Riti di passaggio
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Riti di passaggio

di Nicola Roserba - Fantastico - 40000 battute

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  1. shivan01
     
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    Riti di passaggio




    Un grumo di tetti incastrato nel fondo di una gola profonda. A vederlo, mi avevano detto, sembrava una macchia scura nella boscaglia. Niente più di quello. Poche case, e poco da dirci sopra.
    Ci ero voluta andare lo stesso, comunque, per cercare qualche storia nascosta, qualche brandello di vita antica che i giornali non raccontano.
    Ero giovane, allora. Scribacchina alle prime armi in un mondo di uomini. Un mestiere maschile, quello del reporter, soprattutto a quei tempi.
    La carrozza procedeva sballottandomi senza riguardi. Il conducente mi aveva detto che ci avremmo messo due ore, o poco più, a raggiungere Valcanale di Sotto, in mezzo alla terra di nessuno tra il bergamasco e il confine svizzero.

    «Maria, se proprio ci vuoi andare, fai pure...» aveva concluso sprezzante il capo redazione. Un idiota, o forse solo un maschio. Avevo letto di alcune leggende sui paesi di questa zona, e volevo costruirci su un pezzo. D’altra parte non avevo trovato ancora un modo per farmi rispettare in redazione, e più di qualche articoletto rosa non avevo mai avuto l’occasione di scrivere. Cercarsi una storia strana era un trucco come un altro, e nemmeno troppo geniale, di uscire dal circolo vizioso in cui ero caduta.

    «Eccolo!» mi gridò il conducente, e mi sporsi dal finestrino della vettura.
    Nelle prime ombre della sera, le casupole emergevano a fatica dal grigiore. Non scorsi luci, e mi preoccupai un po’. La carrozza mi avrebbe lasciato lì e sarebbe tornata subito indietro. Avevo obiettato che non aveva senso, visto che saremmo arrivati a sera, ma il cocchiere non ci aveva voluto sentire, né aveva fornito alcuna spiegazione per quella scelta inconsueta.
    «Mi lasci alla locanda, per favore!» gridai all’uomo. Non ricevetti cenni di assenso, mi parve. Sedetti di nuovo nell’abitacolo e trassi un profondo sospiro, come per soffocare il nervosismo che montava in me.
    Ma chi me l’ha fatto fare? mi ripeteva la mia parte razionale, quella che non era propensa a rischiare, quella per cui il bicchiere era sempre mezzo pieno. Sei una stupida, Maria! Sempre a cercare modi di metterti in mostra? E se non fossi quel mostro di bravura che pensi di essere? Se fossi una normale, una che dovrebbe anche ringraziare per quello che ha?
    La mia solita vocina, unico vero contraltare alle mie ambizioni giovanili. Nessuno dei miei conoscenti, nemmeno mio padre o Daniele, che sarebbe dovuto divenire mio marito, osavano tanto. Scontrarsi con il mio muro di mattoni un paio di volte era bastato loro e si limitavano, qualora avessero da obiettare, a flebili mugugni dei quali – se chiedevo se avessero qualcosa da dire – negavano anche l’esistenza.
    Ero cocciuta, sì. E allora? Preferivo tenace, a cocciuta. Questione di termini. Il risultato non cambiava mai. Quello che volevo fare, io lo facevo. Sempre. Ed eccomi qui, all’imbrunire, in mezzo al nulla, la schiena a pezzi a causa di due ore e più di massaggio in carrozza, davanti a me una settimana nel medioevo. E solo un appuntamento di massima per la domenica per tornare alla civiltà milanese.

    La vettura aveva imboccato un viale che filava dritto verso l’abitato. Sullo sfondo, i tetti della case graffiavano il blu scuro del cielo che veniva giù, incastrato tra le alte montagne, come una gigantesca vu.
    Un piccolo lume bagnava la parete esterna di quella che pareva una locanda. Una macchia di luce che mi rincuorò. Mi sentii attratta da essa, e gridai al conducente di dirigere là. Ancora una volta, nessun cenno da lui. Rimasi un attimo con la testa fuori dalla carrozza, a osservare. La scena avrebbe ispirato Magritte per il suo Impero delle Luci, se il pittore non avesse avuto che dieci anni, al tempo.

    Ci fermammo proprio davanti al lampioncino. Sopra una porta di legno antico, un’insegna dipinta a mano e sbiadita dagli anni diceva solo “Locanda” e un segno, un simbolo, forse, che non avevo mai visto, una specie di arabesco sinuoso. L’aspetto del luogo non era molto invitante, ma avevo già compreso che avrei dovuto adattarmi. Il cocchiere era sceso in fretta e con altrettanta celerità aveva scaricato le mie valigie. Le depositò davanti alla porticina e poi si volse a salutarmi. «Allora, signora, ci vediamo tra una settimana. Arriverò di primo pomeriggio, d’accordo?»
    Doveva presumere che lo fossi per forza, perché mi trovai a rispondere «Certamente!» che lui era già risalito in carrozza e si apprestava a ripartire. Stavolta il cenno di assenso lo ottenni, perlomeno, un attimo prima che l’uomo sparisse nell’oscurità sempre più fitta.

