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Il taxi
Lo scoppio era stato improvviso, nessuno aveva avuto il tempo di rendersi conto di quello che stava accadendo. La strada si era trasformata in un inferno e la palazzina di Via Sestriere, in pieno centro di Roma, rasa al suolo. Al suo posto più niente. La perdita di gas era poi stata individuata al terzo piano.
°*°*°
− Sì, buongiorno, è la 207! Mi chiama un taxi per favore? − Certo signore, subito.
− Mi scusi, c’è traffico, Alabama23 in quindici minuti. Provo un altro? − No, va bene, grazie. Piuttosto, mi prepara il conto? − Certo signore.
Avrebbe dovuto raccogliere le sue cose e andare. C’era da consegnare il progetto definitivo a Raggi, preparare il discorso per la conferenza stampa e fissare gli appuntamenti con gli avvocati e il commercialista, senza dimenticare Sergio, che aspettava una risposta da più di un mese.
La valigetta ventiquattrore era accanto alla poltrona, dove l’aveva appoggiata la sera prima. Si maledisse pensando di non aver messo mano al lavoro che doveva finire quella notte. Almeno la relazione. Cazzo!
Nel bagno la luce illuminava una mensola color verde penicillina, un bicchiere di plastica trasparente ben sigillato nel cellophane e una boccetta di sapone per tutti gli usi. Lo specchio metteva in risalto le rughe sulla sua faccia, due borse gonfie sotto gli occhi e gli occhi, spenti e tumefatti. Era invecchiato! Il getto d’acqua dal rubinetto arrivò di colpo, preceduto da uno sbuffo d’aria che sapeva di muffa. Come la sua bocca, aveva pensato sputando qualcosa di giallo. Alzò ancora gli occhi nello specchio e vide, riflesso nella stanza accanto, il groviglio delle lenzuola ai piedi del letto.
Un sibilo gli aveva traforato l’orecchio sinistro. Un fiotto inarrestabile di sangue gli riempiva la bocca costringendolo a sputare fuori quella cascata rossa che gli stava affogando la cravatta. Le orecchie non contenevano più quel liquido bollente che gli rigava il collo in un andamento lento ma regolare che si era arrivato a ficcare sotto le ascelle, scivolava sul braccio, fino al polso, lungo la mano, tra le unghie, sulle ginocchia e giù, di schianto tra i piedi. Tutto quel sangue lo stava sommergendo e Paolo non riusciva a respirare. Boccheggiava.
Ancora un boato, poi rumori. I suoi pensieri, quella mattina, si ostinavano a registrare solo particolari: il muro incrostato di sporco, la moquette logora, il sobrio squallore di quella stanza, occupata, per di più, da odori e voci che provenivano dal corridoio.
Un piede di Laura penzolava fuori dal letto. La pelle chiara, quasi azzurra, ne metteva in risalto la forma. Sinuoso, lungo e pallido, sembrava di sale, come quello di una statua. Avrebbe dovuto fotografarlo. Aggiungere poi quel tassello al puzzle che la sua testa stava tentando di ricomporre, nel silenzio, nel panico. Erano i particolari che lo devastavano, ombre lunghe e lampeggianti che gli si ficcavano nella testa, passi, suoni, voci, grida; si sentiva spaventato senza capire da cosa. Lo smalto scuro sulle unghie del piede di Laura ora colava sulla moquette, ogni goccia, densa e pesante, incontrando il pavimento, sbatteva, provocando una specie di terremoto che apriva crepe sul muro distruggendo quelle fragili pareti di cartongesso, come fossero state di fumo. Doveva andare via, prendere Laura e andare via, prima che colasse troppo, prima che fosse davvero tardi.
S’infilò la camicia sgualcita. Era ancora impregnata dell’odore di fumo e di cucina della sera prima. Certamente aveva bevuto troppo perché, all’improvviso, non ricordava quando aveva ricordato l’ultima volta. Solo ricordava che fosse un’ora indefinita di quella notte. Ma quando, in quale preciso istante, aveva smesso di ricordare, non riusciva proprio a fissarlo nella testa. Sulla cravatta una macchia d’olio che non voleva andare via. Tardi. Era tardissimo!
