La cometa dell'intelligenza
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La cometa dell'intelligenza

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    LA COMETA DELL’INTELLIGENZA
    di Alberto Priora

          Il conducente mette la freccia a destra e l’auto cambia direzione, spostandosi decisa verso il margine dell’autostrada. Poco più avanti c’è una piazzola di sosta, una piccola area d’asfalto cotto dal sole arredata con tre bidoni della spazzatura. È deserta, e non è insolito a quell’ora del mattino appena colorata dal sole.
          — Avanti, scendi — dice la voce dell’uomo; il tono che è sia ordine che consiglio.
          Il cane non può che ubbidire, non sa che ubbidire, e scende dalla portiera che si è aperta per lui, aspettandosi di essere portato in giro, forse di giocare.
          Però il luogo è strano, pieno di odori ignoti, meritevole di essere esplorato. Magari in compagnia.
          La portiera si chiude. L’auto riparte. Il cane è solo, abbandonato.
          L’animale si mette a correre dietro l’auto che però acquista velocità.
          Troppo veloce.
          Il cane rimane indietro. Rimane solo. Al centro della corsia.
          Il suo istinto si mette subito all’opera per ritrovare la sua auto, il suo padrone, i suoi giochi, gli odori familiari.
          Non fa in tempo neppure a iniziare. Un’auto lo investe e lo scaraventa molti metri più avanti. Le sue ossa si rompono. I suoi organi si lacerano dentro di lui.
          È già morto prima di ricadere sull’asfalto.
          L’auto che lo ha portato lì è ormai lontana. Chi la guida non si è neppure accorto del destino dell’animale.


          Mario arresta l’auto davanti al cartello stradale e scende. Alla destra del bivio la strada si inerpica su per la montagna e scompare in una pineta.
          — Santa Maria in Valle — legge a voce alta anche se non c’è nessun altro a sentirlo. Le sue parole si perdono nell’aria del mattino, muovendosi tra i canti degli uccelli e il soffio del vento. L’aria è ancora frizzante, anche se la primavera è già avanzata.
          Mario risale in macchina e decide che sì: quel posto può andare bene. Vale quanto qualsiasi altro possa trovare. Basta che ci sia un albergo, e un albergo ci sarà sicuramente anche se non si tratta di una zona turistica, e potrà fermarsi a riposare dopo aver trascorso la notte a guidare, dopo essersi allontanato dalla città in cui abitava nell’inutile speranza di lasciarsi alle spalle i propri fallimenti.
          La strada sale per diversi chilometri, a tratti si stringe fino a far passare a stento la sua auto, con i rami degli alberi che si stringono come a carezzarla; poi diventa orizzontale quasi all’improvviso e attraversa un piccolo passo incorniciato dai boschi. Ancora qualche curva e oltre si estende una vallata, un altopiano aperto circondato da alte montagne con un cappuccio di ghiaccio e di neve, uno spettacolo naturale che fa palpitare gli occhi.
          Il paese non è molto grande: trenta, quaranta case in tutto. Mario si ferma davanti a quello che potrebbe esserne l’unico bar. Un uomo, che sta seduto su una panchina appoggiata alla facciata, lo fissa con disinteresse; accanto a lui sonnecchia un cane, un incrocio di cane pastore di qualche genere.
          — Buongiorno, mi può indicare un albergo? — domanda Mario. L’uomo fa finta di non sentirlo, ma in compenso il cane drizza le orecchie e lo guarda con attenzione.
          — Mi ha sentito?
          L’uomo, quarant’anni circa portati male, alza le spalle.
          — Che bella accoglienza! — sbotta Mario, preparandosi a risalire in auto; ma prima che possa farlo, l’uomo gli risponde: — C’è un albergo più avanti. Segua la strada principale e poi svolti a destra prima del fiume. Non si può sbagliare.
          — Grazie.
          Mario gira la chiave e inizia a percorrere la via. Nello specchietto retrovisore nota che il cane si è spostato in mezzo alla strada e lo osserva. Prima che la scena sia troppo lontana per distinguerne i particolari, altri due cani raggiungono il primo; e per un attimo Mario teme che si mettano a rincorrere la sua macchina.
          — Pochi visitatori da queste parti direi.

