Saturday Night Queequeg
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Saturday Night Queequeg

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  1. Idrascanian
     
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    Vado con un racconto che ha già partecipato alla RR e al Circo Massimo. Modificato più volte, ma non mi soddisfa ancora del tutto. Datemi una mano! ;)


    Saturday Night Queequeg


    “E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo. Vi meravigliate dunque della caccia feroce?”

    da Moby Dick, capitolo XLII, La bianchezza della balena




    Stamattina il sindaco di Idrasca ha bussato alla massiccia porta in noce della mia cascina.
    «C’è una cosa che devi vedere, Cesco», ha sussurrato, e la sua faccia era così bianca che pareva uno straccio dimenticato nella candeggina. Appollaiato su una mountain bike malconcia, stringeva il manubrio tenendo gli occhi bassi.
    «Arrivo», ho detto, trangugiando i farinosi rimasugli di Maalox appiccicati alla lingua.
    Ho preso la bici e abbiamo affrontato l’asfalto ghiacciato di Via Rubattera fumando in silenzio.
    «Freddo, eh?» sono state le uniche parole pronunciate durante il tragitto.
    Siamo arrivati al Rio Torto dieci minuti dopo; una ventina di persone si aggiravano sulla riva, mani affondate nelle tasche e alito condensato a sottolineare la rigidità dei Giorni della Merla, il periodo più freddo dell’anno. Nessuno parlava, e considerando che almeno la metà dei presenti erano lingue calde, ho avvertito un brivido d’inquietudine.
    Ho lasciato cadere la bici su un letto di ortiche, sbuffando; tutti si sono girati, un movimento inquietantemente sincronizzato. Gli occhi dei presenti erano spalancati, i volti seri, di statue di santi in una chiesa gremita; in quell’attimo una parte remota della mia mente ha capito. E allora ho avuto la tentazione di inforcare la bici, tornarmene a casa e dare fondo alle riserve di Barbera.
    Poi Dessi, il macellaio del paese, si è avvicinato, gli occhi lucidi e le gote rosse. Mi ha posato una mano sulla spalla e ho sentito che tremava. Nell’altra, lorda di sangue, reggeva un coltellaccio.
    «Deve averlo ammazzato il freddo, o la fame», ha detto, stringendomi il braccio. «L’acqua è quasi tutta gelata, Cesco. Io… be’, l’ho aperto, quel bastardo. Dio lupo, Cesco, avevi ragione… Dio lupo, cazzo».
    La gente si è fatta da parte, dividendosi in due fazioni mormoranti, e ho visto.
    Ho visto la cosa adagiata sull’argine, il candido ventre squarciato, umido e rossastro come un’enorme vagina. Sono avanzato di qualche passo, barcollando, per poi cadere in ginocchio davanti alla massa puzzolente; ho scorto cosa conteneva quello stomaco maledetto e mi sono messo a urlare.
    Dicono che sono svenuto, che nel delirio ho invocato John Travolta, i Bee Gees e il capitano Ahab. Non so se sia vero. Ma è altamente probabile.


    Sto meglio, ora. Tanto vale che scriva, racconti la verità. Dopo stamattina, intendo.
    In passato mi sono limitato a narrare l’epilogo di quella notte folle, ma il poco che ho detto è stato sufficiente per guadagnarmi il titolo di sciroccato. Idrasca è piccola, la gente mormora. Negli anni successivi l’alcool non è stato d’aiuto alla mia reputazione; ma alcuni orrori non possono essere scacciati unicamente con le proprie forze.
    Qualcuno, all’epoca, aveva addirittura avanzato l’ipotesi che la mia storia non fosse altro che una montatura per nascondere l’omicidio di Antonio. Una questione di donne, dicevano. Cazzate. Tony non era solo un amico. È – era – l’unica persona che abbia mai amato. Ecco, questa è una cosa che non ho mai detto.
    Sono passati trent’anni, e sono stufo. Trent’anni equivalgono a un’eternità quando ogni dannata notte sogni una creatura mostruosa e bianchiccia che si dibatte nell’acqua torbida sulle note di Night Fever dei Bee Gees.


