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VASSAGO
Il professor Alessandro Latini uscì dalla sala operatoria stremato. «Non è stata colpa sua, professore». Il secondo chirurgo tolse guanti, camice e mascherina, li gettò nel bidone dei rifiuti e si avvicinò al collega rimasto in silenzio, seduto su una panca con le mani sulla testa. «Lo so bene che non è stata colpa mia...» accennò Latini. «E poi, Sandro, quell'uomo era vecchio, molto vecchio», disse l'altro con tono gelido da burocrate, come se salvare la vita di un essere umano fosse l’ultimo dei suoi interessi. «E solo al mondo. So anche questo. Ma come mai non mi rincuora saperlo?»
Nel traffico dell'ora di punta, con lo scooter nuovo regalatogli dalla fidanzata, Salvatore Folli cercò di districarsi dalla morsa di un autobus che lo stava spingendo contro il marciapiedi. Dopo aver inchiodato, riprese la marcia mostrando il dito medio all'autista. Il capo redattore lo stava mettendo alla prova, pensò Salvatore mentre accelerava. Cavare qualcosa d’interessante da un’intervista con il professor Latini, emerito chirurgo di fama mondiale, nonché esempio di bontà e altruismo, noioso come un gran premio di formula uno, sarebbe stata una vera impresa. E poi lui voleva scrivere di cronaca nera, non elogi ai benefattori. Salvatore entrò nel parcheggio della chiesa del Santo Crocifisso senza mettere la freccia, si fermò su un lato dello spiazzo, ripose il casco e oltrepassò una porta sovrastata da un cartello scritto a tempera rossa: "Beati gli afflitti, perché saranno consolati".
Carlo Vincente sentì l'ago nella vena del braccio sinistro e si riscosse. Il freddo interiore era violento. Cercando di girarsi, si chiese dove fosse. L'ultima cosa che rammentava era la bottiglia di vino che gli cadeva di mano infrangendosi a terra. L'odore acuto di disinfettante incrementò il senso di gelo. Era svenuto nel sottopassaggio della stazione, di questo era certo. Ma poi? Qualcosa teneva il suo corpo magro legato al letto. La poca luce filtrava da un pertugio in alto non più grande di una moneta. Nella leggera penombra Carlo intravedeva solo forme confuse e lontane; forse un armadietto e un tavolino. Una porta chiusa. Dopo qualche minuto provò a gridare, ma dalla bocca non uscì neanche un mugolio. Man mano che la nebbia nel cervello si diradava, il freddo aumentava d'intensità. Quando fu pienamente cosciente, lo assalì il panico.
Diretto verso l'ospedale, Salvatore Folli non ci voleva credere: finalmente un diversivo. La conversazione, al centro Caritas dove il professor Latini prestava servizio di volontario, aveva fruttato una traccia, qualcosa d’interessante su cui gettarsi. «Il professore questa settimana non verrà», gli aveva detto una biondina minuta che stava medicando la ferita alla mano di un magrebino. «Come mai?» aveva chiesto infastidito Salvatore. Accortosi della scortesia si era subito ripreso: «Sa, avevo un appuntamento». Visibilmente in difficoltà, la ragazza aveva abbassato gli occhi, quindi aveva mormorato: «Tre giorni fa è successa una cosa brutta». «Ah. Cosa? Se si può sapere…» aveva accennato lui, di nuovo senza alcun riguardo, ma col tono mellifluo di un piazzista. Mettendo a posto garze e medicinali, la volontaria aveva atteso l’uscita dello straniero dall’ambulatorio ricavato in una stanza della canonica parrocchiale, quindi aveva precisato: «Durante un'operazione a cuore aperto, il paziente non ce l'ha fatta». «Mi spiace», aveva replicato poco convincente Salvatore. Stava quasi per andarsene quando la ragazza si lasciò andare a un’ultima confidenza. «Il professore sarà distrutto. Tre morti in meno di due mesi...» L'interesse di Salvatore si era di nuovo destato. «Come, scusi?» «Sì, purtroppo questo è il terzo paziente, in poco tempo, che torna a Dio durante un'operazione del professore. Povero professore...» «E povero paziente, direi», aveva concluso Salvatore salutando. Sempre meglio un articolo sulla malasanità che l’intervista a un babbeo, aveva pensato infilandosi di nuovo nel traffico.
