L'ultima Corsa
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L'ultima Corsa

di Marcello Gagliani Caputo (20.248 caratteri)

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  1. margaca
     
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    Visto da dietro la finestra, il temporale sembrava voler cancellare tutto: palazzi, auto, strade, negozi. Le case erano immerse nel buio, nessun segno di vita, si sentiva soltanto il rumore della pioggia che cadeva da ore.
    Marco riaccostò le tendine e giocherellò con la forchetta.
    «Serata da lupi». Accennò un sorriso. «Forse è meglio che rimanga qui stanotte».
    La donna seduta di fronte a lui bevve un sorso di vino senza alzare lo sguardo.
    «Il divano è molto comodo».
    Lui poggiò la forchetta sul piatto.
    «Si può sapere cosa hai? È tutta la sera che a malapena mi rivolgi la parola».
    La ragazza si pulì la bocca con un tovagliolo e lo guardò.
    «Sapevo che questa cena era un errore, dovevi tornartene a casa prima che venisse giù il diluvio». Si alzò e infilò piatto e posate nella lavastoviglie.
    «Barbara, dai…» Marco si alzò, ma lei lo respinse. «Ti ho già chiesto scusa, pensavo fosse finita lì».
    Lei si sistemò i capelli dietro l’orecchio e un lampo le illuminò il volto contratto.
    «Perché per te è sempre così facile?» Una lacrima le rigò il viso.
    Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma alla fine abbassò la testa.
    «Mi dispiace».
    «Sai dire soltanto ‘mi dispiace’». Si asciugò gli occhi e lo guardò. «Sono stanca di tutto questo, credo che sia meglio stare lontani per un po’».
    «Ma che stai dicendo? Per una stupidaggine…»
    «Non me ne frega niente se giovedì mi hai mollata due ore davanti a quel teatro, ma sono stufa di venire sempre dopo gli altri, lo capisci? Una volta è tuo fratello, una volta tua madre… e io sempre lì ad aspettarti».
    Marco tentò di abbracciarla, ma lei si divincolò.
    «Per favore, vattene».
    «Barbara…»
    La donna si voltò e si coprì il viso col fazzoletto.
    «Ma hai visto che tempo fa? E poi sono senza macchina, come ci torno a casa?»
    Barbara rimase in silenzio dandogli le spalle.
    «Ok», si arrese lui, «ti lascerò tutto il tempo che vuoi». Afferrò l’impermeabile e prese un ombrello. «Spero di trovare un taxi».
    Uscì e compose il 3570, ma dopo oltre dieci minuti di attesa riattaccò e si incamminò sotto il diluvio. Attorno a lui c’erano case buie e lampioni che proiettavano fasci di luce a intermittenza, i marciapiedi erano ricoperti da detriti e le auto sembravano vecchi rottami abbandonati al tempo. La pioggia cadeva a dirotto, i tuoni gli rimbombavano nelle orecchie e i lampi disegnavano inquietanti ombre sui palazzi.
    Dopo poche centinaia di metri, nel buio, apparve un’insegna: PUB. Marco si fermò e si guardò alle spalle. Rimase qualche attimo indeciso e alla fine entrò.
    Era un locale piccolo, con pochi tavoli e un vecchio jukebox polveroso. Marco si guardò attorno e poi si avvicinò al bancone. Un tizio fumava assorto nei suoi pensieri e non sembrava esserci nessun altro, neppure il barman.
    «Hai una sigaretta?»
    L’uomo si voltò e gli sorrise.
    «Certo». Gli porse un pacchetto.
    Marco se ne accese una e prese posto sullo sgabello accanto.
    «Si può avere una birra qui dentro?»
    «Oscar si è allontanato per qualche minuto, ma puoi servirti da solo».
    Lui cercò un boccale e lo riempì.
    «Come mai in giro con questo tempaccio?» chiese lo sconosciuto.
    «Ho litigato con la mia fidanzata».
    «Anche tu, eh?»
    «Che vuoi dire?»
    «Ieri sera c’era un tizio che è stato piantato dalla ragazza perché è arrivato tardi a un appuntamento. Dovevi vedere come era ridotto quando è andato via, non avevo mai visto un uomo così ubriaco». Sorrise.
    «Non ci crederai, ma è capitata la stessa cosa a me». Sorseggiò la birra e riaprì il cellulare provando a chiamare il 3570, ma anche stavolta riuscì a parlare solo con una voce registrata.
    «È tutta la sera che provo a chiamare un taxi».
    «Hai bisogno di un passaggio? Io stavo per andare via, se vuoi…»
    «Grazie, ma non voglio disturbarti, magari riprovo a chiamare tra un po’, prima o poi qualcuno risponderà».
    «Guarda che per me non c’è problema, anzi, con questo tempo, sarà un piacere avere compagnia».
    Marco ci pensò su qualche attimo e poi annuì sorridendo.
    «D’accordo».

