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Visto da dietro la finestra, il temporale sembrava voler cancellare tutto: palazzi, auto, strade, negozi. Le case erano immerse nel buio, nessun segno di vita, si sentiva soltanto il rumore della pioggia che cadeva da ore. Marco riaccostò le tendine e giocherellò con la forchetta. «Serata da lupi». Accennò un sorriso. «Forse è meglio che rimanga qui stanotte». La donna seduta di fronte a lui bevve un sorso di vino senza alzare lo sguardo. «Il divano è molto comodo». Lui poggiò la forchetta sul piatto. «Si può sapere cosa hai? È tutta la sera che a malapena mi rivolgi la parola». La ragazza si pulì la bocca con un tovagliolo e lo guardò. «Sapevo che questa cena era un errore, dovevi tornartene a casa prima che venisse giù il diluvio». Si alzò e infilò piatto e posate nella lavastoviglie. «Barbara, dai…» Marco si alzò, ma lei lo respinse. «Ti ho già chiesto scusa, pensavo fosse finita lì». Lei si sistemò i capelli dietro l’orecchio e un lampo le illuminò il volto contratto. «Perché per te è sempre così facile?» Una lacrima le rigò il viso. Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma alla fine abbassò la testa. «Mi dispiace». «Sai dire soltanto ‘mi dispiace’». Si asciugò gli occhi e lo guardò. «Sono stanca di tutto questo, credo che sia meglio stare lontani per un po’». «Ma che stai dicendo? Per una stupidaggine…» «Non me ne frega niente se giovedì mi hai mollata due ore davanti a quel teatro, ma sono stufa di venire sempre dopo gli altri, lo capisci? Una volta è tuo fratello, una volta tua madre… e io sempre lì ad aspettarti». Marco tentò di abbracciarla, ma lei si divincolò. «Per favore, vattene». «Barbara…» La donna si voltò e si coprì il viso col fazzoletto. «Ma hai visto che tempo fa? E poi sono senza macchina, come ci torno a casa?» Barbara rimase in silenzio dandogli le spalle. «Ok», si arrese lui, «ti lascerò tutto il tempo che vuoi». Afferrò l’impermeabile e prese un ombrello. «Spero di trovare un taxi». Uscì e compose il 3570, ma dopo oltre dieci minuti di attesa riattaccò e si incamminò sotto il diluvio. Attorno a lui c’erano case buie e lampioni che proiettavano fasci di luce a intermittenza, i marciapiedi erano ricoperti da detriti e le auto sembravano vecchi rottami abbandonati al tempo. La pioggia cadeva a dirotto, i tuoni gli rimbombavano nelle orecchie e i lampi disegnavano inquietanti ombre sui palazzi. Dopo poche centinaia di metri, nel buio, apparve un’insegna: PUB. Marco si fermò e si guardò alle spalle. Rimase qualche attimo indeciso e alla fine entrò. Era un locale piccolo, con pochi tavoli e un vecchio jukebox polveroso. Marco si guardò attorno e poi si avvicinò al bancone. Un tizio fumava assorto nei suoi pensieri e non sembrava esserci nessun altro, neppure il barman. «Hai una sigaretta?» L’uomo si voltò e gli sorrise. «Certo». Gli porse un pacchetto. Marco se ne accese una e prese posto sullo sgabello accanto. «Si può avere una birra qui dentro?» «Oscar si è allontanato per qualche minuto, ma puoi servirti da solo». Lui cercò un boccale e lo riempì. «Come mai in giro con questo tempaccio?» chiese lo sconosciuto. «Ho litigato con la mia fidanzata». «Anche tu, eh?» «Che vuoi dire?» «Ieri sera c’era un tizio che è stato piantato dalla ragazza perché è arrivato tardi a un appuntamento. Dovevi vedere come era ridotto quando è andato via, non avevo mai visto un uomo così ubriaco». Sorrise. «Non ci crederai, ma è capitata la stessa cosa a me». Sorseggiò la birra e riaprì il cellulare provando a chiamare il 3570, ma anche stavolta riuscì a parlare solo con una voce registrata. «È tutta la sera che provo a chiamare un taxi». «Hai bisogno di un passaggio? Io stavo per andare via, se vuoi…» «Grazie, ma non voglio disturbarti, magari riprovo a chiamare tra un po’, prima o poi qualcuno risponderà». «Guarda che per me non c’è problema, anzi, con questo tempo, sarà un piacere avere compagnia». Marco ci pensò su qualche attimo e poi annuì sorridendo. «D’accordo».