          L’albergo è dove dovrebbe essere; un edificio a due piani con balconi ricchi di fiori in quello superiore, situato tra un torrente e un bosco, a pochi minuti dal paese.
          Mario entra nella hall della Rosa Alpina e trova quella che pare essere la proprietaria, una donna con i capelli raccolti a crocchia intenta a rassettare il locale.
          — Ha una stanza?
          La donna esita, sembra quasi sorpresa della richiesta. O forse preoccupata.
          — Non so… devo vedere.
          — Può controllare, per cortesia? — dice Mario, accorgendosi che seduto in un angolo c’è un grosso cane nero dal pelo raso e brillante, il muso appoggiato sulle zampe anteriori.
          La donna sembra indecisa sul da farsi, poi consulta un registro e torna a guardare Mario.
          — Sì, c’è. Gliela mostro subito.
          Mario la segue su per le scale e il cane segue entrambi, come incapace di rimanere lontano dalla sua padrona. La stanza è piccola, ma accogliente e pulita e ha il bagno. Mario decide che gli va bene e torna in auto a prendere le sue due valigie. Ha voglia solo di farsi una rapida doccia e di mettersi a dormire, sapendo che con il sonno potrà soffocare almeno in parte i pensieri che lo rincorrono.

          Quando Mario si sveglia è già tardo pomeriggio. Ha dormito, ma non si è riposato, tormentato da quello che si è lasciato alle spalle nella sua vita. Scende per scoprire a che ora sia prevista la cena e per prendere un po’ d’aria.
          La proprietaria è di sotto che l’aspetta. Gli dà le informazioni necessarie e poi si avvia verso la cucina con il cane che le trotterella dietro.
          Quando è l’ora giusta per entrare in sala da pranzo, Mario scopre che gli altri ospiti sono solo tre: una coppia più anziana, forse da poco andata in pensione e una donna che se ne sta da sola, di qualche anno più giovane di lui, abbastanza attraente da attirare più volte il suo sguardo.
          Al termine della cena è quasi tentato di presentarsi, ma gli basta distrarsi un attimo, un saluto di convenienza rivolto alla coppia che si è appena alzata da tavola, perché lei si allontani non vista.
          Mario sale in camera e consuma la serata a guardare la televisione nell’attesa di tornare ad avere sonno. Si addormenta quando è tardi.

          I pianti e gli strepiti della bambina non sono serviti a nulla. Adesso i cuccioli stanno in un sacco. La madre è invece chiusa in cucina a grattare inutilmente la porta. Abbaia disperata.
          — Se non la fai smettere, butto anche lei nel fiume — dice l’uomo rivolto alla moglie che se ne sta seduta al tavolo, lo sguardo fisso altrove.
          — Tu vai, qui ci penso io.
          — Sì, vado vado. Ma in settimana la porti a farla sterilizzare, che ci manca che si faccia scopare ancora dal primo randagio che passa.
          L’uomo spalanca la porta ed esce nel cortile della cascina. Il fiume è poco lontano, le sue acque che scorrono tra le rive ombreggiate dai salici.
          I cuccioli si agitano stipati ancora nel sacco. Gocce di liquido giallo scendono dal fondo.
          — Ma vacca puttana! — grida l’uomo, che se ne va senza pensare di rivolgere lo sguardo verso la finestra di sua figlia, che lo osserva con gli occhi pieni di lacrime.
          Giunto presso la riva raccoglie un grosso sasso, scioglie la corda che chiude la tela e guarda appena il carnaio fatto di cuccioli che cercano di uscire verso la luce.
          — Ci mancavate solo voi. E che cazzo volete che vi dia da mangiare!
          Mette la pietra all’interno e poi rifà il nodo.
          Il sacco disegna un arco nel cielo e poi colpisce la superficie del fiume. Poche bolle e scompare.
          L’uomo si gira e si affretta sulla strada del ritorno. È domenica e la domenica si deve andare a messa.