Carlo Vincente era paralizzato. All'odore pungente della stanza si era aggiunto quello del corpo. Il letto era bagnato. Sudore o forse urina. Ormai pensava di essere prigioniero in qualche ospedale. Dopo l’attacco di panico era svenuto. Con la perdita di sensi aveva riacquistato la calma che ora cercava di mantenere attaccandosi ai ricordi. La sua vita da reietto gli passò davanti senza seguire alcun nesso logico. Alla fine, qualsiasi sentiero percorresse, tornava sempre al solito punto: ai cartoni in terra sotto la stazione; alla bottiglia di vino che esplodeva nella caduta; al buio successivo. Braccia, gambe e busto erano immobilizzati. Alla gola sentiva un bruciore, misto a dolore ogni volta che provava a deglutire. E non riusciva a dire una parola. Sebbene gli dolesse, la lingua sembrava a posto, così le labbra. Però non parlava. Intorno silenzio totale. Si assicurò di non aver perso l’udito soffiando dal naso e strusciando la nuca sul letto. Di nuovo lottò per non ricadere nell’abisso della paura. Raccogliendo forze che non pensava di avere, Carlo si calmò. Fu in quel momento di quiete che ebbe la folle certezza di essere all’inizio di una nuova vita.
Al giornale erano abituati a vedere il Folli muoversi come in preda alla febbre. La sua fame di gloria era ormai proverbiale, come i suoi fallimenti per raggiungerla. Quando irruppe in redazione chiedendo alla platea seduta alle scrivanie se il capo fosse in ufficio, nessuno gli rispose. Con il suo metro e ottantacinque per cento chili, Salvatore puntò dritto verso la porta del capo redattore quasi la volesse sfondare, invece al momento giusto si fermò e, con un’educazione che non gli apparteneva, bussò. «Avanti». «Capo, ho uno scoop!» sparò ancor prima di chiudere la porta. I redattori più vicini alzarono la testa e si scambiarono un sorriso d’intesa. «Il professore ha un segreto», proseguì il giornalista mettendosi seduto. «Folli, quale piacere… accomodati pure», ironizzò l’altro continuando a guardare lo schermo del suo PC. «Il professor Latini non è quello che sembra», affermò risoluto Salvatore. «Non mi dire». «Non scherzo. Quell’uomo nasconde qualcosa di grosso». Il responsabile della cronaca cittadina assunse l’espressione di chi sapeva quanto fosse inutile tentare di arginare il Salvatore Folli posseduto dal demone del colpo giornalistico, quindi si voltò, incrociò le mani sulla scrivania e ordinò: «Folli, inizia dal principio». Dopo aver riassunto la visita all’ambulatorio della Caritas, Salvatore raccontò ciò che aveva scoperto curiosando all’ospedale dove, grazie al suo acume professionale, poteva vantare diverse fonti sicure. «Nelle ultime sei settimane, al luminare del cuore spaccato sono morti ben tre pazienti sotto i ferri», disse Salvatore mostrando il numero con le dita. «Sebbene anche la percentuale sia fuori statistica, lo strano non è questo, ma l’identità dei morti». «Ebbene?» lo sollecitò il capo redattore. «Tutti e tre erano poveracci provenienti dal centro dove il dottore fa il buon samaritano. Lì per lì non mi pareva niente di particolare, poi l’infermiera con cui stavo chiacchierando mi ha detto qualcosa…» «Arriva al dunque, Folli, non ho tutto questo tempo…» «I corpi dei barboni, il professore li fa trasportare alla sua villa in collina». «Per?» «Per inumarli nel cimitero di famiglia». «Questo è strano», ammise il capo redattore. «E di ancora più strano c’è che questa beneficenza di loculi va avanti da anni. Questi tre sono solo gli ultimi di una serie iniziata chissà quando. Ho scoperto che almeno tredici persone senza tetto né famiglia sono stati sepolti nel cimitero privato dei Latini. Perché un famoso professore si preoccupa della sepoltura di alcuni disgraziati?» «Perché?» «Pare per bontà, ma nessuno in ospedale lo sa per certo. La prassi va avanti da così tanto che nessuno sa come sia iniziata. Qualcosa non torna, capo». «Con lui hai parlato?» «No, era già andato a casa». «Senti, prima di fare qualsiasi sciocchezza, ricordati chi è il professore e quanta influenza ha sul consiglio d’amministrazione di questo giornale. Quindi, vai da lui e fai quell’intervista che ti avevo assegnato stamattina. A quel punto, solo a quel punto, se senti odore di bruciato, torna da me e ne parliamo. Mi sono spiegato?» «Certo, il boss sei tu. Vado e riferisco». «La porta!» gli gridò dietro il capo redattore mentre Salvatore si allontanava senza voltarsi.