    Fuori il temporale imperversava violento.
    «Spero che l’auto non sia lontana» disse Marco proteggendosi con l’ombrello.
    «È dietro l’angolo, da questa parte». Svoltarono in una stradina laterale e saltarono dentro una vecchia Renault gialla.
    L’uomo mise in moto e attivò i tergicristalli.
    «Potresti passarmi il panno che c’è nel cruscotto?» disse poco dopo. «Qui non si vede niente». Con la mano provò a pulire il parabrezza, ma con scarsi risultati.
    Marco aprì il cruscotto e un vecchio foglio ingiallito gli cadde sulle ginocchia. Lo aprì e lo guardò incuriosito.

    SEDICENNE UCCIDE UN PROFESSORE E QUATTRO COMPAGNI DI CLASSE

    Spostò lo sguardo sulla data: 6 Giugno 1990.
    La gola gli si seccò e il cuore aumentò i battiti.
    «Dove hai preso quest’articolo?»
    L’uomo gli lanciò un’occhiata.
    «Che articolo? Hai trovato il panno?»
    Marco lo ignorò.
    «Era un mio compagno di classe».
    «Ma chi? Che stai dicendo?» L’uomo afferrò il panno e cominciò a passarlo sul parabrezza.
    «Questo ragazzo…» Marco indicò la pagina del giornale.
    L’altro continuò a guardarlo poco convinto.
    «Mi spieghi di che cosa stai parlando?»
    «Non lo dimenticherò mai, erano gli ultimi giorni di scuola e sembrava la solita giornata fatta di chiacchiere e scherzi di fine anno, quando improvvisamente Fabio, si chiamava così, ha estratto una pistola dallo zaino cominciando a sparare all’impazzata. Non ha detto neppure una parola, ha scaricato il caricatore e poi si è infilato la canna in bocca lasciando per sé l’ultimo colpo. Mi porterò dietro quel suo sguardo per tutta la vita. Erano occhi vuoti, privi di qualsiasi espressività. Occhi di un morto».
    L’uomo lo guardò.
    «Ma che cazzo stai dicendo?»
    Marco gli mostrò il ritaglio di giornale.
    «Sono passati quasi vent’anni, ma me lo ricordo come se fosse successo ieri». Socchiuse gli occhi e si sentì precipitare nella sua vecchia classe di liceo: era seduto al suo posto e attorno a lui c’erano tutti i compagni, compreso quel ragazzo silenzioso e introverso con cui in tutto l’anno aveva scambiato sì e no due parole. Sembrava giocherellare con qualcosa, forse una pallina, una biglia… o era un proiettile? Le sue mani si muovevano lente carezzando la punta di quella pallottola, mentre sulle sue gambe era improvvisamente apparsa una pistola.
    «Cazzo», aveva pensato Marco cercando di richiamare l’attenzione degli altri, «questo è impazzito, ci ucciderà tutti». Ma nessuno sembrava né vederlo né sentirlo. Tutti erano impegnati a chiacchierare, ridere, scherzare, tranne quel ragazzone alto e robusto che con una familiarità inaspettata aveva fatto scivolare i proiettili dentro la pistola e l’aveva chiusa alzandosi e cominciando a sparare sul mucchio.
    «Ehi, ti senti bene?»
    Marco si voltò e si ritrovò faccia a faccia con il suo compagno di viaggio.
    «Mio Dio, devo aver avuto un’allucinazione». Si passò una mano sul viso.
    «Sei sicuro che vada tutto bene? Sei pallido come un lenzuolo».
    «Sì, sì, tranquillo, ho solo un gran mal di testa».
    L’uomo annuì e partì.