La lancetta dell’orologio attaccato al muro era esplosa alle ore otto e trenta. Cazzo! La conferenza stampa, il progetto, gli avvocati. Però lo smalto sulle unghie del piede di Laura continuava a colare dandogli la sensazione di un colpo di rimando. Chiuse gli occhi un momento e gli sembrò di cadere, annaspò nell’aria viziata tentando di raggiungere Laura ancora sul letto per pregarla di sbrigarsi, alzarsi. Era tardi, dovevano andare via. Via da li!
Eccolo! Ancora un bagliore, forse qualcosa che si stava materializzando nella sua testa. Un’immagine nitida e allo stesso tempo confusa. Ma era solo sua faccia: un tondo, gli occhi, i capelli brizzolati e corti, l’espressione allucinata, la voglia di scappare. Barcollava, doveva essere ancora ubriaco. Un albergo? Ma perché in albergo? Come era finito lì? Poi un flash, una lettiga, no, ecco, un quadro. Un innevato paesaggio svizzero, sì, risaltava sul muro spoglio sopra al letto.
Indossò le calze e i pantaloni. Negli ultimi tempi era dimagrito. Meglio così. Avrebbe evitato la dieta di primavera già programmata da Laura e, magari, anche le sue continue insinuazioni sull’importanza del tenersi in forma, in primis, per se stessi, una questione di stile, di filosofia di vita.
− Laura! – Aveva sospirato avvicinandosi. − Laura! – Insisteva.
I capelli nero corvino erano sparsi a raggiera sul materasso, una mano infilata sotto il cuscino e la bocca rossa, come in una pubblicità del Martini, appena socchiusa, pareva pronunciare le sillabe del suo nome.
Corse in bagno. Un conato profondo gli svuotò lo stomaco dei succhi gastrici ancora trattenuti all’interno. La pelle della faccia, nello specchio, si stava staccando dalle sue guance, secca e appassita. Forse era vero! Laura aveva ragione, doveva necessariamente cambiare vita. Se solo fosse bastato a sistemare le cose fra loro, l’avrebbe fatto, per Dio se l’avrebbe fatto! Invece sapeva benissimo che nulla sarebbe servito a far sì che quel rapporto, ormai logoro e stanco, trovasse un nuovo senso di esistere. Anche Laura era sfinita, lo aveva capito da come si guardavano, dal modo in cui lei, isterica, lo rimproverava ormai per qualsiasi cosa.
Tentando di sciacquarsi la bocca per togliere il saporaccio cercò ancora il piede azzurro nello specchio, non si era mossa, questo gli diede un attimo di tregua. Ficcò le dita fra i capelli, poi ancora sotto l’acqua, si riempì la faccia e la strofinò, prima con le mani e poi con l’asciugamano. Stai lì! Mormorò al piede sospeso nell’aria.
Il telefono sul comodino squillava. − Signore… il taxi è arrivato. − Lo faccia attendere. Grazie! Paolo aveva riattaccato.
°*°*°
− Buonasera. Un taxi in Via Calabiana 28, grazie. Dopo qualche istante. − Sì, grazie!
La casa era fredda quella sera. La cucina pulita, nessun odore, nessun suono.
