosa non aveva grande rilevanza. In fondo io non valevo niente. Lui mi assomigliava molto, aveva la mia tranquillità, forse per questo era così facile per Sandra metterlo sotto.
    «Che hai, non ti senti bene?»
    Ero pallidissimo, faticavo persino a camminare, e ancora non riuscivo a spiccicar parola.
    Sentimmo la voce di Alessandro, lontana. «Mamma! Mamma! Vieni a vedere cosa ho trovato!»
    La sentì anche Giulio, perché mi rivolse un'occhiata interrogativa. «Cosa ha trovato?»
    Bella domanda, solo che non avevo una risposta da dargli.

    Quella sera, a cena, Giulio era rimasto l'unico a non sapere cos'avesse trovato Alessandro.
    Era una cena davvero insolita per noi, visto che nessuno aveva ancora detto una sola parola.
    Sandra fu la prima a iniziare. «Dovresti andare in campeggio, ci ho ripensato.»
    Giulio smise di masticare, certo di aver sentito male.
    «Sì, devi andarci» aggiunsi io. «Domattina puoi partire, è tutto sistemato. Tua madre è d'accordo.» Scambiai un'occhiata con Sandra e mi parve che annuisse. «Porta anche tuo fratello con te.»
    Un boccone gli andò di traverso e Giulio quasi si strozzò.
    Alessandro intanto saltellava come un matto. «In campeggio, sì! In campeggio!»
    Sandra non lo redarguì neppure, né gli ricordò le innumerevoli regole della buona educazione.
    Giulio mi rivolse uno sguardo disperato.
    «È così» gli dissi a voce bassa. «Non c'è scelta. Se vuoi andare devi portarti dietro anche lui.»
    Sapevo che l'avrebbe fatto. Lo sapeva anche Sandra.

    «Basterà?» mi chiese Sandra quando fummo a letto.
    Aveva appoggiato la testa sul mio petto e io le accarezzavo i capelli, come non succedeva da troppo tempo.
    «Hai paura che si facciano male?»
    Scosse appena il capo. «Non devono restare qui. Devono andare via.»
    Ero assolutamente d'accordo con lei.
    Poi voltò il capo fino a incontrare i miei occhi. «Ce la faremo?»
    Il fatto di essere tornato il capofamiglia, anche se per poco, avrebbe dovuto lusingarmi, ma la situazione era troppo grave per poter gustare quel piccolo trionfo.

    La mattina dopo accompagnammo i ragazzi fino alla strada, dove il pulmino della gita si sarebbe fermato a prenderli. Era solo un chilometro di terreno pianeggiante, avremmo potuto controllarli stando comodamente in veranda, eppure andammo entrambi con loro.
    Giulio comprese che qualcosa non funzionava quando Sandra li lasciò salire senza strapazzarli di baci come suo solito. Persino Alessandro notò la novità.
    Ci guardò dal finestrino, mentre il pulmino si allontanava, con uno sguardo perplesso.
    «Alessandro glielo dirà?» mi chiese Sandra.
    Era difficile che Alessandro fosse capace di tenere la bocca chiusa e di certo Giulio l'avrebbe spremuto.
    «Non importa» le risposi. «Quando torneranno sarà tutto finito.»

    Un giorno, tanto tempo fa, avevo creduto che i soldi avrebbero portato la felicità. Avevo mandato al diavolo l'odioso lavoro di contadino, che la mia famiglia si tramandava purtroppo da secoli, avevo abbandonato ogni coltivazione lasciando che le erbacce invadessero i miei campi e avevo deciso che avrei passato il resto della mia vita a pescare.
    Eh sì, ero un uomo semplice. Quello era il massimo del piacere che riuscivo a immaginare. Pescare. E alla sera fumarmi la mia pipa e bermi un boccale di birra.
    Sandra era stata più creativa. Prima si era improvvisata pittrice, poi aveva scoperto di avere l'anima dell'arredatrice, e lì ci aveva fatto impazzire, cambiando i mobili della casa almeno dieci volte. Poi era stata un po' tutto: ballerina, ciclista, trombettista, aveva persino tentato di scrivere. Da un paio d'anni aveva rinunciato, il suo unico compito era diventato quello di farci dannare. Aveva deciso di fare la mamma e la moglie a tempo pieno.
    Vivere insieme con tanto tempo libero a disposizione, senza una vera occupazione, poteva essere distruttivo. Convivere ventiquattr'ore su ventiquattro, giorno dopo giorno, poteva persino portare all'odio. Noi per fortuna non c'eravamo ancora arrivati ma ci trovavamo pericolosamente vicini.
    «Non lo so» disse Sandra mentre preparava il pranzo.
    I ragazzi erano già andati via da un paio d'ore, ma noi non eravamo usciti di casa.
    «Non dobbiamo decidere subito, abbiamo tempo. I ragazzi non torneranno fino a lunedì.»
    «Alessandro lo ha visto.»
    «Non preoccuparti, Giulio non gli crederà mai.»
    «E se lo chiedesse a noi? Dovremmo dirgli che Alessandro è un bugiardo? Non mi sembra giusto.»
    «Non ce lo chiederà.»
    Conoscevo Giulio, si sarebbe vergognato a fare certe domande. E a chi, poi? Non certo a sua madre. Al massimo ne avrebbe parlato con me. Non avrei avuto neanche bisogno di mentire, mi sarebbe bastato sorridere. Si sarebbe subito convinto che Ale l'aveva preso in giro.
    «Non è giusto! Non era giusto l'altra volta e non lo è neppure adesso!»
    Avevamo deciso insieme, Sandra se lo ricordava bene, e anche adesso sarebbe stato così.
    «Non lo so! Non lo so!»

    Dopo pranzo non andai a pescare, e quando lei mi chiese il perché io risposi: «Vuoi venire con me?»
    Restò interdetta. In un altro momento mi avrebbe coperto d'insulti. «Vuoi che venga?»
    Non mi ero mai mostrato così vulnerabile con lei, così spaventato, eppure in quel momento non me la sentivo di restare da solo. Scossi il capo. «Niente pesca.»
    «Forse è meglio» disse lei.
    Sprofondai su una poltrona in salotto e accesi la pipa. Fu qualcosa di istintivo, come ai vecchi tempi. Quando Sandra se ne accorse venne da me e mi chiese. «Ci facciamo una birra?»
    E bastava questo a dimostrare quanto fosse sconvolta.
    Portò la birra, due boccali stracolmi e si sedette di fianco a me. Bevve quasi metà del suo boccale, con un solo sorso.
    «Pensi che sia lui?»
    Chi altri avrebbe potuto essere?
    «Il posto è lo stesso. Sai bene che è impossibile che accada due volte nello stesso luogo.»
    Un lungo silenzio. Poi: «C'è ancora?»
    «Vuoi andare a vedere?»
    Non si mosse dalla poltrona. Allora fui io ad alzarmi e andare alla finestra. Scostai la tenda. La visuale era perfetta. Non c'era una casa per chilometri. Intorno a noi solo campi incolti. Il fiume da lì non si vedeva, era sull'altro lato. Durante la notte doveva aver piovuto. Un arcobaleno dipingeva il cielo.
    I campi erano immobili, non c'era neppure un filo di vento.
    Tornai a sedermi.
    Neppure mi chiese cosa avessi visto. «Perché è tornato? Sono passati cinque anni, pensavo che si fosse rassegnato.»
    «Che ne sappiamo di come ragiona lui?»
    «Dobbiamo farla finita.»
    Temevo che l'avrebbe detto. «Se ne andrà presto.»
    «No che non se ne andrà! L'altra volta è rimasto tre mesi! Ti rendi conto del rischio che abbiamo corso? Per fortuna era inverno e i bambini erano piccoli. Non è stato difficile tenerli dentro casa, ma adesso... Se Alessandro l'avesse toccato... se invece di correre da noi l'avesse toccato!»
    Tremava, e forse avrei dovuto confortarla, ma non riuscivo ad alzarmi.
    «Non ci serve» bisbigliai. «Non ce ne serve altro.»
    «E tu credi che io lo farei per quello? Pensi questo di me?»
    Si alzò e si mise a camminare per la stanza. «Lunedì torneranno i ragazzi. Figurati se Alessandro non gliel'avrà detto. Lo porterà subito a vederlo. Credi che possa bastare un divieto? Credi che ci darebbero retta?»
    Alessandro no di certo. Giulio forse sarei riuscito a convincerlo, ma non ne ero sicuro.
    «Saremmo costretti a dirgli cos'abbiamo fatto! Io non me la sento, non voglio che lo scoprano.»
    «Prima o poi dovranno saperlo comunque, non credi?»
    Si bloccò davanti a me. «Perché? Dammi una ragione.»
    «Potremmo morire, un giorno. Devono sapere cosa lasciamo loro, e chi si troveranno contro.»
    Tornò a sedersi, ancor più sconvolta. «Non cesserà mai questa maledizione?»
    Eravamo noi che non l'avremmo fatta cessare. Eravamo noi che ne avevamo bisogno. Anche Sandra lo sapeva, neppure per un istante aveva considerato l'idea di riportare tutto come l'avevamo trovato.
    Fu più esplicita. «Dobbiamo ucciderlo.»
    «Non sappiamo neanche se sia possibile farlo.»
    «Tutti possono morire.»
    «Lui se ne andrà» mormorai. «Se ne va sempre.»
    Ma stavolta Sandra era decisa. «Non voglio che sia qui quando torneranno i bambini!»