    Conobbi Antonio – detto Tony per la sua somiglianza col famoso Manero del film – una calda sera d’estate, alla discoteca Mitho di Torino.
    Attraversò la pista da ballo ancheggiando sulle note di Stayin’ Alive, mi guardò fisso e poi disse: «Lo sai che se ti fai crescere i baffi sei uguale al cantante dei Bee?»
    Era il ’78. Lo ricordo bene perché a marzo era uscito nelle sale La febbre del sabato sera, film incredibile che aveva scatenato una bagarre nelle discoteche di mezzo mondo. Una rivoluzione musicale e culturale che aveva trasformato i Bee Gees in divinità scese in terra per insegnare il verbo del falsetto e della disco-music.
    Tony conosceva tutti i passi di Travolta, era il suo mito; vestiva pantaloni a zampa talmente attillati sul pacco da farti spuntare tre pomi d’Adamo e le donne cadevano ai suoi piedi. Peccato fosse dell’altra sponda, come me. Lo capii subito, non appena incrociammo gli sguardi.
    Ballammo fino all’una, bevemmo e chiacchierammo, urlandoci nelle orecchie per sovrastare il rombo della musica. Era un tipo strano. Intelligente. Me ne innamorai quasi subito.
    «Di dove sei?» mi chiese.
    «Di Idrasca, tu?»
    «Io pure!»
    Rimasi sorpreso. Non l’avevo mai visto.
    «Mi sono trasferito un anno fa, non giro molto in paese», spiegò. «Mi fai compagnia? Una paglia e ti accompagno a casa».
    Accettai. Non andammo a casa, però. Tony mi portò in campagna, in quello che chiamava Il Bunker delle Mele Acerbe, un vecchio deposito abbandonato costruito dai nazisti durante l’occupazione di Idrasca. Lo chiamava così perché i meli che crescevano lì intorno davano frutti verdi e aspri.
    Facemmo l’amore in quel posto buio e pieno di macerie. Fu intenso. Romantico, in un certo modo.
    Dopo quella sera cominciammo a frequentarci; nascondevamo la nostra omosessualità, ovvio. Non come adesso, che i giraculo, come ci chiamavano, fanno parate e si sposano. Non riuscivo nemmeno a immaginare la reazione dei nostri genitori – e del paese – se ci avessero scoperto.
    Nonostante tutto, le cose giravano bene. Avevamo una bella compagnia, il sabato si andava in discoteca e i Bee Gees avevano quattro pezzi nella top-ten inglese. Con cinque avrebbero uguagliato i Beatles. Tony venerava il gruppo dei fratelli Gibb. Era fissato, almeno quanto lo era per la pesca.
    La domenica, se non eravamo troppo cotti dalla sera prima, andavamo al Rio Torto; lui costruiva le esche, leggeva Moby Dick e tiravamo su un bel po’ di pesci gatto e gamberi di fiume. Lila, il suo bastardino – oh, lo adorava – ci accompagnava sempre. Stavamo per ore seduti all’ombra dei pioppi con le canne in mano, bevendo birra, accompagnati dalle hit del momento intonate dalla radio portatile.
    Tony parlava spesso di Moby Dick, un libro che suo padre gli leggeva da piccolo. Potevo stare ore a sentirlo, mentre narrava le gesta del capitano Ahab e del Pequod, il sole che gli disegnava riflessi color petrolio sui capelli imbrillantinati.
    Le giornate trascorrevano liete, come si dice nelle fiabe; finché non cominciò la faccenda del Baffo.