    Per alcuni minuti dentro l’auto regnò il più assoluto silenzio. Marco poggiò la testa sul finestrino e chiuse gli occhi nella speranza di cancellare quei ricordi che erano riemersi scatenando dentro di sé un groviglio inestricabile di sentimenti: paura, rimorso, angoscia e incredulità si mescolarono facendogli dimenticare il litigio con Barbara, fino a quando tutto attorno a lui si affievolì avvolgendolo in un manto di tenebre.
    Quando riaprì gli occhi era immerso nel buio. L’aria era pervasa da un forte odore di chiuso e una flebile luce penetrava da una piccola finestra sopra di lui, disegnando una curiosa figura, simile a un animale accucciato, sulla parete. Cercò di muoversi, ma la catena a cui era legato frustrò il suo tentativo. Si guardò attorno e sentì una porta aprirsi. Un forte cigolio risuonò minaccioso nella cantina e un fascio di luce blu la illuminò parzialmente. Marco alzò la testa e vide un’ombra in cima a delle scale.
    «Benvenuto». Una figura indistinta scese e si avvicinò.
    Quando la luce la illuminò, Marco rimase immobile, atterrito. Tentò di aprire la bocca, ma tutto ciò che ne uscì fu un suono senza senso. Si strinse le mani al petto e si schiacciò sulla parete fredda.
    «Non può essere…», balbettò terrorizzato, «tu… tu sei morto…»
    L’essere si avvicinò. Aveva i vestiti imbrattati di sangue e una profonda ferita sotto il mento, nel punto in cui si era sparato, mentre tutto attorno il sangue si era rappreso in macchie scurite dai residui della polvere da sparo.
    «Non pensavo che il nostro incontro potesse sconvolgerti così tanto».
    Marco lo guardò e sentì un brivido attraversarlo dalla testa ai piedi.
    «Che cosa… sei?»
    Il suo vecchio compagno di classe sorrise enigmatico.
    «Lo scoprirai presto, sta’ tranquillo». Tornò verso le scale e sparì nuovamente nel buio.
    «Sono impazzito, non può essere vero…», Marco strattonò la catena, ma questa non si scalfì di un centimetro. Lo circondavano decine di ombre di oggetti indistinti, probabilmente vecchie cianfrusaglie abbandonate lì da chissà quanto tempo, mentre la piccola finestra sopra di lui sembrava l’unico contatto col mondo esterno. Riprovò a forzare la catena, ma ogni suo tentativo risultò vano. Alla fine poggiò la testa contro il muro e la stanchezza lo assalì.
    «Lui è morto…», mormorò cercando di tenere gli occhi aperti, «è morto… è morto davanti ai miei occhi…», sentì le palpebre chiudersi e dopo pochi secondi cadde in un sonno profondo e tormentato.
    Sognò di trovarsi lungo una strada senza fine. Attorno a lui la pioggia cadeva forte ma silenziosa, mentre un lieve ticchettio scandiva ogni suo respiro. Era come le lancette di un orologio e a ogni scatto una luce rossa brillava all’orizzonte. Si guardò attorno disorientato. Avrebbe voluto cercare un riparo, ma le sue gambe sembravano muoversi da sole verso quella luce e così continuò a camminare fino a quando un tonfo non lo fece ripiombare nella cantina. Aprì gli occhi e si ritrovò supino sul freddo pavimento di pietra. Alzò il capo e vide un’ombra allontanarsi.
    «Ehi».
    L’uomo si voltò e gli sorrise.
    «Ti prego», scongiurò Marco, «lasciami andare».
    «Mi dispiace, ma non posso».
    «Cosa vuoi da me?»
    Lui rimase zitto e poi si voltò verso la piccola finestra.
    «Non voglio farti del male». Tornò verso le scale. «Lì c’è qualcosa da mangiare». Sparì oltre la porta.
    Marco si voltò e vide una scodella e un bicchiere.
    «Dove sono finito?» Si lasciò andare ancora una volta contro la parete.
    Mille pensieri gli si affollarono nella mente e piano piano la vista gli si annebbiò ancora una volta. Le palpebre diventarono pesanti e uno stato di improvvisa spossatezza lo pervase in ogni angolo del corpo. Il buio lo avvolse e scivolò ancora una volta nel sonno.
    Era di nuovo lungo la stessa strada, ma questa volta camminava avvolto in un pesante giubbotto e in testa aveva un cappellino da baseball. La pioggia attorno a lui continuava a cadere silenziosa e la luce rossa sembrava brillare più forte, simile a un cuore in affanno. Il ticchettio continuava a essere l’unico rumore che arrivava alle sue orecchie e lui si muoveva spinto da un dolce soffio di vento. Una figura gli apparve accanto, era rannicchiata su un marciapiede e aveva indosso pochi stracci e un cappellino logoro con una scritta cancellata dal tempo. Tremava dal freddo. Marco si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla. La testa dell’uomo si alzò e lui si sentì precipitare in un tunnel infinito. Spalancò la bocca e ritirò la mano. Quel barbone davanti a lui era Barbara, la sua fidanzata. Il viso era sporco e i capelli erano coperti dal cappellino, ma gli occhi erano gli stessi, quegli occhi verdi che tante volte aveva fissato innamorato.
    Lei gli prese la mano.
    «Aiutami», disse con un filo di voce, «ti prego, ho freddo».
    Marco rimase fermo. Tentò di dire qualcosa, ma la sua bocca non si mosse.
    «Ti prego», ripeté la donna, «aiutami, sto morendo dal freddo».
    Lui si tolse il giubbotto e glielo poggiò sulle spalle.
    Lei sorrise e guardò verso la luce.
    «Vai, adesso, ti stanno aspettando».
    Marco girò la testa e inarcò le sopracciglia.
    «Chi mi sta aspettando?»
    «Vai», ripeté la ragazza, «sbrigati, non c’è più molto tempo».