    Sola, mi volsi a guardare la porta chiusa, perplessa del fatto che nessuno fosse uscito a vedere cosa stesse accadendo, eppure dovevano aver sentito il mio arrivo. Bussai sul legno nudo. Una volta. Due. Poi sentii dei passi strascicati all’interno. Sembrarono secondi infiniti, poi l’uscio si aprì lentamente.
    Quello che vidi mi sorprese, perché fu il volto di un ragazzino. Non doveva avere più di dieci anni. Mi sorrideva senza parlare. Un cespuglio ribelle di capelli castani incorniciava un viso magro e due occhi strani.
    «Ciao! Come ti chiami?»
    «Narciso. E lei, bella signora?» il bambino non dava cenno di farsi da parte per farmi entrare.
    «Maria Bergamini. Questa è una locanda?»
    «Sì signora. E cosa è venuta a fare qui?»
    Sempre più perplessa, risposi nel modo più cortese che mi riuscì: «Pensavo di fermarmi qualche giorno...»
    Il sorriso di Narciso si allargò: «Magnifico!» Aveva denti perfetti. Troppo, per un montanaro, seppur così giovane. «E per quale motivo ha scelto Valcanale di Sotto? Villeggiatura?»
    Mi spazientii. Sempre il mio caratteraccio. «Senti, ragazzino, se questa è una locanda, allora vorrei una stanza, se ce ne sono. E penso che ne abbiate, no?»
    «Oh, certo! Mi voglia scusare!» rispose lui, come scuotendosi d’improvviso, e si fece da parte in fretta. Intravidi all’interno un ambiente avvolto nell’oscurità. Vedendo che non mi decidevo a entrare, aggiunse: «Mi scusi ancora!» Sparì all’interno per pochi attimi, e poi un chiarore giallognolo si diffuse nell’ambiente. Narciso si precipitò a prendere le mie valige e fece strada all’interno.
    Alla luce della lampada a olio appena accesa, esaminai l’interno. C’erano due o tre tavoli, e un bancone dietro al quale non vedevo più di un paio di bottiglie contenenti del liquido chiaro.
    «Amelia!» chiamò Narciso. «Amelia!»
    Ero ancora sulla porta, indecisa, lo ammetto, sul fatto di entrare o no in quella topaia, quando udii uno scalpiccio, come di ciabatte su una rampa di scale, e vidi comparire una donna. Poteva avere quarant’anni come trenta o sessanta, non seppi decidermi. Vestiva in modo semplice e teneva i capelli, di un colore indefinibile, accrocchiati in una cipolla malmessa. Mi tese una mano gelida. Rabbrividii nello stringerla. Era minuta, ma con una strana forza che non le avrei attribuito.
    «Buonasera, signora...»
    «Buonasera a lei, signora Bergamini. Prego, si accomodi.»
    Guardai Narciso dileguarsi nell’ombra e, perplessa, le chiesi: «Come fa a sapere come mi chiamo?» La donna sorrise: «L’ho sentita quando lo diceva a Narciso. Sa, qui c’è molto silenzio.»
    Non mi sembrava di aver urlato, ma preferii lasciar perdere. In fondo, quelle due persone non sembravano pericolose. Entrai e sedetti su una sedia che Amelia mi aveva indicato. Lei mi raggiunse dopo pochi attimi reggendo una caraffa e una tazza. «Ecco, beva,» disse versando dell’acqua, «deve essere assetata.»
    Bevvi un goccio. La bevanda aveva un saporaccio stantio, ma non feci commenti.
    La donna sedette davanti a me e mi fissò silenziosa per un attimo. I suoi occhi brillavano nella penombra. Stavo per rompere il ghiaccio quando lo fece lei. «Narciso le aveva chiesto il perché della sua visita, signora Bergamini. Mi dica di più.»
    Non capivo cosa le dovesse interessare dei miei scopi, ma mi morsi la lingua. Nella realtà cittadina da cui provenivo, si è tutti ombre e nessuno si cura del prossimo. È facile essere anonimi. Quella gente non doveva aver visto facce nuove da chissà quanto tempo e la curiosità era più che prevedibile, se non perfino lecita.
    Abbozzai una risposta: «Sono una giornalista. Sto preparando un reportage sui costumi e la vita in campagna nell’alta Lombardia. Ho pensato di venire qui perché...» cercai una locuzione che non risultasse offensiva, «... il vostro paese è molto appartato. Spero così di trovare storie interessanti. Sa, in città è tutto diverso.»
    Amelia si appoggiò allo schienale della sedia e mi offrì un sorriso lieve. «Capisco. E cosa pensa di trovare di preciso?»
    «In realtà non lo so. Credo che di cose da raccontare ne abbiate, no?»
    «Oh sì, ma dipende dal tipo di storie che si aspetta, signora Bergamini.»
    Stavo riflettendo su quella strana risposta quando la donna si alzò, prese la lampada che aveva acceso Narciso e mi invitò a seguirla. «Venga, le mostro la sua stanza.» Trasportava le valige senza apparente fatica.
    Mi alzai e la seguii riluttante. «Non avete qualcosa da mangiare?»
    «Noi abbiamo già mangiato, mi spiace. Organizzerò qualcosa per domani», rispose lei senza voltarsi mentre imboccava una rampa di scale dall’aspetto malfermo.
    La salita terminava in uno stretto corridoio. La luce ondeggiante della lampada colorava di giallo muri scrostati e poche porte dall’aspetto instabile. Amelia mi guidò verso quella in fondo, e l’aprì. L’uscio emise un cigolio stridulo. La donna entrò e posò il lume su un comò. La seguii nella stanza. Era spoglia all’inverosimile. Un letto di legno grezzo, un armadio, una poltroncina. Una finestra con gli scuri serrati. E una gran puzza di chiuso.
    Amelia posò i bagagli a terra. «Eccoci qua, per stasera dovrà adattarsi, signora. Domani rassetterò la stanza. Buonanotte!» fece la donna e uscì con un sorriso che alla luce della lampada mi sembrò di pura circostanza. E qualcos’altro.
    Accostai la porta constatando che non c’erano chiavistelli o serrature. Non potevo chiudermi dentro. Un nervosismo strano, in quel silenzio melmoso, cresceva in me, ma mi detti della stupida. Sedetti sul letto e mi imposi di calmarmi. Mi sdraiai sulle coperte. Il forte odore di polvere smossa che salì dalle coltri mi fece arricciare il naso.
    Ascoltai. Non udii nulla per minuti, poi qualche flebile scalpiccio si insinuò tra gli scuri della finestra. Sommesso, leggero. Forse un animale, ma non potevo esserne certa. Dall’interno della locanda, nulla. Amelia e Narciso dovevano essersi dileguati, o erano capaci di muoversi molto silenziosamente. Sospirai. La notte sarebbe stata lunga.

    Lo fu davvero. Non chiusi occhio e rimasi in ascolto fin quasi al mattino, come se mi aspettassi che qualcuno facesse irruzione nella stanza da un momento all’altro. Ma non venne nessuno, ovviamente. Mi detti della paurosa per la centesima volta e mi alzai al primo barbaglio di chiarore che filtrò dalla finestra.
    La aprii, e una luce tenue illuminò il locale. Il paesaggio raccontava di un borgo che pareva addormentato, avvolto in una foschia umida e fredda. In alto, i raggi del sole bagnavano le cime delle montagne. Sorrisi. Come sempre accade, il giorno aveva spazzato via le paure della notte, perché nulla di tenebroso, o misterioso, mi era apparso davanti. Un piccolo mucchietto di misere case e niente più.
    Non vidi nessuno in giro e la cosa mi sembrò strana, perché pensavo che la giornata, a Valcanale di Sotto come in tutte le comunità rurali, cominciasse all’alba.
    Mi vestii rapidamente e scesi al piano terreno. Incontrai quasi subito Amelia che stava sistemando la sala. Mi sorrise, e alla luce del giorno notai il suo pallore che la notte prima era rimasto nascosto dalla penombra.
    «Buongiorno!» esclamai.
    «Buongiorno a lei, signora Bergamini!» mi rispose con un sorriso sfavillante.
    Sedetti al tavolo della sera precedente, in un chiaro invito a farmi servire una colazione. Ero affamata, avendo saltato la cena. La donna si avvicinò asciugandosi le mani nel grembiule liso che portava sopra il vestito di cotone. Faceva abbastanza freddo, e le chiesi se non ne avesse anche lei nel portare quell’abito leggero. «No, no. Siamo abituati.» Lanciai un’occhiata al camino, e constatai che doveva essere rimasto spento molto a lungo.
    «Vorrei un tè e qualcosa da mangiare, per favore», chiesi.
    «Ho solo delle uova, se per lei va bene.»
    Annuii incerta. Ero abituata a una fetta di torta o qualcos’altro di più mattutino, per colazione, ma avevo già intuito che mi sarei dovuta accontentare di quello che avrei trovato - e non credevo che sarebbe stato molto - per tutto il tempo in cui sarei rimasta lì.
    Fui servita in pochi minuti. Stavo mangiando lentamente, pensando al da farsi della giornata, quando la porta della locanda si aprì ed entrò un uomo portando con sé un sospiro di aria gelata. Rabbrividii.
    Era giovane, non più di vent’anni. Capelli biondi legati in una lunga coda, un gilet marroncino su una camicia bianca con maniche a sbuffo, di foggia antiquata. Calzoni alla zuava e un portamento sicuro. Mi lanciò un’occhiata accompagnata da un cenno di saluto col capo e si diresse verso il bancone, dove Amelia stava preparando dell’altro tè.
    Seguii la scena con la coda dell’occhio e li vidi parlottare per un attimo, poi il ragazzo venne verso di me. Si fermò davanti al mio tavolo e dovetti alzare gli occhi fingendo di essermi accorta di lui solo in quel momento. Sorrideva radioso.
    «Permette?» chiese indicando la sedia. Annuii, pensando di aver già trovato il giullare del paese.
    Sedette composto e, senza smettere di sorridere, disse: «Mi chiamo Samuele, mia signora. Madonna Amelia mi disse che la signoria vostra è qui per affari.»
    Tentai con tutte le mie forze di non sbottare a ridere per quel modo assurdo di parlare, e arrabattai un «Sì.»
    «Ciò mi rallegra, madama Bergamini. Permettetemi di farvi da guida e mentore in questo vostro sforzo!» disse lui, garrulo.
    Resistetti, a fatica. «La ringrazio, signor Samuele. Samuele cosa, poi?»
    «Solo Samuele per lei, mia signora.»
    Non ce la feci più. «La prego, non mi chiami mia signora. Se lei è Samuele, allora io sono Maria, va bene?»
    Alzò le mani: «Oh no! Sarebbe troppo onore!»
    «Mi scusi, ma mi sta prendendo in giro?» sbottai seccata.
    «Oh! Non potrei mai! Mi voglia perdonare! Me lo chiede per il mio modo di parlare?» Sembrava davvero contrito.
    «Non le pare che sia un tantino inusuale?»
    «Me ne rendo conto, e me ne dispiaccio, mia... madama... Maria. Mi perdoni.»
    Decisi che non stava scherzando, e mi venne da ridere a quella sua goffaggine. Con ogni probabilità, non parlava con una donna sconosciuta da molto tempo.
    «Non si preoccupi, signor Samuele. E comunque sì, sono qui per lavoro. Sono una giornalista e cerco storie da raccontare. Storie diverse dal solito.»
    Lui parve riaversi: «Qui non troverà molto, temo, Maria. Siamo gente semplice.»
    Questo è più che ovvio, stavo per rispondergli, ma preferii mettermi subito all’opera. «Quanta gente abita a Valcanale di Sotto?»
    «Poche decine, ormai, signora.»
    Richiamai alla mente l’immagine del paesello che avevo visto dalla finestra della camera. La maggior parte delle case doveva essere disabitata. Glielo chiesi.
    «Invero sì, ahimé, siamo rimasti in pochi.» Una frase da anziano, non da giovane ventenne come lui.
    «Lei perché è qui, Samuele?»
    «E dove potrei andare? Qui c’è la mia gente. Sono qui da sempre.»
    «Beh, non devi avere più di venticinque anni, non è così?»
    Sorrise. «Più o meno.»
    «Non è un po’ presto per rassegnarsi, Samuele?»
    «Presto, tardi. Dipende dalle prospettive. Quant’è lungo un giorno, Maria?»
    «Come?»
    «Quant’è lungo un giorno?»
    Non capivo la domanda. «Ventiquattro ore», tentai.
    «Non le ho chiesto questo, mia signora, le ho chiesto quant’è lungo un giorno. O potrei chiederle quant’è lunga una vita. Sarebbe lo stesso.»
    «Non capisco...» mi arresi.
    «Eppure è semplice, se ci pensa. Una vita è lunga o breve, dipende da come si usa il tempo che si ha a disposizione.»
    «Uno strano indovinello», mormorai perplessa. Non vedevo il nesso.
    «Chiamiamolo pure così», rispose lui scacciando il pensiero con un gesto della mano. Poi parve scuotersi: «Cosa ne dice se le faccio fare un giro del paese?»
    Annuii sollevata. La conversazione aveva preso una piega strana, e non mi piaceva.

