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Hotel Byron
1.
Agata quando cammina muove bene il culo e il vestito, che le fascia il corpo, disegna una curva perfetta tra i fianchi e le cosce. Passando tra i tavoli del ristorante incontra lo sguardo di Giovanni, lo raggiunge, si piega e lo bacia su una guancia.
− Hai ordinato anche per me? − Certo! Sei in ritardo, tanto per cambiare. − Tira fuori dalla tasca un fazzoletto e se lo strofina sugli occhi piccoli e cisposi, poi su tutta la faccia. − Si può sapere dove sei stata tutto il giorno? Non ti sei degnata nemmeno di fare una telefonata. − Lo sai benissimo dove sono stata! Non ricominciare. Giovanni biascica rumoroso, rivoltando una tartina di salmone tra i denti larghi e ad Agata sale la nausea. − Puoi mangiare a bocca chiusa per favore? − Puoi finirla di scassarmi il cazzo per favore? − Non c’è che dire, sei proprio un gran signore… − Già, l’uomo giusto per te, vero? − Mi fai vomitare. − Oh! Mi perdoni signora contessa dei miei coglioni.
Agata potrebbe bere un sorso di vino, pulirsi la bocca, raccogliere la borsa e andare via. Lasciare lì quell’ammasso informe di grasso e prepotenza, liberarsi da tutto lo schifo che era diventata la sua vita. Via, senza sapere nemmeno dove, solo andare. Ricominciare a pensare. Vivere. Invece resta seduta.
− Cameriere! Allora queste due Amatriciane? − Eccole, sono pronte dottor Sallustio! − Vorrei anche la carta dei vini che io e la signora stasera abbiamo da festeggiare. − Certo, eccola! − Allora, contessa, scegli tu va! − Un Ribolla Gialla. − Ecco, vedi Anto’? La signora sa sempre ciò che vuole, portale ‘sto Ribolla Gialla, fai la cortesia, va! − Restano in silenzio finché il cameriere, con la bottiglia in mano, si avvicina. − Assaggia lei il vino, Madame? Lei fa sì con la testa.
− Va benissimo, grazie. – E lui, − Madame… − e riempie il bicchiere. − E’ di suo gradimento il vino, signora contessa? − La scimmiotta Sallustio. − Ma piantala, sei disgustoso! − Certo, certo, disgustoso, solo i miei soldi non ti disgustano mai. − Infatti, è solo per i tuoi soldi che resto seduta qui. − Sai che c’è, bella mia, ringrazia il fatto che c’hai un bel culo, altrimenti…
Il pianista suona summertime mentre Agata spizzica un rigatone ogni tanto e Giovanni, con la testa infilata nel piatto, la guarda. − Ma perché non mangi? Che fai, la dieta? − Non ho fame. Sto bene così. − Una volta mangiavi come un uomo, guardati ora come sei ridotta. − Una volta era tutto diverso, tu eri diverso. − Non cominciare con i piagnistei, smettila va, mi hai già stufato, ora ce ne andiamo.
2.
Agata muoveva bene il culo camminando sul marciapiede, lo lasciava ondeggiare in modo sfrontato, lo faceva di proposito, dondolando per la strada, così, per non passare inosservata. Una macchina si era affiancata, fuori dal finestrino aperto, solo un braccio. L’orologio era un Rolex. D’oro. − Prendiamo un caffè? − La voce profonda, sicura. Ma lei aveva continuato a camminare aumentando il passo sui tacchi alti. − Allora… ‘sto caffè? – Si era voltata. Lo sguardo gelido. − Ma come si permette? La voce tradiva una incertezza. − Sei bellissima, ecco come mi permetto. Aveva continuato a camminare senza dargli troppa importanza, anche se sapeva benissimo di aver bisogno di quel caffè. − Mi chiamo Giovanni, di solito… − Sì, conosco bene la storia, mi lasci in pace o chiamo… − Almeno il tuo nome, non chiedo molto in fondo.