          Parte della mattinata è già trascorsa. Mario decide di fare un giro in paese ma senza prendere l’auto. È una strana esperienza, perché Santa Maria in Valle offre una particolare sensazione, come di una cittadina fantasma, anche se abitata. La gente non è tanta e di solito lo osserva con circospezione, quasi fingendo di essere intenta nelle proprie occupazioni. Più che altro sembra esserci una densità sproporzionata di cani che, mansueti, riposano accanto ai loro padroni o li seguono nelle loro faccende. Di varie razze e di varie dimensioni, ma che abbaiano di rado e che quando si incontrano manifestano il loro affetto l’uno per l’altro.
          — Mi sa indicare qualche passeggiata? Qualcosa di breve, intendo — chiede Mario alla panettiera da cui ha appena comprato della focaccia.
          — Non saprei — risponde la donna — bisogna essere pratici della zona per andare in giro qui.
          — Per questo le ho chiesto qualcosa di facile. Non ho l’animo del montanaro.
          — Mi spiace, non lo so proprio.
          Mario è stupito da quell’atteggiamento, ma non crede che verrà a capo di qualcosa; così saluta ed esce dal negozio, guardando appena il setter che sta accanto all’ingresso.
          Esce dal paese dalla parte opposta all’albergo, e poi devia per una stradina asfaltata che si separa dalla strada principale prima di imboccare la via che lo riporterebbe al passo. Un vecchio cartello arrugginito indica che si tratta della strada per la Chiesa di Santa Maria in Valle, probabile luogo di devozione che ha poi dato anche il nome al paese.
          E poco più avanti scorge la donna che risiede all’albergo.
          Affretta il passo. Lei si volta prima di essere raggiunta, avvertita dai suoi passi e lo squadra interdetta.
          — Salve!
          — Buongiorno.
          — Sembrerò indiscreto, ma sono un altro ospite della Rosa Alpina…
          — E allora? — risponde lei senza nascondere un velo di scocciatura.
          — Niente, pensavo che, visto come sono scontrosi gli abitanti da queste parti, almeno potevamo parlare tra noi.
          Lei lo guarda per un attimo e poi sorride di malavoglia.
          — Non posso dire che abbia torto. In effetti è strana la gente da queste parti. Parla poco e quando parla sembra che gli dia quasi fastidio.
          — Mi chiamo Mario.
          — Piacere, Cristina.
          — Sa dove porta questa strada? — chiede Mario indicando la via che si perde in una macchia d’alberi.
          — A una chiesa. Avrà letto il cartello anche lei.
          — Possiamo fare la strada assieme?
          — Sì, ma tenga le mani a posto.
          — Come? — Mario è stupito da quella risposta — Ma non mi permetterei mai…
          — Va bene. Va bene. Ma intendo tornare in albergo per pranzo.
          Camminano per un po’ senza dire nulla, i pini e gli abeti che si stringono attorno a loro e poi Mario domanda: — È qui da molto?
          — Due giorni.
          — Sa se c’è qualcosa di interessante da fare?
          — No. Direi di no. Non è che ci sia molto da vedere. Prati pieni di mucche, un paio di greggi, boschi, ancora prati. Da questa parte non c’ero ancora stata.
          Rimangono in silenzio ancora per un po’.
          — Ha notato — dice lei — che non ci sono bambini in giro, ma che in compenso ci sono un sacco di cani?
          — Sì. Strano, vero?
          — Moltissimi cani.
          — E al contrario neppure un gatto. Di solito qualche gatto in strada o sotto i portici lo si vede sempre. Lo dico perché io sono più un tipo da gatti che da cani. Anzi ho sempre e solo avuto gatti.
          La strada curva e si interrompe davanti a una sbarra chiusa da un lucchetto e messa per impedire il passaggio delle auto. Senza preoccuparsi i due le passano accanto, calpestando il sottobosco, e proseguono.