− Non capisco! – Il pugno si era schiantato sul ripiano di marmo, vicino ai fornelli. − Lo so che non capisci, è questo il problema, non credi? – Laura era in piedi, con l’impermeabile e un borsone di pelle chiara, da viaggio. − Ti prego, ragioniamo. − Non c’è niente da dire, è finita. Paolo, sto andando via! − Per l’amor di Dio, Laura, non puoi lasciarmi! − Ma Cristo! Possibile che non ti rendi conto? Io non ce la faccio più! Non posso più. − Ti sei innamorata di un altro? − E che c’entra questo? Mi sono rovinata la vita e tu pensi che io stia cercando un altro? Non è questo il punto! − Ma fra noi, lo sai, tu hai sempre gestito tutto come hai voluto. Cazzo… io non capisco! − Fra noi, fra noi… non è tutto nella nostra disponibilità, Paolo, ci sono cose che non possiamo controllare. É tutto finito. − Ma che vuoi dire? − Lo sai benissimo. Ora vado, tornerò a prendere le mie cose. − Laura… − È finita, Paolo, e non l’ho deciso io. − Ma cazzo! Cosa ti ho fatto mai di così terribile per andartene ora, nel mezzo della notte! − Ecco che ricominci. Non hai ancora capito. Devo! È arrivato il mio Taxi. − No, aspetta, ora ti siedi e parliamo. Ne ho bisogno, lo capisci? E tu hai il dovere di spiegarmi il perché di tutto questo. Abbiamo condiviso dieci anni della nostra vita, dormito insieme, fatto l’amore. − Paolo, è stato e nessuno lo potrà mai cancellare. Vado, perché ora qualsiasi risposta sarebbe inutile, tutto è inutile. − Inutile? In questi anni io ho vissuto solo per te. Per te. Lo capisci? − Lo so, Paolo, è vero e tu continua, continua a vivere, anche per me.
Il taxi aspettava fuori. Paolo aveva visto Laura entrare e poi solo il fumo del tubo di scappamento sull’asfalto lucido nella notte.
°*°*°
− Centralino? Un taxi a Via del Corso 127.
− Dottor Gentili? Parigi51 fra tre minuti. − Grazie Carla, scendo.
Dunque, dunque, dunque. Calma. Avrebbe dovuto preparare tutto per bene, quella era l’occasione che aspettava da una vita, la svolta. Invece, aveva trascorso la serata a litigare, invece di fare quello che avrebbe dovuto fare, invece di pensare all’occasione che stava rischiando di perdere, al suo lavoro. Ora. Nel taxi. Quanto avrebbero impiegato ad arrivare! Da Via del Corso all’Eur. Poteva essere mezz’ora, ma anche di più.
Il budget era sproporzionato, lo aveva valutato con attenzione due giorni prima e poi mollato così, certo che sarebbe tornato a metterci le mani per dare una sistemata. Ecco, poteva togliere centomila euro dal fondo dei rischi, rischi? Non ce ne sarebbero dovuti essere con quel gruppo di aziende alle spalle! Rischi uguali a zero. Il villaggio sarebbe sorto in una delle più belle spiagge dei Mari del Sud. Cazzo, gli ecologisti! Il discorso. La conferenza stampa. Gli scoppiava la testa. Un turbinio di colori lo stava soffocando, suoni, clacson, voci, frenate. Era caldo, poi era freddo. Un caffè. Ecco, avrebbe dovuto prendere un caffè.
− Scusi, si può fermare al primo bar che incontra? Ho bisogno di prendere un caffè, non mi sento bene! − Certo, signore. – Era rossa, con gli occhi verdi. E non ci aveva fatto caso. Veramente gli era sembrata una voce da uomo quando era entrato nel taxi. − Ma… − Prego? − Lei è una donna? − Sì, già! – la rossa aveva sorriso e continuato a guidare, poi, dopo qualche secondo – Laura come sta? − Cosa? − Dicevo… − altro sorriso – Laura come sta?
Paolo aveva sbarrato gli occhi, deglutito, ma quella chi era? Una amica di Laura? No, impossibile. Come non averci fatto caso entrando nel taxi? La giornata iniziava davvero male. Meglio cercare di ricordare un particolare, qualcosa che gli facesse tornare la calma. Ecco sì, le mani sul volante. No, era di sicuro un uomo. L’anello pesante sbatteva sul manubrio. Sulla sua faccia? Cristo, ma che stava succedendo?