    Tra le parole e l'azione intercorre sempre un certo periodo di tempo. In casa nostra quel periodo in genere era dilatato. Certe volte per molto molto tempo, anche anni.
    Si tendeva a rimandare, a fare il meno possibile. Era diventata questa la nostra vita, una lunga attesa. Ormai erano anni che non uscivamo più di casa, io almeno, ma anche quando uno di noi era costretto a farlo l'altro restava di guardia. Sì, in certi momenti mi sembrava di essere regredito, di essere solo un animale che difende il suo territorio.
    «Dovevamo andare via» disse Sandra, mentre guardava i campi dalla finestra.
    «Via di qui?» Ero inorridito che ci avesse anche solo pensato. Io ero nato in quella fattoria, e mio padre prima di me. Mi era impensabile abbandonarla.
    «Potevamo permettercelo, no? Potevamo permetterci ogni cosa!»
    «Non ne avevamo bisogno...»
    «E allora perché l'abbiamo fatto?»
    Era una domanda che anch'io mi ero posto, mille volte. Avevamo davvero bisogno di quei soldi? Certo, facevo un lavoro che non amavo, però quando tornavo a casa mi aspettava la mia famigliola. Anche Sandra lavorava, eppure non era molto più allegra allora? Dopo eravamo cambiati, ero diventato una persona che non si piaceva più, ed ero certo che anche per lei fosse lo stesso. Era stata l'avidità? Era quella che ci divorava?
    Lei continuava a guardare dalla finestra.
    «Vuoi andare a vedere?» le chiesi.
    «Possiamo farlo domani.»
    Già, sempre rimandare al domani.
    «Se sei decisa possiamo andare adesso.»
    «Pensi che sia lì?»
    «Dove altro potrebbe essere?»
    «La prima volta non c'era.»
    «La prima volta non ci stava tendendo una trappola!»
    Restò in silenzio.
    «Prendo il fucile» dissi io.
    Forse speravo che lei si opponesse, ma non lo fece.
    Mentre caricavo l'arma lei arrivò, armata di un coltellaccio da cucina. Aveva scelto il più grosso.
    «È una pazzia» le dissi.
    Lei restò in silenzio.

    Eravamo buffi. Cinque anni ci avevano cambiato molto. Eravamo ingrassati, e parecchio. Io stavo diventando calvo ed ero costretto a usare gli occhiali, lei aveva un gusto orrendo nel vestire e si tingeva i capelli di colori osceni.
    Ora, armati fino ai denti, eravamo la più improbabile coppia di assassini che si fosse mai vista.
    «Dov'è, te lo ricordi?»
    Lo sapeva benissimo anche lei dov'era, sempre nello stesso luogo.
    Ci inoltrammo nel campo. Era autunno e l'erba era tutta secca, di un giallo sporco, malato. Man mano che andavamo avanti divenne rada. «Guarda anche tu» le dissi.
    Eravamo quasi al centro del campo, si intravedeva ancora l'arcobaleno nell'aria. I nostri occhi erano fissi a terra, invece, stavamo cercando.
    Lo vidi io per primo. «Eccolo, è lì. Non avvicinarti!»
    Non ci provò neppure, lasciò che fossi io a farmi avanti.
    C'era qualcosa che sporgeva dal terreno. Era rotondo, e dal suo interno veniva un colore aranciato, quasi un fuoco.
    «Lui dov'è?» bisbigliò Sandra.
    «Dev'essere qui intorno.»
    «Non lo vedo.»
    «Si terrà nascosto.»
    «Come facciamo a trovarlo?»
    «È lui che troverà noi.»
    «Lo vuoi... prendere?»
    «Vedi un'altra soluzione?»
    Finché non ci fossimo avvicinati a quell'oggetto saremmo stati al sicuro. Finché non l'avessimo toccato, lui non ci avrebbe fatto nulla. Eravamo stati fortunati che Alessandro fosse corso subito da me appena l'aveva trovato. Se fosse stato lui a prenderlo sarebbe stata una tragedia.
    Sì, aveva ragione Sandra, tutto questo doveva finire.
    Feci un passo avanti.
    «No!»
    «Che hai?»
    Stavano iniziando i dubbi.
    «Stiamo facendo la cosa sbagliata, di nuovo!»
    «Preferisci non fare niente?»
    «No, no, ma... Com'è? Tu l'hai visto? Com'è fatto?»
    «Di sfuggita, lo sai. Solo un istante.»
    «Ma com'è?»
    «Come vuoi che sia? È un mostro!»
    «Sì ma... un mostro come?»
    Sospirai. Gliel'avevo già detto, e più di una volta. «È piccolo, una specie di nano, ma è orribile. Un mostro, insomma.»
    «Sì, ma come è vestito?»
    «Vestito? Io non ho visto nessun vestito! Che importanza ha adesso se fosse vestito o meno?»
    «È... verde? Indossa qualcosa di verde?»
    Stava degenerando. «Ma smettila, Sandra! Che ti salta in mente? Ti ho detto che è un mostro, tutto lì.»
    «Oh mio Dio, mio Dio.»
    Stava diventando isterica. A un certo punto si voltò e si allontanò di qualche passo. «Non lo possiamo fare!»
    «Sandra!» urlai, e lei si bloccò.
    Andai diritto verso l'oggetto nel terreno. «Facciamola finita.»
    «No!» gridò ancora lei, comprendendo quello che stavo per fare.
    La ignorai. Afferrai con forza i bordi dell'oggetto e tirai. Venne fuori con facilità. Era rotondo come una palla da bowling con un buco in mezzo. Era da quell'apertura che usciva la luce arancione.
    «L'hai fatto!» strillò lei.
    Io posai l'oggetto a terra per avere le mani libere e imbracciai il fucile. «Sttt!» le dissi. «Adesso fa' silenzio.»
    Lei si congelò, lì dov'era, e strinse il coltellaccio con entrambe le mani. Si guardò intorno disperata. «Ho paura!» strillò.
    Non era colpa mia se si era allontanata. Lì era un bersaglio perfetto. Comunque veniva a mio vantaggio. Se lui si fosse fatto avanti l'avrei colpito senza problemi.
    Sandra stava diventando isterica, saltellava cercando di reggersi su un piede solo, quasi temesse l'attacco di un serpente. «Non dovevi farlo!» strillò ancora.
    Io tenevo d'occhio tutto il campo, ma di erba ne era rimasta pochissima e non sarebbe bastata a nascondere neppure un passerotto.
    «Quant'è alto?» gridò Sandra.
    «Pensi che l'abbia misurato?»
    «No, davvero, quant'è alto?»
    «Abbastanza da vedersi, sta' tranquilla.»
    «Dimmi quanto!»
    «Ma non lo so! Trenta centimetri, trentacinque.»
    Lei posò entrambi i piedi per terra. «Solo?»
    Mi pareva che ci fosse delusione nella sua voce. Guardò il coltellaccio che teneva in mano, che di centimetri ne misurava quaranta e fece le debite proporzioni.
    «Credevo che fosse più pericoloso» disse.
    Mi agitai. «Lo è! Lo è! Non importano le dimensioni.»
    E lei: «Mi avevi sempre detto che era un mostro.»
    Non mi andava il suo tono, c'era una nota malevola. Stava tornando a essere la Sandra odiosa, quella di sempre.
    «Ti pare il momento di fare queste storie? Potrebbe aggredirci da un istante all'altro.»
    Lei si guardò intorno, fin troppo tranquilla. «Io non vedo nessuno.»
    «Il terreno! Si nasconde nel terreno!» le gridai, nella speranza di vederla saltellare di nuovo.
    Non funzionò. «Il terreno non è stato smosso da anni. Si noterebbe.»
    Non sapevo più a cosa appellarmi. Neanch'io riuscivo a capire perché non si fosse ancora fatto avanti.
    Sandra fece un paio di passi verso di me e mi rivolse il solito sguardo disgustato. «Su, prendi quel coso e andiamo a casa.» E poi aggiunse, con voce minacciosa: «Trenta centimetri! Sono cinque anni che mi fai vivere in agitazione per trenta centimetri!»
    «Forse trentacinque!» mormorai. «Sì, trentacinque, ne sono sicuro. Forse anche quaranta.»
    «Muoviti!» urlò tanto forte da farmi sobbalzare. Persino il fucile mi scivolò dalle mani.
    Tentai di alzare l'oggetto. «È pesante!»
    «Arrangiati!»
    Misi il fucile a tracolla e mi chinai. Lo presi con entrambe le mani, ai lati. Era proprio pesante! Avrei dovuto essere felice, ma...
    Incontrai due occhi, proprio all'interno dell'oggetto. Occhi gialli, malefici. Non feci in tempo a ritrarmi e neppure a urlare. Il mostro saltò sul mio volto.

