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Il bar dei perdenti
I
– Dimmi che va tutto bene, Mario. Dimmi che la vita è meravigliosa. – Va tutto bene, amico. La vita è meravigliosa. – Passami un’altra birra, Mario.
– Mario, il mio whiskey. – Eccolo. A dopo. – Speriamo.
Mi chiamo Mario. Gestisco il bar più sudicio e lercio della città. Pure che fosse il più pulito lo odierei lo stesso: detesto il mio lavoro, ma in qualche modo bisogna campare, e io ho scelto di starmene qui dalle cinque di sera alle quattro di mattina a riempire con qualcosa di alcolico lo stomaco e le speranze dei soliti clienti depressi. Ne viene di gente al mio bar: chiunque si sia giocato la vita prima o poi passa di qui, tutti quelli che hanno ucciso i loro sogni vengono a chiedermi di annegare quel vuoto. Arrivano e si siedono ai tavoli che pulisco a malapena, si affacciano al bancone e mi chiedono una birra, un whiskey o una vodka, e io glieli servo. È raro sentire qualcuno parlare nel mio locale: se ne stanno sempre tutti lì apatici, a tirare svogliati colpi di biliardo o a spiccicare monosillabi durante conversazioni oziose e stentate. Passano ore immersi in una coltre di fumo impenetrabile a chiedersi cosa hanno fatto della propria vita: ogni tanto qualcuno mi racconta la sua storia, e di solito quella storia è molto peggio del silenzio. Io sto zitto e ascolto; al massimo, se qualcuno mi chiede di dirgli che la vita è bella, glielo dico. Io non ci credo, nessuno ci crede: ma se ci levano pure la speranza…
– … quarantotto... alla tua. – quarantotto. Grazie, Mario.
II
– Dimmi che va tutto bene, Mario. Dimmi che la vita è meravigliosa. – Va tutto bene, amico. La vita è meravigliosa. – Passami un’altra birra, Mario.
– Mario, il mio whiskey. – Eccolo. A dopo. – Speriamo.
Una notte un tipo venne al bancone e decise che era ora che qualcuno stesse a sentire la sua storia. Un barista sta sempre a sentire le tue storie, è forse la tua ultima àncora di salvezza: è lui che ti serve il bicchiere che ti spinge sempre più giù, ma è anche l’unico che per mestiere ascolta la tua vita. Ci penso parecchio a questa faccenda, e a volte vedo il mio lavoro come una missione. Non è vero, ma lo odio di meno. Avrà avuto meno di trent’anni e un’espressione che sembrava venire direttamente dal suo funerale: occhi vuoti e spenti, sguardo basso da cane bastonato. Mi chiese qualcosa di forte, il più forte che avevo. Capii che non era un bevitore e pensai che fosse meglio dargli solo una vodka liscia. Stavo per versare quando mi tolse dalle mani bottiglia e bicchiere e se le portò al tavolo più lontano e buio del locale, dove si sedette e iniziò a piangere in silenzio. Poi iniziò a bere. Continuò a piangere. Continuò a bere. E ancora non ha smesso. Tutte le notti, sempre lì allo stesso tavolo, sempre vodka liscia e sempre zitto, tranne quella volta che venne da me per raccontarmi la sua storia. Beveva per dimenticare. Beveva per dimenticare una donna. Beveva per dimenticare di essere stato innamorato. Beveva per dimenticare la sua scoperta: aveva scoperto che l’amore non esiste. Per scoprirlo ci aveva messo solo sei mesi. Andò pressappoco così: conobbe questa ragazza a sentir lui bellissima, dolcissima, il solito angelo che ci si immagina di aver trovato per chissà quale miracolo, la donna giusta, quella ideale, che dà un senso a una vita che di suo non ne ha granché. Ma di ideale questa tipa aveva davvero poco, era molto più materiale. Era di famiglia ricca, e la ricchezza le piaceva, così come tutto ciò che la ricchezza poteva comprare. Lui era innamoratissimo, ma di soldi nemmeno l’ombra, e aveva capito che per avere qualche speranza doveva sembrare di essere ciò che non era: doveva lavorare sull’apparenza, doveva sembrare ricco. E via coi regali, i gioielli, i viaggi, la macchina, la villa spacciata per sua ma in realtà di un amico… e via coi debiti, i prestiti, i favori chiesti agli amici. Finché un giorno si rese conto che la sola buona volontà non gli bastava più, anzi lo aveva spinto ben oltre il punto di non ritorno: decise di lasciar perdere le bugie, si fece coraggio e una sera si presentò a casa dei suoi genitori per vuotare il sacco. Confidò che per amore si era rovinato la vita; aveva