    Quando riaprì gli occhi, la luce del sole filtrava appena dalla piccola finestra. Si mise seduto e si guardò intorno. Cercò per l’ennesima volta di allentare la pressione della catena e sentì aprire la porta. Il suo carceriere sbucò dalla penombra con indosso dei vestiti puliti e profumati. Il suo aspetto era cambiato e tutte le ferite erano scomparse. Marco lo guardò e stentò a riconoscerlo.
    «Buongiorno». Lo raggiunse.
    «Perché mi tieni incatenato? Cosa vuoi da me?»
    Lui sorrise e spostò gli occhi sulla piccola finestra.
    «E’ arrivato il momento». Gli sorrise. «Mi dispiace averti lasciato qui per tutto questo tempo, ma adesso potrai tornare a casa».
    Marco sentì un filo di speranza riaccendersi.
    «Perché mi hai tenuto prigioniero qui sotto?» Non riusciva ancora a capire cosa stesse succedendo.
    «Perché ho bisogno di te, devi liberarmi, devi cambiare il passato».
    Lui non capì.
    «C… cosa devo fare?» Balbettò.
    L’uomo gli si avvicinò e tirò fuori una chiave dalla tasca dei pantaloni. Si chinò e lo liberò dalla catena.
    «Vieni con me».
    Marco rimase immobile, indeciso se tentare la fuga, ma alla fine si alzò e lo seguì.
    «Dove mi stai portando?»
    L’uomo lo ignorò e aprì la porta in cima alle scale. Si ritrovarono in una cucina pervasa da un forte odore di chiuso e di polvere. I mobili erano ricoperti di ragnatele e qualche grosso scarafaggio camminava indisturbato tra i fornelli. Le finestre erano sbarrate con delle assi di legno, mentre su un vecchio tavolo c’era una lampada che emetteva una debole luce blu.
    «Posso davvero tornare a casa?» Domandò Marco cercando con gli occhi una via d’uscita.
    L’uomo si voltò e sorrise.
    «Certo». Poi si chinò e aprì lo sportello di un mobile.
    Quando gli vide impugnare un’ascia, Marco sentì le gambe cedere.
    «Oh, mio Dio». Si guardò attorno e si lanciò verso la porta della cucina. L’aprì con una spallata e si ritrovò a terra in un piccolo salone spoglio. Da una finestra rotta si intravedeva la strada, ma la luce era sparita, adesso pioveva e sembrava calata la notte. Si rimise in piedi e si voltò. La porta della cucina si era richiusa e c'era silenzio. Cercò l’ingresso. Era davanti a lui. Si avvicinò e strinse la maniglia.
    «Non si aprirà». Pensò tra sé. «Non si aprirà».
    Uno scatto e la porta si aprì.
    «Non andare via, ti prego».
    Lui si voltò e una folata di vento spalancò la porta alle sue spalle.
    «Ti prego, devi aiutarmi».
    Marco deglutì a vuoto e ripiombò nella sua vecchia scuola. Attorno a lui ragazzi correvano e chiacchieravano, mentre Fabio se ne stava in un angolo, spalle ricurve e sguardo perso nel vuoto.
    «Ehi, ragazzi guardate chi c’è là!» Gridò qualcuno.
    Marco si voltò e vide un gruppetto di ragazzi ridere.
    «Guardate i suoi vestiti!» Esclamò uno di loro sghignazzando. «Ehi, ma dove li compri? Su Marte?»
    Una risata risuonò forte, quasi insopportabile, e poi tutto tornò come prima.
    Marco vide Fabio avvicinarsi.
    «Sai che giorno è oggi?» Gli chiese.
    Lui scosse la testa.
    «È il 6 Giugno, come venti anni fa…»
    Marco rimase zitto, mentre dietro di lui la pioggia cadeva incessante.
    «Aiutami, non voglio tornare laggiù». L’ascia cadde sul pavimento. «Mi faranno ancora del male, non voglio tornare laggiù».
    Marco indietreggiò e uscì dalla casa.
    «Ti prego», aggiunse il suo vecchio compagno di classe, «liberami da questa maledizione». Si inginocchiò e abbassò il capo come un condannato a morte.
    Marco fece un altro passo indietro e si trovò sotto la pioggia. Era calda e appiccicosa. Si chinò a raccogliere l'ascia.
    «Dio, dammi la forza…» Chiuse gli occhi e calò l'arma con forza. Il corpo di Fabio ebbe uno spasmo e poi cadde al suolo. La testa rotolò poco lontano.
    Marco rialzò le palpebre e lasciò cadere l’ascia. Le mura della casa presero a muoversi e delle voci rimbombarono nella sua mente. Erano insopportabili. Scese i gradini e cominciò a correre tenendosi le mani premute sulle orecchie. Inciampò un paio di volte finendo disteso sull’erba bagnata, si rimise in piedi e continuò a correre senza mai voltarsi indietro. Le grida andarono affievolendosi e una voce dolce e bassa attirò la sua attenzione. Si fermò bruscamente e si guardò attorno. Si trovava lungo una strada buia e un forte ticchettio gli pulsava nelle tempie. Una voce lo chiamò. Lui si guardò attorno e vide l’ombra di una persona rannicchiata su se stessa. Portava un cappellino con una scritta cancellata dal tempo e un impermeabile logoro. Le si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla. La figura alzò la testa e lo guardò. Era Barbara, la sua fidanzata. Il viso era molto sporco e i capelli erano coperti dal cappellino, ma gli occhi erano inconfondibili. La loro straordinaria lucentezza e la loro dolcezza lo lasciarono quasi tramortito.
    «Ho freddo», disse la ragazza, «ti prego, dammi il tuo giubbotto».
    Marco si toccò il corpo e si accorse di indossare una giacca che prima non aveva. Se la tolse e la porse alla ragazza. Lei la indossò e sorrise.
    «Vai adesso, ti stanno aspettando».
    Marco vide davanti a sé una luce rossa. Pulsava come un cuore.
    «Vai», ripeté la donna, «hai fatto ciò per cui eri qui». Un forte vento cominciò a soffiare alle sue spalle e lo spinse lontano. Quando il ticchettio si fece assordante, Marco chiuse gli occhi e si lasciò svenire.