Fuori il temporale imperversava violento. «Spero che l’auto non sia lontana» disse Marco proteggendosi con l’ombrello. «È dietro l’angolo, da questa parte». Svoltarono in una stradina laterale e saltarono dentro una vecchia Renault gialla. L’uomo mise in moto e attivò i tergicristalli. «Potresti passarmi il panno che c’è nel cruscotto?» disse poco dopo. «Qui non si vede niente». Con la mano provò a pulire il parabrezza, ma con scarsi risultati. Marco aprì il cruscotto e un vecchio foglio ingiallito gli cadde sulle ginocchia. Lo aprì e lo guardò incuriosito.
SEDICENNE UCCIDE UN PROFESSORE E QUATTRO COMPAGNI DI CLASSE
Spostò lo sguardo sulla data: 6 Giugno 1990. La gola gli si seccò e il cuore aumentò i battiti. «Dove hai preso quest’articolo?» L’uomo gli lanciò un’occhiata. «Che articolo? Hai trovato il panno?» Marco lo ignorò. «Era un mio compagno di classe». «Ma chi? Che stai dicendo?» L’uomo afferrò il panno e cominciò a passarlo sul parabrezza. «Questo ragazzo…» Marco indicò la pagina del giornale. L’altro continuò a guardarlo poco convinto. «Mi spieghi di che cosa stai parlando?» «Non lo dimenticherò mai, erano gli ultimi giorni di scuola e sembrava la solita giornata fatta di chiacchiere e scherzi di fine anno, quando improvvisamente Fabio, si chiamava così, ha estratto una pistola dallo zaino cominciando a sparare all’impazzata. Non ha detto neppure una parola, ha scaricato il caricatore e poi si è infilato la canna in bocca lasciando per sé l’ultimo colpo. Mi porterò dietro quel suo sguardo per tutta la vita. Erano occhi vuoti, privi di qualsiasi espressività. Occhi di un morto». L’uomo lo guardò. «Ma che cazzo stai dicendo?» Marco gli mostrò il ritaglio di giornale. «Sono passati quasi vent’anni, ma me lo ricordo come se fosse successo ieri». Socchiuse gli occhi e si sentì precipitare nella sua vecchia classe di liceo: era seduto al suo posto e attorno a lui c’erano tutti i compagni, compreso quel ragazzo silenzioso e introverso con cui in tutto l’anno aveva scambiato sì e no due parole. Sembrava giocherellare con qualcosa, forse una pallina, una biglia… o era un proiettile? Le sue mani si muovevano lente carezzando la punta di quella pallottola, mentre sulle sue gambe era improvvisamente apparsa una pistola. «Cazzo», aveva pensato Marco cercando di richiamare l’attenzione degli altri, «questo è impazzito, ci ucciderà tutti». Ma nessuno sembrava né vederlo né sentirlo. Tutti erano impegnati a chiacchierare, ridere, scherzare, tranne quel ragazzone alto e robusto che con una familiarità inaspettata aveva fatto scivolare i proiettili dentro la pistola e l’aveva chiusa alzandosi e cominciando a sparare sul mucchio. «Ehi, ti senti bene?» Marco si voltò e si ritrovò faccia a faccia con il suo compagno di viaggio. «Mio Dio, devo aver avuto un’allucinazione». Si passò una mano sul viso. «Sei sicuro che vada tutto bene? Sei pallido come un lenzuolo». «Sì, sì, tranquillo, ho solo un gran mal di testa». L’uomo annuì e partì.
