ORO
«Vogliamo discuterne?»
«C'è poco da discutere, ti ho già detto come la penso.»
Era sempre così, ogni volta, quando si metteva un'idea in mente non c'era verso di farle cambiare idea.
«Si tratta solo di un weekend, in fondo, e ormai ha quattordici anni. Non è più un bambino. Capirei se fosse una femmina, ma...»
La sua voce si alterò. «Tu la pensi così? Credi che io farei certe distinzioni? E poi cosa ti fa pensare che una femmina sarebbe meno giudiziosa? Ma guardati! Guardati! Non mi dire che su di te si possa fare affidamento!»
«Che c'è che non va, adesso?»
«Quel cappello! Quegli stivali! Come può un uomo adulto ridursi in questo stato?»
Iniziai a ringhiare, senza rendermene conto. «Sono stato a pescare! Come bisognerebbe vestirsi per pescare, secondo te? In smoking?»
«Vedi? Questo è l'esempio che dai ai tuoi figli. Poi ci credo che vogliano andare in campeggio! È tutta colpa tua!»
«Cosa c'è di male nel fare campeggio? Dormire sotto le stelle, respirare aria pulita?»
«Non ci vedi niente di male, eh? Non pensi ai pericoli che corre! Eh no, tu sei un amante della vita selvaggia! Peccato che non ti sia allontanato da casa per più di cento metri, da che ti conosco! Persino per pescare vai solo al pontile!» Riprese fiato, velocissima. «Perché non te lo porti a pescare, allora? Tanto ormai ci sono abituata, un fannullone in più o in meno non fa differenza!»
L'avevo promesso a Giulio e lui si era proprio raccomandato di resistere, però dubitavo che ci sarei riuscito ancora per molto.
«Vuoi che tutti lo considerino un pappamolla, sempre attaccato alle gonne di mammina? È questo che vuoi per tuo figlio?»
«Che vuoi che me ne importi degli altri! Eh sì, adesso dovrei fregarmene della sicurezza del mio bambino solo per far felici gli altri!»
«Non sei tu che devi viverci con gli altri, è Giulio! Mentre tu te ne stai qui a casa, a scuola lo prendono in giro! Dicono che mammina lo tiene al guinzaglio, sempre pronto a scattare ai suoi ordini.»
«Ma sei proprio uno stronzo, sai? Ti pare che l'abbia mai trattato così? Questo te lo stai inventando tu adesso. Non ti va giù che io non sia d'accordo.»
«Perché? Dimmi almeno perché! Dammi una ragione che non sia quell'idiozia del pericolo.»
«Idiozia? Sai quanti ne sono morti l'anno scorso su quel monte? Tre!»
«Erano situazioni particolari e lo sai. Si erano messi in testa di scalarlo. I ragazzi non faranno nulla del genere, si accamperanno ai piedi, e...»
«Certo che non lo faranno! Perché io glielo impedirò!»
Giulio sorrideva. Seduto sul bordo della finestra, una gamba penzoloni all'esterno, stava giocando con un filo d'erba. Aveva sentito ogni parola e io un po' mi vergognavo. Non è piacevole che tuo figlio si renda conto di quanto poco vali in casa. Ma lui ormai l'aveva scoperto da anni.
«Fa niente, papà, me l'aspettavo.»
Ancora più deprimente, sapeva già che avrei fallito.
Mi accontentai di borbottare: «Vado a riordinare il garage.»
Non facevo altro, ogni volta che ero depresso. E succedeva fin troppo spesso. Riordinavo il garage.
Si trovava proprio accanto alla fattoria, ma non faceva parte dell'edificio principale. Era poco più che un capanno, ma io l'avevo rimodernato. Lo chiamavo garage, ma in realtà lì dentro non c'era mai stata nessuna macchina. Io non guidavo, anzi, a essere del tutto sincero, non mi allontanavo quasi mai di casa. Forse i cento metri che Sandra mi rinfacciava erano eccessivi, ma non ricordavo di aver fatto passeggiate più lunghe di due chilometri.
Non amavo la gente, non amavo il contatto diretto. Soprattutto non amavo gli estranei. Questo non implicava naturalmente la mia famiglia. Talvolta accusavo Sandra di questa mia fobia, e di fatto non ne ero affetto quando ci eravamo sposati.
Il garage era il mio regno. Lì c'era la mia collezione di canne da pesca e di ami. Vi tenevo pure tutte le mie pipe, perché usarle in casa era diventato peccato mortale. Lì c'erano pace e silenzio, e soprattutto solitudine.
«Papa, vieni! Papà!»
Avevo parlato troppo presto. Alessandro, il più piccolo, invase il mio regno urlando. Lui correva sempre, non aveva mai un momento di requie. All'inizio anche Giulio era così, ma con gli anni si era calmato. Dubitavo che ad Alessandro sarebbe mai successo.
«Vieni, papà! Vieni a vedere cos'ho trovato!»
«Non è giornata, Ale! Già la mamma sta cercando di...»
Mi afferrò per un braccio e si mise a tirare come un ossesso. «Vieni!»
Dovetti aggrapparmi a un bancone prima che mi facesse cadere. «Ma sei impazzito?»
Accidenti che forza, quella pulce! Di certo aveva preso da sua madre.
«Vieni, presto, prima che vada via!»
«Ha provato anche con te?» mi chiese Giulio, quando rientrai in casa. «Io gli ho detto di togliersi dai piedi.»
Doveva avermi visto rientrare con Alessandro.
Giulio lo sapeva di essere il mio preferito, ma la cosa non aveva grande rilevanza. In fondo io non valevo niente. Lui mi assomigliava molto, aveva la mia tranquillità, forse per questo era così facile per Sandra metterlo sotto.
«Che hai, non ti senti bene?»
Ero pallidissimo, faticavo persino a camminare, e ancora non riuscivo a spiccicar parola.
Sentimmo la voce di Alessandro, lontana. «Mamma! Mamma! Vieni a vedere cosa ho trovato!»