Era lucida quella macchina. Una macchina di lusso. Agata amava le cose eleganti. Le aveva avute nella sua vita. Ma da quando era rimasta sola, non più. Lui era scomparso lasciandole un mare di debiti. Lui era unico. Un gran figlio di puttana.
L’uomo della macchina si era allontanato salutando con la mano dal finestrino. Lei aveva visto la camicia Oxford azzurra con i gemelli. Era ricco, lui, arrivato al momento giusto. Doveva giocarsela bene, fare tutto con attenzione, non cedere subito, tirarsela un po’, come non avesse bisogno di niente, come non ci fosse l’affitto da pagare, le bollette, il frigo vuoto. Così aveva continuato a camminare, sinuosa, conosceva bene quel gioco, seduzione, charme e poi tanta furbizia. La sua chance. Nessuna tristezza, un bel sorriso sicuro e soddisfatto come se tutto fosse perfetto nella sua vita.
− Eccoti qui! Ho parcheggiato la macchina, c’è un bar qui all’angolo, andiamo?
Giovanni era alto e grosso, come la sua voce. La trappola aveva funzionato, ora era necessario rilassarsi e regalare sorrisi. Tanti sorrisi. Il bar era di quelli che sembrano d’oro, con l’odore del caffè e della pasticceria. Si erano seduti fuori.
3.
− Dott. Sallustio buonasera! Ecco la sua chiave. Signora, buonasera! − Grazie Marce’, su andiamo e muovi quel culo, dài… − Eccomi, sto arrivando!
Arrivati nella stanza, Giovanni tira un calcio alla porta richiudendola con un gran boato. Agata cerca rifugio in bagno, giusto il tempo per togliersi gli orecchini, perché sa bene che tra poco inizierà la solita piazzata. Ma è tardi e, prima di rendersene conto, le arriva addosso qualcosa di pesante che la sbatte faccia a terra e la incastra con la testa tra il water e il bidet. Le brucia una guancia, stampate sopra le impronte delle dita di Giovanni. Deve alzarsi. Deve farlo subito.
− Sei ancora lì a terra, puttana! − La voce roca, rotta dall’alcol, rimbomba verso il televisore che Giovanni ha appena acceso a tutto volume. Agata tenta di alzarsi. − Contessa… permette? – L’afferra da dietro. − Ti ho vista sai, fare la stronza con il cameriere, a me non mi sfugge niente, dovresti saperlo! − Si avvicina minaccioso e lei si fa piccola piccola, aspettando il secondo colpo. Invece quello le sfila la pelliccia e la trascina fuori dal bagno, al centro della stanza. − Stasera te lo faccio vedere io a chi devi dare retta, stronza! − Sudato con la faccia infiammata si toglie la camicia e sbottona i pantaloni.
− Ecco, il tuo palcoscenico è pronto, signora contessa, spogliati ora… e fallo bene. − Si siede sul letto e con una mano inizia a pizzicarle le cosce sotto il vestito. Le fa male. Da morire. − Non mi spoglio stasera! – Gli dice tra le lacrime. − No? Ma guarda, bella, che io t’ammazzo, lo sai vero? Alza ancora una mano, minacciosa, ma lei questa volta resta immobile, impalata, sembra non respirare. − E’ finita Giovanni, stavolta me ne vado, davvero. − Lei se ne va! E dove di grazia? Posso sapere dove? − Non lo so dove, non è importante. − Da quel cameriere del cazzo, ci scommetto, sai? Che gusti, contessa! − Non vado da nessuno, solo vado via. Non riesce nemmeno a finire la frase che lo schiaffo la scaraventa sotto il comò, l’anello pesante sull’anulare di Giovanni le spacca un dente riempendole la bocca di sangue.