    Si risvegliò in una stanza illuminata dal sole. Davanti aveva un uomo con gli occhiali e un camice bianco. Sentiva la bocca secca e il corpo immobilizzato da bende strette. Cercò di muovere una mano, ma riuscì soltanto ad alzare debolmente un dito. Si leccò le labbra e cercò di parlare.
    «Dove sono?»
    Il medico sorrise.
    «All’ospedale».
    «Come ci sono finito?»
    «Due giorni fa ha avuto un incidente con la macchina, l’abbiamo tenuta in coma farmacologico, ma ora il peggio è passato».
    Lui cercò di dire qualcosa e il medico scosse la testa.
    «Mi dispiace, ma il suo amico non ce l’ha fatta. Abbiamo provato in tutti i modi, ma non siamo riusciti a rianimarlo, è morto sul colpo».
    Marco ripensò all’uomo che aveva incontrato al pub e al ritaglio di giornale che aveva trovato nell’auto.
    «Stretto in mano aveva questo». Il medico infilò la mano nella tasca del camice e tirò fuori la pagina di un giornale. Gliela aprì davanti:

    SEDICENNE EVITA STRAGE IN CLASSE

    «Mi sono permesso di leggerlo, parla di un ragazzo che vent’anni fa salvò dei compagni di classe dalla furia omicida di uno di loro. È lei quel ragazzo, giusto?»
    Marco lo guardò, confuso. Lui non aveva evitato quella strage, si era soltanto salvato per caso, buttandosi sotto uno dei banchi e rimanendo nascosto fino a quando non era arrivata la polizia. Fu sul punto di rispondere, ma la porta della stanza si aprì e una ragazza entrò. Era alta, aveva i capelli castani e gli occhi verdi. Portava un paio di jeans chiari e una camicia rossa e sulla testa aveva un cappellino blu con una scritta cancellata dal tempo. Si avvicinò al letto e poggiò le sue labbra su quelle del ragazzo.
    «Come ti senti?»
    Marco cercò la sua mano e lei gliela strinse.
    «Bene».
    Lei abbassò la testa e cominciò a piangere.
    «Mi dispiace, l’altra sera non dovevo mandarti via in quel modo». Si asciugò le lacrime. «A quest'ora tutto questo non sarebbe successo».
    Lui la guardò e una fitta gli trapassò il cervello: il viso di un barbone gli passò davanti agli occhi e una forte luce rossa lo accecò per qualche attimo.
    Con fatica, alzò il braccio e le carezzò il viso, asciugandole una lacrima.
    «Mi vuoi sposare?»