− Ecco il bar. Io che faccio, aspetto qui? – Altro tono di voce, Paolo aveva tirato su la testa di scatto, la rossa non c’era più. La mano con l’anello pesante era al suo posto. − Sì, grazie, faccio subito.
Ordinò il caffè e chiese del bagno. L’acqua sulla faccia gli diede ancora ristoro ma la puzza, in quel luogo immondo, lo fece uscire subito. Lo bevve bollente, pagò e tornò nel taxi. Il tizio lo aspettava appoggiato allo sportello fumando una sigaretta.
− Già fatto? − Sì, ho fretta. − Fretta è una brutta parola. – Aveva detto rientrando in macchina. − A chi lo dice! – Nessun miglioramento nella testa, sembrava che una pressa gli stesse devastando le tempie. Chiuse gli occhi per un momento, mentre il taxi cercava spazio nella lunga fila formata sulla Cristoforo Colombo.
La relazione, il budget, cosa avrebbe detto? La video-conferenza era fissata per le undici, ma prima avrebbero dovuto definire le strategie. Il progetto c’era, di certo non aveva nulla da inventare, ma era confuso, come avesse dimenticato, non stava bene, poteva dirlo, rimandare. No! Non poteva rimandare, era troppo importante, gli investitori dovevano firmare i contratti, c’era da preparare gli appalti, le gare, il tutto doveva essere pronto per il mese successivo. Il respiro non gli dava tregua. Slacciò la cravatta. Aprì il finestrino. La musica di una stazione radio gli diede un pugno nell’orecchio. Si fermò con la testa schiantata contro il sedile.
− Ah! La fretta. Lo sa come diceva Augusto? − Augusto? – La voce era uscita come un rantolo, Paolo aveva riaperto gli occhi. − Sì, Augusto, l’Imperatore, no? Diceva: Festina lente. Affrettati piano. Un avvertimento per chi doveva affrontare imprese importanti, perché avessero successo. C’è da rifletterci su, vero?
Forse quello era davvero solo un incubo. Probabilmente era ancora sdraiato nel suo letto, addormentato e stava sognando. Poteva tentare con un pizzicotto, lo fece, ma da quel gesto non ebbe nessun effetto di realtà. Cercò di concentrarsi sulla respirazione.
− Allora? Laura come sta? − Fermati!
Gli aveva tirato cinquanta euro ed era sceso dal taxi nel mezzo della fila al semaforo.
La rossa doveva averlo seguito, perché arrivato all’angolo della strada, era spuntata come dal nulla con una Mercedes blu e poi lo aveva accompagnato al suo inderogabile appuntamento.
La riunione era andata benissimo. Un figurone! Paolo era stato perfetto, lucido, rapido, ineccepibile per tutto il discorso di apertura, la relazione e persino durante la conferenza stampa. La camicia bianca, i gemelli ai polsi e gli occhi limpidi, ficcanti, diretti. Nessuna obiezione, nessuna replica. Solo complimenti. Una vera svolta. Quando era uscito dal centro Congressi, lei, la rossa, lo stava aspettando. Era rientrato nella Mercedes senza parlare aveva allentato la cravatta, e si era addormentato. Non ricordava più niente. Solo di essersi svegliato in quella stanza strana, nel letto, in pigiama, lavato e profumato. La sveglia sul comodino suonava.
Un biglietto: Al Montcallier alle ventuno.
− Praga72 , sette minuti! − Grazie!
Giornata strana. Ma ora andava decisamente meglio. Solo un formicolio fastidioso gli assillava entrambe le mani, costringendolo, per bere un bourbon, ad ancorare l’avambraccio al tavolino.
Il suo taxi era arrivato.
La sensazione, nell’entrarci dentro ancora una volta, era stata terribile, ma solo per il ricordo del brutto incubo di quella mattina. Fanculo Laura! Gli aveva incasinato la testa. La notte insonne, la tensione, lo stress. Ma ora, finalmente, si sentiva decisamente meglio! Quel ristorante non lo conosceva, però gli piacevano le sorprese, le donne intraprendenti, che pianificavano per lui, sorprese e coccole. Ecco, sì. Così sarebbe stata la sua futura nuova vita. Altrimenti nisba.