Agata conosce il sapore del sangue, ne succhia il gusto ferroso, lo tiene in bocca, è la sua urgenza, il rifugio nel quale riparare la paura, una droga che la stordisce e le dà forza. − Alzati che qui non incanti nessuno. Ho detto alzati, che stasera finisce male, hai capito? Ma lei non risponde, non reagisce, sa che opponendosi farebbe il suo gioco, la bestia ha bisogno di dominare, di esercitare una sorta di potere malato, ha bisogno di piegarla con violenza per eccitarsi. − Be’ che fai, non reagisci stronza?
Ferma, ogni parte del suo corpo ora pesa più di una tonnellata. La bocca di marmo non molla un respiro. E lui continua. − Guarda che stasera t’ammazzo, giuro che t’ammazzo. – Ma lei ha braccia dalla corteccia spessa, troppo dolore hanno già sopportato per cedere ancora una volta, è forte, tanto da non sentire più nemmeno i calci che le stanno spappolando i fianchi. Nessun dolore.
Giovanni passa una mano sulla fronte per asciugarsi il sudore, poi cambia tono, strategia, persino l’espressione della faccia. Piagnucola come un ragazzino e si inginocchia accanto a lei prendendole un polso. − Dài amore che così non mi diverto, lo sai… Amore mio, fammi giocare, non fare la stronza. Ma Agata non si muove, non sente, non vede, non dice nulla. Allora lui, infuriato, si alza di scatto e prende il telefono sul comodino accanto al letto. − Marcello? Vieni su un momento… subito!
4.
Marcello quando fa il turno di notte può riposare in una stanzetta dietro la reception dove sono sistemati una branda e un piccolo televisore in bianco e nero. Ha trentatre anni e da cinque lavora lì, nel centro di Roma. E’ un piccolo albergo di lusso per uomini facoltosi che cambiano compagnia spesso. Personaggi importanti che non possono permettersi scandali. Spesso capita che abbiano bisogno di lui, per le faccende più disparate e di questo fatto, Marcello, ne va fiero. Per esempio, qualche settimana prima, verso le tre di notte, il dottor Sallustio lo aveva chiamato chiedendogli aiuto, perché quella non si alzava più da terra. Così dopo un primo momento di confusione, lui aveva prontamente rintracciato il numero e chiamato un medico. In pochi minuti erano in ascensore. Stanza 215. Agata era sdraiata nel bagno, svenuta. Il medico, con delicatezza, le aveva sollevato la testa chiedendo un cuscino. Sallustio era seduto sulla poltrona a guardare la tv, e di quello che stava accadendo pareva non gliene fregasse niente. Quella donna era bellissima. Marcello aveva sognato di scoparsela così, svenuta, mentre il dottore la stava ancora medicando. Quando l’avevano sollevata per sistemarla sul letto, nuda, le sue braccia abbandonate l’avevano sfiorato proprio lì e il cazzo gli era diventato durissimo. Gli aveva sempre fatto quell’effetto, in qualunque modo. Sempre quell’effetto. Alle cinque, quando il medico se ne era andato, lei dormiva sul letto, la testa fasciata, la pancia e le cosce piene di graffi. Sallustio lo aveva ringraziato per il disturbo sganciandogli trecento euro e lui, il giorno dopo ci aveva comprato le lenti a contatto, una camicia e un paio di pantaloni nuovi.
Marcello voleva una vita diversa, un trapianto di capelli e un Rolex da tenere sul polso. Una bella macchina sportiva e l’attico, in centro. Aveva sempre sognato di essere uno dei clienti dell’albergo, accompagnato da donne eleganti, ogni sera una diversa, cena a lume di candela con ostriche e champagne e poi, come Sallustio, tutta la notte a scopare nella suite privata.
Invece lui: Buongiorno e buonasera, signore, ecco la sua chiave! Poco di più. Viveva ancora con sua madre in uno squallido appartamento al Casilino. Il tempo libero lo trascorreva a casa, da solo, disteso sul letto, in mutande, circondato da riviste pornografiche, fumetti e qualche giallo Mondadori. Se ne stava lì, a pensare a quanto è faticosa e complicata la vita, per non parlare delle donne. Spesso gli era capitato di sentirle mugolare da dietro le porte delle stanze, le aveva sentite implorare, gridare, sempre fantasticando di essere lì, cavalcare quei fianchi lisci, morbidi. Invece sapeva bene che non sarebbe mai stato all’altezza. Lui, il sesso, lo aveva sempre visto, ma fatto, solo poche volte in tutta la sua vita.