    Passeggiavamo per i viottoli del borgo. Vidi non più di due o tre persone in giro. Un uomo indaffarato nella stalla a fianco alla sua abitazione, una ragazza molto giovane che mi sorrise incrociando il mio sguardo e una donna affacciata alla finestra. Mi seguì con gli occhi, senza aprir bocca.
    Mancava qualcosa, ma non seppi dire cosa, sul momento. Chiesi di nuovo dove fossero gli abitanti. «Nei campi, forse?»
    «Anche», rispose Samuele evasivo.

    Feci molte domande alla mia guida, ma lui spesso era vago nel rispondere. Temevo di aver preso una decisione sbagliata, nel voler venire lì, ma poi capii che i tempi di quelle persone erano diversi dai miei. Tempo al tempo, e un po’ ne avevo. Non insistetti, allora. In fondo il ragazzo era stato molto gentile nell’accompagnarmi, e rimanevano ancora molti giorni a disposizione per confezionare qualcosa di pubblicabile.

    Giungemmo al limitare delle case. La vallata si stendeva sotto di noi, baciata da un sole limpido. Faceva ancora un po’ freddo, nonostante la bella giornata.
    «Pensi che la temperatura si alzerà un po’ quando arriverà il sole anche in paese?» chiesi.
    Samuele sorrise: «Il sole non arriva mai a Valcanale di Sotto.»
    «Come, no?»
    «No», indicò le montagne intorno a noi, «le montagne sono troppo alte e ripide. Questa parte della valle non viene mai illuminata dalla luce diretta del sole.»
    Ero sbalordita. «E come mai, allora, è stato costruito un paese proprio qui?»
    «Bisognerebbe chiederlo a chi lo ha fatto. Torniamo indietro?» Il ragazzo si era già incamminato, senza attendere risposta.
    Ripercorremmo la strada già seguita. La donna alla finestra era ancora lì, e mi fissava. Chiesi sottovoce chi fosse.
    «Lasciate perdere, Maria. Ha perso suo marito e non ci sta più con la testa», sussurrò lui in risposta.
    Stavo per chiedere chi badasse a lei, ma la donna mi precedette: «Dovreste andarvene, signorina Maria. Non è posto per voi, questo.»
    La guardai sbigottita. «Come sapete come mi chiamo?»
    «C’è molto silenzio qui, come potete notare. Si sente tutto.»
    Avevo molti dubbi, su questo. Mi fermai sotto la sua finestra. «Mi spiace per il suo lutto, signora», le dissi.
    Lei fece uno strano ghigno. «Sono passati tanti anni», rispose senza aggiungere altro.
    Doveva essersi sposata molto giovane, pensai, perché non doveva avere più di trentacinque anni e, a parte un aspetto emaciato, sembrava in ottima salute.
    «Venite, Maria, torniamo alla locanda.» Samuele fece un cenno di saluto alla donna e mi prese per il braccio. Un tocco gentile ma fermo, e mi lasciai guidare da lui.

    Arrivati alla porta dell’edificio, il ragazzo si accomiatò con un lieve inchino e si allontanò dopo avermi promesso che sarebbe stato a mia disposizione anche l’indomani. Passai il resto della giornata a riflettere su quello che avevo visto e su cosa ci fosse che non andava in quel posto. Non riuscivo a capire cosa fosse, ma avevo un tarlo in testa, subito sotto il pelo dell’acqua della coscienza. Non riuscivo a vederlo, ma c’era.

    Il mattino successivo fu, all’inizio, la copia esatta di quello precedente. Amelia mi offrì la colazione mentre Narciso seguiva qualche faccenda in giro. Sembrava proprio che fossi l’unica ospite della locanda, e la cosa non mi sorprese neanche un po’.
    Samuele fece la sua comparsa di buon’ora e annunciò che mi avrebbe portata a visitare un’altra parte di Valcanale. Mi venne subito in mente che volesse evitare di farmi incontrare di nuovo quella strana donna di cui non avevo saputo neppure il nome, ma tenni i miei dubbi per me.