Col passare delle ore, Carlo Vincente acquistava sicurezza. Assieme alle immagini erano affiorati prima nomi e luoghi, e poi la consapevolezza: adesso sapeva chi era. All’improvviso la poca luce dal piccolo foro gli bastò. La vista diventò ogni istante più acuta. Anche gli odori della stanza divennero nitidi, e non solo quelli presenti, ma anche quelli affievoliti da poco tempo. Non aveva urinato, e non sudava più. L'udito iniziò a percepire i piccoli rumori degli animali: dal respiro dei topi negli anfratti, ai ragni che tessevano le loro tele. La stanza non era una camera d’ospedale, non era una camera in assoluto. Pareva una cantina, un locale sotterraneo attrezzato come un’infermeria. Quello che gli era sembrato un armadietto era in realtà una cassa da morto appoggiata al muro; il tavolino un carrello con dei flaconi; l’ago nel braccio, il terminale di una flebo contenente un liquido bluastro. Così come il gelo interiore, la mancanza di ogni sentimento era totale. Quando l’uomo entrò nella stanza, Carlo lo stava già attendendo.
Appena uscito dalla redazione, Salvatore avrebbe voluto precipitarsi alla villa del professor Latini, ma quella sera doveva accompagnare Serena, la sua fidanzata, all’inaugurazione di un atelier di moda in centro. Con poche battute l‘aveva convinta a un piccolo cambio di programma, ché in fondo non era cool arrivare troppo presto alle feste, e si erano diretti fuori città. Stretto nel completo da sera, Salvatore si sentiva a disagio. Non era abituato a muoversi in abiti di quel genere. Dopo aver varcato il cancello della tenuta, attraversarono quasi un chilometro di bosco. Nel breve tragitto, percorso toccandosi di continuo il nodo della cravatta, Salvatore ripassò le domande che intendeva porre al luminare per scalfire la sua presumibile reticenza. Davanti alla villa, Salvatore rimase in contemplazione dell’insolito edificio. L’architettura apparteneva a uno stile che lui associava al liberty; la facciata di tre piani era larga qualche decina di metri e abbracciava la vista con terrazze e finestre incorniciate da sculture raffiguranti animali ed esseri indefinibili. «Non mi vorrai lasciare qui fuori?» La voce di Serena era stridula. «Non puoi entrare con me», rispose il giornalista, «cosa vuoi che ti succeda? Accendi la radio e goditi il tramonto», quindi scese dall’auto e senza attendere una replica si avviò all’ingresso.
«Allora sei davvero tu», sussurrò l’uomo stagliato nella cornice della porta. Carlo non tentò neanche di rispondere. Dopo essere avanzato per pochi passi, l’uomo proseguì: «Ti starai chiedendo perché non puoi parlare… Carlo». Il nome fu pronunciato in tono dubbioso, «Forse dovrei chiamarti con il tuo vero nome», concluse l'uomo, tremante. Senza muoversi, il prigioniero fissò il proprio interlocutore controluce. «Ti ho tagliato le corde vocali», rivelò l'altro. «So bene quale sia il potere della tua voce. La profezia…» accennò. Poi aumentando il tono delle parole, come a darsi sicurezza, aggiunse: «Sapevo che saresti riemerso qui, nel corpo di un barbone. Sono anni che aspetto paziente quello giusto... Le vie del male sono davvero bizzarre: ultimo tra gli ultimi, ma primo tra i flagellatori dell’umanità! Finalmente ti ho in pugno e…» Il suono del campanello interruppe il monologo. «Il sedativo ti terrà a bada quanto basta. Non t'illudere, non avrai un'altra occasione», concluse l’uomo e, chiudendosi la porta alle spalle, uscì.