La sentì anche Giulio, perché mi rivolse un'occhiata interrogativa. «Cosa ha trovato?»
Bella domanda, solo che non avevo una risposta da dargli.
Quella sera, a cena, Giulio era rimasto l'unico a non sapere cos'avesse trovato Alessandro.
Era una cena davvero insolita per noi, visto che nessuno aveva ancora detto una sola parola.
Sandra fu la prima a iniziare. «Dovresti andare in campeggio, ci ho ripensato.»
Giulio smise di masticare, certo di aver sentito male.
«Sì, devi andarci» aggiunsi io. «Domattina puoi partire, è tutto sistemato. Tua madre è d'accordo.» Scambiai un'occhiata con Sandra e mi parve che annuisse. «Porta anche tuo fratello con te.»
Un boccone gli andò di traverso e Giulio quasi si strozzò.
Alessandro intanto saltellava come un matto. «In campeggio, sì! In campeggio!»
Sandra non lo redarguì neppure, né gli ricordò le innumerevoli regole della buona educazione.
Giulio mi rivolse uno sguardo disperato.
«È così» gli dissi a voce bassa. «Non c'è scelta. Se vuoi andare devi portarti dietro anche lui.»
Sapevo che l'avrebbe fatto. Lo sapeva anche Sandra.
«Basterà?» mi chiese Sandra quando fummo a letto.
Aveva appoggiato la testa sul mio petto e io le accarezzavo i capelli, come non succedeva da troppo tempo.
«Hai paura che si facciano male?»
Scosse appena il capo. «Non devono restare qui. Devono andare via.»
Ero assolutamente d'accordo con lei.
Poi voltò il capo fino a incontrare i miei occhi. «Ce la faremo?»
Il fatto di essere tornato il capofamiglia, anche se per poco, avrebbe dovuto lusingarmi, ma la situazione era troppo grave per poter gustare quel piccolo trionfo.
La mattina dopo accompagnammo i ragazzi fino alla strada, dove il pulmino della gita si sarebbe fermato a prenderli. Era solo un chilometro di terreno pianeggiante, avremmo potuto controllarli stando comodamente in veranda, eppure andammo entrambi con loro.
Giulio comprese che qualcosa non funzionava quando Sandra li lasciò salire senza strapazzarli di baci come suo solito. Persino Alessandro notò la novità.
Ci guardò dal finestrino, mentre il pulmino si allontanava, con uno sguardo perplesso.
«Alessandro glielo dirà?» mi chiese Sandra.
Era difficile che Alessandro fosse capace di tenere la bocca chiusa e di certo Giulio l'avrebbe spremuto.
«Non importa» le risposi. «Quando torneranno sarà tutto finito.»
Un giorno, tanto tempo fa, avevo creduto che i soldi avrebbero portato la felicità. Avevo mandato al diavolo l'odioso lavoro di contadino, che la mia famiglia si tramandava purtroppo da secoli, avevo abbandonato ogni coltivazione lasciando che le erbacce invadessero i miei campi e avevo deciso che avrei passato il resto della mia vita a pescare.
Eh sì, ero un uomo semplice. Quello era il massimo del piacere che riuscivo a immaginare. Pescare. E alla sera fumarmi la mia pipa e bermi un boccale di birra.
Sandra era stata più creativa. Prima si era improvvisata pittrice, poi aveva scoperto di avere l'anima dell'arredatrice, e lì ci aveva fatto impazzire, cambiando i mobili della casa almeno dieci volte. Poi era stata un po' tutto: ballerina, ciclista, trombettista, aveva persino tentato di scrivere. Da un paio d'anni aveva rinunciato, il suo unico compito era diventato quello di farci dannare. Aveva deciso di fare la mamma e la moglie a tempo pieno.
Vivere insieme con tanto tempo libero a disposizione, senza una vera occupazione, poteva essere distruttivo. Convivere ventiquattr'ore su ventiquattro, giorno dopo giorno, poteva persino portare all'odio. Noi per fortuna non c'eravamo ancora arrivati ma ci trovavamo pericolosamente vicini.
«Non lo so» disse Sandra mentre preparava il pranzo.
I ragazzi erano già andati via da un paio d'ore, ma noi non eravamo usciti di casa.
«Non dobbiamo decidere subito, abbiamo tempo. I ragazzi non torneranno fino a lunedì.»
«Alessandro lo ha visto.»
«Non preoccuparti, Giulio non gli crederà mai.»
«E se lo chiedesse a noi? Dovremmo dirgli che Alessandro è un bugiardo? Non mi sembra giusto.»
«Non ce lo chiederà.»
Conoscevo Giulio, si sarebbe vergognato a fare certe domande. E a chi, poi? Non certo a sua madre. Al massimo ne avrebbe parlato con me. Non avrei avuto neanche bisogno di mentire, mi sarebbe bastato sorridere. Si sarebbe subito convinto che Ale l'aveva preso in giro.
«Non è giusto! Non era giusto l'altra volta e non lo è neppure adesso!»
Avevamo deciso insieme, Sandra se lo ricordava bene, e anche adesso sarebbe stato così.
«Non lo so! Non lo so!»
Dopo pranzo non andai a pescare, e quando lei mi chiese il perché io risposi: «Vuoi venire con me?»
Restò interdetta. In un altro momento mi avrebbe coperto d'insulti. «Vuoi che venga?»
Non mi ero mai mostrato così vulnerabile con lei, così spaventato, eppure in quel momento non me la sentivo di restare da solo. Scossi il capo. «Niente pesca.»
«Forse è meglio» disse lei.
Sprofondai su una poltrona in salotto e accesi la pipa. Fu qualcosa di istintivo, come ai vecchi tempi. Quando Sandra se ne accorse venne da me e mi chiese. «Ci facciamo una birra?»
E bastava questo a dimostrare quanto fosse sconvolta.
Portò la birra, due boccali stracolmi e si sedette di fianco a me. Bevve quasi metà del suo boccale, con un solo sorso.