    Passeggiavamo nell’aria fresca. La giornata era limpida e camminare era piacevole anche in quella strana penombra. A parte questo, il paese non offriva molto altro rispetto a quello che avevo visto il giorno prima. Samuele parlava di continuo, con quel suo strano gergo, ma raramente rispondeva in modo preciso a una mia domanda. Incontrammo un uomo sulla cinquantina, per la via, che si affrettava nella nostra stessa direzione.
    «Buongiorno!» esclamai.
    Lui si girò a guardarmi con occhi un po’ stralunati. Mi fece un gesto di saluto e poi accennò a proseguire. Non demorsi. «Io mi chiamo Maria Bergamini e sono una giornalista. Posso farle qualche domanda?» chiesi avvicinandomi. Samuele si era innervosito, lo percepii, ma non me ne curai.
    L’uomo si fermò. «So chi è lei. Dica pure, signora Bergamini.»
    Avevo già rinunciato a stupirmi di queste cose. «Come si chiama?» chiesi, per cominciare.
    «Adalberto.»
    «Salve, signor Adalberto. Felice di fare la sua conoscenza. Posso chiederle dove sta andando?»
    «Alla mia stalla. Sono un allevatore.»
    «Ah, bene! E cosa alleva?»
    L’uomo non vedeva l’ora di andarsene, era evidente. «Pecore e vacche. Perché lo chiede?»
    «Possiamo accompagnarla? Sono una giornalista e sto scrivendo un articolo sulla vita di campagna.»
    Adalberto lanciò un’occhiata sopra la mia spalla, in direzione di Samuele, poi annuì. «Mi segua, prego.»
    Facemmo l’ultimo tratto di strada a passo svelto per star dietro all’allevatore.
    La mia guida si era fatta taciturna, e nessuno parlò molto per il tempo necessario ad arrivare alla stalla. L’uomo fece scorrere il chiavistello ed entrò nell’ambiente poco illuminato. Feci per seguirlo, ma Samuele mi trattenne: «Vado prima io, mi stia vicino.»
    Pur non capendo il perché di quella premura, mi accodai a lui. Scendemmo gli scalini consumati dal tempo ed entrammo. L’aria odorava pesantemente di chiuso, di animali e di qualcos’altro che non seppi definire. Adalberto prese a occuparsi delle bestie senza far molto caso ai suoi ospiti. Mi avvicinai a lui per curiosare, e posi anche qualche domanda. Non ne cavai molto, se non che viveva da solo con le sue bestie, e che era sempre stato lì.
    Delusa, feci cenno a Samuele che forse era ora di andare, e lui parve sollevato.
    «Beh, allora, signor Adalberto. La ringrazio per il suo tempo. Noi andiamo», dissi. Lui annuì senza girarsi.
    Mi avviai verso l’uscita, su per gli scalini, ma misi un piede in fallo e scivolai. Caddi male, molto male, e una fitta violenta mi salì su da una gamba. Il ragazzo fu pronto a sorreggermi ma non ce la facevo a stare in piedi, quindi mi depositò a sedere a terra. Con un attimo di esitazione, mi alzai la veste e vidi, oltre alla caviglia che già si stava gonfiando, un taglio profondo sullo stinco, attraverso le calze lacerate. Il sangue sgorgava copioso.
    Samuele sgranò gli occhi: «Dobbiamo andare, alzatevi, signorina!» disse perentorio, e mi tirò su sgarbatamente, con una forza che le sue forme snelle non gli attribuivano.
    Mi volsi a guardarlo indispettita. Mi aspettavo che rispettasse il dolore che stavo provando, ma d’improvviso comparve Adalberto al mio fianco. Non l’avevo sentito arrivare.
    «Mi faccia vedere!» disse con uno sguardo strano.
    «Non è niente, credo, non si preoccupi.»
    II fattore non mi diede retta e si chinò facendo per alzarmi la veste. «Ma cosa fa?» esclamai ritraendomi.
    «Potrebbe... potrebbe infettarsi, signora. Mi lasci dare un’occhiata!» disse concitato.
    Poteva aver ragione. Mi divincolai dalla presa di Samuele e sedetti, sollevandomi con attenzione la veste.
    Non appena scoprii il taglio, la mano dell’uomo saettò in avanti, ma fu bloccata da un gesto altrettanto rapido del ragazzo.
    «Controllati», sibilò al fattore.
    «Lasciami», disse gelido l’altro.
    «Stai fermo, Adalberto!» Il tono della voce del ragazzo era diverso, ora. Più profondo. Sembrava venire da... lontano.
    L’uomo si liberò dalla presa con un gesto violento che fece barcollare Samuele. «Fidati», gli disse.
    Allungò un dito, a toccarmi la ferita. Trasalii. Lui ispezionò il taglio per qualche secondo di più di quanto non ritenni necessario, poi disse, con voce malferma: «Niente di grave, signora, basterà una fasciatura.» Si alzò e lasciò che Samuele mi aiutasse a fare altrettanto.
    Ci avviammo per tornare alla locanda. Mi volsi a salutare il fattore. Mi fissava, e aveva il dito insanguinato in bocca. Non appena notò il mio sguardo, si girò e scomparve nell’oscurità della stalla.

    Tornammo quasi correndo verso la locanda. Samuele mi trasportò di peso per un bel pezzo del tragitto, scoccando occhiate preoccupate in giro, ma non incontrammo nessuno.
    Il ragazzo spalancò la porta e si diresse alle scale. Amelia accorse a quel frastuono. «Di grazia, stai lontana!» le intimò lui. Mi trascinò al piano superiore e mi fece stendere sul letto. «Torno subito, mia signora», disse mentre usciva in fretta dalla porta.
    Rimasi lì per qualche secondo, lo sguardo fisso sull’uscio spalancato, lievemente imbarazzata per la situazione poco decorosa. Pochi attimi, e Samuele tornò con delle bende e una bacinella piena d’acqua.
    Mi prese la gamba e la pose sulla bacinella. Delicatamente, strappò le calze e iniziò a lavarmi la ferita con l’acqua. Notai che sudava copiosamente, cosa che non aveva fatto mentre mi riportava in locanda. Mi parve strano e glielo chiesi.
    «Non sono cose delle quali debba preoccuparsi, mia signora!» rispose seccamente. Decisi di tacere.
    Sulla porta, era comparsa la testolina arruffata di Narciso. Mi guardava fisso senza parlare, e non rispose al mio cenno di saluto.
    Arrivò anche Amelia che chiese se avessimo bisogno di qualcosa. «Porta via Narciso, sbrigati!» rispose invece Samuele.
    La donna prese per le spalle il bambino e fece per tirarlo indietro nel corridoio, ma lui si divincolò: «Posso controllarmi!» le ringhiò.
    «Fuori di qui tutti e due! Via!» gridò allora Samuele, e gli altri sparirono dalla mia vista.
    Il ragazzo completò il bendaggio e depose la mia gamba ferita sul letto. La lasciò scoperta per non macchiarmi la veste, dal momento che l’emorragia non si era arrestata e la benda già si colorava di rosso.
    Si alzò in fretta. «Ora si riposi, madama Bergamini. Tornerò a visitarla più tardi, all’imbrunire.» Uscì dalla stanza e richiuse la porta senza darmi il tempo di ringraziarlo, lasciandomi sola con le mie mille domande.