    Edited by margaca - 9/11/2010, 19:32
     
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  2. Magister Ludus
     
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    Il racconto mi è piaciuto e scorre, è ben scritto e desta curiosità, in breve non fa cadere l'attenzione del lettore.

    Ti segnalo, senza offesa, ma credo siano utili, alcuni refusi/errori che ho incontrato nel testo:

    E’: questo succede spesso, ma si tratta di una E con un apostrofo, devi invece usare il simbolo È.

    CITAZIONE
    «Barbara, dai…» Marco si alzò, ma lei lo respinse.
    «Ti ho già chiesto scusa, pensavo fosse finita lì».

    Ho visto che tendi ad andare a capo in questi casi, ma secondo me quando è sempre lo stesso personaggio a parlare, devi mantenere tutto su un'unica riga:

    «Barbara, dai…» Marco si alzò, ma lei lo respinse. «Ti ho già chiesto scusa, pensavo fosse finita lì».

    una volta tua madre…e io sempre: dopo i tre puntini ci vuole lo spazio.

    CITAZIONE
    «Spero che l’auto non sia lontana». Disse Marco proteggendosi con l’ombrello.

    In questo caso credo sia più corretta la forma «Spero che l’auto non sia lontana» disse Marco proteggendosi con l’ombrello.

    CITAZIONE
    aveva fatto scivolare i proiettili dentro alla pistola

    "aveva fatto scivolare i proiettili dentro la pistola" mi sembra più scorrevole. Non è un errore, è solo un parere personale, grammaticalmente la forma è corretta :)

    E infine un paio di altri refusi:

    un’allucinazione».Si passò una mano sul viso

    E lei quel ragazzo, giusto?»

    Per il resto la storia mi sembra ben strutturata, ho avuto solo una piccola difficoltà a seguire la parte in cui il protagonista si ritrova legato.
     
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  3. margaca
     
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    Grazie per il commento e per le segnalazioni, ho corretto tutto!
     
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  4. GrilloParlante
     
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    User deleted


    Ciao
    SPOILER (click to view)
    Il racconto scorre benissimo nella prima parte e nell'ultima, ho trovato però qualche difficoltà a seguire i salti temporali/di coscienza quando il protagonista è legato. Cominciavo anche a chiedermi cosa centrasse il tipo del bar, nella cui cantina era stato rinchiuso, anche se alla fine hai saputo tirare le fila per quel personaggio.
    Un'altra cosa che non mi ha soddisfatto appieno è stata la figura della fidanzata, che non si capisce perché debba aiutarlo durante il coma, se poi nella realtà non è neanche andata a trovarlo. Ho pensato che forse prima dell'azione del protagonista, che cambia il passato, lei non sarebbe andata a trovarlo; dopo aver cambiato il passato e quindi in parte anche il suo destino, lei cambia atteggiamento.
    Ma allora non mi quadra come mai gli fa da mentore durante il passaggio. Non so, forse è solo una mia paranoia.
    Anche in questo racconto (ne ho già letto un altro a cui ho fatto lo stesso appunto questo mese) non mi sembra credibile, se non si aggiuge qualche particolare per spiegarlo, che uno salga in macchina con un perfetto sconosciuto così semplicemente. Sarò io troppo diffidente?
    Per questi motivi non arrivo a tre, anche se il due lo metto a malincuore perché in effetti è troppo poco.

    Voto 2
     
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  5. margaca
     
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    User deleted


    Rispondo ai tuoi due dubbi: nel sogno (anche se poi sogno non è), la fidanzata è soltanto la forma umana di ciò di cui Marco ha bisogno per finire il suo viaggio e cioè l'amore. Non dipende dalla volontà di Barbara. Per farlo capire meglio, ho cambiato il dialogo finale.
    Riguardo poi il passaggio che accetta dallo sconosciuto, chi non avrebbe accettato in quelle condizioni? Nubifragio, taxi introvabili, litigio con la fidanzata, un mondo che sembra appena uscito da un conflitto atomico... ;)
     
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  6. GrilloParlante
     
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    Si', così è meglio.
    Riguardo il passaggio: sono davvero troppo diffidente! Il risultato di anni a frequentare le grandi città :(
     
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  7. luckyfer
     
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    Molto carino, scorrevole, ben cadenzato, non cala la tensione.