«Pensi che sia lui?»
Chi altri avrebbe potuto essere?
«Il posto è lo stesso. Sai bene che è impossibile che accada due volte nello stesso luogo.»
Un lungo silenzio. Poi: «C'è ancora?»
«Vuoi andare a vedere?»
Non si mosse dalla poltrona. Allora fui io ad alzarmi e andare alla finestra. Scostai la tenda. La visuale era perfetta. Non c'era una casa per chilometri. Intorno a noi solo campi incolti. Il fiume da lì non si vedeva, era sull'altro lato. Durante la notte doveva aver piovuto. Un arcobaleno dipingeva il cielo.
I campi erano immobili, non c'era neppure un filo di vento.
Tornai a sedermi.
Neppure mi chiese cosa avessi visto. «Perché è tornato? Sono passati cinque anni, pensavo che si fosse rassegnato.»
«Che ne sappiamo di come ragiona lui?»
«Dobbiamo farla finita.»
Temevo che l'avrebbe detto. «Se ne andrà presto.»
«No che non se ne andrà! L'altra volta è rimasto tre mesi! Ti rendi conto del rischio che abbiamo corso? Per fortuna era inverno e i bambini erano piccoli. Non è stato difficile tenerli dentro casa, ma adesso... Se Alessandro l'avesse toccato... se invece di correre da noi l'avesse toccato!»
Tremava, e forse avrei dovuto confortarla, ma non riuscivo ad alzarmi.
«Non ci serve» bisbigliai. «Non ce ne serve altro.»
«E tu credi che io lo farei per quello? Pensi questo di me?»
Si alzò e si mise a camminare per la stanza. «Lunedì torneranno i ragazzi. Figurati se Alessandro non gliel'avrà detto. Lo porterà subito a vederlo. Credi che possa bastare un divieto? Credi che ci darebbero retta?»
Alessandro no di certo. Giulio forse sarei riuscito a convincerlo, ma non ne ero sicuro.
«Saremmo costretti a dirgli cos'abbiamo fatto! Io non me la sento, non voglio che lo scoprano.»
«Prima o poi dovranno saperlo comunque, non credi?»
Si bloccò davanti a me. «Perché? Dammi una ragione.»
«Potremmo morire, un giorno. Devono sapere cosa lasciamo loro, e chi si troveranno contro.»
Tornò a sedersi, ancor più sconvolta. «Non cesserà mai questa maledizione?»
Eravamo noi che non l'avremmo fatta cessare. Eravamo noi che ne avevamo bisogno. Anche Sandra lo sapeva, neppure per un istante aveva considerato l'idea di riportare tutto come l'avevamo trovato.
Fu più esplicita. «Dobbiamo ucciderlo.»
«Non sappiamo neanche se sia possibile farlo.»
«Tutti possono morire.»
«Lui se ne andrà» mormorai. «Se ne va sempre.»
Ma stavolta Sandra era decisa. «Non voglio che sia qui quando torneranno i bambini!»
Tra le parole e l'azione intercorre sempre un certo periodo di tempo. In casa nostra quel periodo in genere era dilatato. Certe volte per molto molto tempo, anche anni.
Si tendeva a rimandare, a fare il meno possibile. Era diventata questa la nostra vita, una lunga attesa. Ormai erano anni che non uscivamo più di casa, io almeno, ma anche quando uno di noi era costretto a farlo l'altro restava di guardia. Sì, in certi momenti mi sembrava di essere regredito, di essere solo un animale che difende il suo territorio.
«Dovevamo andare via» disse Sandra, mentre guardava i campi dalla finestra.
«Via di qui?» Ero inorridito che ci avesse anche solo pensato. Io ero nato in quella fattoria, e mio padre prima di me. Mi era impensabile abbandonarla.
«Potevamo permettercelo, no? Potevamo permetterci ogni cosa!»
«Non ne avevamo bisogno...»
«E allora perché l'abbiamo fatto?»
Era una domanda che anch'io mi ero posto, mille volte. Avevamo davvero bisogno di quei soldi? Certo, facevo un lavoro che non amavo, però quando tornavo a casa mi aspettava la mia famigliola. Anche Sandra lavorava, eppure non era molto più allegra allora? Dopo eravamo cambiati, ero diventato una persona che non si piaceva più, ed ero certo che anche per lei fosse lo stesso. Era stata l'avidità? Era quella che ci divorava?
Lei continuava a guardare dalla finestra.
«Vuoi andare a vedere?» le chiesi.
«Possiamo farlo domani.»
Già, sempre rimandare al domani.
«Se sei decisa possiamo andare adesso.»
«Pensi che sia lì?»
«Dove altro potrebbe essere?»
«La prima volta non c'era.»
«La prima volta non ci stava tendendo una trappola!»
Restò in silenzio.
«Prendo il fucile» dissi io.
Forse speravo che lei si opponesse, ma non lo fece.
Mentre caricavo l'arma lei arrivò, armata di un coltellaccio da cucina. Aveva scelto il più grosso.
«È una pazzia» le dissi.
Lei restò in silenzio.
Eravamo buffi. Cinque anni ci avevano cambiato molto. Eravamo ingrassati, e parecchio. Io stavo diventando calvo ed ero costretto a usare gli occhiali, lei aveva un gusto orrendo nel vestire e si tingeva i capelli di colori osceni.
Ora, armati fino ai denti, eravamo la più improbabile coppia di assassini che si fosse mai vista.
«Dov'è, te lo ricordi?»
Lo sapeva benissimo anche lei dov'era, sempre nello stesso luogo.
Ci inoltrammo nel campo. Era autunno e l'erba era tutta secca, di un giallo sporco, malato. Man mano che andavamo avanti divenne rada. «Guarda anche tu» le dissi.
Eravamo quasi al centro del campo, si intravedeva ancora l'arcobaleno nell'aria. I nostri occhi erano fissi a terra, invece, stavamo cercando.