    Il sonno mi aveva vinta, anche in barba al dolore alla gamba che si era fatto sordo e non più pulsante come prima. Sprofondai in acque nere senza sogni.
    Iniziai a riemergere, dopo un tempo che non seppi definire, per via di un fastidio nuovo, una sorta di formicolio alla ferita. Lottai per assopirmi di nuovo, ma senza riuscirci. Colsi un movimento furtivo, e aprii gli occhi. Quello che vidi mi fece ritrarre e urlare.
    Narciso era accoccolato a fianco del letto e stava leccandomi la benda intrisa di sangue. Al mio movimento, mi guardò con lo sguardo di un bambino colto a rubare le caramelle, ma aveva la bocca e i denti sporchi di sangue, e mi fece orrore.
    Mi rannicchiai sulla spalliera del letto e gridai il nome di Samuele. Il ragazzino fuggì dalla stanza con una rapidità disumana.
    Pochi istanti e la mia guida entrò nella stanza in fretta. «Cos’è accaduto?» chiese.
    Raccontai balbettando quello che avevo visto, anche se mi ostinavo a dare ai miei occhi dei bugiardi. «Dormivo, e mi sono svegliata all’improvviso. Narciso mi stava leccando il sangue dalla ferita! Una vista orribile, quel viso di bambino imbrattato di sangue...» Ero sull’orlo delle lacrime dall’orrore, e percepii a malapena lo sguardo feroce di Samuele. «Deve perdonarlo, mia signora, è solo un infante...»
    «Ma che infante e infante!» sbottai. «Avrà almeno dieci anni, e che modo di giocare è questo?»
    Seduto sul letto, Samuele era in palese imbarazzo. Le mani ghermivano i pantaloni, mentre lui cercava qualcosa da rispondere. «Gli parlerò io, mia signora. Non tema, non accadrà più.»
    Lo guardai. I suoi occhi sfuggivano ai miei, come se rischiassero di dirmi qualcosa che non dovevo sapere. Qualcosa di inconfessabile. Ripensai allo sguardo di Narciso, al suo viso sporco di sangue, al pallore di quella gente e al gelo della loro pelle. Pensai che non li avevo mai visti mangiare, o riposare. Pensai a tante cose.
    E compresi. D’improvviso. Senza una parola dal ragazzo che potesse avermene data ragione. Compresi e basta. Solo, era una cosa troppo ridicola da pensare. A ritenerla possibile, tuttavia, tutto andava al proprio posto.
    In effetti, questo era il vero problema dei paesani di Valcanale. Se avevo visto giusto, per quanto riservati potessero essere, nulla avrebbe potuto nascondere un segreto simile, nulla.
    Samuele parve leggermi negli occhi la verità. Dovetti sbiancare, credo, perché lui si affrettò a dire: «State poco bene, signora? Vi vedo pallida. Vi porto qualcosa?»
    Era il turno della mia mente di cercare qualcosa da dire. Farfugliai qualche idiozia, mentre vedevo che il ragazzo mi scrutava. Raddrizzò la schiena, e tacque per qualche eterno attimo. Il silenzio, tra noi, era carico di attesa. Ero terrorizzata da quello che avrebbe detto o fatto, perché era evidente che sapeva che avevo intuito qualcosa. Temevo di essere assalita, o perfino uccisa.
    «Sono costernato, mia signora», disse invece, lo sguardo basso. «Non sa quanto. Non avremmo mai voluto che accadesse. Oramai, comunque, non possiamo porre rimedio a ciò che è stato...»
    Era un atteggiamento che mi sconcertava. Ero preparata ad avere paura, a difendermi da quell’essere. Non ero pronta, invece, a trovarmi di fronte a un mostro costernato.
    «Cosa intendi?» mormorai.
    Lui alzò lo sguardo su di me. «Noi siamo una fratellanza chiusa. Il segreto è l’unica cosa che ci tiene vivi, Maria. Non possiamo permettere che si sappia di noi.»
    Il pericolo era tutt’altro che finito, pensai. E decisi di tergiversare. «Non vuoi sapere perché ho capito?»
    «Fa differenza?»
    No, in effetti, pensai. «Ho appena letto il libro di Bram Stoker, Dracula», dissi lo stesso, «e mi è venuto in mente subito vedendo Narciso. Poi ho aggiunto l’assenza del sole, le poche persone, lo sguardo avido di Adalberto...»
    Samuele stava sorridendo amaro. «Stoker aveva promesso», disse.
    «Cosa?»
    «Di mantenere il silenzio. Ci ha traditi.»
    «Ma sono vere le cose che dice di voi?» chiesi tremante.
    Questa volta il ragazzo rise di gusto: «Nessuna, o quasi. Devo dire che ha inventato talmente tante assurdità che per gli umani noi siamo tutta un’altra cosa. Pur avendo voluto tradirci, alla fine la gente della pianura continua a non sapere niente di noi.»
    «Umani...» ripetei.
    «Mi dia la sua mano», rispose lui allungando la sua. Senza esitare, la presi, e lui mi tirò a sé posandola sul suo petto. Là dove batte la vita c’era solo silenzio. «Noi non ci riteniamo più tali», disse contrito. Il suo sguardo tradiva una sofferenza che veniva da lontano. Una cosa quasi insopportabile al solo vederla. Decisi di cambiare discorso.
    «Allora la bara, i canini sviluppati, le trasformazioni in pipistrello... niente di vero?»
    Rise di nuovo, Samuele, e alzò le braccia mimando le ali del volatile. Mi ritrassi urlando. Lui si bloccò e alzò le mani su di me per calmarmi. «Scusatemi, vi prego, scusatemi. Mi stavo prendendo gioco di voi. Sono uno stolto.»
    Tentai di ricompormi. «Allora, in cosa consiste davvero il vampirismo?»
    Lui sospirò: «Il vampirismo è una gabbia dorata, Maria. Siamo immortali, fotofobici e un tantino monotematici per quanto riguarda il cibo.»
    «Ho notato. La colazione di Amelia fa schifo», dissi. Non seppi da dove mi venne una frase simile in quel momento, ma funzionò, e ridemmo insieme.
    «Qui, allora siete tutti... così
    «Sì. A Valcanale il sole non arriva mai, e noi non siamo necessariamente notturni come scrisse Stoker. Solo, al sole non ci possiamo proprio stare.»
    «Un paese di vampiri...» riflettei ad alta voce. Senza dubbio, avevo trovato la mia storia da raccontare, posto che qualcuno ci avesse mai creduto. Poi mi venne in mente un’altra cosa.
    «Hai detto che siete immortali.»
    «Sì, o perlomeno, nessuno di noi è ancora morto in modo naturale.»
    «Quando sei nato, Samuele?»
    «Milletrecentoottantadue», disse con semplicità. Non c’era niente di strano, per lui. Era un semplice fatto. A me, invece, era arrivata come una sberla. Stavo parlando con un essere che aveva più di cinquecento anni.
    «Allora è per questo motivo che parli in quel modo.»
    Lui sorrise. «È un po’ ridicolo, lo so. Ho provato a cambiare, ma poi ho deciso che era un pezzo di me, e ora me lo tengo stretto.»
    «Cinquecento anni... un’enormità...» dissi.
    «Narciso è antico quasi quanto me, madama, ma è morto bambino ed è rimasto tale.»
    Un’infanzia cristallizzata per secoli. Non riuscivo a capire cosa potesse girare per la testa di quegli esseri.
    «Sei il più antico, qui?»
    «No, ma Camilla in questo periodo non c’è. Tornerà. Lo fa sempre.»
    «Camilla?»
    «La figlia di un nobile romano del terzo secolo. Lei viaggia.»
    «Ma non dicevi che non potete stare al sole?»
    «Siamo veloci, Maria.»
    «Veloci? Quanto veloci?»
    Lui non rispose subito, e gettò uno sguardo alla finestra, dalla quale entrava dell’aria fresca. «Ha freddo?»
    «Un po’», riuscii a malapena a dire, poi tutto quello che vidi fu lo scuro della finestra che si chiudeva all’improvviso.
    «Cos’è successo?»
    «Aveva freddo, allora ho chiuso la finestra e mi sono seduto di nuovo.»
    «Ma...»
    «Le ho detto che siamo veloci, mia signora», disse, con un mezzo sorriso.
    Ero affascinata, quasi, da quell’essere che, ora che sapevo cosa fosse, emanava una potenza che potevo chiaramente percepire.
    Scossa, tentai di trovare qualcos’altro di cui parlare. «Adalberto?»
    «Cosa?»
    «Adalberto è antico?»
    «No, per questo stamani faticava a controllarsi. Il sangue umano è un richiamo irresistibile per i vampiri giovani.»
    «Perché? Di cosa vi nutrite?»
    «Sangue animale. Per questo siamo allevatori. Ma il sangue umano è un’altra cosa.»
    «Ma non bevete sangue umano?»
    «Siamo vampiri, sì, ma non assassini. Raramente un umano sopravvive quando beviamo da lui. Noi, questo, non lo vogliamo.»
    Annuii. «E rischiereste di farvi scoprire.»
    «Non è per questo. Come le ho detto siamo vampiri, ma non assassini, signora.»
    Avrei avuto tanto altro da chiedere, ma c’era una cosa, sospesa a mezz’aria, tra noi. «E adesso?»
    Lui sospirò. «Adesso voi non potete più andarvene, Maria.»
    «Ma terrò il segreto! Giuro!»
    Lui scosse la testa. «Non possiamo rischiare. Non lo abbiamo mai fatto e forse per questo siamo ancora qui. Voi non potete andarvene.»
    «Sono prigioniera?»
    «Ospite. Preferisco pensarla così.»
    «Ma non voglio!»
    Lui si alzò e si avvicinò alla porta. «Neanch’io lo vorrei, signora. Neanch’io.»
    Con un cenno di saluto, uscì dalla stanza.