gettato alle ortiche tutti i suoi progetti e aveva seriamente ipotecato quelli futuri. Solo per amore. Fu cacciato in malo modo da quella casa con i genitori di lei incazzatissimi: fu cacciato non perché aveva finto di essere, ma perché non era, e sembrava che a lei alla fine non importasse poi molto, non disse nulla, non si fece più viva, niente di niente: la donna sbagliata, tutto sommato. A conferma del fatto che se sei follemente innamorato di una donna e quella donna sta con te, non è detto che ti ami. Vale anche per gli uomini, credo. Comunque, in poche settimane si fecero avanti i creditori, perse la casa, perse molti degli amici a cui aveva chiesto favori senza potersi sdebitare, le solite cose. Ora pulisce i cessi alla stazione, e il tempo libero lo passa qui. E mi ha detto che non sa quale dei due posti odia di più.
– … sessantadue... alla tua. – sessantadue. Grazie, Mario.
III
– Dimmi che va tutto bene, Mario. Dimmi che la vita è meravigliosa. – Va tutto bene, amico. La vita è meravigliosa. – Passami un’altra birra, Mario.
– Mario, il mio whiskey. – Eccolo. A dopo. – Speriamo.
Da quando ho aperto questo bar, troppi anni fa, una sola donna è diventata cliente fissa: viene quasi tutte le sere, anche lei praticamente parte del mobilio. Ha pressappoco la mia età, e la prima volta che venne qui era per festeggiare il suo ennesimo licenziamento. Quando mi ha raccontato tutti i lavori che ha fatto ero indeciso se crederle oppure no. Ha sicuramente fatto più cose lei di quante ne riesca soltanto a immaginare io: una donna dalle mille risorse ma brutta, decisamente troppo brutta. Anzi, peggio che brutta, sgradevole; così sgradevole che ogni volta che trovava lavoro veniva cacciata quasi in contemporanea, una di quelle persone che le guardi e ti danno fastidio, un viso che fai di tutto per non fissarlo e non lo sai neanche tu il perché. Capita di incontrarne; a lei capitò di esserlo. Anche a me fece quest’impressione, poi mi ci sono abituato. Una donna dannatamente sola, consapevole del suo aspetto e senza la minima forza di combattere per dimostrare di essere una persona come le altre. Una che ha imparato a prendere a calci la propria dignità, la disperazione e la rassegnazione in persona, ma anche l’unico essere vivente dentro al mio bar che facesse quattro chiacchiere con una certa regolarità e senza per forza tirare in ballo la trinità obbligatoria di calcio-auto-figa. Finiva a parlare sempre con me perché gli altri non avevano di sicuro voglia di intrattenersi con una come lei. E visto che salvo rare eccezioni nessuno aveva voglia di parlare neanche con il barista, si rimaneva in due. Per farla breve, finimmo a letto insieme. A casa sua, se casa si può chiamare quel monolocale di quaranta metri quadri sporco da far concorrenza al mio bar, e fu una cosa da disperati, io non vedevo una donna da così tanto tempo che mi chiedevo se mai ne avevo avuta una, per lei mi sa che era lo stesso, se no non si riduceva con uno come me. Passai la notte con lei, e il mattino dopo mi disse che quella notte aveva toccato il punto più basso della sua vita: per farlo con un barista… Disse proprio così. Per farlo con un barista… E il guaio è che aveva ragione. Ma anch’io, per farlo con una come lei… che aveva delle belle tette, a guardare solo quelle ci si poteva anche stare… ma il resto… insomma, avrei potuto dire lo stesso se nella mia vita non avessi toccato fondi molto peggiori e subìto sconfitte più umilianti. Quella sera non si fece vedere, non si fece vedere per circa una settimana. Ma poi tornò. E toccammo un punto molto più basso quando una notte facemmo sesso nel cesso del bar, appiccicati all’unica parete dove non sembravano esserci macchie di piscio o peggio, con i vestiti abbassati quel tanto che bastava per non prenderci chissà quale malattia; una sonora sconfitta per lei e per me. È triste quando sei un perdente, lo sai e non puoi farci niente: ma è ancora più triste quando te ne convinci. Io me ne convinsi quella notte, e credo anche lei: infatti venne anche il giorno dopo, e quello dopo ancora. E benché ci ostiniamo a trattarci come dei perfetti sconosciuti, probabilmente siamo l’uno l’unico amico dell’altra, e viceversa: per me senza probabilmente.