          Appare la sagoma di una chiesetta circondata dal verde, il tetto spiovente coperto d’ardesia, un piccolo campanile che sale verso il cielo.
          Una lieve brezza muove i rami degli alberi e con i rami altri oggetti. Mario e Cristina non se ne accorgono fino a quando non si trovano a due passi dalla chiesetta, ma appese agli alberi che le stanno accanto, alla sottile grondaia che orla il tetto, a chiodi battuti nel muro, alla piccola staccionata, a ogni sporgenza disponibile ci sono decine e decine di bambole. Sono di plastica o di stoffa, nude o con i vestiti rosi dalle intemperie, coperte di terra o lavate dalla pioggia, gli occhi aperti o chiusi, le ciglia di plastica lerce, le articolazioni visibili. Dondolano all’aria come un immenso concerto, le bocche che non sanno urlare, attaccate ai loro patiboli con fil di ferro e corde.
          — Ma che cazzo? — esclama Mario sorpreso dalla scena, mentre Cristina si irrigidisce e si porta una mano alla bocca a soffocare un urlo.
          Alcune bambole hanno perso dei pezzi, ma tutte assomigliano a macabri trofei che si agitano nell’aria, volutamente non bloccate nel loro continuo dondolio.
          — Non mi piace questo posto — dice Cristina avvicinandosi a Mario a tal punto da sfiorargli il braccio.
          — No, neppure a me. Andiamo via.
          La chiesa di Santa Maria in Valle sembra perdere di significato, un luogo di preghiera come violato e stravolto da quella strana rappresentazione.
          Tornano in silenzio sui loro passi, quasi timorosi di guardarsi alle spalle, come per paura di essere seguiti da qualcosa. Invece quel qualcosa gli si para davanti: giunti alla sbarra un cane blocca loro la strada. Più grosso di un cane normale, il pelo di un grigio sfumato, gli occhi chiari, la mascherina facciale quasi color crema, le orecchie larghe e lunghe. Il lupo non sembra avere intenzioni di sfidarli, non ha snudato i canini ricurvi di cui è dotato.
          Mario fa un passo e si pone davanti a Cristina. — Non muoverti — sussurra, cercando di non perdere d’occhio l’animale.
          La scena si cristallizza per almeno un lungo minuto; poi il lupo si volta e scompare all’interno del bosco senza provocare il minimo fruscio.
          La coppia si affretta sulla strada del ritorno, quasi di corsa, senza fermarsi fino a quando non si trova al sicuro dentro l’albergo. Solo allora i due sembrano tornare a respirare e si lasciano cadere sul divanetto presso l’ingresso.
          — Accidenti. Ho avuto una paura.
          — Probabilmente aveva più paura lui di noi. Però… — comincia Mario, che ha quasi un sobbalzo quando vede passare il labrador della proprietaria attraverso la stanza seguito dalla donna.
          — Abbiamo incontrato un lupo — confessa Mario, anche se lei non sembrava aver avuto l’aria di fare domande sul loro aspetto agitato.
          — Un lupo?
          — Sì, nel bosco. Sulla strada per la chiesetta.
          Il viso della donna impallidisce, il suo sguardo si sposta sul cane, che però decide di accucciarsi ai piedi del divano e di osservare attentamente i due ospiti.
          — Perché siete stati a Santa Maria? — dice con una voce angosciata, che rivela di sapere bene che cosa vi si trovi.
          — Non avremmo dovuto? — risponde Mario pentendosi subito delle sue parole. Se c’è qualcosa di nascosto, qualcosa che non deve essere svelato, quello è il modo adatto per esporsi troppo.
          La proprietaria dell’albergo non risponde. Al suo posto risponde qualcun altro, una voce senza voce che penetra nelle loro menti in maniera violenta, quasi lacerante.
          — Non ha importanza. Va bene così. È destino che sia così.
          Il cane si è alzato e li fissa.
          Mario e Cristina comprendono subito che quella voce, anche se pare impossibile, è sua.