    Rimasi sola, allora, coi miei pensieri e la mia disperazione. La mente si agitava come una fiera in ceppi, senza trovare un modo di uscire da quella situazione. Prigioniera, preda, senza possibilità di salvezza.
    Non era una situazione che riuscivo ad accettare. Niente e nessuno, mai, mi aveva costretta entro pareti o gabbie, in tutta la mia vita. Ero giunta qui per rivendicare testardamente la mia unicità di donna e di professionista, e mi ritrovavo in catene, senza via d’uscita.
    Nel buio della notte, l’istinto di conservazione ebbe il sopravvento. Meditai a lungo su un modo per fuggire. Feci delle ipotesi, congetture campate in aria. A qualcosa dovevo pur attaccarmi.
    Pensai che questi esseri probabilmente avevano bisogno di riposo, in qualche misura. Samuele non me ne aveva parlato, ma ritenni lo stesso che, visto che si muovevano preferibilmente di notte, le ore del primo pomeriggio dovevano essere quelle migliori per tentare di scappare. A quell’ora, inoltre, il sole è quasi allo zenit, e quindi le ombre sono al minimo del giorno. Mi sarebbe bastato raggiungere una zona assolata per essere in salvo. Convinsi freneticamente me stessa che ce l’avrei fatta.
    All’alba, mi sporsi dalla finestra che dava su un passaggio secondario. Il salto era di tre metri, forse sarei riuscita ad arrivare a terra senza rompermi qualcos’altro. Attesi.
    Poco dopo, rifiutai la colazione che una premurosa Amelia mi aveva portato in camera. Le dissi che non avevo fame e che volevo rimanere da sola. Lei assentì e scomparve. Nessuno mi disturbò più per tutta la mattinata.
    Saggiai le condizioni della mia gamba. Mi faceva male, ma deliberai lo stesso che ero in condizioni di muovermi, anzi di correre.
    All’ora prestabilita, scrutai nel vicoletto per accertarmi che non ci fosse nessuno e poi mi calai dal davanzale rimanendo appesa per le mani. A terra, c’era un cespuglio di sterpaglie che speravo avrebbe attutito la caduta. Mi lasciai andare.
    Caddi pesantemente, per nulla aiutata dalla pianta. Mi feci abbastanza male un po’ dappertutto ma mi rialzai prontamente e procedetti lungo la stradina scivolando silenziosa rasentando i muri delle case.
    In pochi istanti arrivai a una svolta. Dietro l’angolo, un breve tratto di selciato oltre il quale il paese moriva in un campo. Poco oltre, a qualche centinaio di metri, il sole inondava un prato. Ai miei occhi, sembrava una terra promessa verde smeraldo. La libertà a portata di mano.
    Trassi un profondo respiro, anche per farmi coraggio, e partii di corsa.
    Filavo veloce. Mangiavo metri di terreno. La gamba urlava il suo dissenso ma io la zittivo. E correvo.
    Veloce.
    Troppo.
    Una buca. La tana di qualche maledetto roditore, dissimulata da un po’ di terra smossa che non aveva la consistenza che poteva sembrare.
    La presi in pieno. Il piede affondò fin quasi al ginocchio, e l’articolazione si torse all’abbrivio. Caddi e mi sfuggì un grido di dolore. Senza fiato, tentai di rialzarmi subito ma la gamba doveva essersi rotta. Mi ridussi a strisciare.
    Pochi attimi, e venni issata da terra come fossi una bambola di pezza. Mi volsi a guardare e incontrai gli occhi senza tempo di Samuele.
    «Torniamo alla locanda, Maria», disse lui mentre si avviava verso l’abitato portandomi a braccia. Gridai disperata. Lanciai uno sguardo sopra la spalla del mio carceriere. Poco lontano, vedevo svanire lo smeraldo del prato, e con esso le mie speranze di salvezza.

    Sedevo nella sala della locanda, la gamba stesa su un’altra sedia. Intorno a me, Samuele, Amelia e Narciso mi guardavano con occhi strani. Fu il bambino a parlare. «Parlaci di te, Maria.»
    Prigioniera in balìa di questi esseri, sentii di nuovo la rabbia montare a ondate in me. «Perché dovrei? Perché? Uccidetemi e facciamola finita!» gridai.
    «Ti ho già detto che non siamo assassini, madonna Maria», mi rispose Samuele.
    Esplosi. «Che differenza fa, secondo voi, uccidermi ora o condannarmi a una vita in questo posto?»
    Tacquero per un istante, poi Samuele fece un cenno al bambino.
    «Ora guardami», disse lui. La sua voce infantile aveva assunto tonalità profonde.
    «Cosa vuoi?» ringhiai.
    «Guardami!» tuonò Narciso con un timbro che non aveva nulla di umano.
    Mi bloccai, e lui ficcò gli occhi nei miei. «Raccontaci di te. Ora.»
    E io raccontai. Mi sembrò logico farlo. Dissi tutto di me, dei miei parenti, di Daniele, delle mie aspirazioni professionali. Ero lucida, presente, mentre lo facevo, e lo rimasi anche quando continuai, dicendo di quanto fossi frustrata, di come in fondo sapessi fin troppo bene di non essere unica e inarrivabile come pretendevo di far sembrare.
    Di quanto Daniele fosse... inadeguato, e quanto futili e superficiali i miei genitori.
    Raccontai dell’inutilità della mia vita, in primis a me stessa, e poi ai miei ascoltatori. Dissi cose che non avevo detto a nessuno, tanto meno al mio ego orgoglioso.
    Lo sguardo di Narciso si staccò dal mio e mi sentii libera, nuovamente. Il legame misterioso con quegli occhi si era sciolto d’improvviso.
    «Cos’hai fatto?» balbettai.
    Il ragazzino non rispose. Aveva di nuovo quell’aria svagata, come se il demone che lo aveva posseduto fino a un secondo prima si fosse dissolto nell’aria polverosa della locanda.
    «Lui ha sviluppato una capacità, col tempo, Maria», rispose Amelia, fino a quel momento silenziosa.
    «Capacità?»
    «Un... dono, diciamo.»
    «Lo avete tutti?»
    Lei sorrise. «No. Lui ha questo, noi ne abbiamo acquisiti altri.»
    «Ci sono molte cose che non so di voi, credo...» ammisi.
    «Più di quante immagini, mia cara», rispose lei.
    Tacqui un attimo, mentre il dolore alla gamba tornò a farsi sentire. Emisi un lamento. Amelia si allungò a toccarmi la fronte con la mano, e la sofferenza si attenuò immediatamente. La donna, o quello che era, sorrideva.
    «Un altro dono?»
    «Sì.»
    Li guardai per un attimo. Tutti e tre. Non mi sembravano poi così orribili. Non certo mostri assetati di sangue, quanto piuttosto vittime rassegnate della loro stessa condizione.
    «Avete saputo quello che volevate?»
    «Sì, Maria», disse Samuele, condiscendente.
    «Perché me lo avete chiesto?»
    Lui non rispose per un attimo. Guardò i suoi compagni con un cenno di assenso, poi si volse di nuovo a me: «Volevamo sapere se tu fossi pronta a fare la tua Scelta.»
    «Che scelta?» chiesi, perplessa.
    «La Scelta. Tu resterai con noi, in ogni caso. Sta a te scegliere se farlo da umana o da sorella.»
    Lo guardai inebetita. Quell’essere mi stava offrendo l’eternità.
    «Cioè? Diventare come voi?» balbettai.
    Lui si limitò a sorridermi.
    Li guardai, persa. Stava accadendo tutto troppo in fretta. Non ero lucida. Non abbastanza per pensare. No. Avevo bisogno di tempo.
    «Lasciatemi sola», chiesi. Si alzarono all’unisono. «Anzi, no. Samuele, tu resta qui, per favore.»
    Il ragazzo tornò a sedersi senza fare commenti, e rimase in attesa di un mio cenno.
    Dopo qualche attimo, sentii di dover rompere il silenzio: «Scusami, sto pensando. Ma rimani, per favore.»
    «Il tempo non ha senso per me, Maria. Starò qui.»
    Pensai a lungo, noncurante della sua presenza. Pensai alle cose della mia vita. Non alla sofferenza delle persone che non mi avrebbero più vista. No. Ero, e sono, troppo egoista per questo. Pensai alle cose che io non avrei potuto più fare.
    Una passeggiata in campagna.
    Mangiare le cose che adoravo.
    Essere madre.
    Niente più di tutto questo.
    Finito.
    Chiuso.