Per alcuni minuti dentro l’auto regnò il più assoluto silenzio. Marco poggiò la testa sul finestrino e chiuse gli occhi nella speranza di cancellare quei ricordi che erano riemersi scatenando dentro di sé un groviglio inestricabile di sentimenti: paura, rimorso, angoscia e incredulità si mescolarono facendogli dimenticare il litigio con Barbara, fino a quando tutto attorno a lui si affievolì avvolgendolo in un manto di tenebre. Quando riaprì gli occhi era immerso nel buio. L’aria era pervasa da un forte odore di chiuso e una flebile luce penetrava da una piccola finestra sopra di lui, disegnando una curiosa figura, simile a un animale accucciato, sulla parete. Cercò di muoversi, ma la catena a cui era legato frustrò il suo tentativo. Si guardò attorno e sentì una porta aprirsi. Un forte cigolio risuonò minaccioso nella cantina e un fascio di luce blu la illuminò parzialmente. Marco alzò la testa e vide un’ombra in cima a delle scale. «Benvenuto». Una figura indistinta scese e si avvicinò. Quando la luce la illuminò, Marco rimase immobile, atterrito. Tentò di aprire la bocca, ma tutto ciò che ne uscì fu un suono senza senso. Si strinse le mani al petto e si schiacciò sulla parete fredda. «Non può essere…», balbettò terrorizzato, «tu… tu sei morto…» L’essere si avvicinò. Aveva i vestiti imbrattati di sangue e una profonda ferita sotto il mento, nel punto in cui si era sparato, mentre tutto attorno il sangue si era rappreso in macchie scurite dai residui della polvere da sparo. «Non pensavo che il nostro incontro potesse sconvolgerti così tanto». Marco lo guardò e sentì un brivido attraversarlo dalla testa ai piedi. «Che cosa… sei?» Il suo vecchio compagno di classe sorrise enigmatico. «Lo scoprirai presto, sta’ tranquillo». Tornò verso le scale e sparì nuovamente nel buio. «Sono impazzito, non può essere vero…», Marco strattonò la catena, ma questa non si scalfì di un centimetro. Lo circondavano decine di ombre di oggetti indistinti, probabilmente vecchie cianfrusaglie abbandonate lì da chissà quanto tempo, mentre la piccola finestra sopra di lui sembrava l’unico contatto col mondo esterno. Riprovò a forzare la catena, ma ogni suo tentativo risultò vano. Alla fine poggiò la testa contro il muro e la stanchezza lo assalì. «Lui è morto…», mormorò cercando di tenere gli occhi aperti, «è morto… è morto davanti ai miei occhi…», sentì le palpebre chiudersi e dopo pochi secondi cadde in un sonno profondo e tormentato. Sognò di trovarsi lungo una strada senza fine. Attorno a lui la pioggia cadeva forte ma silenziosa, mentre un lieve ticchettio scandiva ogni suo respiro. Era come le lancette di un orologio e a ogni scatto una luce rossa brillava all’orizzonte. Si guardò attorno disorientato. Avrebbe voluto cercare un riparo, ma le sue gambe sembravano muoversi da sole verso quella luce e così continuò a camminare fino a quando un tonfo non lo fece ripiombare nella cantina. Aprì gli occhi e si ritrovò supino sul freddo pavimento di pietra. Alzò il capo e vide un’ombra allontanarsi. «Ehi». L’uomo si voltò e gli sorrise. «Ti prego», scongiurò Marco, «lasciami andare». «Mi dispiace, ma non posso». «Cosa vuoi da me?» Lui rimase zitto e poi si voltò verso la piccola finestra. «Non voglio farti del male». Tornò verso le scale. «Lì c’è qualcosa da mangiare». Sparì oltre la porta. Marco si voltò e vide una scodella e un bicchiere. «Dove sono finito?» Si lasciò andare ancora una volta contro la parete. Mille pensieri gli si affollarono nella mente e piano piano la vista gli si annebbiò ancora una volta. Le palpebre diventarono pesanti e uno stato di improvvisa spossatezza lo pervase in ogni angolo del corpo. Il buio lo avvolse e scivolò ancora una volta nel sonno. Era di nuovo lungo la stessa strada, ma questa volta camminava avvolto in un pesante giubbotto e in testa aveva un cappellino da baseball. La pioggia attorno a lui continuava a cadere silenziosa e la luce rossa sembrava brillare più forte, simile a un cuore in affanno. Il ticchettio continuava a essere l’unico rumore che arrivava alle sue orecchie e lui si muoveva spinto da un dolce soffio di vento. Una figura gli apparve accanto, era rannicchiata su un marciapiede e aveva indosso pochi