    «Argh!»
    «Non muoverti, vuoi che ti faccia male?»
    «Il mio naso, il mio naso! Me l'ha strappato!»
    «No, che non te l'ha strappato, però è ridotto male. Non toccarlo.»
    Il dolore era tremendo, e mi guardavo intorno con ansia. Sandra aveva chiuso ogni porta e finestra? Lei aveva detto di sì, ma dovevo fidarmi? Quella cosa sarebbe riuscita a entrare?
    «Cos'era?» chiesi.
    «Se non l'hai visto tu che ce l'avevi davanti!» Era un sogghigno quello? «Sembrava che ti stesse baciando!»
    «Stronza!»
    Lei ridacchiò. «È stato troppo veloce per vederlo bene. È fuggito subito. Comunque avevi ragione tu. Sì, trenta centimetri direi.»
    «Come fai a scherzare? Ora sa che siamo stati noi! Non ci darà più pace! Ci farà a pezzi!»
    «Non mi sembrava tanto pericoloso.»
    «Guarda come mi ha ridotto! Tu non li conosci!»
    «E tu sì?»
    «Mi sono informato. Sono vendicativi! Non dimenticano mai!»
    «Non credo...»
    «Hai visto che è tornato! Ci ha persino teso una trappola! E noi ci siamo cascati come allocchi!»
    «Tu ci sei cascato» precisò mia moglie.
    «Cosa dobbiamo fare?»
    Di nuovo l'unica soluzione possibile non fu neanche accennata.
    «Dov'è? L'hai lasciato là?»
    «Cosa?»
    «Lo sai cosa!»
    «Ma per favore! Già dovevo trascinare te che ti credevi in punto di morte! Figurati se mi portavo dietro quella cosa! E poi chissà che altro c'era dentro!»
    «Lo sai cosa conteneva!»
    Mi rivolse uno strano sguardo. «Lo volevi? Volevi anche quello? A che ci sarebbe servito?»
    «Io...»
    Mi sentivo con le spalle al muro. Mi toccai il naso incerottato e lanciai un gemito.
    «Ora cosa succederà?»
    Lei sospirò. «Cosa vuoi che succeda? Te ne vai a letto.»
    «Tutto qui?»
    «Preferisci andare al pronto soccorso? Potrebbero farti un'antirabbica, non si sa mai. Sono curiosa di sentire che spiegazione ti inventerai.»
    «Non ci credi? Non credi che ora cercherà di ucciderci? Lo sa che siamo qui dentro, ci attaccherà!»
    «Vai a letto, che è meglio.»
    «È un mostro!» le gridai. «Un mostro!»
    Poi andai a letto.