Mentre il taxi scivolava nella notte, Paolo, perso nei suoi pensieri, cercava di dare un senso a quanto accaduto dalla sera prima. Anche la cronologia dei fatti gli si confondeva nella testa. Se fosse stato spettatore di quelle immagini, avrebbe pensato a un complotto, una droga pesante, qualcosa di chimico in grado di cancellare intere parti di ricordi e sensazioni. Con precisione. Una potatura neurologica per riprogrammare qualcosa che non andava come sarebbe dovuto andare. Forse troppi gialli tra le sue letture. Ma no! Davvero era solo stanco, ci si metteva anche Laura per concludere la giornata. Perché con lei c’era qualcosa di malato, Paolo lo aveva capito fin dall’inizio, era l’unica capace di mandarlo fuori di testa. Eppure ne era innamorato e forse, ammetterlo, gli avrebbe dato un po’ di sollievo in quelle ore difficili. Sì, non poteva nemmeno immaginare di vivere senza di lei. Il suo pieno, il suo tutto. Ovvio, nel ménage di un rapporto lungo, le crisi ci stavano, potevano essere persino necessarie e corroboranti. Sì, qualche giorno di litigi, poi sarebbero finiti a fare l’amore e tutto si sarebbe risolto. Come sempre.
− Siamo arrivati, dotto’! – aveva detto il tassista poco prima di fermarsi − Che c’è? Ma sta bene? − No, volevo dire, sì, sì, sto bene, quanto le devo? − Niente dotto’, a posto così!
Il ristorante era poco illuminato, si affacciava su Via Giulia, in una parte della strada in ombra, forse per quello non ci aveva mai fatto caso prima. Dalle porte a vetri, aveva visto la sala ghermita di gente, stranamente silenziosa. Entrando, una folata di aria calda gli si era riversata sulla faccia, dandogli il disgusto, un odore di broccoli, forse una zuppa, qualcosa che gli aveva fatto venire il voltastomaco. Un profumo di morte.
Ormai era sicuro, gli avevano fatto fuori il cervello. Non c’era altra spiegazione e Laura non c’entrava niente, era stato il controspionaggio dell’appaltatore, poteva giurarci, un complotto a tutti gli effetti, gli avevano iniettato qualcosa che gli stava corrodendo le sinapsi. Un medico avrebbe risolto il problema. Fece per uscire quando la rossa, seduta all’angolo in fondo alla sala, gli fece cenno. Gli era andata incontro, lo aveva avvolto in uno scialle e gli si stava strusciando addosso. Tra i tavoli del ristorante nessuno pareva fare caso a loro. C’erano due coppie che chiacchieravano tranquillamente, gli sembrava di conoscerli, ma non riusciva a capire dove li aveva visti, poi in un altro tavolo i suoi vicini di appartamento, gli fece un cenno di saluto, e in fondo, dove non riusciva a vedere bene, un tavolo tondo con tre persone sedute a mangiare qualcosa che sembrava appetitoso.
Fra loro. Laura.
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− Sì, buongiorno, è la 207! Mi chiama un taxi per favore? − Certo signore, subito.
− Mi scusi, c’è un po’ di traffico, Alabama23 in quindici minuti. Provo un altro? − No, va bene, grazie. Piuttosto, mi prepara il conto? − Certo signore.
La sala del ristorante, quella sera prima, era avvolta da una nebbia fitta, in effetti tutto il locale era impregnato da un odore strano, Galenos, oppiacei, forse morfina, ma che odore ha la morfina? E poi, cosa ci faceva Laura lì?