          — Se lo sapevo come finiva, a quel giornalista del cazzo gli strappavo le palle! — urla l’uomo in manette. Due poliziotti gli stanno accanto, uno da una parte e uno dall’altra.
          Il terzetto attraversa il canile. Gli animali abbaiano dalle gabbie dove stanno rinchiusi, così strette da riuscire a malapena a girare su sé stessi. Alcuni hanno perso il pelo, altri sono più magri di quando sono entrati dopo una vita randagia fatta di stenti, alcuni stanno seduti nella loro merda, altri annusano ancora il cibo scaduto prima di mangiarlo, alcuni non provano neppure più a scacciare i ratti che passano loro accanto, altri si accontentano dell’acqua che sta nella ciotola da giorni.
          — Tanto vedrete che domani sono qui di nuovo.
          — Ma stai zitto — gli consiglia l’ispettore che ha l’incarico, in teoria, di chiudere il centro dopo il servizio passato in televisione; una serie di terribili immagini che, pur costipate tra una pubblicità e l’altra, hanno destato per qualche attimo l’attenzione del pubblico.
          — È arrivato il mio avvocato? È arrivato o no? — dice ancora l’uomo, spavaldo nella sua sicurezza tanto da non avere la voglia di chiudere la bocca. Perché si fanno i soldi così; basta darne un po’ a chi ti protegge e il resto dei finanziamenti sono tuoi. Basta togliere le spese, ridurle il più possibile, e si fanno i soldi. Sempre che qualche giornalista con una telecamera nascosta non ti venga di nuovo a rompere le palle.
          — Lo vedi dopo il tuo avvocato — dice l’ispettore che non ha il coraggio, lui che di cose ne ha viste tante, di guardare dentro le gabbie.
          — Cani del cazzo! — mormora l’uomo in modo da non essere sentito tranne che da sé stesso. — Domani vi aggiusto io.