– … settantaquattro … alla tua. – settantaquattro. Grazie, Mario.
IV
– Dimmi che va tutto bene, Mario. Dimmi che la vita è meravigliosa. – Va tutto bene, amico. La vita è meravigliosa. – Passami un’altra birra, Mario.
– Mario, il mio whiskey. – Eccolo. A dopo. – Speriamo.
Il mio è un lavoro facile. Monotono e ripetitivo, ma facile. Ogni tanto va versato un bicchiere, ogni tanto va passato lo straccio sul bancone facendo alzare i gomiti al grassone calvo con losguardo triste che mi chiede sempre di dirgli che la vita è bella. Ogni tanto, ma proprio raramente, lascio il mio posto e faccio un giro per i tavoli. Certo, poi ci sarebbero quelli che chiamo gli extra, ma tanto non li faccio quasi mai. Ad esempio dovrei decidermi a cambiare le lampadine fulminate ché in questo buco comincia a non vedercisi più, bisognerebbe vedere perché il ventilatore gira quando gli pare a lui, sarebbe il caso di pulire per terra visto che non ricordo nemmeno di che colore è il pavimento e qualcuno inizia pure a scivolarci sopra, si potrebbe in effetti dare una spolverata di tanto in tanto agli specchi e agli scaffali con le bottiglie... Insomma un sacco di cose, che a farle ci sarebbe il rischio di renderlo un locale per bene, di quelli senza topi e scarafaggi. Ma finché qui ci sarò io il rischio non si corre di sicuro, ché solo a vedere lo spazzolone per i pavimenti in quell’angolo, più sporco del resto del bar, mi viene quasi da ridere. Quasi. Il problema vero però è il cesso, con la puzza che inizia a sentirsi anche da fuori e entrarci diventa un’avventura disperata, con la muffa alle pareti, il vomito secco per terra, la tazza... beh, diciamo che quello che ho scritto sulla vaschetta dello sciacquone (non vi dico di fare centro, ma almeno fatela dentro) non ha riscosso molto successo. Un mezzo disastro, ma finora nessuno si è lamentato: se si dovessero lamentare, l’uscita la conoscono. Non so di preciso quando ho iniziato a odiare il mio lavoro e a rassegnarmi a questa vita, ricordo di aver aperto questo bar con entusiasmo, mi piaceva stare dietro al bancone, creare bevande e cocktail colorati, lavorare in proprio senza dover obbedire a nessuno. Oggi non so neanche dove tengo il mio shaker, non saprei fare un bloody mary potabile neanche guardando le istruzioni e soprattutto non me ne frega più un cazzo di niente. Non mi importa se un mio cliente si sente male e vomita sul tavolo, non mi importa se due ubriachi iniziano a darsele di santa ragione, non mi frega di niente e nessuno, basta che prima di andarsene paghino. Non che i soldi mi servano a qualcosa, ormai la voglia di vivere è passata e i soldi non servono più, è solo una questione di principio. Probabilmente sono stati loro a trascinarmi a fondo, questi disperati a cui servo da bere: mi hanno contagiato con la loro disperazione, ma io non gliene voglio. È capitato, e poi ormai chi se ne frega. Solo di un uomo mi importa, e magari un giorno vi racconto la sua storia: una bella storia, a suo modo, una storia che termina tutte le volte alle quattro di mattina e ricomincia puntualmente alle nove di sera. La storia di una punizione, senza lieto fine ma senza neanche la fine, soltanto un numero prima di tornarsene tutti a casa.