    Mi portò un brodino e la guardai inorridito.
    Quando venne a letto anche lei si era messa i bigodini. Il mio orrore crebbe.
    «Hai visto che non è successo niente? Sta' tranquillo.»
    «Sei... uscita? Sei andata a vedere?»
    «A vedere cosa? Ah, volevi anche quella? Vattela a prendere tu se non ne puoi fare a meno.»
    L'idea di uscire di casa mi terrorizzava.
    «È qui dentro, lo so! È in questa casa!»
    Lei si coricò e spense la luce. Io urlai come se mi stessero uccidendo. La riaccese subito.
    «Che ti sta succedendo?»
    Non ce la facevo più, stavo crollando. «Mi vuole uccidere!» balbettai. «Mi vuole uccidere, lo so.»
    Lei scese dal letto, seccata.
    «Basta! Non ne posso più. Se dobbiamo fare questa vita tanto vale farla finita!»
    Uscì dalla camera decisa, nella sua camicia da notte. Un attimo dopo sentii uno sgradevole scricchiolio.
    Balzai in piedi urlando e appena misi i piedi a terra mi resi conto che lui poteva essere lì. Cercai un'arma per difendermi, ma trovai solo una trombetta, appesa al muro come un trofeo. Servendomi di quella controllai che non si fosse nascosto sotto al letto.
    «Ma sei diventato tutto scemo!» esplose mia moglie vedendomi. E poi disse: «Su, vieni a darmi una mano, da sola non ce la faccio.»
    Quando mi accorsi che aveva abbassato la scala per salire in soffitta lanciai un altro urlo. «Che vuoi fare?»
    Lo disse. Disse quella frase che tanto temevo.
    «Glielo voglio restituire, no? Così dopo ci lascia in pace!»
    «Ma... ma...»
    «Senti, non è nostro. Ci ha portato solo guai da quando l'abbiamo trovato, ha trasformato questa vita in un incubo. Che potrà mai succedere, dopo? Dovrai tornare a lavorare? Non sei stufo di stare tutto il giorno a non fare niente? Non moriremo per questo.»
    Invece sì che saremmo morti, lei non capiva. Non poteva sapere.
    «Dai, aiutami a salire. Tienila ferma.»
    «No, no!» continuavo a ripetere.
    Lei si mise a salire, senza sentir ragioni.
    La soffitta era pulita e ordinata, andavamo spesso lì. Era il posto ideale per nasconderlo, dove i bambini non l'avrebbero mai trovato.
    Era stipata di vecchi mobili e cimeli di tutta la famiglia. Sandra andò diritta verso un mastodontico armadio e lo aprì.
    Era vuoto, eccetto per uno strano recipiente rotondo. Lo prese e lo posò sul tavolo.
    C'era qualcosa di magico in quell'oggetto. Bastava guardarlo per sentir crescere dentro di noi l'avidità. Là fuori, nel campo, non mi aveva trasmesso questa sensazione, ma in quel momento avevamo altri problemi.
    Era molto simile a quello che avevamo visto fuori, quasi identico. Sembrava solo un po' più grosso, ma in compenso era più leggero. Una luce arancione veniva dal suo interno e nel buio della soffitta si proiettava sulle pareti.
    Restammo a fissarlo a lungo, affascinati. Poi non riuscii a resistere e infilai la mano al suo interno.
    Ne presi una manciata abbondante e la tenni stretta.
    «Ti pare il momento?» mi chiese Sandra. «Non hai già fatto abbastanza guai?»
    Ecco, si era arrivati a questo punto, ora dava la colpa a me.
    Spinse l'oggetto verso di me. «Ridaglielo e basta.»
    «Io?» strillai, e ciò che tenevo in mano si sparse sul tavolo. Luccicavano e sembravano pepite d'oro. Sandra le raccolse in un lampo e le ributtò all'interno dell'oggetto.
    Non osai fiatare.
    «Sì, tu. Va' fuori e ridaglielo. Noi non ne abbiamo bisogno.»
    Iniziai a scuotere la testa senza riuscire più a fermarmi.
    «Gliel'hai rubato, e lo sai benissimo. Io non so cosa sia quella cosa, se sia davvero un folletto. Di certo l'oro di questa pentola non si esaurisce mai. Più ne prendiamo più ce n'è. Quindi, se hai tanta paura che si vendichi, prendi la pentola e riportagliela.»
    Non l'avrei toccata per niente al mondo. Ero sbiancato del tutto.
    «Non posso» mormorai.
    «Va be'» mi concesse mia moglie. «È anche colpa mia. Potevo rifiutare, invece tutto quest'oro ha abbagliato pure me. È giusto che lo si faccia insieme. Vengo con te.»
    Ripresi a scuotere il capo, come un idiota.
    «Si può sapere che ti prende adesso? Non vuoi farne a meno, vuoi tenerlo? Sei tu che stai morendo di paura. E pure di fronte a un esserino di trenta centimetri!»
    Non potevo più tacere. «Non è lo stesso.»
    Si congelò. «Cosa non è lo stesso?»
    «La cosa. Il mostro. Il... folletto. Non è lo stesso a cui abbiamo preso la pentola.»
    Sandra recuperò una sedia e si sedette al tavolo. «Spiegati meglio.»
    La vergogna mi sommerse, però non potevo più tacere. «Quando ho visto quell'arcobaleno, io...»
    «Me l'hai già raccontato cento volte! So come sono andati i fatti!»
    «No, non lo sai. Ti ho mentito.»
    «Oh!» disse soltanto, e non aggiunse altro.
    «Io stavo pescando, e ho visto l'arcobaleno e... sapevo che era una sciocchezza, ma... partiva proprio dal nostro campo, e allora... Sono andato a vedere, così, per curiosità. E c'era davvero! Una pentola piena d'oro! Ti rendi conto? Era assurdo, però c'era. Ho immerso le mani dentro e ho tirato fuori l'oro a manciate. Manciate, capisci? Le tiravo fuori e ce n'era sempre!»
    «È tutto esattamente come me l'hai raccontato le altre volte. Poi l'hai portato a casa e...»
    «No, prima è arrivato il folletto.»
    «Ah sì, l'hai intravisto e sei scappato, portandoti via la pentola.»
    «No. Non è andata così.» Sospirai. «Sapevo che se c'era una pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno doveva esserci pure un folletto, avevo sentito anch'io la leggenda. Solo che mi aspettavo... un'altra cosa.»
    «Un omino vestito di verde col cappellino in testa.»
    «Uhm... sì, qualcosa del genere. Quella cosa, invece... Dio com'era brutta! Era proprio un mostro!»
    «E ti ha aggredito?»
    Mi ammutolii.
    «Non ti ha aggredito?»
    «Ecco, si potrebbe dire così. Era arrabbiato, sì, decisamente arrabbiato che avessi preso la sua pentola. Mi girava intorno ed era arrabbiato. Emetteva certi versi!»
    «Ma non ti ha aggredito?» mi chiese ancora.
    «Io... non gliene ho dato il tempo. Ho preso una pietra e...»
    «Cos'hai fatto?» strillò Sandra, così forte da far tremare i vetri.
    Che stupido, mi trovai gli occhi pieni di lacrime come un bambino. «L'ho colpito e colpito. Ho continuato finché non si è più mosso.»
    «Ma perché?»
    Singhiozzai. «Per la pentola. Volevo quella pentola. Non riuscivo a pensare ad altro.»
    Sandra sembrava sfinita. «Tu hai fatto questo? Tu?»
    Singhiozzai più forte. «Non so che mi abbia preso, proprio non lo so.»
    «E cosa ne hai fatto?»
    «L'ho seppellito lì, dove avevo trovato la pentola.»
    «Non mi hai detto niente! Niente!»
    «Mi vergognavo troppo.»
    «Mi hai trascinato in questa storia senza dirmi niente! L'avevi trovata, hai detto! Se non fosse riapparso l'arcobaleno qualche giorno dopo neppure mi avresti detto dove era successo e a chi l'avevi portata via!»
    «Lo sta cercando!» sibilai. «È uno di loro e lo sta cercando!»
    «Una ragione in più per restituirgliela.»
    «Ma capirà che l'abbiamo ucciso noi, il suo amico!»
    «Tu l'hai ucciso!» precisò. «Tu soltanto! E poi ormai lo sa già, non credi?»
    Singhiozzai. «Ci ucciderà tutti.»
    «Ma per favore!» sbottò. «È un nanerottolo di trenta centimetri! Persino tu sei riuscito a farne fuori uno con una pietra!»
    La guardai confuso. «Vuoi... vuoi uccidere anche questo?»
    «Io non voglio uccidere proprio nessuno! Ma se sarà necessario difenderò la mia casa.» Afferrò la pentola con rabbia e un po' del contenuto si sparse sul pavimento. Per una volta non corsi a raccoglierlo.
    «Andiamo, muoviti, facciamola finita!»
    Lamentarmi non servì a niente, e Sandra mi costrinse a portare la pentola. La seguii attraverso la casa, ma mi bloccai davanti alla porta d'ingresso.
    «No!» dissi deciso. «No, no, no.»
    «Devi riportarlo dove l'hai preso!»
    «È notte!» le ricordai.
    «Sei tu ad aver paura che venga a ucciderti!»
    Mi impuntai e l'ebbi vinta. Alla fine raggiungemmo un accordo e aprimmo appena la porta per spingere fuori la pentola d'oro. La lasciammo lì, sul portico, e ci affrettammo a richiudere tutto a chiave.
    Lei scosse il capo, soppesandomi, poi decise di lasciar perdere. «Andiamo a letto, ora.»