    Il primo a vederlo fu Bastio, il meccanico del paese. Un disperato che stava mandando a puttane l’attività del padre per dedicarsi all’eroina.
    Quella sera tirava un vento caldo e ce ne stavamo sotto il gazebo del Tre Stelle, il bar di Idrasca, a far girare i dischi nel juke-box. Eravamo io, Tony e un altro paio di amici. Ricordo che discutevamo dei vestiti di Gloria Gaynor. Poi sentimmo Bastio gridare.
    Lo scortammo con lo sguardo mentre attraversava via Roma di corsa, agitando le mani nella nostra direzione.
    «Che cazzo ha visto?» chiese Tony.
    «Sarà andato al Rio Torto a farsi una pera», risposi.
    Bastio ci raggiunse. I suoi lineamenti erano stravolti; aveva ancora il laccio emostatico al braccio. «Ragazzi», biascicò, sputandosi sul mento. «C’è qualcosa nel fiume. Qualcosa di grosso!»
    Il tono della sua voce aveva una sfumatura femminea. Era isterico.
    «Cosa?»
    «Non lo so, non lo so», gridò. «Un affare bianco, enorme! Ha cercato di prendermi… e gli occhi. I suoi occhi!»
    «Allora, la finiamo di gridare», lo interruppe Remo, il barista. Conosceva le abitudini del meccanico e non voleva piantasse grane. Bucato di merda, lo chiamava.
    Comprammo due bottiglie di birra e portammo Bastio nella 500 di Tony. Cercammo di farci dire qualcosa in più, senza risultato. Era inebetito, sudava come un maiale e tremava; lo accompagnammo a casa e lo mettemmo a letto.
    «Deve smetterla di farsi», mormorò Tony.
    «Già», acconsentii, ma l’espressione negli occhi di Bastio continuava a tormentarmi; non ero sicuro che fosse del tutto attribuibile alla droga.


    Nei giorni seguenti le voci cominciarono a rincorrersi come un tam-tam. Alcuni contadini che possedevano orti adiacenti alle rive del fiume giuravano di aver visto il dorso di un pesce enorme, latteo, emergere dalle acque del canale. Una bestia albina e baffuta, un pesce gatto di dimensioni spropositate che di lì a poco fu soprannominato “Il Baffo.”
    Sparirono pulcini, galline, persino un maiale. Poi Magna Rita, la tabaccaia, che andava spesso a raccogliere le more nei dintorni del fiume, fu trovata morta di crepacuore incastrata sotto una roccia. I vecchi del paese sussurravano che nemmeno il medico era riuscito a sostenere lo sguardo vitreo dei suoi occhi sbarrati, la bocca deformata dal terrore. I capelli della donna, corvini, erano diventati bianchi come panna montata.
    Alla superstiziosa cittadinanza idraschese ci volle poco più di mezza giornata per costruire la leggenda: Il Baffo, l’immonda bestia cieca che sguazzava nel limo, aveva reclamato la prima vittima umana.
    Noi ridevamo di quelle dicerie. Una storia di paese, come le masche o gli Uomini di Polvere, elaborata dagli anziani per passare il tempo.
    Poi Lila, la cagnetta di Tony, che quand’era in calore era solita vagare per le campagne, sparì. Nessuno rideva più. Bastio ci guardava in silenzio, la pelle verdognola per l’eroina.
    «Là fuori c’è qualcosa», si limitava a dire.
    Cercammo il cane senza sosta. Il mio amico era fuori di sé; amava quella bestia, tanto che a volte, abbracciati nel buio del Bunker delle Mele Acerbe, avevo inscenato degli attacchi di gelosia… così, per ridere.
    Quando la trovammo, tre giorni dopo, mentre il sole precipitava dietro i pioppi, di Lila rimaneva un grumo di peli e frattaglie ricoperto da una sostanza viscosa e maleodorante. Al mercato, quando il pesce ha qualche giorno di troppo, si può sentire un odore simile. Lila sembrava… masticata. Riuscimmo a riconoscerla solo grazie al collare.
    Dovetti trascinare via Tony dalla riva del Rio Torto: gridava e piangeva come un bambino. Un comportamento da checca, penserete. Forse. Ma voi non avete visto com’era ridotta la povera bestiola.
    Sono convinto che quel pomeriggio nella testa di Tony si guastò qualcosa. Irreparabilmente. Aveva perso un pezzo, come Ahab. Per il capitano di Melville si trattava di una gamba, per lui di un cane. Non è che faccia poi grossa differenza.
    «Ti ammazzo, bastardo», ringhiò all’indirizzo del fiume, giurando vendetta e levando i pugni, il moccio che gli colava dal naso.
    Merda, in quel momento non somigliava più tanto a Manero.