Lo vidi io per primo. «Eccolo, è lì. Non avvicinarti!»
Non ci provò neppure, lasciò che fossi io a farmi avanti.
C'era qualcosa che sporgeva dal terreno. Era rotondo, e dal suo interno veniva un colore aranciato, quasi un fuoco.
«Lui dov'è?» bisbigliò Sandra.
«Dev'essere qui intorno.»
«Non lo vedo.»
«Si terrà nascosto.»
«Come facciamo a trovarlo?»
«È lui che troverà noi.»
«Lo vuoi... prendere?»
«Vedi un'altra soluzione?»
Finché non ci fossimo avvicinati a quell'oggetto saremmo stati al sicuro. Finché non l'avessimo toccato, lui non ci avrebbe fatto nulla. Eravamo stati fortunati che Alessandro fosse corso subito da me appena l'aveva trovato. Se fosse stato lui a prenderlo sarebbe stata una tragedia.
Sì, aveva ragione Sandra, tutto questo doveva finire.
Feci un passo avanti.
«No!»
«Che hai?»
Stavano iniziando i dubbi.
«Stiamo facendo la cosa sbagliata, di nuovo!»
«Preferisci non fare niente?»
«No, no, ma... Com'è? Tu l'hai visto? Com'è fatto?»
«Di sfuggita, lo sai. Solo un istante.»
«Ma com'è?»
«Come vuoi che sia? È un mostro!»
«Sì ma... un mostro come?»
Sospirai. Gliel'avevo già detto, e più di una volta. «È piccolo, una specie di nano, ma è orribile. Un mostro, insomma.»
«Sì, ma come è vestito?»
«Vestito? Io non ho visto nessun vestito! Che importanza ha adesso se fosse vestito o meno?»
«È... verde? Indossa qualcosa di verde?»
Stava degenerando. «Ma smettila, Sandra! Che ti salta in mente? Ti ho detto che è un mostro, tutto lì.»
«Oh mio Dio, mio Dio.»
Stava diventando isterica. A un certo punto si voltò e si allontanò di qualche passo. «Non lo possiamo fare!»
«Sandra!» urlai, e lei si bloccò.
Andai diritto verso l'oggetto nel terreno. «Facciamola finita.»
«No!» gridò ancora lei, comprendendo quello che stavo per fare.
La ignorai. Afferrai con forza i bordi dell'oggetto e tirai. Venne fuori con facilità. Era rotondo come una palla da bowling con un buco in mezzo. Era da quell'apertura che usciva la luce arancione.
«L'hai fatto!» strillò lei.
Io posai l'oggetto a terra per avere le mani libere e imbracciai il fucile. «Sttt!» le dissi. «Adesso fa' silenzio.»
Lei si congelò, lì dov'era, e strinse il coltellaccio con entrambe le mani. Si guardò intorno disperata. «Ho paura!» strillò.
Non era colpa mia se si era allontanata. Lì era un bersaglio perfetto. Comunque veniva a mio vantaggio. Se lui si fosse fatto avanti l'avrei colpito senza problemi.
Sandra stava diventando isterica, saltellava cercando di reggersi su un piede solo, quasi temesse l'attacco di un serpente. «Non dovevi farlo!» strillò ancora.
Io tenevo d'occhio tutto il campo, ma di erba ne era rimasta pochissima e non sarebbe bastata a nascondere neppure un passerotto.
«Quant'è alto?» gridò Sandra.
«Pensi che l'abbia misurato?»
«No, davvero, quant'è alto?»
«Abbastanza da vedersi, sta' tranquilla.»
«Dimmi quanto!»
«Ma non lo so! Trenta centimetri, trentacinque.»
Lei posò entrambi i piedi per terra. «Solo?»
Mi pareva che ci fosse delusione nella sua voce. Guardò il coltellaccio che teneva in mano, che di centimetri ne misurava quaranta e fece le debite proporzioni.
«Credevo che fosse più pericoloso» disse.
Mi agitai. «Lo è! Lo è! Non importano le dimensioni.»
E lei: «Mi avevi sempre detto che era un mostro.»
Non mi andava il suo tono, c'era una nota malevola. Stava tornando a essere la Sandra odiosa, quella di sempre.
«Ti pare il momento di fare queste storie? Potrebbe aggredirci da un istante all'altro.»
Lei si guardò intorno, fin troppo tranquilla. «Io non vedo nessuno.»
«Il terreno! Si nasconde nel terreno!» le gridai, nella speranza di vederla saltellare di nuovo.
Non funzionò. «Il terreno non è stato smosso da anni. Si noterebbe.»
Non sapevo più a cosa appellarmi. Neanch'io riuscivo a capire perché non si fosse ancora fatto avanti.
Sandra fece un paio di passi verso di me e mi rivolse il solito sguardo disgustato. «Su, prendi quel coso e andiamo a casa.» E poi aggiunse, con voce minacciosa: «Trenta centimetri! Sono cinque anni che mi fai vivere in agitazione per trenta centimetri!»
«Forse trentacinque!» mormorai. «Sì, trentacinque, ne sono sicuro. Forse anche quaranta.»
«Muoviti!» urlò tanto forte da farmi sobbalzare. Persino il fucile mi scivolò dalle mani.
Tentai di alzare l'oggetto. «È pesante!»
«Arrangiati!»
Misi il fucile a tracolla e mi chinai. Lo presi con entrambe le mani, ai lati. Era proprio pesante! Avrei dovuto essere felice, ma...
Incontrai due occhi, proprio all'interno dell'oggetto. Occhi gialli, malefici. Non feci in tempo a ritrarmi e neppure a urlare. Il mostro saltò sul mio volto.
«Argh!»
«Non muoverti, vuoi che ti faccia male?»
«Il mio naso, il mio naso! Me l'ha strappato!»
«No, che non te l'ha strappato, però è ridotto male. Non toccarlo.»