La prima era stata con Stefania. Una mattina, durante la ricreazione, quella lo aveva preso e portato dietro al giardino della scuola − Se non ci penso io a te! – Poi, col fagotto fra le mani, gli era scivolata fra le gambe. Marcello aveva sentito un gran calore in tutto il corpo e quando lei lo aveva preso fra le labbra, succhiato e solleticato con la punta della lingua, non era più riuscito a controllarsi e con uno schizzo gli era venuto in gola. − Quanto sei buono Marce’! − Gli aveva detto Stefania subito prima di alzarsi e tornare in classe. Lui era rimasto lì in piedi, con i pantaloni sbottonati e lo sguardo fisso. Nei giorni successivi era successo ancora, ma poi Stefania aveva preso a cuore Marco, e per lui non c’era stato più tempo.
5.
Marcello arriva sempre puntuale. Alle otto. Apre l’armadietto, si toglie la maglia e indossa la giacca. Blu, doppiopetto, con i bottoni dorati. Un’occhiata veloce allo specchio con il pettine in mano. Non c’è molto da sistemare, anzi, la peluria biondastra, dopo la pettinata e una passata di gel, si appiccica alla nuca peggiorando la situazione. Presto avrebbe fissato un appuntamento per l’impianto di capelli nuovi, appena fosse riuscito a mettere da parte i soldi necessari, quella era la sua priorità, un bel trapianto per sentirsi diverso.
Il raccoglitore con le prenotazioni da registrare è sotto il bancone e Marcello lo prende e inizia, con pazienza. Non sono poi molte, cinque in tutto, però bisogna fare la comunicazione al servizio di pulizia delle stanze, ripulire quelle che si sono liberate nel pomeriggio. Tutto un gioco di incastri. Tranne per la 215. Quella è la stanza del dott. Sallustio. Quella stanza non è mai libera, per nessuno.
Fuori, un brutto temporale. I tuoni rimbombano che sembra vogliano demolire l’intero stabile. A parte questo, una serata tranquilla. Niente da registrare.
Agata entra verso le undici, seguita da Sallustio che senza dire una parola, si avvicina a Marcello. Lui capisce che non è serata e lo anticipa. − Dottor Sallustio, buonasera, la sua chiave… Signora! − Grazie Marce’, dài su andiamo… e muovi quel culo, − Ecco, sto arrivando!
Proprio una serata di fuoco, pensa Marcello, lei, la faccia azzurrognola, sembra non stare bene, lui, ubriaco più del solito, caracolla verso l’ascensore. Meglio guardare la televisione. Il wrestling non lo interessa, ma c’è il fracasso giusto per non addormentarsi. Però si annoia, così prende uno dei suoi giornaletti da sotto il letto. Ce ne tiene solo due, per non dare troppo nell’occhio. Lo sfoglia distratto. Le luci sul display della reception si accendono e spengono come fosse un albero di natale, solo ogni tanto qualcuno chiama, ma per la maggior parte della notte, nessuno lo disturba. Gira le pagine fitte di corpi avviluppati, bocche rosse e mani vogliose, unghie lunghe e laccate. A volte gli sembra perfino di sentire i gemiti e che quegli sguardi ingordi siano lì a supplicarlo di fare qualcosa. Piano, lo trascinano dentro, in quelle atmosfere melense, così gli nasce la voglia di toccarsi, lentamente, pagina dopo pagina, dapprima quasi disgustato, poi sempre più coinvolto, fino ad arrivare a sbottonarsi i pantaloni, ficcarsi una mano dentro le mutande e massaggiarsi forte il cazzo. E se ne sta lì, con la bocca aperta e gli occhi fissi nel vuoto. Cadenzando il movimento. Su e giù, su… giù.