stracci e un cappellino logoro con una scritta cancellata dal tempo. Tremava dal freddo. Marco si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla. La testa dell’uomo si alzò e lui si sentì precipitare in un tunnel infinito. Spalancò la bocca e ritirò la mano. Quel barbone davanti a lui era Barbara, la sua fidanzata. Il viso era sporco e i capelli erano coperti dal cappellino, ma gli occhi erano gli stessi, quegli occhi verdi che tante volte aveva fissato innamorato. Lei gli prese la mano. «Aiutami», disse con un filo di voce, «ti prego, ho freddo». Marco rimase fermo. Tentò di dire qualcosa, ma la sua bocca non si mosse. «Ti prego», ripeté la donna, «aiutami, sto morendo dal freddo». Lui si tolse il giubbotto e glielo poggiò sulle spalle. Lei sorrise e guardò verso la luce. «Vai, adesso, ti stanno aspettando». Marco girò la testa e inarcò le sopracciglia. «Chi mi sta aspettando?» «Vai», ripeté la ragazza, «sbrigati, non c’è più molto tempo». Quando riaprì gli occhi, la luce del sole filtrava appena dalla piccola finestra. Si mise seduto e si guardò intorno. Cercò per l’ennesima volta di allentare la pressione della catena e sentì aprire la porta. Il suo carceriere sbucò dalla penombra con indosso dei vestiti puliti e profumati. Il suo aspetto era cambiato e tutte le ferite erano scomparse. Marco lo guardò e stentò a riconoscerlo. «Buongiorno». Lo raggiunse. «Perché mi tieni incatenato? Cosa vuoi da me?» Lui sorrise e spostò gli occhi sulla piccola finestra. «E’ arrivato il momento». Gli sorrise. «Mi dispiace averti lasciato qui per tutto questo tempo, ma adesso potrai tornare a casa». Marco sentì un filo di speranza riaccendersi. «Perché mi hai tenuto prigioniero qui sotto?» Non riusciva ancora a capire cosa stesse succedendo. «Perché ho bisogno di te, devi liberarmi, devi cambiare il passato». Lui non capì. «C… cosa devo fare?» Balbettò. L’uomo gli si avvicinò e tirò fuori una chiave dalla tasca dei pantaloni. Si chinò e lo liberò dalla catena. «Vieni con me». Marco rimase immobile, indeciso se tentare la fuga, ma alla fine si alzò e lo seguì. «Dove mi stai portando?» L’uomo lo ignorò e aprì la porta in cima alle scale. Si ritrovarono in una cucina pervasa da un forte odore di chiuso e di polvere. I mobili erano ricoperti di ragnatele e qualche grosso scarafaggio camminava indisturbato tra i fornelli. Le finestre erano sbarrate con delle assi di legno, mentre su un vecchio tavolo c’era una lampada che emetteva una debole luce blu. «Posso davvero tornare a casa?» Domandò Marco cercando con gli occhi una via d’uscita. L’uomo si voltò e sorrise. «Certo». Poi si chinò e aprì lo sportello di un mobile. Quando gli vide impugnare un’ascia, Marco sentì le gambe cedere. «Oh, mio Dio». Si guardò attorno e si lanciò verso la porta della cucina. L’aprì con una spallata e si ritrovò a terra in un piccolo salone spoglio. Da una finestra rotta si intravedeva la strada, ma la luce era sparita, adesso pioveva e sembrava calata la notte. Si rimise in piedi e si voltò. La porta della cucina si era richiusa e c'era silenzio. Cercò l’ingresso. Era davanti a lui. Si avvicinò e strinse la maniglia. «Non si aprirà». Pensò tra sé. «Non si aprirà». Uno scatto e la porta si aprì. «Non andare via, ti prego». Lui si voltò e una folata di vento spalancò la porta alle sue spalle. «Ti prego, devi aiutarmi». Marco deglutì a vuoto e ripiombò nella sua vecchia scuola. Attorno a lui ragazzi correvano e chiacchieravano, mentre Fabio se ne stava in un angolo, spalle ricurve e sguardo perso nel vuoto. «Ehi, ragazzi guardate chi c’è là!» Gridò qualcuno. Marco si voltò e vide un gruppetto di ragazzi ridere. «Guardate i suoi vestiti!» Esclamò uno di loro sghignazzando. «Ehi, ma dove li compri? Su Marte?» Una risata risuonò forte, quasi insopportabile, e poi tutto tornò come prima. Marco vide Fabio avvicinarsi. «Sai che giorno è oggi?» Gli chiese. Lui scosse la testa. «È il 6 Giugno, come venti anni fa…» Marco rimase zitto, mentre dietro di lui la pioggia cadeva incessante. «Aiutami, non voglio tornare laggiù». L’ascia cadde sul pavimento. «Mi faranno ancora del male, non voglio tornare laggiù». Marco indietreggiò e uscì dalla casa. «Ti prego», aggiunse il suo vecchio