    Dormire? Vogliamo scherzare?
    Passai la notte tremando, con la luce accesa, e quella stronza al mio fianco russava pure! Iniziavo a odiarla.
    Ogni minimo rumore che sentivo mi mettevo a urlare e lei neppure si svegliava. Sospettai che si fosse messa i tappi nelle orecchie.
    Alla mattina ero un fascio di nervi e pareva che fossi passato sotto un rullo compressore. Lei controllò il mio povero naso e scosse il capo disgustata. «Fa proprio schifo.»
    La pentola era sul portico dove l'avevamo lasciata. Il nostro espediente non era servito a nulla.
    «Che si fa?» le chiesi.
    E lei: «Riportala nel campo.»
    I suoi desideri erano di nuovo ordini.
    Era bizzarro vedere Sandra maneggiare quel fucile, ma io avevo le mani occupate con la pentola. Sperai solo che non finisse per sparare proprio a me.
    Quando raggiungemmo il campo l'altra pentola era svanita. «Forse se n'è andato!» azzardai.
    Sapevo che non sarebbe stato così facile. La prima volta era apparso dopo una settimana. Quando avevo rivisto l'arcobaleno ero corso a controllare. Avevo trovato una seconda pentola. La cosa mi aveva insospettito e parecchio. Non avevo osato avvicinarmi. Ero rimasto a sorvegliarla da lontano e un paio di volte mi era sembrato di vedere del movimento. Avevo proibito ai bambini di uscire di casa e ci eravamo barricati. Avevo raccontato a Sandra una parte della verità, ovvero che non l'avevo trovata, quella pentola, ma rubata a un folletto, e che ora la rivoleva.
    Era andata avanti per tre mesi, quel maledetto arcobaleno non voleva andarsene. Poi, all'improvviso, una bella mattina era sparito. Aveva rinunciato. Eravamo liberi, liberi di spendere il nostro oro.
    Perché era tornato, quel maledetto?
    «Qui va bene?» le chiesi, e senza attendere risposta la posai vicino al punto dove avevo trovato la seconda pentola.
    «È da lì che l'hai presa?»
    «Ma che vuoi che mi ricordi! È tutto uguale! Sono passati cinque anni!»
    «Dov'è il cadavere?»
    «Che c'entra?»
    «Dove l'hai seppellito?»
    Mi guardai intorno. «Che importanza ha?»
    «Magari è meglio che il suo amico sappia che è morto, così smetterà di cercarlo.»
    «E vorrà vendicarlo, però!»
    «Io preferirei sapere» disse Sandra, con aria saggia.
    Individuai il posto, anche se avrei preferito non trovarlo, perché la terra era leggermente smossa. «Che faccio, porto qui la pentola?»
    Sandra mi passò una ridicola paletta da giardinaggio di plastica rosa. «Scava.»
    «Ma sei matta? Sarà putrefatto!»
    «Sei tu che l'hai ucciso. Scava e non lamentarti. Lo deve vedere.»
    Sbuffai.
    Fu più facile del previsto, perché non l'avevo sepolto a grande profondità. Sandra lo guardò perplessa. «Che roba è?»
    Era una scatola di latta che aveva contenuto biscotti, non avevo trovato altro della sua misura. «Una bara» replicai, offeso.
    Quando la aprii lei si ritrasse inorridita. «Oddio, è putrefatto!»
    Guardai anch'io. «A me sembra intatto. Che strano, non è cambiato per niente. Te l'ho detto che era brutto forte.»
    Tornò a guardare. «Sono così i folletti?»
    A me sembrava di più l'incrocio tra una lumaca e un ippopotamo, con un pizzico di Godzilla, ma chi ero io per giudicare?
    «Basta, adesso? Andiamo via?»
    Sandra mi consegnò il fucile e si chinò verso quella cosa. Stavolta ero io inorridito. «Che fai?»
    «Perché l'hai ucciso?» mi chiese.
    Non avevo la risposta che avrebbe voluto. «Non ero io. Volevo solo quell'oro e basta.»
    «I soldi non ti hanno mai interessato. Non sai che fartene.»
    «Quel giorno non ero io. Non ero io.»
    Poteva sembrare una difesa patetica ma stavo dicendo la verità. Ogni volta che mi accostavo a quella pentola qualcosa mi trasformava.
    «Sei certo che sia morto?»
    Sobbalzai come se mi avesse morso una vipera e mi chinai a guardare nella bara, stando però attento a non avvicinarmi troppo, visti i precedenti.
    «Ma certo che è morto! Diamine, è rimasto sepolto lì sotto per cinque anni!»
    «Perché non si è putrefatto, allora?»
    «Che vuoi che ne sappia!»
    Sandra continuò a guardarlo pensosa, poi prese la pentola e la rovesciò, spargendo l'oro per terra.
    «Che stai facendo, sei matta?»
    Mi misi a raccoglierlo, poi tornò il timore e mi guardai intorno con sospetto. «Perché hai fatto una cosa simile?»
    «È magica, hai detto. Rigenera in continuazione il suo oro.»
    Annuii. «Non è vero, forse?»
    Fece una strana smorfia, poi si chinò sulla bara improvvisata e prese tra le mani quella cosa. Sentii montare un conato di vomito e cercai di trattenerlo. «Puah! Che stai facendo?»
    Anche per lei non doveva essere facile, quell'essere era molto viscido e tendeva a scivolarle di mano. «Sta' zitto altrimenti vomito.»
    «Ma che vuoi fare?» urlai, come un disco rotto.
    La vidi deporlo dentro la pentola. «Ma non serviva! Potevi lasciarlo fuori!» E aggiunsi: «Ora sporcherà tutto l'oro!»
    Avevo dimenticato che avevamo intenzione di restituirla, che quell'oro non era nostro.
    «Quello che ti ha aggredito era dentro la pentola» disse lei.
    «E allora?»
    Aveva qualcosa in mente, che non riuscivo a capire.
    Sandra guardò l'oro che stringevo tra le mani con una strana espressione. «Non credo che quello sia oro, come dubito che questa sia una pentola.»
    Sobbalzai. «Certo che è oro! Oro purissimo! Ne abbiamo venduto a chili di questa roba! Come puoi dire...»
    «Sì, sì, è oro» ammise Sandra. «Non volevo dire questo.» Indicò l'oggetto per terra. «Però dubito che quella sia una pentola e che lo rigeneri.»
    «Che vuol dire?»
    «Vuol dire che lo produce quella cosa, ma non credo che ci sia nulla di magico in questo. E di certo non è oro.»
    Non riuscivo più a seguirla, mi stava facendo impazzire.
    «E cos'è allora?»
    Apparve sul suo volto un sorriso malizioso che mi lasciò di sasso. «Secondo te? Cos'è che ogni essere vivente produce ogni giorno, incessantemente, per tutta la vita?»
    «Essere vivente?» chiesi, ancora più confuso.
    «Escrementi, mio caro! Quelli che tieni in mano sono i suoi escrementi!»
    Scossi il capo. Che fossero escrementi poco mi importava, sempre di oro si trattava, e valeva una fortuna. Piuttosto era qualcos'altro che mi metteva in agitazione. «Hai detto essere vivente? Secondo te quella pentola è viva? Ma sono anni che è in nostro possesso e...»
    «E non ce ne siamo accorti? Come avremmo potuto? Non era completa, ne mancava una parte.»
    «Ma non possono essere... escrementi! Non mangia! Di cosa si sarebbe nutrita, in tutti questi anni?»
    Il sorriso si spense per un attimo. «Qualcosa ha trovato, qualcosa che prima non c'era.»
    Non riuscivo a capire. «Cosa?»
    «Noi!» mormorò Sandra. «Non te ne sei accorto? Non hai notato come siamo cambiati da quando la possediamo? Cosa siamo diventati?»
    «Lei... lei...»
    «Non so di cosa si sia nutrita, ma qualcosa ci ha portato via. Non eravamo così una volta. Avidi, possessivi, meschini. È lei che ci ha fatto diventare così! Lei e quel maledetto oro!»
    Era terribile quello che stava dicendo, eppure non potevo negare che fosse la verità. Ero cambiato, eravamo cambiati entrambi dal giorno in cui avevamo portato quella pentola nella fattoria. Era nostra, solo nostra. Avevamo paura che tutti volessero portarcela via. Ci eravamo chiusi al mondo intero, eravamo diventati prigionieri nella nostra stessa casa.
    «Io l'ho ucciso...» mormorai.
    Lei sospirò. «Dubito molto che tu ne sia capace. Non sapresti schiacciare una mosca. Li hai solo separati.»
    Scossi il capo. «Non può essere ancora vivo, non è possibile.»
    Lei sogghignò. «Vieni a vedere allora.»
    Niente al mondo poteva costringermi ad avvicinarmi ancora a quella cosa, nonostante fossi ancora certo della sua dipartita. Sandra mi afferrò bruscamente per un braccio e mi tirò.
    Stava accadendo qualcosa di strano dentro quella pentola. La luce aranciata sembrava sempre più luminosa e mi parve di vedere qualcosa muoversi all'interno. Quando apparvero due occhi gialli balzai indietro urlando. «È vivo! È vivo!»
    Sandra non si scompose. «Te l'avevo detto. In fondo si comporta come una lumaca, solo che può staccarsi dal guscio, uscire fuori.»
    Li avevo separati? Quello che credevo un folletto non era morto? Era entrato in... letargo?
    «L'ho ucciso!» ripetei. «Non si muoveva più!»
    Scosse il capo. «Forse non sei stato tu. Forse non possono allontanarsi più di tanto. Forse aveva disperatamente bisogno di rientrare e tu non gliel'hai permesso. Forse è questo che succede se vengono separati.»
    «Ma cos'è?» gridai. «Che cos'è?»
    Tornò un sorriso malizioso. «La pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno, no? Che altro potrebbe essere?»
    Quasi richiamato dalle sue parole, apparve.
    No, nessun mostro, ma un arcobaleno. Un arco perfetto che partì dalla pentola e si innalzò verso il cielo. Creò un cerchio risplendente dai molti colori ma non ricadde tanto lontano da noi, solo in un campo vicino.
    Compresi. «Laggiù c'è l'altro? Quello che mi ha aggredito? Si è trasferito là? Come ha fatto?»
    Un'immagine buffa e terrificante mi passò per la mente. Quella cosa, il folletto, che caricatosi la pentola in spalla, arrancava tra i campi. Fu subito sostituita da una ancor più disgustosa. E allora lo vidi strisciare per terra, come una lumaca, con la pentola incollata dietro di lui. Subito cercai di scacciare quelle immagini folli.
    «L'altra» precisò Sandra.
    «Eh? come fai a dirlo?»
    Lei sogghignò. «Chiamalo intuito femminile.»
    Ero ancora incredulo. Eppure nei cinque anni che l'avevamo tenuta noi la pentola non aveva mai prodotto alcun arcobaleno. «Comunicano? Dici che stanno comunicando? Tramite l'arcobaleno? È a questo che serve?» le chiesi, fiero di esserci arrivato.
    Lei fece uno strano risolino. «Veramente credo che stiano scopando.»
    Mi lasciò allibito.
    Era un effetto stranissimo, guardare quell'arcobaleno. Mi faceva sentire diverso. Quella fame inesauribile che aveva dominato la mia vita finché ero stato il padrone della pentola, ora era scomparsa. Anche Sandra mi sembrava completamente diversa.
    L'arcobaleno era bellissimo, i suoi colori sembravano danzare.
    «Lasciamoli in pace» disse Sandra. «Diamo loro un po' di intimità. Penso che se la meritino, dopo tutti questi anni.»
    E così tornammo a casa e... diamine, ci ritrovammo a letto, anche se era solo mattina. E fu una domenica indimenticabile, altro che pepite d'oro.
    E i nostri folletti? Eccome se scopavano, scopavano come mandrilli, e in breve tempo intorno alla nostra fattoria fu tutto un arcobaleno. Ogni mattina ne contavamo qualcuno in più.
    E io? Be', ora non ho più tanto tempo per andare a pescare. Del resto qualcuno doveva pur assumersi l'incombenza di tenere pulito, di liberare i campi da tutti quegli inutili escrementi!