Il dolore era tremendo, e mi guardavo intorno con ansia. Sandra aveva chiuso ogni porta e finestra? Lei aveva detto di sì, ma dovevo fidarmi? Quella cosa sarebbe riuscita a entrare?
«Cos'era?» chiesi.
«Se non l'hai visto tu che ce l'avevi davanti!» Era un sogghigno quello? «Sembrava che ti stesse baciando!»
«Stronza!»
Lei ridacchiò. «È stato troppo veloce per vederlo bene. È fuggito subito. Comunque avevi ragione tu. Sì, trenta centimetri direi.»
«Come fai a scherzare? Ora sa che siamo stati noi! Non ci darà più pace! Ci farà a pezzi!»
«Non mi sembrava tanto pericoloso.»
«Guarda come mi ha ridotto! Tu non li conosci!»
«E tu sì?»
«Mi sono informato. Sono vendicativi! Non dimenticano mai!»
«Non credo...»
«Hai visto che è tornato! Ci ha persino teso una trappola! E noi ci siamo cascati come allocchi!»
«Tu ci sei cascato» precisò mia moglie.
«Cosa dobbiamo fare?»
Di nuovo l'unica soluzione possibile non fu neanche accennata.
«Dov'è? L'hai lasciato là?»
«Cosa?»
«Lo sai cosa!»
«Ma per favore! Già dovevo trascinare te che ti credevi in punto di morte! Figurati se mi portavo dietro quella cosa! E poi chissà che altro c'era dentro!»
«Lo sai cosa conteneva!»
Mi rivolse uno strano sguardo. «Lo volevi? Volevi anche quello? A che ci sarebbe servito?»
«Io...»
Mi sentivo con le spalle al muro. Mi toccai il naso incerottato e lanciai un gemito.
«Ora cosa succederà?»
Lei sospirò. «Cosa vuoi che succeda? Te ne vai a letto.»
«Tutto qui?»
«Preferisci andare al pronto soccorso? Potrebbero farti un'antirabbica, non si sa mai. Sono curiosa di sentire che spiegazione ti inventerai.»
«Non ci credi? Non credi che ora cercherà di ucciderci? Lo sa che siamo qui dentro, ci attaccherà!»
«Vai a letto, che è meglio.»
«È un mostro!» le gridai. «Un mostro!»
Poi andai a letto.
Mi portò un brodino e la guardai inorridito.
Quando venne a letto anche lei si era messa i bigodini. Il mio orrore crebbe.
«Hai visto che non è successo niente? Sta' tranquillo.»
«Sei... uscita? Sei andata a vedere?»
«A vedere cosa? Ah, volevi anche quella? Vattela a prendere tu se non ne puoi fare a meno.»
L'idea di uscire di casa mi terrorizzava.
«È qui dentro, lo so! È in questa casa!»
Lei si coricò e spense la luce. Io urlai come se mi stessero uccidendo. La riaccese subito.
«Che ti sta succedendo?»
Non ce la facevo più, stavo crollando. «Mi vuole uccidere!» balbettai. «Mi vuole uccidere, lo so.»
Lei scese dal letto, seccata.
«Basta! Non ne posso più. Se dobbiamo fare questa vita tanto vale farla finita!»
Uscì dalla camera decisa, nella sua camicia da notte. Un attimo dopo sentii uno sgradevole scricchiolio.
Balzai in piedi urlando e appena misi i piedi a terra mi resi conto che lui poteva essere lì. Cercai un'arma per difendermi, ma trovai solo una trombetta, appesa al muro come un trofeo. Servendomi di quella controllai che non si fosse nascosto sotto al letto.
«Ma sei diventato tutto scemo!» esplose mia moglie vedendomi. E poi disse: «Su, vieni a darmi una mano, da sola non ce la faccio.»
Quando mi accorsi che aveva abbassato la scala per salire in soffitta lanciai un altro urlo. «Che vuoi fare?»
Lo disse. Disse quella frase che tanto temevo.
«Glielo voglio restituire, no? Così dopo ci lascia in pace!»
«Ma... ma...»
«Senti, non è nostro. Ci ha portato solo guai da quando l'abbiamo trovato, ha trasformato questa vita in un incubo. Che potrà mai succedere, dopo? Dovrai tornare a lavorare? Non sei stufo di stare tutto il giorno a non fare niente? Non moriremo per questo.»
Invece sì che saremmo morti, lei non capiva. Non poteva sapere.
«Dai, aiutami a salire. Tienila ferma.»
«No, no!» continuavo a ripetere.
Lei si mise a salire, senza sentir ragioni.
La soffitta era pulita e ordinata, andavamo spesso lì. Era il posto ideale per nasconderlo, dove i bambini non l'avrebbero mai trovato.
Era stipata di vecchi mobili e cimeli di tutta la famiglia. Sandra andò diritta verso un mastodontico armadio e lo aprì.
Era vuoto, eccetto per uno strano recipiente rotondo. Lo prese e lo posò sul tavolo.
C'era qualcosa di magico in quell'oggetto. Bastava guardarlo per sentir crescere dentro di noi l'avidità. Là fuori, nel campo, non mi aveva trasmesso questa sensazione, ma in quel momento avevamo altri problemi.
Era molto simile a quello che avevamo visto fuori, quasi identico. Sembrava solo un po' più grosso, ma in compenso era più leggero. Una luce arancione veniva dal suo interno e nel buio della soffitta si proiettava sulle pareti.
Restammo a fissarlo a lungo, affascinati. Poi non riuscii a resistere e infilai la mano al suo interno.
Ne presi una manciata abbondante e la tenni stretta.
«Ti pare il momento?» mi chiese Sandra. «Non hai già fatto abbastanza guai?»
Ecco, si era arrivati a questo punto, ora dava la colpa a me.
Spinse l'oggetto verso di me. «Ridaglielo e basta.»
«Io?» strillai, e ciò che tenevo in mano si sparse sul tavolo. Luccicavano e sembravano pepite d'oro. Sandra le raccolse in un lampo e le ributtò all'interno dell'oggetto.