compagno di classe, «liberami da questa maledizione». Si inginocchiò e abbassò il capo come un condannato a morte. Marco fece un altro passo indietro e si trovò sotto la pioggia. Era calda e appiccicosa. Si chinò a raccogliere l'ascia. «Dio, dammi la forza…» Chiuse gli occhi e calò l'arma con forza. Il corpo di Fabio ebbe uno spasmo e poi cadde al suolo. La testa rotolò poco lontano. Marco rialzò le palpebre e lasciò cadere l’ascia. Le mura della casa presero a muoversi e delle voci rimbombarono nella sua mente. Erano insopportabili. Scese i gradini e cominciò a correre tenendosi le mani premute sulle orecchie. Inciampò un paio di volte finendo disteso sull’erba bagnata, si rimise in piedi e continuò a correre senza mai voltarsi indietro. Le grida andarono affievolendosi e una voce dolce e bassa attirò la sua attenzione. Si fermò bruscamente e si guardò attorno. Si trovava lungo una strada buia e un forte ticchettio gli pulsava nelle tempie. Una voce lo chiamò. Lui si guardò attorno e vide l’ombra di una persona rannicchiata su se stessa. Portava un cappellino con una scritta cancellata dal tempo e un impermeabile logoro. Le si avvicinò e le poggiò una mano sulla spalla. La figura alzò la testa e lo guardò. Era Barbara, la sua fidanzata. Il viso era molto sporco e i capelli erano coperti dal cappellino, ma gli occhi erano inconfondibili. La loro straordinaria lucentezza e la loro dolcezza lo lasciarono quasi tramortito. «Ho freddo», disse la ragazza, «ti prego, dammi il tuo giubbotto». Marco si toccò il corpo e si accorse di indossare una giacca che prima non aveva. Se la tolse e la porse alla ragazza. Lei la indossò e sorrise. «Vai adesso, ti stanno aspettando». Marco vide davanti a sé una luce rossa. Pulsava come un cuore. «Vai», ripeté la donna, «hai fatto ciò per cui eri qui». Un forte vento cominciò a soffiare alle sue spalle e lo spinse lontano. Quando il ticchettio si fece assordante, Marco chiuse gli occhi e si lasciò svenire.
Si risvegliò in una stanza illuminata dal sole. Davanti aveva un uomo con gli occhiali e un camice bianco. Sentiva la bocca secca e il corpo immobilizzato da bende strette. Cercò di muovere una mano, ma riuscì soltanto ad alzare debolmente un dito. Si leccò le labbra e cercò di parlare. «Dove sono?» Il medico sorrise. «All’ospedale». «Come ci sono finito?» «Due giorni fa ha avuto un incidente con la macchina, l’abbiamo tenuta in coma farmacologico, ma ora il peggio è passato». Lui cercò di dire qualcosa e il medico scosse la testa. «Mi dispiace, ma il suo amico non ce l’ha fatta. Abbiamo provato in tutti i modi, ma non siamo riusciti a rianimarlo, è morto sul colpo». Marco ripensò all’uomo che aveva incontrato al pub e al ritaglio di giornale che aveva trovato nell’auto. «Stretto in mano aveva questo». Il medico infilò la mano nella tasca del camice e tirò fuori la pagina di un giornale. Gliela aprì davanti:
SEDICENNE EVITA STRAGE IN CLASSE
«Mi sono permesso di leggerlo, parla di un ragazzo che vent’anni fa salvò dei compagni di classe dalla furia omicida di uno di loro. È lei quel ragazzo, giusto?» Marco lo guardò, confuso. Lui non aveva evitato quella strage, si era soltanto salvato per caso, buttandosi sotto uno dei banchi e rimanendo nascosto fino a quando non era arrivata la polizia. Fu sul punto di rispondere, ma la porta della stanza si aprì e una ragazza entrò. Era alta, aveva i capelli castani e gli occhi verdi. Portava un paio di jeans chiari e una camicia rossa e sulla testa aveva un cappellino blu con una scritta cancellata dal tempo. Si avvicinò al letto e poggiò le sue labbra su quelle del ragazzo. «Come ti senti?» Marco cercò la sua mano e lei gliela strinse. «Bene». Lei abbassò la testa e cominciò a piangere. «Mi dispiace, l’altra sera non dovevo mandarti via in quel modo». Si asciugò le lacrime. «A quest'ora tutto questo non sarebbe successo». Lui la guardò e una fitta gli trapassò il cervello: il viso di un barbone gli passò davanti agli occhi e una forte luce rossa lo accecò per qualche attimo. Con fatica, alzò il braccio e le carezzò il viso, asciugandole una lacrima. «Mi vuoi sposare?»
Edited by margaca - 9/11/2010, 19:32
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