Il led rosso è acceso già da qualche secondo. Funziona così: prima la luce per evitare suoni molesti, poi il cicalino, fastidioso. Marcello sta ancora armeggiando con la mano fra le gambe, è vicino, eccitatissimo. Il cicalino insiste. Allora sbuffando si alza e da un’occhiata. La 215. − Marcello? Vieni su un momento… subito! − Certo… subito! Si chiude i pantaloni, sistemando a fatica un rigonfiamento imbarazzante che sorge all’altezza delle pences, ma può quasi essere sicuro che nel tragitto fino al secondo piano tutto si placherà, basta smettere di pensarci. Beve un sorso d’acqua e s’avvia. Il corridoio a quell’ora è silenzioso, la moquette attutisce i suoi passi, tanto che riesce anche a sentire il ronzio delle luci d’emergenza. Ancora qualche passo. Si ferma davanti alla porta. Stanza 215. Bussa.
6.
− Vieni, Marce’, entra! − La voce è strana. Marcello esita. − Ho detto, entra! Entra pure. – Ora il tono è il solito. − Eccomi dottore… Posso fare qualcosa? − La stanza è tutta in disordine. Agata è quel disordine, distesa a terra, sembra morta. − Oddio! Che è successo? − Niente, calmati, non è successo niente. Solo che la signora stasera fa i capricci. Tu mi capisci vero? Evidentemente ha bisogno di stimoli nuovi… Chiudi la porta, Marce’, chiudi bene.
Obbedisce e chiude. Sallustio è seduto sulla poltrona, guarda la tv, stessa scena di qualche sera prima. Nella stanza c’è odore di sangue, di sudore. Qualcosa che ricorda la paura. Agata da terra lo guarda spaventata, anche lui è spaventato, non riesce a muoversi, è come rallentato. Sallustio si alza, si avvicina, troppo, una zaffata di alcol rancido lo raggiunge in piena faccia. − Ti ricordi, Marce’, il discorso che facevamo qualche tempo fa? Te lo ricordi, vero?... Ecco, stasera, la stronza, non mi vuole fare contento. Allora mi sono detto, magari c’avrà voglia di qualcosa di nuovo. Anche a me succede sai? Hai visto ieri sera quella nuova, la rossa da sballo? Ecco, era meglio se chiamavo lei, che questa non è più buona per un cazzo.
Marcello non sa dove guardare, Agata è ferma a terra, gli occhi fissi sul soffitto, sbarrati. Giovanni con lo stomaco in fuori e le mani ai fianchi, continua a vaneggiare che è necessario fare qualcosa. Marcello sente quella voce come distorta, rimbomba nella stanza e poi diventa un ronzio, Poi lei gli chiede qualcosa, lo implora con gli occhi, ma lui è paralizzato, i piedi all’altezza della sua testa poggiata per terra, non riesce ad abituarsi all’odore che gli si sta appiccicando addosso. La guarda, il vestito si è strappato all’altezza di un seno e lo lascia uscire dal tessuto lacerato. Il capezzolo è scuro, dritto e tondo e lui non riesce a smettere di guardarlo. Non vuole, ma sente il bozzo dei pantaloni ingrandirsi. Si gira di spalle e, nello specchio sul comò, vede la sua faccia, la pelle del viso grigia e spessa, l’espressione degli occhi, lontana, vuota, subito dopo cattiva, come se avesse perso per sempre quella maschera di cortesia stampata sopra. Non capisce, si gira verso Giovanni che si accorge del cambiamento, ma continua a biascicare vomitando parole dalla bocca cadente, deformata dalla sbornia. − Dunque, dicevo… Siccome che la signora qui presente mi ha fatto girare ben bene i coglioni, stasera, visto che sono un signore, voglio farle una bella sorpresa… e anche a te. Marcello lo guarda, prigioniero di quelle parole. − Tirati giù