    FINE



    Edited by marramee - 15/9/2010, 23:57
     
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  2. Daniele_QM
     
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    ho trovato molto ben costruito il mistero iniziale, sei riuscito a incuriosirmi e la lettura è proseguita fluida. Qualche perplessità sull'efficacia della storia, sul duplice comportamento dei protagonisti che appaiono troppo caricaturali secondo me. Eccessivi nell'essere uno estremamente vigliacco e babbeo, l'altro bastardo e arrogante. Sicuramente trovo interessante la tua propensione a trasporre nella realtà elementi fiabeschi. Il mio giudizio è tre.
     
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  3. Idrascanian
     
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    Ciao Stefano!
    This is sooo good!

    SPOILER (click to view)
    Mi è piaciuto da matti, senza mezzi termini. Nucleo narrativo eccezionale, due personaggi eccessivi, tratteggiati con grande stile (lei è insopportabile!) e un buon utilizzo dei dialoghi.
    La tua scrittura, come sempre, è scorrevole e intrigante, e nonostante la lunghezza del testo si arriva alla fine in un battibaleno.
    Mi è piaciuta molto la chiusa, mi ha strappato una risata.
    Se proprio devo fare degli appunti mi soffermerei su una cosa, i dialoghi: nonostante il tuo uso invidiabile del discorso diretto, alcune espressioni mi sono sembrate un po’ artificiose, poco naturali. Soprattutto all’inizio, durante la litigata. Ma è voler cercare il pelo nell’uovo.

    Per il resto è un racconto che mi ricorderò per un bel pezzo. Ai livelli di Ranocchio.

    Un paio di refusi:

    Io gli detto di togliersi dai piedi. (hai dimenticato “ho”)
    Chi altri avrebbe potuto essere? «Il posto (qui devi spostare i caporali a inizio frase)

    Un saluto, ciao!

    Ah: 4!
     
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  4.  
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    Losco Figuro

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    Potrei elencare diversi pregi di questo racconto, invece ti elencherò i difetti
    SPOILER (click to view)
    Molto è basato sui dialoghi, forse un po' troppo, ma questo non è gravissimo.
    La donna che all'improvviso diventa una sotuttoio rovina completamente l'atmosfera che avevi creato. La spiegazione che dà è interessante (anche se mi convince solo in parte, ti dico dopo perché), e il finale è ottimo, ma il modo in cui si arriva a quella spiegazione e a quel finale è ostico da digerire.
    Ci sono vari punti oscuri, ad esempio perché tutti si preoccupino tanto del non toccare la "pentola" quando poi non accade niente di particolare toccandola, o di come sia plausibile che l'intera famiglia si sia barricata in casa per tre mesi (che scorte di provviste avevano? E almeno uno dei due figli non avrebbe dovuto andare a scuola?)
    Ma soprattutto la creatura richiede davvero un grosso sforzo per essere ritenuta plausibile. Ha un guscio (che però è vivo per conto suo) e un corpo interno (che però non sembra svolgere alcuna funzione vitale salvo forse l'accoppiamento... praticamente è un fallo semovente :rolleyes:), mangia non si sa bene cosa e defeca oro ma sempre e solo quanto basta per riempirsi, senza che trabocchi mai?

    Nel complesso, è un racconto che si legge bene e scorre bene fino al momento delle rivelazioni da parte di lei, poi il castello di carte crolla.


    Voto 2, quasi 3 ma 2.

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    Seduto sull'incavo della finestra,

    Non credo di aver capito cosa intendi. Cos'è l'incavo della finestra?