– … ottantasei … alla tua. – ottantasei. Grazie Mario.
V
– Dimmi che va tutto bene, Mario. Dimmi che la vita è meravigliosa. – Va tutto bene, amico. La vita è meravigliosa. – Passami un’altra birra, Mario.
– Mario, il mio whiskey. – Eccolo. A dopo. – Speriamo.
Già l’insegna te lo dice chiaramente che entri in un bar di perdenti: BAR. Neanche un BAR MARIO, un BAR più il nome della via, della nazione, un francesismo qualsiasi… niente. BAR. E basta. Da perdenti, no? Me lo fece notare uno straniero che veniva qui quasi tutte le sere: un tipo basso, scuro, aspetto unto ed espressione furbetta da quattro soldi. E poi da che pulpito veniva la predica: questo tizio passava buona parte del suo tempo libero davanti a una macchinetta sputasoldi, a infilar monete con una mano e scolandosi una birra con l'altra, smettendo di ripetere l'operazione solo per il tempo necessario a tornare al bancone e prendere un'altra bottiglia. Il tutto mentre si fumava decine di sigarette. Se non è essere perdenti questo, allora non lo so. Comunque, in quelle poche volte in cui scambiammo quattro chiacchiere venne fuori che faceva il manovale per una ditta edile, veniva dall'Albania e non avendo uno straccio di documento lavorava in nero fino a spaccarsi la schiena. Dei soldi che guadagnava, gran parte li inviava alla sua famiglia. Il resto veniva a buttarlo qui tra alcol, cenere e luci colorate. Ma nonostante la storia strappalacrime da fiction televisiva non riuscivo proprio a farmelo andare a genio: sopportavo la sua presenza solo perché se ne stava per i fatti suoi e non creava problemi a nessuno. È strano come il mondo ti faccia sentire uno stronzo solo perché non hai in simpatia uno straniero disgraziato e ti permetta di sentirti tranquillamente a posto con la coscienza se detesti un tuo compatriota nelle stesse identiche condizioni; da parte mia, ho risolto questo conflitto interiore e adesso odio democraticamente tutto il genere umano. A ogni modo, tra qualche vincita e parecchie perdite questo qui andò avanti a infilar monete e bere birra per qualche mese, poi non venne più. Pensai con sollievo che l'avessero spostato in qualche nuovo cantiere e avesse trovato un altro bar dove passare il tempo, ma poi lessi di lui su un giornale: era caduto da un ponteggio e si era fatto un volo di oltre dieci metri lasciandoci la pelle. Per un paio di giorni stette sulla bocca di politicanti e sindacalisti di ogni tipo: c'erano quelli che volevano chiudere le frontiere, quelli che volevano più sicurezza sul lavoro, quelli che chiedevano prese di posizione concrete. Nessuno che abbia mai chiesto o fatto nulla per la famiglia di questo disgraziato.
– … novantadue … alla tua. – Novantadue. Grazie Mario.
VI
– Dimmi che va tutto bene, Mario. Dimmi che la vita è meravigliosa. – Va tutto bene, amico. La vita è meravigliosa. – Passami un’altra birra, Mario.
– Mario, il mio whiskey. – Eccolo. A dopo. – Speriamo.