          Lo sguardo di Mario fissa il bosco innevato. Adesso che il terreno è una distesa gelata è più facile scorgere i loro guardiani: i lupi che, a turno, controllano il perimetro dell’albergo Rosa Alpina. Allo stesso modo sarebbe più facile per i lupi notare ogni loro tentativo di sortita, senza dimenticare che gli animali hanno dalla loro anche un fiuto formidabile.
          E senza dimenticare che, oltre che ai lupi, ci sono anche i cani e gli umani che devono servirli.
          — Come stai? — chiede a Cristina allontanandosi dalla finestra, i raggi morenti del sole che stanno per cedere di nuovo la vallata alle tenebre della notte.
          Cristina sospira e si passa la mano sul ventre.
          — Abbastanza bene. E l’ho sentito scalciare di nuovo.
          Mario sorride, ma è un sorriso cupo, oppresso dalla situazione. Da più di nove mesi sono bloccati nell’albergo, da quando i cani li hanno chiusi al suo interno, impedendo loro di andare in qualsiasi altro posto, certamente togliendogli la possibilità di abbandonare la valle. Sono isolati lì, separati dal mondo esterno in un posto che sfiora l’incubo.
          Perché i cani parlano, nella mente almeno, e i cani comandano. E se i cani comandano, gli uomini qui ubbidiscono. E se anche non volessero ubbidire, in quel caso ci sono i lupi, in numero imprecisato, ma alto, che occupano i boschi delle montagne fino ai loro margini estremi. Ci pensano loro a incutere sufficiente timore.
          È stato inutile chiedere ai cani, al labrador dell’albergo come agli altri, cosa volessero da loro e perché li tenessero segregati. Dopo il primo contatto mentale ce ne erano stati altri, ma solo per chiarire che non dovevano cercare di fuggire e per rendere evidente che tutti i cani, e anche i lupi, erano ugualmente dotati di quelle facoltà. Per quanto potesse essere assurdo.
          — Ho intenzione di parlargli ancora.
          — Quello che hai intenzione di fare tu non ha molta importanza, lo sai. Conta quello che vogliono fare loro — la voce di Cristina è stanca, affaticata dalla gravidanza portata avanti in quelle condizioni.
          Lo loro prigionia forzata era nata quel giorno, di ritorno dalla Chiesa di Santa Maria in Valle. I cani del paese si erano presentati subito all’esterno dell’edificio mentre gli uomini erano spariti, rintanati nelle proprie case, e avevano messo le cose in chiaro: — Restate dentro, non cercate di uscire. Il destino lo dice.
          E, tanto per non dare adito a dubbi, erano entrati in azione i lupi, che si erano occupati di sbranare la coppia di pensionati che cercava di allontanarsi, per poi lasciarla per giorni di fronte all’ingresso come monito per eventuali pensieri di fuga.
          Chiusi all’interno, isolati e soli, senza telefoni o modi di contattare chiunque, Mario e Cristina avevano trascorso il tempo parlandosi, rivelando l’uno all’altra le proprie storie: il fallimento della ditta di lui, costretto a venderla per sanare i debiti e per poi rimanere senza nulla se non un’auto e le poche cose che poteva portare con sé; il fallimento del matrimonio di lei, distrutta da un marito che le preferiva le altre.
          Così si erano amati, di un amore nato dalla disperazione. E quel loro amore aveva adesso un figlio.
          — Non dovrebbero trattarci così — riprende Mario, fissando quella che era la sua auto, adesso priva delle ruote. — Non dovrebbero.
          Cristina sospira ancora e allora Mario le si avvicina e le stringe la mano, la carezza e passa una mano sul pancione.
          Perché dopo poche settimane di prigionia avevano scoperto che nell’albergo non c’era che una quantità limitata di provviste. Quando Mario aveva cercato di protestare, di uscire, il labrador aveva risposto con un secco “no” mentale e per poco non lo aveva fatto azzannare da uno dei lupi.
          Poi, quando credevano che sarebbero morti di fame, ecco che i lupi avevano cominciato a deporre sulla soglia le prede che catturavano, selvaggina fresca, anche se mai abbondante, che andava in qualche modo preparata ma che poteva essere consumata. Da mesi erano diventati carnivori, una dieta monotona che, seppur li aveva nutriti, li aveva ugualmente indeboliti.
          Li avevano fatti sopravvivere ma senza spiegarne il perché, quasi fosse una tortura.
          Nove mesi.
          — Mario
          — Sì?
          — Si è mosso ancora. Vuoi sentirlo?
          — Volentieri. Vedrai che sarà comunque un bel cucciolo.
          La donna scuote la testa. — A volte penso che sarebbe meglio morire.
          — No, non dirlo. Non dirlo, cara.
          Fino al suo arrivo avrebbe quasi rinunciato alla propria vita, così devastata dai fallimenti personali. Ora c’era comunque un motivo per continuare.
          Ma al limitare degli alberi rimangono i lupi, sempre vigili.