    La sera dopo Tony non si presentò al bar. Andai a cercarlo a casa e la madre mi disse che era chiuso in garage dalla mattina. Stava costruendo qualcosa con gli attrezzi del padre.
    Raggiunsi il portone di lamiera e bussai piano; mi risposero le voci ovattate degli Earth Wind & Fire che cantavano Fantasy.
    «Apri, Tony», gridai.
    «Vattene».
    «Voglio starti vicino, dài. Mi spiace per Lila, ma senti…»
    «Vai via. Torna tra qualche giorno. Devo finire una cosa».
    «Sono preoccupato per te, Tony. Vuoi che ti aiuti?»
    «Non ce n’è bisogno».
    «Cassette dei Bee Gees ne hai?»
    «Ovvio».
    «Ok».
    Me ne andai, accompagnato dal suono di un flessibile e dalle sincopate armonie elettroniche della musica.


    Tornai tre giorni dopo. Quando Tony spalancò la porta, tutto nero in faccia e sudato marcio, gli saltai al collo e lo baciai. Poi vidi l’arma.
    «Cos’è quello?» chiesi, esterrefatto.
    «Questo? È un arpione. L’ho fatto io».
    L’oggetto, poggiato contro il muro, sembrava una lancia uscita dalla copertina di un vecchio romanzo fantasy di cattivo gusto. Misurava circa due metri ed era dotato di uncini ritorti che lo percorrevano fino al manico, su entrambi i lati. Trenta centimetri sopra la punta aguzza e lucente erano situati quattro arnesi, da cui dipartivano altrettanti fili che si congiungevano in una treccia; ricordavano delle maracas.
    «E quelle?» indicai.
    Le labbra carnose di Tony si allargarono in un sorriso da mentecatto.
    «Sono granate, Cesco», disse con aria trionfale. «Erano nel bunker, sotto le macerie. Stielhandgranate, tedesche. Tiri il filo, salta l’anello collegato all’acciarino e parte l’innesco. Dopo quattro secondi… bum!» Nei suoi occhi, intrappolati nel volto smagrito, brillava una luce folle.
    «Vuoi… vuoi dire che abbiamo scopato su delle granate?» chiesi. Tony esplose in una risata catarrosa.
    «Ma no, le ha trovate mio padre qualche tempo fa!»
    «Senti, non so cosa tu abbia in testa. Il cane… non possiamo essere sicuri che sia stata quella cosa. Ne ridevamo, ricordi? E…»
    «Penso sia un siluro», m’interruppe, continuando a fissare l’arpione.
    «Un cosa?»
    «Un pesce siluro. Li hanno introdotti in Italia i gestori di laghetti artificiali per la pesca sportiva. Poi, quando hanno scoperto che quei bastardi si mangiavano tutto, anche gli altri pesci, li hanno liberati nei fiumi e si sono riprodotti. È una specie dell’Europa Orientale, molto resistente. Non ha squame, solo una pellaccia bruna ricoperta di muco. L’ho letto».
    «Ma… scusa, questa cosa che dicono si aggiri nel Rio Torto non è bianca?»
    «Sì, così pare. Ma sai cosa penso? Questo non è un pesce normale. Sono successe cose strane negli ultimi tempi, non trovi? Sembra quasi un’incarnazione del Leviatano, come in Moby Dick, la Balena Bianca. Solo che questo è Il Baffo, il Siluro Bianco. Una sorta di flagello divino mandato in terra per punirci. Come il Kraken, o… le chimere, o le emorroidi».
    «Parli sul serio? E cosa dovrebbe punire, qui a Idrasca, che non c’è un cazzo?»
    «Non lo so. Forse noi. Che perpetriamo le usanze di Sodoma, beviamo troppo e ascoltiamo la disco. Ma Lila non si meritava di passare nella bocca del mostro. Era un bravo cane». Gli occhi di Tony brillavano di lacrime. Fece roteare l’arpione e lo piazzò sotto la luce del neon. Sul manico c’era incisa una scritta sbilenca, nella sua calligrafia.