Non osai fiatare.
«Sì, tu. Va' fuori e ridaglielo. Noi non ne abbiamo bisogno.»
Iniziai a scuotere la testa senza riuscire più a fermarmi.
«Gliel'hai rubato, e lo sai benissimo. Io non so cosa sia quella cosa, se sia davvero un folletto. Di certo l'oro di questa pentola non si esaurisce mai. Più ne prendiamo più ce n'è. Quindi, se hai tanta paura che si vendichi, prendi la pentola e riportagliela.»
Non l'avrei toccata per niente al mondo. Ero sbiancato del tutto.
«Non posso» mormorai.
«Va be'» mi concesse mia moglie. «È anche colpa mia. Potevo rifiutare, invece tutto quest'oro ha abbagliato pure me. È giusto che lo si faccia insieme. Vengo con te.»
Ripresi a scuotere il capo, come un idiota.
«Si può sapere che ti prende adesso? Non vuoi farne a meno, vuoi tenerlo? Sei tu che stai morendo di paura. E pure di fronte a un esserino di trenta centimetri!»
Non potevo più tacere. «Non è lo stesso.»
Si congelò. «Cosa non è lo stesso?»
«La cosa. Il mostro. Il... folletto. Non è lo stesso a cui abbiamo preso la pentola.»
Sandra recuperò una sedia e si sedette al tavolo. «Spiegati meglio.»
La vergogna mi sommerse, però non potevo più tacere. «Quando ho visto quell'arcobaleno, io...»
«Me l'hai già raccontato cento volte! So come sono andati i fatti!»
«No, non lo sai. Ti ho mentito.»
«Oh!» disse soltanto, e non aggiunse altro.
«Io stavo pescando, e ho visto l'arcobaleno e... sapevo che era una sciocchezza, ma... partiva proprio dal nostro campo, e allora... Sono andato a vedere, così, per curiosità. E c'era davvero! Una pentola piena d'oro! Ti rendi conto? Era assurdo, però c'era. Ho immerso le mani dentro e ho tirato fuori l'oro a manciate. Manciate, capisci? Le tiravo fuori e ce n'era sempre!»
«È tutto esattamente come me l'hai raccontato le altre volte. Poi l'hai portato a casa e...»
«No, prima è arrivato il folletto.»
«Ah sì, l'hai intravisto e sei scappato, portandoti via la pentola.»
«No. Non è andata così.» Sospirai. «Sapevo che se c'era una pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno doveva esserci pure un folletto, avevo sentito anch'io la leggenda. Solo che mi aspettavo... un'altra cosa.»
«Un omino vestito di verde col cappellino in testa.»
«Uhm... sì, qualcosa del genere. Quella cosa, invece... Dio com'era brutta! Era proprio un mostro!»
«E ti ha aggredito?»
Mi ammutolii.
«Non ti ha aggredito?»
«Ecco, si potrebbe dire così. Era arrabbiato, sì, decisamente arrabbiato che avessi preso la sua pentola. Mi girava intorno ed era arrabbiato. Emetteva certi versi!»
«Ma non ti ha aggredito?» mi chiese ancora.
«Io... non gliene ho dato il tempo. Ho preso una pietra e...»
«Cos'hai fatto?» strillò Sandra, così forte da far tremare i vetri.
Che stupido, mi trovai gli occhi pieni di lacrime come un bambino. «L'ho colpito e colpito. Ho continuato finché non si è più mosso.»
«Ma perché?»
Singhiozzai. «Per la pentola. Volevo quella pentola. Non riuscivo a pensare ad altro.»
Sandra sembrava sfinita. «Tu hai fatto questo? Tu?»
Singhiozzai più forte. «Non so che mi abbia preso, proprio non lo so.»
«E cosa ne hai fatto?»
«L'ho seppellito lì, dove avevo trovato la pentola.»
«Non mi hai detto niente! Niente!»
«Mi vergognavo troppo.»
«Mi hai trascinato in questa storia senza dirmi niente! L'avevi trovata, hai detto! Se non fosse riapparso l'arcobaleno qualche giorno dopo neppure mi avresti detto dove era successo e a chi l'avevi portata via!»
«Lo sta cercando!» sibilai. «È uno di loro e lo sta cercando!»
«Una ragione in più per restituirgliela.»
«Ma capirà che l'abbiamo ucciso noi, il suo amico!»
«Tu l'hai ucciso!» precisò. «Tu soltanto! E poi ormai lo sa già, non credi?»
Singhiozzai. «Ci ucciderà tutti.»
«Ma per favore!» sbottò. «È un nanerottolo di trenta centimetri! Persino tu sei riuscito a farne fuori uno con una pietra!»
La guardai confuso. «Vuoi... vuoi uccidere anche questo?»
«Io non voglio uccidere proprio nessuno! Ma se sarà necessario difenderò la mia casa.» Afferrò la pentola con rabbia e un po' del contenuto si sparse sul pavimento. Per una volta non corsi a raccoglierlo.
«Andiamo, muoviti, facciamola finita!»
Lamentarmi non servì a niente, e Sandra mi costrinse a portare la pentola. La seguii attraverso la casa, ma mi bloccai davanti alla porta d'ingresso.
«No!» dissi deciso. «No, no, no.»
«Devi riportarlo dove l'hai preso!»
«È notte!» le ricordai.
«Sei tu ad aver paura che venga a ucciderti!»
Mi impuntai e l'ebbi vinta. Alla fine raggiungemmo un accordo e aprimmo appena la porta per spingere fuori la pentola d'oro. La lasciammo lì, sul portico, e ci affrettammo a richiudere tutto a chiave.
Lei scosse il capo, soppesandomi, poi decise di lasciar perdere. «Andiamo a letto, ora.»
Dormire? Vogliamo scherzare?
Passai la notte tremando, con la luce accesa, e quella stronza al mio fianco russava pure! Iniziavo a odiarla.