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    Non è piacevole che tuo figlio si renda conto quanto poco vali in casa.

    Direi "di quanto poco..."

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    Ma lui ormai erano anni che l'aveva scoperto.

    Eviterei l'anacoluto, non è più lineare "l'aveva scoperto da anni"?

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    «Fa' niente, papà, me l'aspettavo.»

    "Fa", senza apostrofo (con vuol dire "fai")

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    Non facevo altro, ogni volta che ero depresso. E succedeva fin troppo spesso. Riordinavo il garage.

    Perché così frammentata? Io avrei scritto "Non facevo altro. Ogni volta che ero depresso, e succedeva fin troppo spesso, riordinavo il garage."

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    Lì c'era pace e silenzio, e soprattutto solitudine.

    "c'erano", o metti una virgola dopo "pace"

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    Mi aveva afferrato per un braccio e tirava come un ossesso. «Vieni!»

    Perché al trapassato?

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    I campi era immobili,

    Refuso: "erano"

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    Mentre caricavo l'arma lei arrivò, armata da un coltellaccio da cucina.

    "armata di un coltellaccio..."

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    «Adesso fa silenzio.»

    Qui invece l'apostrofo a fa' ci vuole

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    Potrebbero farti un'antitetanica, non si sa mai. Sono curiosa di sentire che spiegazione ti inventerai.»

    Un'antitetanica per un morso? Forse un'antirabbica.

    CITAZIONE (marramee @ 1/9/2010, 00:04)
    All'interno era vuoto, eccetto per uno strano recipiente rotondo.

    Io direi "L'interno era vuoto" o anche solo "era vuoto". Non è che un armadio possa essere vuoto all'esterno.
     
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  5. marramee
     
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    Ringrazio tutti per la lettura. Corretti gli errori segnalati.

    Due spiegazioni per CMT.

    SPOILER (click to view)
    Il fatto che abbiano paura di toccare la pentola, e di conseguenza molte delle loro azioni, non è dovuto a qualcosa che è successo, ma alle leggende che hanno sentito. Ovvero il fatto che i folletti siano vendicativi con chi cerca di rubare il loro oro.
    Per barricati in casa intendevo solo dire che non permettevano ai bambini di andare a giocare nei campi.
    Per la spiegazione finale hai ragione, avrei voluto diluire le scoperte un po' alla volta, ma purtroppo avrei sforato e di molto i 40mila caratteri. Sono stato costretto a sintetizzare parecchio.
    Anche la creatura non l'ho spiegata bene, la parte "staccabile", il cosidetto folletto, non è l'organo riproduttivo, ma quello motorio, proprio come in una lumaca.
    Ciò che mangia non viene specificato, ma è certo che provochi avidità e cambi il carattere delle persone. Quanto alla produzione dell'oro è costante, di certo chi possiede la pentola non gli concede mai di straripare. :D


    PS: Come mai risulti essere l'ultimo utente registrato?
     
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  6.  
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    Losco Figuro

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    CITAZIONE (marramee @ 2/9/2010, 12:29)
    Il fatto che abbiano paura di toccare la pentola, e di conseguenza molte delle loro azioni, non è dovuto a qualcosa che è successo, ma alle leggende che hanno sentito. Ovvero il fatto che i folletti siano vendicativi con chi cerca di rubare il loro oro.

    Non posso dire che sia chiaro nel racconto però. ^__^;

    CITAZIONE (marramee @ 2/9/2010, 12:29)
    Anche la creatura non l'ho spiegata bene, la parte "staccabile", il cosidetto folletto, non è l'organo riproduttivo, ma quello motorio, proprio come in una lumaca.

    Uhm... non "proprio come in una lumaca", in una lumaca il guscio non è vivo più di quanto non lo sia il mio omero, la sua unica funzione è proteggere il corpo, invece qui il guscio mangia e digerisce e il corpo si muove e si riproduce?


    CITAZIONE (marramee @ 2/9/2010, 12:29)
    PS: Come mai risulti essere l'ultimo utente registrato?

    Stamattina mi sono riregistrato inutilmente pensando di essere stato cancellato solo io per qualche ragione, poi invece ho visto che era un problema generale (e in realtà quella registrazione non è neanche convalidata)
     
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  7. Fini Tocchi Alati
     
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    Man mano che leggevo, mi sono venuti dubbi analoghi a quelli di CMT, e anche altri.
    SPOILER (click to view)
    Per esempio: nella seconda parte del racconto, rimarchi più volte il fatto che i protagonisti siano diventati avidi e meschini, In realtà, specie nella prima parte, questo non si avverte affatto. Anzi! Lui pare un uomo pacato e docile che passa le giornate a pescare, lei una madre super-affettuosa e ansiosa.
    L'unica meschinità compiuta dai due (rectius, dal marito) è l'aver ucciso la cosa (almeno secondo lui). Ma, nelle sue parole, non è una meschinità: è più che altro un raptus. Infatti, più volte lui ripete "non ero io" mentre Sandra, oltretutto, gli dice (se non erro) che lui non è in grado di uccidere nessuno.
    Ecco, dunque, l'aspetto che più mi ha lasciato perpplesso del tuo bel racconto. Peraltro, non è una cosa di poco conto visto che ci costruisci sopra tutto un eccanismo.

    Ancora, qualche passaggio dei dialoghi mi pare ridondante e, infine, nonostante l'attesa iniziale che crei nel lettore sia davvero buona, a un certo punto diventa forzata e mi son comicniato a spazientire.

    Per il resto, torno a dire che i tuoi racconti non mi deludono mai: bei soggetti, fantastiche atmosfere, ottimi personaggi.


    Per tutto quello che ho detto qui su, il mio voto è 3.


    P.S. I primi due racconti che ho letto di quest'USAM sono stati quello di Alberto, praticamente privo di dialoghi, e il tuo, in pratica quasi un unico lunghissimo dialogo!
    Beh, che dire?: il mondo è bello perché è vario...


     
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  8. CountlessCrows
     
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    Bella come idea e ho apprezzato il riprendere due temi mitologici (la pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno e il calderone rigeneratore). L'atmosfera iniziale mi aveva fatto pensare bene, c'era spazio per cose molto interessanti.
    Poi tutto cala. Troppo diluito per alcuni aspetti, troppo tirato via per altri. I bambini spariscono del tutto dalla narrazione, i ruoli della coppia evolvono in modo non lineare e le spiegazioni nel finale sono sì logiche ma mi appaiono forzate.

    Voto: 2
     
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  9. margaca
     
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    Ho apprezzato moltissimo la costruzione del mistero, mi ha preso fin da subito e ho proseguito la lettura alla ricerca di qualche indizio fino alla fine. Lo stile è ottimo come sempre, come anche i personaggi, ben costruiti e descritti, forse l'uomo un po' troppo succube della donna, ma quale uomo sposato (e mi ci metto anche io) in fondo non lo è? Il finale è forse troppo veloce rispetto allo sviluppo della storia. Ti do un 3 pieno
     
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  10. marramee
     
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    Ringrazio tutti per i preziosi consigli. Ho provato a fare una revisione integrale, riducendo sensibilmente la parte iniziale e cambiando completamente il finale. Spero che così la storia funzioni meglio. Ho cercato di tener conto di tutte le vostre indicazioni. Se avete tempo di rileggerlo fatemi sapere se è migliorato.
     
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  11. Paolo_DP77
     
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    CITAZIONE (marramee @ 3/9/2010, 21:10)
    Ringrazio tutti per i preziosi consigli. Ho provato a fare una revisione integrale, riducendo sensibilmente la parte iniziale e cambiando completamente il finale. Spero che così la storia funzioni meglio. Ho cercato di tener conto di tutte le vostre indicazioni. Se avete tempo di rileggerlo fatemi sapere se è migliorato.