    Piacevolissimo il miscuglio di generi (un po Psycho quando pensi che parla di una storia di amore e cambia subito prospettiva, un po' Canto di Natale quando vede il passato e il futuro, adeguatamente e correttamente confuso nel susseguirsi di azioni concatenate del sogno), tutto molto efficace. Anche l'aver liberato il fantasma dal suo destino si inserisce bene, e l'happy end per una volta non stona.

    Un tre, ma molto abbondante.

     
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  8. margaca
     
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    Se era un tre molto abbondante, potevi arrotondare a 4! Sarebbe stato il mio primo 4 su USAM! :muro:
    A parte gli scherzi, grazie del commento, si denota che lo hai letto con molta attenzione e cura!
     
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  9. luckyfer
     
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    Eh, che premura! Per una vecchia conoscienza ero passato dal tre all'uno per il finale, qui ti sei preso un tre abbondante!

    Se poi pensi che questo mese ho dato quattro e lode ad Oltrebla, un tre,5 portato a quattro a Roberto Bonmarito, poi ci sei tu e poi tutti gli altri, dovresti essere felice per il podio!

    Poi per prendere quattro dovevi evitare le manette, per dirla tutta mi sembra un mezzo proprio incongruo per il fantasma, che poteva controllare il protagonista diversamente (paura, telepatia, telecinesi, che so io). E' una tua scelta e la rispetto ma è uno scivolino.

    Dai, sei sulla strada buona, vediamo il mese prossimo cosa mi combini. ^_^
     
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  10. Medusa
     
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    Letto
    SPOILER (click to view)
    Ammetto che quando entra nel bar, dopo le prime battute dell’unico avventore, ho creduto che Marco fosse morto e condannato a rivivere quella particolare serata per l’eternità. E il dubbio mi è rimasto fino a quando non si sveglia legato nella cantina. Ho quindi apprezzato moltissimo quello che per me è stato un colpo di scena anche se poi inizia a diventare tutto un po’ complicato con i passaggi dal presente/coma al passato. Ma quello che mi ha fatto propendere per il 3 è il cambio del titolo del giornale che mi ha ricordato molto un telefilm americano di un tipo che riceve il giornale del giorno dopo e passa l’intera giornata a prevenire le catastrofi. Oltre al fatto che in questo modo si cambia letteralmente le vita di 4 persone senza però conseguenze apparenti su quella del protagonista. Penso che a far correre la ragazza al suo capezzale sia stato l’incidente in sé non il fatto che lui abbia liberato il fantasma.

    CITAZIONE
    Marco fece tintinnare la catena, ma ancora una volta non si scalfì di un centimetro.

    Ehmmm… non l’ho capita v//v nel senso che non si sposta o nel senso che non si rovina in modo da poterla rompere a furia di tentare?
     
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  11. margaca
     
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    Nel senso che la catena non si scalfisce neppure e quindi lui rimane saldamente legato al muro.
    Grazie del commento e del voto (che però ancora non risulta! :cry: )
     
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  12. Medusa
     
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    ops credevo di averlo fatto :imploro:

    dannata connessione :angry:

    rimediato^^
     
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  13. RobertoBommarito
     
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    Ciao,
    SPOILER (click to view)
    Credo che uno dei temi principali di questo racconto sia il cambiamento e il percorso di Marco. È una buona storia perché appunto questi cambiamenti accadono, la storia non è statica o lenta, e vengono narrati bene. Però queste parti ben narrate si alternano ad altre parti, come i salti, che a tratti mi hanno confuso, e che ho dovuto rileggere più volte per non perdere il filo di cosa stava accadendo. Per questo metto un due abbondante, ma non arrivo a tre.

    Altre note:

    QUOTE
    L’atmosfera che lo circondava era simile a quella di un day after:

    L'uso di un termine in inglese come "day after" mi sembra un pochino troppo "facile" da usare. È un termine inglese in voga, ma sono sicuro che in italiano si può trovare un termine equivalente che svolga la stessa funzione.

    QUOTE
    «È tutta la sera che provo a chiamare un taxi».
    «Hai bisogno di un passaggio? Io stavo per andare via, se vuoi…»
    «Grazie, ma non voglio disturbarti, magari riprovo a chiamare tra un po’, prima o poi qualcuno risponderà».
    «Guarda che per me non c’è problema, anzi, con questo tempo, sarà un piacere avere compagnia».
    Marco ci pensò su qualche attimo e poi annuì sorridendo.
    «D’accordo».