Era seduta al tavolo con altre due donne che Paolo non conosceva, appariscenti, con scollature da infarto e vestiti colorati e pomposi. L’espressione dei loro visi, non dissimulava oscenità. Laura rideva e beveva, parlava, succhiava, sputava, ascoltava. Sembrava fare l’amore con tutto quanto le capitasse di toccare, era affamata, disperata.
Paolo rannicchiato in quell’angolo, con la rossa che lo guardava fisso come sapesse leggergli il pensiero, stava cercando di attirare la sua attenzione, doveva portarla via! Alzò con energia una coppa di champagne, lei lo guardò tra le bollicine del vino francese e poi scomparve. Nell’attimo preciso in cui Paolo aveva pensato di avercela fatta, ne aveva invece perso le tracce.
Si scostò nervoso dal tavolo, raccolse le sue cose e corse in strada per cercarla. Fuori non c’era anima viva. La strada silenziosa e umida, qualche voce che proveniva da un festino in un palazzo lì vicino. La luna era circondata da una ampia sciarpa bianca che la stava strangolando.
In fondo alla strada i fari di una macchina. Avanzava lentamente. La luce rifletteva sull’asfalto creando disegni tetri, come quella di vecchi fari a carburo, sul tettino la scritta Taxi era accesa. Libero. Forse Laura lo aveva chiamato per tornare a casa. Quando quello si fermò davanti al Montcallier, ci si infilò dentro. Al volante non c’era nessuno. Probabilmente l’autista era entrato nel ristorante. Meglio così! Aveva pensato. L’avrebbe aspettata lì, seminascosto, nella penombra. Doveva parlare con lei. Dirle che era tutto sbagliato, che si sentiva un uomo finito senza di lei, che avrebbero ricominciato da zero. La riunione era andata bene, senz’altro quella era stata la causa che in quei mesi li aveva allontanati. Dovevano andare via insieme, iniziare tutto da capo.
L’aria dentro l’abitacolo era pesante, di muffe, di sciroppo alla mela. Cercò di abbassare il finestrino ma era bloccato. Si girò all’improvviso e si vide riflesso nello specchietto retrovisore. Una cera da far spavento. Dovrebbero mettere degli specchi migliori! Lo pensava davvero. Si faceva un po’ schifo.
°*°*°
− Ingegnere, ecco il foglio di dimissione, la cartella la potrà ritirare verso fine mese. Buon ritorno a casa! E auguri! − Grazie! – Paolo prese il trolley e fece per uscire. − Ah! Le chiamo un taxi? Per quanto, fuori dall’ospedale ne trova quanti ne vuole. − No, grazie. No! − Ok, bene. Ci vediamo per un controllo tra una decina di giorni. E mi raccomando, riposo assoluto.
Avevano detto che lo scoppio era stato improvviso e agghiacciante. In un istante aveva trasformato la strada in un inferno, il palazzo era crollato come fosse fatto di aria.
Paolo, lo avevano trovato incastrato nello sportello del taxi. La perdita di gas era stata individuata al terzo piano, proprio sotto le finestre della sua camera al quarto, Laura doveva essere ancora sul letto quando tutto era accaduto, lì l’aveva lasciata qualche istante prima di scendere per andare alla sua importante riunione.
Non c’era stato niente da fare, impossibile persino fare il riconoscimento del cadavere. Non ha sofferto, non ha sentito niente! Aveva detto qualcuno, forse lo aveva letto sui giornali, dopo, sì, quando era riuscito a ricollegare il tragico puzzle che aveva nella testa.
Nella disgrazia erano rimaste uccise in tutto nove persone, i suoi vicini di casa, due donne che erano sotto, sul marciapiede, e la famiglia che viveva al primo piano. Li conosceva solo di vista. Lui, venti giorni di coma, poi la lenta ripresa, e, quella mattina, finalmente fuori. La palazzina era stata rasa al suolo, al suo posto c’era una montagna di niente. Uno spazio vuoto, ambiguo, denso e scuro.
Edited by nescitgalatea - 1/12/2010, 23:06
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