    Argh! Ero a metà... :azz: vabbé, ricomincio.
     
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  12. Selene B.
     
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    Letta la nuova versione del racconto.
    SPOILER (click to view)
    Non ho letto la versione originale, però devo dire che anch'io condivido le osservazioni di parecchi lettori che mi hanno preceduto: la parte iniziale, finchè non viene svelato il mistero del folletto e della pentola, è costruita benissimo e mi ha preso completamente. Il seguito e il finale non sono all'altezza però della tensione che hai costruito, sebbene i due protagonisti siano divertenti e l'idea carina.
    Giusto un paio di cosette sulla forma:
    CITAZIONE
    Avevo parlato troppo presto. Alessandro, il più piccolo, invase il mio regno urlando.

    cambio di tempo verbale
    CITAZIONE
    Quando Sandra se ne accorse venne da me e mi chiese. «Ci facciamo una birra?»

    forse una virgola dopo accorse e due punti prima delle virgolette

    Voto: 3 (abbondante)
     
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  13. shivan01
     
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    ciao,
    la mia stima nei tuoi confronti la conosci già. Non mi capita mai di leggere una cosa tua che mi risulti banale. Mai. E sì che scrivi parecchio!
    Stavolta ti sei inventato i folletti e la pentola d'oro in fondo all'arcobaleno, e sei riuscito, con in mano una leggenda secolare, a tirarne fuori qualcosa di originale. Ma come ti vengono queste idee? Boh.
    Stile, forma e ritmo, vabbé, chapeau.

    4
     
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  14. Paolo_DP77
     
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    Ciao, bel racconto, davvero spassoso.

    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    Ero pallidissimo

    Di solito non si ha coscienza del proprio pallore, salvo che in presenza di specchi.

    Tra le battute dei dialoghi abusi di "sgurdi di feedback". Me ne accorgo perché è una cosa che tendo a fare anch'io se non sto attento. Dovresti variarle, sono davvero tante, i dialoghi sembrano cosparsi di "faccine": un'occhiata interrogativa, uno sguardo disperato, uno sguardo perplesso, si guardò intorno disperata, si guardò intorno fin troppo tranquilla, il solito sguardo disgustato, mi guardavo intorno con ansia, uno strano sguardo, uno sguardo disgustato, la guardai inorridito, la guardai confuso, uno strano sguardo fisso, guardai Sandra implorante, la guardai sconvolto, lo guardò perplessa, la guardai con nostalgia, mi guardò confusa, continuammo a guardarla a bocca aperta, guardai Sandra confuso.
    Essendo un racconto basato su dialoghi, questi aspetti "di contrappunto" diventano importanti secondo me. Anche i puntini nei dialoghi li eliminerei del tutto o quasi.

    CITAZIONE
    Restò in silenzio.
    [...]
    Lei restò in silenzio.

    Ripetizione voluta, ma avrei variato l'espressione, tipo: "Nessuna risposta" o solo: "Silenzio". Così è troppo uguale.

    CITAZIONE
    Eravamo buffi. Cinque anni ci avevano cambiato molto. Eravamo ingrassati, e parecchio. Io stavo diventando calvo ed ero costretto a usare gli occhiali, lei aveva un gusto orrendo nel vestire e si tingeva i capelli di colori osceni.
    Ora, armati fino ai denti, eravamo la più improbabile coppia di assassini che si fosse mai vista.

    Fantastico.

    CITAZIONE
    Quando venne a letto anche lei si era messa i bigodini.

    Fantastico anche questo. Ma sembra che ha i bigodini anche lui. Meglio girare la frase.

    CITAZIONE
    Ero sbiancato del tutto

    Idem.

    L'ultima parte, specialmente quando lei ha capito l'"ecologia" del folletto e lui invece no, sarebbe da accorciare un po' a mio giudizio.
    Per il resto devo dire che il racconto è molto divertente e simpatico, e originale; i personaggi - delle caricature, ma è così che deve essere - ben caratterizzati dai dialoghi, che (sguardi a parte :) ) hai gestito molto bene dando il ritmo giusto alla storia. Lavorandoci può diventare un 4.


    Voto: 3
     
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    "Ecate, figlia mia..."

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    Gli ho dato tre senza ripensamenti. E' una storia scorrevole e spassosa. Non ci sono tempi morti e tutto si spiega. O quasi: non capisco come mai i due folletti alla fine restino in quella zona. Cioè, il protagonista dice che ci è cresciuto lì: se i folletti abitano stabilmente nello stesso luogo, non mi spiego come mai non li abbia mai visti o "avvertiti" prima di trovare la pentola, e specialmente come non abbia trovato anche in passato tonnellate d'oro. Quindi bisognerebbe trovare una spiegazione al fatto che ci restano. Presumo però che non restino per sempre, ma solo per... ehm... recuperare il tempo perduto, ben cinque anni! Però bisogna dirlo o farlo capire, altrimenti il lettore penserà che i folletti si siano stabiliti lì e riempiranno la fattoria di escrementi per sempre (che disgrazia!).

    Una cosa che andrebbe corretta è la fiumana di intuizioni giuste che ha la donna verso la fine. Chi si è interessato di folletti è il protagonista, lei non sa quasi nulla, non ha neanche le basi per arrivare a quelle conclusioni. Se le basi sono le poche frasi dette dal marito, allora bisogna riconoscerle un cervello da genio!

    Altra cosa da correggere sono i discorsi diretti, che a volte sanno troppo di artificioso.

    Nel complesso però è un racconto gradevole e a tratti divertente. Mi è piaciuto il modo in cui hai saputo trattare il mistero nella prima parte, con quei riferimenti velati e sempre più rivelatori, ma di una situazione che continua a sfuggire fino a quando non entriamo nel vivo dell'azione. Mi è piaciuto il finale, con un protagonista che giudica "inutili" gli escrementi, un modo davvero valido per farci vedere la "purificazione" avvenuta nel suo animo.

    Qualche noticina:

    CITAZIONE
    Era sempre così, quando si metteva un'idea in mente non c'era verso di farle cambiare idea.

    Ripetizione brutta.

    CITAZIONE
    Questo è l'esempio che dai ai tuoi figli.

    "Dai" va a ccentato se è verbo dare.

    CITAZIONE
    Durante la notte doveva aver piovuto, perché un arcobaleno dipingeva il cielo.

    Allora, siccome narra il protagonista, e siccome sa che gli arcobaleni sono prodotti dalle pentole (e senza dubbio sa che quelli naturali NON si formano dopo ore che è piovuto), non capisco perché si dica che durante la notte deve aver piovuto. Non ha senso, a parte quello di dare una spiegazione "altra" alla formazione dell'arcobaleno. Ma il lettore (cioè io, ma presumo pure gli altri) questa spiegazione non l'accetta, perché è stupida: anche il lettore SA che gli arcobaleni si formano dove sta piovendo, e non dove è piovuto ore prima!

    CITAZIONE
    «Via di qui?» Ero inorridito che ci avesse anche solo pensato.

    Non so, mi sembra scorretto o brutto. Io scriverei

    «Via da qui?» M'inorridiva che ci avesse anche solo pensato.

    Però posso sbagliare io...

    CITAZIONE
    «Dai, aiutami a salire. Tienila ferma.»

    "Dài", se è verbo Dare

    CITAZIONE
    Mi trascinò fino al punto in cui fino a poco prima si trovava l'altra pentola.

    Ripetizione che si potrebbe sfoltire.

    CITAZIONE
    Non ebbi scelta, mi misi a cercare e individuai il posto, perché la terra era leggermente smossa.

    Dopo cinque anni?!


    Voto: 3
     
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22 replies since 31/8/2010, 23:04   477 views
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