    SATURDAY NIGHT QUEEQUEG



    «Sai chi è Queequeg?» continuò, il volto sformato dalla rabbia. «È il primo arpioniere del Pequod, la nave di Ahab. Il mio personaggio preferito del romanzo. Suona bene, non trovi? Bee Gees più Melville. Non possiamo fallire».
    «Tu sei fuori. Sei sconvolto e…»
    «Senti, non mi interessa cosa pensi. Sabato sera diventerò Queequeg. Prendo la barchetta di mio zio e vado a far saltare Il Baffo. Vuoi essere Tashtego, il secondo arpioniere? Ho bisogno di qualcuno che attivi l’innesco».
    «D’accordo», risposi, senza indugiare. Era folle, assurdo, fuori da ogni logica. Ma l’amavo, Cristo.
    Uscimmo dal garage, abbracciati; i Bee Gees gracchiavano How Deep is Your Love.
    «Senti, ma...» chiesi, titubante, «se io e te siamo i due arpionieri, chi è Ahab?»
    «Ahab è sua santità John Travolta, checcazzo!»
    Scoppiammo a ridere. Mi sembrava di vivere un sogno.


    Sabato pomeriggio ci amammo nel bunker con un’intensità travolgente. Poi, al crepuscolo, trascinammo fuori dal garage la barchetta che Tony si era fatto prestare dallo zio e la caricammo sul portapacchi della 500. Sulla fiancata dell’imbarcazione aveva scritto Pequod con della vernice bianca.
    Arrivammo al fiume. Mentre trascinavamo la barca sulla strada sterrata per raggiungere l’acqua, la luna era un volto giallastro che ammiccava tra i pioppeti. Immaginai il nostro satellite guardarci e ghignare; Tony sfoggiava il suo completo da Manero, un’imitazione perfetta del costume di Travolta ne La febbre del sabato sera. Vestito con gilet bianco e camicia nera sbottonata sul petto. Potevo sentire il puzzo dolciastro della brillantina. Io, invece, indossavo una mimetica. Antonio reggeva il suo arpione esplosivo con lo sguardo fiero di San Giorgio prima di affrontare il drago. Nella penombra la scritta SATURDAY NIGHT QUEEQUEG riluceva di un bagliore spettrale.
    «È una follia, lo sai?» dissi.
    «No. È una vendetta», replicò Tony lasciando cadere la prua della barchetta nell’acqua. Poi salimmo a bordo, non prima di aver piazzato sul fondo la radio con la colonna sonora di Saturday Night Fever.
    Iniziai a remare. Le ombre dei rovi disegnavano matasse aliene sulla superficie appena increspata dell’acqua. Regnava un silenzio assoluto; cercando di scacciare il pensiero che fosse la calma prima della tempesta, mi concentrai sull’arma artigianale di Tony, che se ne stava ritto a prua scrutando il fiume.
    Giungemmo in una piccola insenatura dove ci piazzavamo spesso per pescare; lì Lila ci aveva fatto ridere, tuffandosi sott’acqua per inseguire un gambero. Tony ricordò quel momento.
    «Era un bravo cane».
    L’umidità cominciò a salire dalle acque in spire vaporose. Tony afferrò una busta dal fondo della barca e me la porse.
    «Non remare più. Butta questi in acqua».
    «Cos’è?»
    «Per attirare Il Baffo», mormorò, sgranando gli occhi iniettati di sangue.
    Quando aprii la sporta di nylon un odore nauseabondo mi assalì le narici. Era una mistura di pulcini morti, sardine e avanzi di cucina.
    «Che schifo!» protestai.
    «Non mollarmi ora, Tashtego. È il tuo momento».
    Combattendo il disgusto, cominciai a buttare la poltiglia fetida nell’acqua; non so quanto tempo trascorse, ma mi parvero secoli. Eravamo soli, circondati dalle canne e dalle ortiche che si piegavano su di noi come officianti di una messa funebre. Avevo paura. Poi, all’improvviso, cominciò il gorgoglio.