    Trovo che questa scena accada troppo rapidamente. Gli viene offerto un passaggio da un totale sconosciuto appena incontrato, e lui accetta senza farsi problemi. I due non hanno nemmeno il tempo sufficiente per conoscersi un po', per intuire che tipo di persona è l'altro. Mi sembra troppo poco realistico.

    A rileggerti!

     
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  14.  
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    Losco Figuro

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    Un buon soggetto che però non mi convince del tutto nel finale, credo ci sia troppo di non spiegato. Un po' di mistero va bene, ma qui mi ritrovo a domandarmi che cosa sia successso esattamente, e come, e perché... troppo, appunto.
    A parte questo comunque un buon lavoro, voto 3.

    PS: ma mi spieghi il titolo? :huh:

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    «Si può sapere cosa hai? È tutta la sera che a mala pena mi rivolgi la parola».

    "malapena"

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Si alzò e infilò piatto e posate nel lavastoviglie.

    Refuso: "nella"

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Dopo poche centinaia di metri nel buio apparve un’insegna:

    Meglio se aggiungi una virgola da qualche parte. ^_^
    È "poche centinaia di metri nel buio" o "nel buio apparve un'insegna"?

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Marco se ne accese una e prese posto sullo sgabello accanto.
    «Si può avere una birra qui dentro?»
    «Oscar si è allontanato per qualche minuto, ma puoi servirti da solo».
    Marco cercò un boccale e lo riempì.

    Troppi Marco in troppo poco spazio (già ce n'erano due poco prima)

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    «Come mai in giro con questo tempaccio?» Chiese lo sconosciuto.

    "chiese", senza maiuscola

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    «Ho litigato con la mia fidanzata». Marco bevve un sorso.

    Rieccolo... ^__^;;

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    «È dietro l’angolo, da questa parte». Svoltarono in una stradina laterale e saltarono dentro.

    ... dentro che?

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    «Potresti passarmi il panno che c’è nel cruscotto?» Disse poco dopo.

    Anche qui, "disse"

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    disegnando una curiosa figura simile a un animale accucciato sulla parete.

    "simile a un animale accucciato" starebbe meglio tra due virgole.

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Tentò di aprire la bocca, ma tutto ciò che ne uscì fuori

    "fuori" è pleonastico, difficile possa uscire dentro

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Marco fece tintinnare la catena, ma ancora una volta non si scalfì di un centimetro.

    Non ho capito che intendi dire, che significa che non si scalfì di un centimetro?

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Tornò a scrutare la catena cercando di capire se potesse in qualche modo liberarsi, ma ogni suo tentativo risultò vano.

    Be', certo, se si limita a scrutarla... ^___^;;

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Marco si avvicinò e gli poggiò una mano sulla spalla.

    "le poggiò", fin qui è "una figura"

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Quando riaprì gli occhi la luce del sole filtrava appena dalla piccola finestra.

    Metterei una virgola dopo "occhi"

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Si mise seduto e si guardò in giro.

    "si guardò intorno" o "guardò in giro"

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    «Certo». Poi si chinò e aprì lo sportello di un mobile.
    Marco lo guardò

    Cosa guardò? Tecnicamente è lo sportello del mobile, ma poi impugna un'ascia... ^__^;

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Da una finestra rotta si intravedeva la strada. La luce che aveva intravisto

    intravedeva/intravisto, evitabile

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Dei due occhi, soltanto uno era aperto, mentre una delle mani aveva soltanto tre dita.

    Non è meglio senza "mentre" e con un punto e virgola? Dopotutto le due cose non sono correlate.

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    «Dio, dammi la forza…» Chiuse gli occhi e la calò con forza.

    Lo so che è l'ascia il soggetto di "calare", ma in realtà non ci si riallaccia come dovrebbe.

    CITAZIONE (margaca @ 1/11/2010, 00:01) 
    Se la tolse e la porse alla ragazza. Lei lo indossò e sorrise.

    "la indossò"
     
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  15. margaca
     
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    Grazie del voto, ma soprattutto del commento, tantissime osservazioni che ho provveduto a correggere. Riguardo il titolo, l'ultima corsa sarebbe quella che lui fa verso la luce pulsante, che poi non è altro che la vita che lo chiama. L'ultima corsa verso una vita diversa, verso un nuovo futuro e un diverso passato.
     
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32 replies since 1/11/2010, 00:01   212 views
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