i pantaloni Marce’… tanto tra uomini non ci si fa caso a certe cose, no? Poi lo sai che non ti chiedo niente gratis. Ti faccio un bel regalo stasera, Marce’, e tu ti ci fai una di quelle scopate che te le ricordi, ti ci lascio tremila… Anzi no, se la fai strillare, giuro che te ne lascio cinquemila. Cinquemila, Marce’, hai capito? Cos’è che volevi? Un bel parrucchino? Te ne compri due di parrucchini? Ci stai? Dài, comincia che io mi metto comodo, va’! Prima di sedersi si infila una mano nella tasca dei pantaloni e tira fuori il portafoglio, ha l’aria soddisfatta, quella del potere, della vittoria. Ha vinto e lo sa. − Ma che dice dottor Sallustio… Cos’è, uno scherzo? Ma la voce lo tradisce, Marcello ha capito benissimo. − Quale scherzo! Mica ti chiedo un lavoretto semplice sai? Già che è vecchia, poi, tu non lo puoi sapere, ma questa è pure frigida, quale scherzo! Io voglio che la fai godere, te l’ho detto voglio sentirla strillare di piacere, capito? Me la voglio gustare come non l’ho vista mai. Te la senti Marce’? Un giovanotto grande e grosso come te, mica c’ha problemi vero?
Sono due bestie che gesticolano con le mani sudate, e non lasciano dubbi, Marcello l’avrebbe picchiata fino a farle sputare la sua sottomissione, umiliata, finita senza fretta. Il disprezzo nel suo sguardo palpabile, come Agata fosse il nemico. Ma, inizia Giovanni, che la prende per i capelli tirandola su di peso, forte delle sue mani tozze. Lei è leggera che quasi vola sul letto, dove atterra senza rumore, incastrata con le braccia sotto la pancia, mentre Marcello, ancora stordito, lo guarda. Ne percepisce il respiro grasso e affaticato, come dopo una lunga corsa, lo guarda e sente di essere pronto, anche lui, pronto per la caccia e proprio in quel momento, Agata raccoglie le forze e cerca di divincolarsi, alza la testa, muove le braccia, può farcela, chiedere aiuto, gridare. Ma in un secondo Giovanni le monta sopra schiacciandola con prepotenza poi la immobilizza assicurandole un polso per volta alla sponda del letto, afferra un cuscino e glielo ficca sotto la pancia. Marcello è pronto, eccitato all’idea di tutti quei soldi e di quel culo aperto che si trova di fronte.
− Ancora non ti sei spogliato? E andiamo… − Giovanni rutta e ansima spostandosi non senza difficoltà dalla schiena di Agata che si gira, guarda Marcello e lo supplica di lasciarla stare, ma un altro cazzotto le arriva forte contro la nuca. Marcello capisce. È pronto. Vuole farselo presto quel trapianto, comprarsi qualcosa di bello e cambiare vita. Cinquemila euro. Cambiare vita. Ma non è tutto, quel culo tondo lo eccita, lo chiama, Agata è legata, a sua disposizione, così ce la può fare, con una donna legata, lui, ce la può anche fare. Il cazzo gli preme nei pantaloni, ha voglia di entrare lì dentro, fotterla fino a farla gridare, come Sallustio, un uomo vero.
Si spoglia mentre la guarda, piegata, lei non lo può vedere, ha la faccia spalmata sul materasso, le braccia aperte, il vestito sollevato sul sedere e le mutandine color avorio, di raso che non coprono più il sesso. Uno dei reggicalze, dello stesso colore è saltato via, l’altro le disegna una natica. Marcello si toglie i pantaloni, stordito da quei pensieri che stanno travolgendo ogni suo gesto. Non è più in sé, gli occhi sono diversi, l’espressione cattiva e vuota tradisce una determinazione violenta, un automa sotto controllo.