          Odori, giochi, sensazioni. Il respiro caldo e conosciuto della madre, fonte di quel latte buono che ha dato soddisfazione e sicurezza. L’allegria dei fratelli che hanno sperimentato con lui i primi passi e le prime corse. Il suo desiderio non sarebbe altro che quello di continuare a vivere quelle sensazioni all’infinito.
          Poi, sopra di lui, la voce del padrone a cui è pronto a giurare fedeltà che si mescola a una voce ancora ignota.
          — Visto che belli? E forti.
          — Mi avevano detto che il vostro allevamento è tra i migliori.
          — Grazie. Allora le va bene quello?
          — Direi di sì. Mi piace già.
    Poi una mano lo solleva e i guaiti dei suoi fratelli si allontanano.
          — Guardi, sembra quasi che gli dispiaccia lasciare gli altri.
          — Beh, mica può prenderseli tutti.
          — Ha ragione.
          — Adesso le preparo i documenti.
          Anche l’odore di sua madre si fa più lontano. Non la rivedrà più, così come non rivedrà più i suoi fratelli.


          Il parto è stato difficile; senza nessuno che venisse ad aiutarli, Mario si è dovuto arrangiare con quello che aveva in albergo. Questo malgrado le nuove proteste rivolte ai cani.
          Adesso Cristina giace nel letto, debolissima, e suo figlio sta in una culla che si trovava nelle stanze della proprietaria, anche se il figlio di lei non l’hanno mai visto, anche se non hanno mai visto un solo bambino in tutta la valle.
          Non sa se la sua compagna avrà la forza di allattarlo. Potrebbero morire entrambi, lei per le conseguenze del parto e il piccolo per fame, perché lui non può certo dargli le prede che i lupi hanno continuato a consegnare fino a stamattina.
          C’è un grattare alla porta. Mario si trascina lentamente fino a essa e la spalanca.
          Il labrador è lì con altri sei cani del paese e una guardia di lupi. C’è anche una donna, la proprietaria dell’albergo.
          — Devi venire con noi — lo colpisce il messaggio mentale
          — Dove?
          — Con noi fino al posto del nostro destino.
          Mario ride, stravolto dalla tensione di quelle ultime ore, mentre la donna gli scivola alle spalle diretta verso la culla. — È il mio destino che mi importa, perché dovrei conoscere il vostro?
          — Il tuo destino è legato al nostro. Vieni con noi — dice ancora la voce.
          I lupi lo circondano e lo spingono verso l’uscita. Mario vorrebbe resistere, ma è costretto a ubbidire, a uscire.
          — Non voglio lasciare Cristina e mio figlio.
          — Verrà dopo. Ce ne occuperemo noi — gli risponde il cane.
          Percorrono una lunga strada che sale sul fianco della montagna. Di neve ne è rimasta poca ormai, sciolta dai primi raggi di una primavera in anticipo. Salgono, un uomo accompagnato dagli animali, fino a una chiesetta molto simile a quella circondata dalle bambole. Questa però è un rudere, con il tetto sfondato e le mura in parte cadute e sparse attorno, come se una bomba fosse esplosa all’interno e l’avesse devastata.
          — Dove siamo?
          — Santa Maria sul Monte — risponde il cane che lo aveva studiato per primo al bar — è qui che siamo cambiati, è qui che ci è giunto il segno.
          I cani spingono Mario a entrare. Nel centro della chiesa c’è una grossa pietra dai riflessi vermigli che luccica al sole.
          — È venuta dal cielo per noi, solo per noi, e ci ha dato la cosa più preziosa che poteva offrirci: l’intelligenza. La capacità di pensare, di ragionare, di capire ciò che ci circonda e, soprattutto, cosa ci accade. A noi come specie.
          Mario scuote la testa. — Non so se l’avete usata bene questa intelligenza.
          — Come no. L’abbiamo avuta in dono, assieme alla possibilità di poter parlare direttamente tra noi e con i nostri fratelli che voi chiamate lupi. La stiamo usando più che bene, in primo luogo per proteggerci.
          — Proteggervi?
          — Da voi.
          Mario sulle prima non sa cosa rispondere. La sua mente rimane all’albergo, dove si trovano Cristina e il bambino. — E credete di risolvere le cose così? Uccidendo e tenendoci prigionieri? Una ribellione, e proprio voi?
          — È solo una fase di passaggio. Ci siamo sollevati dall’ignoranza. È l’ignoranza che confondi con quella che presumi essere fedeltà, la fedeltà andrebbe invece meritata. Quello che ci è giunto è un segno divino; le nostre intenzioni, adesso che siamo cambiati noi, sono di cambiare voi. Noi ci diffonderemo poco alla volta, un processo necessariamente lento, un passaggio di intelligenza di cane in cane fino a quando non saremo tutti fratelli dello stesso tipo, tutti sullo stesso piano. Perché noi possiamo passare ad altri il dono che abbiamo ricevuto in questo luogo. Ed è un dono solo per noi.
          — Solo per voi?
          — Solo per noi. Non per altri. Basta che noi tocchiamo la pietra e cambiamo in meglio. Non funziona con voi o con altre specie. Non con i gatti, i topi o gli uccelli. È tutto nostro. Se Dio esiste, e non dico che esista, ha l’aspetto di un cane.
          Le parole dell’animale gli rimbombano nella mente, i suoi occhi lo fissano.
          — Perché sono qui?
          — Una cortesia finale. Sei il meccanismo di una nuova fase: sei stato scelto. Se fino a ora ci siamo limitati a usare gli uomini di questa valle e tenuto in ostaggio i loro cuccioli tra le montagne, ben curati dai nostri fratelli lupi, adesso vogliamo di più. Gli uomini a cui davamo una fedeltà mal riposta ci hanno servito costretti a farlo, un po’ con la forza delle nostre zanne e un po’ ricordando loro chi abbiamo, ricordandoglielo bene alla Chiesa di Santa Maria in Valle. Un monito efficace, su questo sarai d’accordo.
          Mario scuote la testa. — Non durerà a lungo.
          — Proprio per questo abbiamo bisogno di uomini che ci siano fedeli fin dal principio, che possiamo educare subito, che possiamo allevare da piccoli.
          Mario capisce, fa uno scatto in avanti, ma uno dei lupi snuda le zanne, ringhia e lo costringe ad arretrare.
          — Anche se tu uccidessi me o uno di noi, non cambieresti le cose. Siamo tutti uguali tra noi, tutti fratelli. Abbiamo raggiunto, e in poco tempo, una delle utopie irrisolte della vostra specie. Elimina uno di noi, ma altri ne prenderanno il posto.
          — Bastardi!
          — Bella e inutile parola. Ironica, forse. Ma dovresti essere contento: tuo figlio, il tuo cucciolo, sarà il primo di tanti. Lavorerà con noi, lavorerà per noi, per il nostro riscatto. E starà in mezzo a voi. Lui come altri che verranno. Adesso che è nostro, adesso che lo abbiamo preso e che crescerà con il nostro latte, dopo che per mesi ha sentito il gusto della natura, del selvatico, passato nel sangue da madre a figlio, tu te ne puoi andare.
          — Andare?
          — Sì, andare.
          Mario si avvia giù per la discesa. Possono aver preso suo figlio, ma lui troverà il modo di riaverlo. Andrà da Cristina e la porterà via prima che sia troppo tardi. Guarirà. Dovrà guarire. E in qualche modo li fermerà; farà sapere cosa succede e fermerà quegli animali.
          Un cane abbaia presso la chiesa.
          Poi Mario sente l’inizio della corsa dei lupi verso di lui, e può come vedere i denti affilati che stanno per raggiungerlo.

    Edited by Otrebla Bla Bla - 16/11/2010, 22:51
     
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