    «Mi stai offrendo la vita eterna...»
    «O la morte eterna, come la chiama qualcuno.»
    Lo guardai. I suoi occhi erano sereni. Consci della propria condizione, e appagati dell’accettazione della stessa.
    «Come fate ad affrontare i secoli in questo posto? Non c’è niente, qui.»
    «Non stiamo sempre qui.»
    Ricordai l’accenno che aveva fatto su Camilla, e non ritenni utile chiedere di più, in quel momento.
    «Io ho sempre pensato che la vita ha un senso proprio perché finisce, prima o poi.»
    «È un pensiero profondo, detto da una persona giovane come te», annuì lui con approvazione. «Noi non la pensiamo così. Non possiamo farlo.»
    «E cosa pensate voi?»
    «Noi studiamo il mondo, l’universo, la natura. Ne cogliamo il suo evolversi lento, in tempi che voi mortali non potete percepire. Cinquecento anni sono pochi, per un vampiro, ma conosco miei simili che ne hanno più di tremila. Loro percepiscono il volgere delle cose, il flusso, come lo chiamiamo noi. È un segno di Dio, l’unico, vero segno. Il senso delle cose. Non so se riesci a capirmi.»
    «Credi in Dio? Come fai a farlo, se non lo incontrerai mai?»
    «Oh, ma lo percepisco intorno a me. Nei secoli che ci mette un albero a crescere, nei millenni che ci vogliono a un ghiacciaio per formarsi. Un flusso infinito, lento, che non si cura delle cose umane. Tu non puoi percepirlo, lo so.»
    Tacqui. Avevo davanti non un mostro, ma un essere profondamente spirituale. Un qualcosa di inaspettato, insondabile. Era quello che dovevo diventare? Ero pronta a farlo?
    Cosa stavo lasciando? Mi guardai indietro. Vidi le cose della mia vita. Il mio patetico dibattermi per emergere. La ricerca affannosa di una caduca affermazione di me stessa. Compresi, finalmente, la vacuità del mio essere. Percepii l’inutilità della mia vita, tesa solo a combattere la mia stessa mortalità. A cercare quell’eternità che questa gente mi stava offrendo, se pur in forma diversa.
    In fondo, io volevo solo far sì che, dopo, qualcuno si ricordasse di me. Tutto quello che facevo non era niente più di quello.
    Niente di più.
    Il cerchio si stava chiudendo, lo capii.
    E piansi. Piansi a lungo, tra le braccia di Samuele. Abbandonata.
    Fu un rito di passaggio.
    Una via senza ritorno.

    Taccio per un attimo, guardando divertita quello sguardo ebete.
    «Puoi poggiare il tuo taccuino, adesso», gli dico.
    Lui è una statua di sale. Sorrido.
    «Non era quello che pensavi di trovare qui, eh?»
    «N... no.»
    «Beh, posso capirti, umano. Certo, isolarsi per scrivere poesie è cosa saggia. Scegliere Valcanale per farlo, beh, è pura sfortuna.»
    L’uomo si agita sulla sedia, nervoso. Atterrito. Entra Samuele. Allungo un braccio a cingergli la vita quando si accosta a me. Si china a baciarmi.
    «Cosa facciamo di lui?» gli chiedo.
    «Tocca a te decidere, Maria. È pronto?»
    «Non credo», rispondo mentre guardo l‘uomo.
    «Lo sarà mai?»
    Sorrido ancora.
    «Forse.»

    Edited by shivan01 - 2/9/2010, 16:20
     
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  2. shivan01
     
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    ......................................................
    pare che sia quello buono. Speriamo
     
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  3. Daniele_QM
     
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    Il racconto mi è piaciuto molto, usi un linguaggio che rievoca un certo modo di scrivere, di parlare, di un 'epoca non attualissima. Anche il modo di parlare di Samuel ben si confà al suo personaggio. Credibile, trovo, più o meno in tutte le sue parti.
    SPOILER (click to view)
    Forse c'è qua e là qualche passaggio un po' lento, Maria ragiona molto, a volte forse la fai pensare troppo, ma magari è solo una mia sensazione. Invece toglierei il pezzetto finale: anche se hai cambiato il tempo della narrazione - hai fatto bene comunque, visto che sposti il racconto nel futuro - è un po' superfluo, perché il finale precedente secondo me è esaustivo. E' vero, sono vampiri - e sappiamo tutti quanto ne abbiamo abbastanza - ma li hai trattati in un modo che mi è piaciuto. Anche il riferimento a Stoker, è simpatico.

    In definitiva voto un 4, anche se avrebbe potuto essere più tondo. ;)
    A rileggerti!
     
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  4.  
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    Losco Figuro

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    Ho iniziato il racconto dicendomi "troppo ovvio". Poi ho avuto la conferma, ma ha preso una strada diversa e quindi OK. Però non è comunque riuscito a convincermi del tutto
    SPOILER (click to view)
    Per essere vampiri tranquilli e pacifici sembra si facciano scoprire troppo spesso e troppo facilmente, e per essere un paese isolato sembra fin troppo frequentato da scrittori vari, la cosa mi lascia un po' basito.


    Voto 3

    CITAZIONE (shivan01 @ 1/9/2010, 00:07)
    Ma chi me l’ha fatto fare? mi ripeteva la mia parte razionale, quella che non era propensa a rischiare, quella per cui il bicchiere era sempre mezzo pieno. Sei una stupida, Maria! Sempre a cercare modi di metterti in mostra? E se non fossi quel mostro di bravura che pensi di essere? Se fossi una normale, una che dovrebbe anche ringraziare per quello che ha?

    Ma non è che intendevi mezzo vuoto? Perché dal resto mi sembra sia una parte disfattista, non ottimista.

    CITAZIONE (shivan01 @ 1/9/2010, 00:07)
    «Ciò mi rallegra, madama Bergamini. Mi permetta di farle da guida e mentore in questo vostro sforzo!» disse lui, garrulo.

    Perché "vostro" se le sta dando del lei?

    CITAZIONE (shivan01 @ 1/9/2010, 00:07)
    “Sangue animale. Per questo siamo allevatori. Ma il sangue umano è un’altra cosa.”

    Virgolette intruse

    CITAZIONE (shivan01 @ 1/9/2010, 00:07)
    Lui scosse la testa. «Non possiamo rischiare. Non lo abbiamo mai fatto e forse per questo siamo ancora qui. Voi non potete andarvene.»

    Invece pare che l'abbiano fatto con Stoker, visto quanto appena detto
     
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  5. shivan01
     
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    ciao
    no, intendevo proprio "mezzo pieno", anche perché è riferito alla "parte razionale", quella che si accontenta

    per il resto sistemo. Grazie!
     
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  6. CountlessCrows
     
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    Premessa: sono contento della tua partecipazione, in un flame recente a proposito di USAM parevi intenzionato a non partecipare in futuro.
    Il racconto è scritto bene ma mostra qualche discontinuità, specialmente nel modo di parlare di Samuele. Anche il ruolo e le possibilità dei vampiri rimangono troppo sfumate (come viaggiano? la velocità non è sufficiente per giustificarlo).
    Mi piace il partire da un quadro ottocentesco, i riferimenti a una Lombardia che già presentava differenze riconducibili al periodo attuale. Il riferimento a Bram Stoker è un inside joke divertente.

    Voto: 3
     
    .
  7. shivan01
     
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    guarda, lo dicevo non per tirarmela, ovviamente, quanto perché queste cose - i flame - sono successe tante volte in passato, e la cosa mi ha stancato.
    Usam in sé, ovviamente, non c'entra nulla, anche perché se da un lato le osservazioni circostanziate che sono state fatte verranno credo discusse come sempre è accaduto - e ci mancherebbe pure altro ,- dall'altro (ripetizione!) i soliti personaggi rovinano sempre l'atmosfera.
    Usam, come detto, non c'entra, e allora eccomi qua a partecipare dopo più di un anno e mezzo, se ricordo bene.

    Una domanda: mi spieghi meglio "mostra qualche discontinuità, specialmente nel modo di parlare di Samuele"? Fammi capire così vedo di sistemare

    ciao e grazie
     
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  8.  
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    Losco Figuro

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    CITAZIONE (shivan01 @ 2/9/2010, 16:17)
    ciao
    no, intendevo proprio "mezzo pieno", anche perché è riferito alla "parte razionale", quella che si accontenta

    Solo che quella stessa parte dopo dice "E se non fossi quel mostro di bravura che pensi di essere? Se fossi una normale, una che dovrebbe anche ringraziare per quello che ha?", che tutto mi sembrano fuorché razionalizzazioni da bicchiere mezzo pieno. ^_^
     
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  9. shivan01
     
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    lo sai cos'è successo? Che si è perso il corsivo nel taglia e incolla, porca puttana!
    L'altra sera ho avuto dei casini micidiali a postare. Vabbé stasera sistemo
     
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  10. CountlessCrows
     
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    Il registro del linguaggio di Samuele è aulico (per i motivi che poi spieghi nel racconto) e dovrebbe essere un elemento caratterizzante del personaggio. Tuttavia oscilla tra il registro 'corretto' e quello moderno anche quando non sollecitato da Maria e mi pare errato. Anche il passaggio al 'tu' mi sembra strida con le premesse.
     