Ogni minimo rumore che sentivo mi mettevo a urlare e lei neppure si svegliava. Sospettai che si fosse messa i tappi nelle orecchie.
Alla mattina ero un fascio di nervi e pareva che fossi passato sotto un rullo compressore. Lei controllò il mio povero naso e scosse il capo disgustata. «Fa proprio schifo.»
La pentola era sul portico dove l'avevamo lasciata. Il nostro espediente non era servito a nulla.
«Che si fa?» le chiesi.
E lei: «Riportala nel campo.»
I suoi desideri erano di nuovo ordini.
Era bizzarro vedere Sandra maneggiare quel fucile, ma io avevo le mani occupate con la pentola. Sperai solo che non finisse per sparare proprio a me.
Quando raggiungemmo il campo l'altra pentola era svanita. «Forse se n'è andato!» azzardai.
Sapevo che non sarebbe stato così facile. La prima volta era apparso dopo una settimana. Quando avevo rivisto l'arcobaleno ero corso a controllare. Avevo trovato una seconda pentola. La cosa mi aveva insospettito e parecchio. Non avevo osato avvicinarmi. Ero rimasto a sorvegliarla da lontano e un paio di volte mi era sembrato di vedere del movimento. Avevo proibito ai bambini di uscire di casa e ci eravamo barricati. Avevo raccontato a Sandra una parte della verità, ovvero che non l'avevo trovata, quella pentola, ma rubata a un folletto, e che ora la rivoleva.
Era andata avanti per tre mesi, quel maledetto arcobaleno non voleva andarsene. Poi, all'improvviso, una bella mattina era sparito. Aveva rinunciato. Eravamo liberi, liberi di spendere il nostro oro.
Perché era tornato, quel maledetto?
«Qui va bene?» le chiesi, e senza attendere risposta la posai vicino al punto dove avevo trovato la seconda pentola.
«È da lì che l'hai presa?»
«Ma che vuoi che mi ricordi! È tutto uguale! Sono passati cinque anni!»
«Dov'è il cadavere?»
«Che c'entra?»
«Dove l'hai seppellito?»
Mi guardai intorno. «Che importanza ha?»
«Magari è meglio che il suo amico sappia che è morto, così smetterà di cercarlo.»
«E vorrà vendicarlo, però!»
«Io preferirei sapere» disse Sandra, con aria saggia.
Individuai il posto, anche se avrei preferito non trovarlo, perché la terra era leggermente smossa. «Che faccio, porto qui la pentola?»
Sandra mi passò una ridicola paletta da giardinaggio di plastica rosa. «Scava.»
«Ma sei matta? Sarà putrefatto!»
«Sei tu che l'hai ucciso. Scava e non lamentarti. Lo deve vedere.»
Sbuffai.
Fu più facile del previsto, perché non l'avevo sepolto a grande profondità. Sandra lo guardò perplessa. «Che roba è?»
Era una scatola di latta che aveva contenuto biscotti, non avevo trovato altro della sua misura. «Una bara» replicai, offeso.
Quando la aprii lei si ritrasse inorridita. «Oddio, è putrefatto!»
Guardai anch'io. «A me sembra intatto. Che strano, non è cambiato per niente. Te l'ho detto che era brutto forte.»
Tornò a guardare. «Sono così i folletti?»
A me sembrava di più l'incrocio tra una lumaca e un ippopotamo, con un pizzico di Godzilla, ma chi ero io per giudicare?
«Basta, adesso? Andiamo via?»
Sandra mi consegnò il fucile e si chinò verso quella cosa. Stavolta ero io inorridito. «Che fai?»
«Perché l'hai ucciso?» mi chiese.
Non avevo la risposta che avrebbe voluto. «Non ero io. Volevo solo quell'oro e basta.»
«I soldi non ti hanno mai interessato. Non sai che fartene.»
«Quel giorno non ero io. Non ero io.»
Poteva sembrare una difesa patetica ma stavo dicendo la verità. Ogni volta che mi accostavo a quella pentola qualcosa mi trasformava.
«Sei certo che sia morto?»
Sobbalzai come se mi avesse morso una vipera e mi chinai a guardare nella bara, stando però attento a non avvicinarmi troppo, visti i precedenti.
«Ma certo che è morto! Diamine, è rimasto sepolto lì sotto per cinque anni!»
«Perché non si è putrefatto, allora?»
«Che vuoi che ne sappia!»
Sandra continuò a guardarlo pensosa, poi prese la pentola e la rovesciò, spargendo l'oro per terra.
«Che stai facendo, sei matta?»
Mi misi a raccoglierlo, poi tornò il timore e mi guardai intorno con sospetto. «Perché hai fatto una cosa simile?»
«È magica, hai detto. Rigenera in continuazione il suo oro.»
Annuii. «Non è vero, forse?»
Fece una strana smorfia, poi si chinò sulla bara improvvisata e prese tra le mani quella cosa. Sentii montare un conato di vomito e cercai di trattenerlo. «Puah! Che stai facendo?»
Anche per lei non doveva essere facile, quell'essere era molto viscido e tendeva a scivolarle di mano. «Sta' zitto altrimenti vomito.»
«Ma che vuoi fare?» urlai, come un disco rotto.
La vidi deporlo dentro la pentola. «Ma non serviva! Potevi lasciarlo fuori!» E aggiunsi: «Ora sporcherà tutto l'oro!»
Avevo dimenticato che avevamo intenzione di restituirla, che quell'oro non era nostro.
«Quello che ti ha aggredito era dentro la pentola» disse lei.
«E allora?»
Aveva qualcosa in mente, che non riuscivo a capire.
Sandra guardò l'oro che stringevo tra le mani con una strana espressione. «Non credo che quello sia oro, come dubito che questa sia una pentola.»
Sobbalzai. «Certo che è oro! Oro purissimo! Ne abbiamo venduto a chili di questa roba! Come puoi dire...»
«Sì, sì, è oro» ammise Sandra. «Non volevo dire questo.» Indicò l'oggetto per terra. «Però dubito che quella sia una pentola e che lo rigeneri.»