Giovanni, entusiasmato dall’aver provocato quel mutamento è come impazzito, galvanizzato persino nel tono della voce, che a tratti sembra quello di una donna isterica, e lo istiga. − Dài montala, fammi vedere se ho puntato sullo stallone giusto! − Scandisce ogni sillaba, ulula accompagnando i movimenti di Marcello, dapprima incerti, ma che secondo dopo secondo diventano più decisi e vigorosi. Puzzano di ferocia entrambi, inebriati dal sangue, e giocano a sbranare la loro preda. Giovanni lo perseguita e Marcello, le mani appoggiate ai fianchi di Agata, stringe, stringe fino a farle male, fino a ficcarle le unghie dentro la pelle viola. Quella cerca di gridare e lui, come ha visto fare in televisione, le infila mezzo lenzuolo nella bocca, poi Marcello non è più Marcello.
Poche ore prima ha consumato una romantica cenetta, ostriche e champagne, piano bar e candele, lei è splendida. Ancora più bella quando escono e lui la stringe porgendole la pelliccia. Fuori piove forte, per cui decidono di andare subito in albergo. Giovanni, il portiere di notte, gli fa un sorriso e, ossequioso come sempre, gli dà la sua chiave. Stanza 215. É la sua stanza quella. Entrano e la luce è forte, fortissima perché lo sanno tutti che Marcello scopa con la luce accesa. Nessuna ombra, così tiene tutto sotto controllo. Si toglie la camicia e poi lega Agata ben bene al letto. Già, perché a Marcello gli piace pure legarle le donne e maltrattarle, così godono di più. Questo sa. La immobilizza al letto, carponi, a faccia in giù. La troia. Lo fa perché non deve sapere dove le metterà le mani. La troia.
Marcello non è più Marcello, si rimette le mutande e versa del Whisky, lo manda giù tutto d’un fiato, poi non si sente bene. Il bicchiere cade a terra.
7.
Esce dalla 215. Si abbottona i pantaloni, infila la giacca e passa le mani sui capelli, poi prende l’ascensore. C’è un gran bel silenzio, lì. Torna nella sua stanza. La televisione ancora accesa che trasmette l’ultimo incontro di wrestling. C’è un ciccione biondo enorme che ne solleva uno altrettanto grosso ma senza capelli. Lo scaraventa in mezzo al pubblico che gridando va in estasi. Richiude con cura il giornaletto e lo nasconde bene, sotto il materasso. È stanco, spossato, si siede.
Dalla tasca dei pantaloni gli esce una mazzetta da cento euro. Marcello non ricorda di averli presi, non ricorda niente. Qualcuno deve averglieli messi in tasca. É stordito e gli gira la testa. Non si ricorda. Non vuole, ma non riesce a farne a meno. Quei maledetti incubi non se ne vanno, gli arrivavano addosso come secchiate d’acqua. Lo costringono a piegare la testa, dal dolore che provocano. Poi, di nuovo, un gran silenzio. É stanco. Esausto, come gli fosse passato sopra un autotreno, sente le braccia fargli male, fino alla punta delle dita e un odore strano, acido, penetrante, gli arrivava diretto dentro al naso. Un odore di cose ammuffite, di vecchio, di stantio. Ancora uno sguardo alla tv mentre il biondo tira una sedia al suo avversario, poi lo atterra e lo prende per la gola e stringe. Stringe forte.
Un sogno. Sì, è stato un sogno. Solo un brutto sogno. La mazzetta gli cade dalla tasca sul pavimento, la raccoglie e la getta sul letto, poi resta fermo, lo sguardo fisso su quegli strani fogli di carta colorata.
Il led rosso lampeggia, poi suona. Stanza 215. Marcello alza la cornetta, ma la voce non vuole uscire.
− Marce’, so’ io! Marce’ chiama subito il medico, anzi, no, senti a me, Marce’, fa’ ‘na cosa, fa’ ‘sto numero: zero, sei, sette, cinque, due… cinque, cinque. So’ amici miei, di’ che Sallustio ha bisogno di smaltire certa roba, loro lo sanno, Marce’, e dài Marce’ che non è successo niente, m’hai capito? Non è successo niente.
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