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  11. GrilloParlante
     
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    Ecco il mio commento:
    SPOILER (click to view)
    Ho avuto qualche difficoltà ad inquadrare il secolo in cui si svolgeva l'azione perché, nonostante l'evidenza della carrozza, il modo di pensare e agire della protagonista mi sembra troppo moderno. Così, ero in attesa di un colpo di scena che spiegasse questa discrepanza, che non è arrivato. Potrebbe essere un problema mio, se non confermato da altri pareri, ma io modificherei un po' il personaggio, lo allineerei almeno in parte con l'epoca in cui vive.
    A parte questo disorientamento e una scrittura non troppo fluida, la prima parte del racconto mi è piaciuta. Mi è abbastanza scaduto però quando si è scoperto che il paese è abitato da vampiri, esattamente con le caratteristiche che vanno di moda adesso: belli, immortali, fermi all'età in cui si trasformano (a proposito, come?), veloci, non patiscono il freddo, non dormono, non hanno figli, hanno dei poteri speciali (ognuno il suo), sono positivi verso la vita etc...
    Insomma proprio troppo già sfruttato in questo periodo, anche la scelta finale della protagonista: fa troppo Twilight. Nota che a me Twilight è piaciuto pure :D
    Io consiglierei almeno qualche caratteristica diversa nei vampiri, se proprio quella deve essere la scelta.

    Voto 2
     
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  12. Paolo_DP77
     
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    Ciao Nicola.

    Dunque, come sai, il racconto mi è piaciuto. Ho visto anche che hai fatto delle modifiche, in meglio.

    SPOILER (click to view)
    Avei visto bene la pratogonista con un po' più di iniziativa e un po' meno pensieri :) , e magari un maggior background riguardo al villaggio. Ma sono dettagli che in questa versione non pesano molto. Per il resto ho apprezzato il tono del racconto. Credo sia un ottima prova sopratutto per questo, ti ha permesso di creare l'atmosfera giusta. A differenza di grillo parlante (di cui comunque rispetto pienamente l'opinione, non mi voglio mettere a disutere :) ) i vampiri mi sono parsi più o meno in stile classico, anche se più "paesani" e remissivi rispetto al cliche letterario; anche il tema del loro conflitto per essere civili e non animaleschi è prevalente rispetto ad altri temi di moda oggi; insomma non mi pare siano i "belli e dannati" che vanno in tivù, il che secondo me è un punto a favore.
    Il finale a me piace così, dà un tocco originale sull'evoluzione della protagonista che non guasta.

    Segnalazioni sul testo:
    CITAZIONE
    Intravidi all’interno un ambiente avvolto nell’oscurità. Vedendo che non mi decidevo a entrare, aggiunse: «Mi scusi ancora!» Sparì all’interno per pochi attimi, e poi un chiarore giallognolo si diffuse nell’ambiente. Narciso si precipitò a prendere le mie valige e fece strada all’interno.
    Alla luce della lampada a olio appena accesa, esaminai l’interno.

    Interno X4, ambiente X2

    CITAZIONE
    Mi volsi a guardarlo indispettita. Mi aspettavo che rispettasse

    indispettita-aspettavo-rispettasse nell'insieme suonano male

    CITAZIONE
    E compresi. D’improvviso.

    "D'improvvisio" lo usi un po' troppo spesso nel corso del racconto, imho. Qui lo toglierei.

    CITAZIONE
    «State poco bene, signora? Vi vedo pallida. Vi porto qualcosa?»
    Era il turno della mia mente di cercare qualcosa da dire. Farfugliai qualche idiozia, mentre vedevo che il ragazzo mi scrutava. Raddrizzò la schiena, e tacque per qualche eterno attimo. Il silenzio, tra noi, era carico di attesa. Ero terrorizzata da quello che avrebbe detto o fatto, perché era evidente che sapeva che avevo intuito qualcosa.

    Qualcosa X3 + 1 qualche


    Voto 3,9 :)
     
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  13. GrilloParlante
     
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    SPOILER (click to view)
    Ho già ammesso di conoscere molto bene Twilight, come ho ammesso che mi è piaciuto. So che molti in questo forum lo trovano da dementi (ho letto il thread relativo), ma non tutti abbiamo gli stessi gusti.
    Sapendo bene come sono descritti i vampiri nella saga della Meyer, posso affermare senza ombra di dubbio che sono identici in tutte le caratteristche a quelli di questo racconto. In effetti proprio questa visione fresca e un po' nuova è il maggior pregio di Twilight, con al centro il tema "non voglio essere un mostro" dei vampiri buoni contro quelli cattivi.
    Questo non toglie che il racconto di Shivan01 abbia molte qualità e che sia comunque apprezzabile nell'ambientazione.
     
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  14. Selene B.
     
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    User deleted


    Letto.
    SPOILER (click to view)
    Cercherò per quanto possibile di astrarre dalla mia attuale idiosincrasia con i temi vampireschi, che mi provocano orticaria immediata, comunque siano cucinati (e tu li hai cucinati benino, tutto sommato; in particolare mi piace quella loro ricerca spirituale, quel loro modo di percepire il tempo e la durata). Secondo me questo è un racconto gradevole, ma con qualche pecca. Prima: troppo lunga la preparazione alla scoperta, ogni tanto mi veniva da chiedermi: ma allora?
    Seconda: se la protagonista è una donna dell'800, come mi pare di capire dall'inizio (la carrozza. etc), il suo modo di pensare, la sua aspirazione all'autonomia e la sua stessa professione, per giunta in Lombardia, mi paiono molto poco giustificabili storicamente, e questa è una pecca grave. Oppure non ho capito quando agisce la protagonista, ed è altrettanto grave.
    Terza: la protagonista capisce "all'improvviso" che si trova in un paese di vampiri, e si compiace di averlo capito senza che Samuele le dicesse nulla, ma io lettrice l'avevo capito inequivocabilmente già dalla scena col fattore che si lecca il sangue; quindi la protagonista ci fa la figura di una, perlomeno, lenta di comprendonio.
    Qualche osservazione sulla forma:
    CITAZIONE
    Il cocchiere era sceso in fretta e con altrettanta celerità aveva scaricato le mie valigie. Le depositò davanti alla porticina e poi si volse a salutarmi.

    : cambio di tempo verbale.
    CITAZIONE
    sapessi fin troppo bene di non essere unica e inarrivabile come pretendevo di far sembrare.

    : come pretendevo di sembrare.

    Voto: tra il 2 e il 3. Ma mi sa che devo registrare un 2, anche in relazione ai voti che ho dato agli altri racconti letti.
     
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  15. shivan01
     
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    User deleted


    ciao
    un po' di osservazioni sul tuo commento
    Il racconto è tutto narrato a posteriori, dal momento che l'azione del primo novecento viene poi affiancata al finale che invece si svolge molto più tardi che invece è in "presa diretta" (è anche al presente). Questo spiega il modo di parlare e pensare della donna. Si intuisce - ma comprendo che non sia immediato - quando lei dice che Magritte al tempo aveva 10 anni. Non può che dirlo a posteriori, credo.
    Il fatto che lei abbia capito tardi, nella narrazione, che quelli erano vampiri e che invece tu ci sia arrivata subito deriva probabilmente dal fatto che tra te e lei ci sono 100 anni di storie vampiresche. Ci hanno fatto una "capa tanta" con i vampiri, nel frattempo. Ho scritto anche che Dracula di Bram Stoker, capostipite del genere, era appena uscito.

    Non c'è un cambio di tempo, dove indichi. La prima frase si svolge prima del momento di osservazione della seconda frase. È corretto.

    Ultima cosa. Il voto, come da regolamento e anche secondo la lunga discussione in corso proprio in questi giorni sul forum, NON si da in relazione agli altri voti dati. Non devi comporre una tua classifica personale, ma solo assegnare una valutazione "assoluta" a ciascun racconto. Visto il tuo commento, non credo che a me sarebbe valso un 3. Te lo dico, quindi, per pura informazione.
     
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46 replies since 31/8/2010, 23:07   973 views
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