«Che vuol dire?»
«Vuol dire che lo produce quella cosa, ma non credo che ci sia nulla di magico in questo. E di certo non è oro.»
Non riuscivo più a seguirla, mi stava facendo impazzire.
«E cos'è allora?»
Apparve sul suo volto un sorriso malizioso che mi lasciò di sasso. «Secondo te? Cos'è che ogni essere vivente produce ogni giorno, incessantemente, per tutta la vita?»
«Essere vivente?» chiesi, ancora più confuso.
«Escrementi, mio caro! Quelli che tieni in mano sono i suoi escrementi!»
Scossi il capo. Che fossero escrementi poco mi importava, sempre di oro si trattava, e valeva una fortuna. Piuttosto era qualcos'altro che mi metteva in agitazione. «Hai detto essere vivente? Secondo te quella pentola è viva? Ma sono anni che è in nostro possesso e...»
«E non ce ne siamo accorti? Come avremmo potuto? Non era completa, ne mancava una parte.»
«Ma non possono essere... escrementi! Non mangia! Di cosa si sarebbe nutrita, in tutti questi anni?»
Il sorriso si spense per un attimo. «Qualcosa ha trovato, qualcosa che prima non c'era.»
Non riuscivo a capire. «Cosa?»
«Noi!» mormorò Sandra. «Non te ne sei accorto? Non hai notato come siamo cambiati da quando la possediamo? Cosa siamo diventati?»
«Lei... lei...»
«Non so di cosa si sia nutrita, ma qualcosa ci ha portato via. Non eravamo così una volta. Avidi, possessivi, meschini. È lei che ci ha fatto diventare così! Lei e quel maledetto oro!»
Era terribile quello che stava dicendo, eppure non potevo negare che fosse la verità. Ero cambiato, eravamo cambiati entrambi dal giorno in cui avevamo portato quella pentola nella fattoria. Era nostra, solo nostra. Avevamo paura che tutti volessero portarcela via. Ci eravamo chiusi al mondo intero, eravamo diventati prigionieri nella nostra stessa casa.
«Io l'ho ucciso...» mormorai.
Lei sospirò. «Dubito molto che tu ne sia capace. Non sapresti schiacciare una mosca. Li hai solo separati.»
Scossi il capo. «Non può essere ancora vivo, non è possibile.»
Lei sogghignò. «Vieni a vedere allora.»
Niente al mondo poteva costringermi ad avvicinarmi ancora a quella cosa, nonostante fossi ancora certo della sua dipartita. Sandra mi afferrò bruscamente per un braccio e mi tirò.
Stava accadendo qualcosa di strano dentro quella pentola. La luce aranciata sembrava sempre più luminosa e mi parve di vedere qualcosa muoversi all'interno. Quando apparvero due occhi gialli balzai indietro urlando. «È vivo! È vivo!»
Sandra non si scompose. «Te l'avevo detto. In fondo si comporta come una lumaca, solo che può staccarsi dal guscio, uscire fuori.»
Li avevo separati? Quello che credevo un folletto non era morto? Era entrato in... letargo?
«L'ho ucciso!» ripetei. «Non si muoveva più!»
Scosse il capo. «Forse non sei stato tu. Forse non possono allontanarsi più di tanto. Forse aveva disperatamente bisogno di rientrare e tu non gliel'hai permesso. Forse è questo che succede se vengono separati.»
«Ma cos'è?» gridai. «Che cos'è?»
Tornò un sorriso malizioso. «La pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno, no? Che altro potrebbe essere?»
Quasi richiamato dalle sue parole, apparve.
No, nessun mostro, ma un arcobaleno. Un arco perfetto che partì dalla pentola e si innalzò verso il cielo. Creò un cerchio risplendente dai molti colori ma non ricadde tanto lontano da noi, solo in un campo vicino.
Compresi. «Laggiù c'è l'altro? Quello che mi ha aggredito? Si è trasferito là? Come ha fatto?»
Un'immagine buffa e terrificante mi passò per la mente. Quella cosa, il folletto, che caricatosi la pentola in spalla, arrancava tra i campi. Fu subito sostituita da una ancor più disgustosa. E allora lo vidi strisciare per terra, come una lumaca, con la pentola incollata dietro di lui. Subito cercai di scacciare quelle immagini folli.
«L'altra» precisò Sandra.
«Eh? come fai a dirlo?»
Lei sogghignò. «Chiamalo intuito femminile.»
Ero ancora incredulo. Eppure nei cinque anni che l'avevamo tenuta noi la pentola non aveva mai prodotto alcun arcobaleno. «Comunicano? Dici che stanno comunicando? Tramite l'arcobaleno? È a questo che serve?» le chiesi, fiero di esserci arrivato.
Lei fece uno strano risolino. «Veramente credo che stiano scopando.»
Mi lasciò allibito.
Era un effetto stranissimo, guardare quell'arcobaleno. Mi faceva sentire diverso. Quella fame inesauribile che aveva dominato la mia vita finché ero stato il padrone della pentola, ora era scomparsa. Anche Sandra mi sembrava completamente diversa.
L'arcobaleno era bellissimo, i suoi colori sembravano danzare.
«Lasciamoli in pace» disse Sandra. «Diamo loro un po' di intimità. Penso che se la meritino, dopo tutti questi anni.»
E così tornammo a casa e... diamine, ci ritrovammo a letto, anche se era solo mattina. E fu una domenica indimenticabile, altro che pepite d'oro.
E i nostri folletti? Eccome se scopavano, scopavano come mandrilli, e in breve tempo intorno alla nostra fattoria fu tutto un arcobaleno. Ogni mattina ne contavamo qualcuno in più.
E io? Be', ora non ho più tanto tempo per andare a pescare. Del resto qualcuno doveva pur assumersi l'incombenza di tenere pulito, di liberare i campi da tutti quegli inutili escrementi!
FINE