Oggi è un giorno un po’ speciale e voglio raccontarvi la storia di un uomo. Un uomo che viene qui da non so più quanto tempo e che forse questa sera taglierà un traguardo importante. Non so come si chiama e non ho la più pallida idea di cosa faccia nella vita, so solo che tutte le sere si presenta qui alle nove e se ne va quando chiudo il locale. Ricordo perfettamente quando venne qui per la prima volta: era inverno, fuori c’era la neve e il mio bar era il solito letamaio. Mi chiese un whiskey, uno qualsiasi mi disse, poi prese il bicchiere e si sedette a un tavolo, lo posò e iniziò a guardarlo senza mai bere un sorso. Andò avanti per tutta la notte: non distoglieva lo sguardo dal bicchiere neanche per un secondo, sembrava osservare in quel pezzo di vetro chissà quale mistero. Dopo un paio d’ore mi accorsi di quello strano comportamento e iniziai a osservarlo incuriosito, un paio di volte fui pure tentato di andare da lui e chiedergli cosa cavolo stesse facendo, ma decisi di lasciarlo perdere: di tipi strani qui ne sono passati a milioni e se c'è un insegnamento che possono darti, è quello di stargli il più lontano possibile. Passarono le ore, e quando stavo per chiudere il locale lui si alzò, prese il bicchiere ancora pieno e venne al banco. Doveva essersi accorto del mio sguardo stupito, perché senza che gli chiedessi nulla mi disse: – Sto smettendo. E posò il bicchiere sul bancone, pronto a pagare. – Allora offre la casa. Rimase qualche attimo in silenzio e poi mi chiese: – Qual è il suo nome? – Mario. – Bene: allora grazie, Mario. – Di niente, amico. Presi il suo bicchiere, lo vuotai in un sorso e gli dissi: – Uno. Alla tua. Da quel giorno lo vidi arrivare ogni sera puntualmente alle nove, prendersi il solito whiskey, sedersi al solito tavolo e ripetere sempre la stessa scena. Poi quando era ora di chiudere io mi bevevo il suo whiskey, dicevo il numero di giorni da cui durava quella storia e lui mi ringraziava. Ci furono pure dei brutti momenti: a volte tornava al bancone col bicchiere vuoto, sarà successo cinque o sei volte in tutto. – Mi spiace, Mario. – Anche a me, amico. Questo però lo paghi. Allora pagava e andava via, ma il giorno dopo si ricominciava da uno, e così via fino a stasera. Soltanto una volta parlammo per un po’, e lui mi spiegò il motivo dello strano comportamento. Mi disse che aveva rovinato la sua vita, che aveva una bella famiglia, un buon lavoro e una bella casa e era un brav’uomo, ma aveva un vizio: beveva. Beveva per passione, per il semplice gusto di bere: da quando era ragazzo, con gli amici qualche birra la sera. Ma poi iniziò a bere pesantemente, fino a perdere il lavoro, la casa e la famiglia. Venne al mio bar il giorno del suo divorzio, consapevole di essersi rovinato la vita con le proprie mani e deciso a punirsi nel modo più crudele. Mi raccontò che per lui quelle ore erano un vero tormento: lo faceva star male trovarsi davanti a quel bicchiere che gli aveva distrutto la vita, non poterlo bere lo faceva stare male, guardarlo lo faceva stare male, non guardarlo lo faceva stare male. Ma ogni volta che lo beveva stava ancora peggio. Voleva soffrire, voleva farsi del male: era la sua punizione. Aveva deciso tutto da solo, diagnosi e prognosi, processo, verdetto e condanna. Ogni sera una sfida con se stesso per punire il suo errore: anche ora che la sua famiglia non sarebbe tornata, anche ora che non sarebbe tornato niente di tutto quello che aveva avuto, e senza nessuno che stesse ad aspettarlo, a incoraggiarlo o a dirgli semplicemente bravo. Senza voler cercare di ricostruire o di ritrovare ciò che era perduto. Solo punizione, ogni sera, per anni, senza poter intravedere una fine. Ma oggi tutto sommato è un giorno importante: per la prima volta raggiungerà quota cento. Che vuol dire poco più di tre mesi senza sentire l’alcol in gola: una miseria. Comunque un traguardo, non era mai andato oltre i sessanta. E anche se arrivasse a seicento la sua vita non tornerebbe indietro: però magari potrebbe iniziarne un’altra...
– … cento. Alla tua, amico... – … cento. Grazie, Mario. – … aspetta, non andare via, ho una cosa per te. – ??? – Beh, ecco… non sapevo cosa… quindi ti ho portato una torta… – ... – … – ... – ... spegni la candelina… – Ma... – Ehi, ti metterai mica a piangere,eh? Guarda che oggi è un giorno speciale, ho pure portato l’acqua frizzante per fare il brindisi! – … Mario? – Cosa? – Grazie. Davvero. – Di niente, amico.
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-------------------------------- Rev.1 fino mess. Virgart Rev.2 Cambiato un episodio, poi fino mess. luckyfer Rev.3 Modificato episodio V, poi fino mess. Daniele_QM
Edited by Ryan79 - 18/12/2010, 16:49
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