    È difficile trovare le parole per descriverlo. Se avete mai provato a urlare sott’acqua potete farvi un’idea di ciò che udimmo.
    «Ci siamo», esclamò Tony, sorridendo. «Prendi il filo degli inneschi!»
    Afferrai il cavo; guardando l’acqua notai con sorpresa che il pasturaggio era sparito. Stentavo a credere che fosse opera del Baffo.
    Finché non emerse.
    A circa quattro metri da noi, sotto un salice piangente, il fiume si aprì. L’acqua parve ritrarsi di fronte all’enormità della cosa che affiorava dal fondale. Era il dorso di un pesce, senza dubbio, ma sfidava ogni classificazione. Era di un bianco impossibile da descrivere, assoluto, come neve di montagna battuta dallo spietato sole di mezzogiorno.
    «Oh merda», sussurrai.
    «Si balla!» sbraitò Tony, accendendo la radio. Le note di Night Fever rimbalzarono sul fiume in un cantico strambo.
    Il Baffo attaccò.
    Lo vidi sfrecciare sotto il pelo dell’acqua, avvolto da un lucore malevolo, innaturale. Puntò dritto verso il Pequod.
    «Vai, innesca!»
    Tirai il filo delle Stielhandgranate e udii uno sfiato, come un peto a malapena contenuto. Capii che le bombe avrebbero fatto cilecca e guardai Tony con l’arpione levato sopra la testa e il dito indice puntato verso il cielo a imitare Travolta. Era bellissimo.
    «Questo è per Lila, figlio di troia!»
    Un attimo dopo la barca si ribaltò e finimmo in acqua. Annaspai per il gelo. Qualcosa mi sfiorò il viso, delle corde dure e urticanti. I baffi del Baffo.
    Sbarrai gli occhi sott’acqua; la visione, confusa a causa del fiume torbido, durò una manciata di secondi, ma fu sufficiente.
    Vidi una testa simile a quella di un pesce gatto, di dimensioni elefantine, dotata di occhi enormi e umani. Dalla bocca serrata, sorniona, spuntava una mano. La mano reggeva un arpione. Poi la mano scomparve in un botro nero, seguita dall’arma.
    Mi trovarono la mattina sull’argine, sotto shock, con tanta acqua nei polmoni da poterci riempire un acquario.
    Quella notte, mentre la bestia ingoiava Tony, i Bee Gees piazzarono il loro quinto singolo nella top-ten inglese. Da allora, giuro, non ho mai più ascoltato un loro pezzo.


    Ecco, finito. Stamattina, quando ho visto Il Baffo arenato sulla sponda del fiume e l’arpione con su scritto SATURDAY NIGHT QUEEQUEG che spuntava dal suo ventre molle, tutti questi ricordi sono riaffiorati come cadaveri dopo un’alluvione.
    Non credo che quella cosa sia morta, però. Non la sua essenza: è morto il pesce, ma il Leviatano, il Flagello, si è solo trasferito, incarnato in un’altra bestia.
    Magari, tra qualche tempo, i vecchi di Idrasca cominceranno a parlare di un enorme airone dal piumaggio immacolato che può sollevare pecore e vacche tra i suoi artigli, o di una talpa albina che scava sotto le case per portare via i bimbi dai letti.
    Prima che accada andrò al Bunker delle Mele Acerbe e ascolterò un’ultima volta Night Fever, sorseggiando Barbera; poi mi pianterò una fucilata in testa.
    Spero, una volta dall’altra parte – qualunque cosa significhi – che Tony sia lì ad attendermi, il gilet da Manero, un dito puntato verso le stelle e i capelli unti di brillantina.
     
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