La sala era ammobiliata in uno stile che Salvatore non riusciva a catalogare. Pezzi di antiquariato erano mescolati con oggetti moderni; l’illuminazione creava un ambiente di luci e ombre che inquietava il giornalista. «Mi scusi se l’ho fatta aspettare, signor…» «Folli, Salvatore Folli». «Bene, signor Folli, lei è qui per l’intervista, ma non le sembra un po’ tardi?» Il giornalista si schiarì la voce e tentò di giustificare la ragione che lo aveva condotto a quell’ora fino alla residenza del luminare. Dopo poco, quando gli fu evidente che il professor Latini lo avrebbe congedato in fretta senza dirgli nulla, chiese diretto: «Perché porta i corpi dei poveracci a casa sua, professore?» Il chirurgo rimase interdetto, poi, repentino rispose: «Non credo che un particolare del genere interessi ai vostri lettori». «Lo lasci decidere a loro, se interessa. Perché lo fa?» «La sua maleducazione è pari solo alla sua arroganza, signor… Folli». «Se non mi dà una risposta, sarò costretto a inventarmela, professore». «Scriva ciò che le pare. Arrivederci».
All'esterno, un fioco crepuscolo aveva già avvolto esseri umani e natura. Avvicinandosi alla sua auto, Salvatore si sentiva uno stupido. Non poteva rientrare alla redazione a mani vuote. Senza farsi vedere da Serena, decise di aggirare l’edificio alla ricerca del cimitero della famiglia Latini. Circondato da un muro di pietre e calce, trovò il piccolo camposanto a un centinaio di metri dalla villa, alla quale era collegato tramite un vialetto di cipressi. Nonostante la luce flebile, davanti alle cappelle della famiglia Latini, nel prato in pendenza Salvatore individuò le tombe dei senzatetto: lastre di pietra serena prive di foto, su cui erano ricordati nomi e cognomi e, a volte, l'anno di nascita e quello di dipartita del defunto. Salvatore contò sedici tombe, di cui annotò nomi e date. La diciassettesima era vuota. Accanto alla fossa, la lapide già pronta riportava: "Carlo Vincente, n. 1950 m. 2010". Il decesso dell’ultimo barbone risaliva a tre giorni prima, dov'era la salma?
Colui che una volta era stato anche Carlo Vincente si sentì quasi pronto. L'antico potere stava di nuovo per realizzarsi; ma doveva riacquistare la libertà. E l’uso della parola, la ragione essenziale per cui il suo spirito dannato migrava di corpo in corpo. Nella situazione imprevista in cui si trovava, far sopravvivere Carlo era essenziale. Se il corpo ospite fosse morto per la seconda volta, lui sarebbe stato ricacciato negli inferi ancor prima di trovare un nuovo rifugio: un barbone mal ridotto e la sua voce. La flebo, con la sua infusione, continuava a controllarlo. Doveva fermarla. In un attimo capì: arrestò il cuore e attese. Dopo due secondi la flebo cessò di centellinare.
Mentre stava raggiungendo l'auto dal lato della villa opposto a quello che aveva rasentato all'andata, Salvatore Folli incappò in un carro funebre. Il mezzo, vuoto, era parcheggiato con il retro rivolto alla casa. Salvatore guardò le finestre buie della villa; nessuno sembrava averlo notato. Dietro al carro c'era una porta, accanto la finestra di uno scantinato da cui filtrava un punto di luce rossastra. Salvatore sentì salire l'inquietudine, ma, come attirato da una forza superiore, dette una spallata alla porta e scese le scale che erano all'interno.
Qualcuno stava scendendo, il simulacro di Carlo Vincente lo sapeva. Quando l’uomo entrò, era già tutto previsto. Dopo aver trovato l’interruttore della luce, l’intruso vide il letto. «Ma che... chi è lei?» bisbigliò. L'uomo legato al letto aprì la bocca afona e lo fissò. «Lei è Vincenti... quel Vincenti?» domandò l’altro indicando la bara. La testa di Carlo fece cenno di sì e attese. Dopo un attimo di esitazione, l'uomo appena entrato si mosse. Stralunato, slacciò le fibbie e arretrò di un passo. Appena poté muoversi, l'essere sul letto si alzò e toltosi l'ago uscì ignorando il suo liberatore.
Il piazzale antistante la villa era privo di illuminazione. Chiusa nell'abitacolo, Serena non riusciva a distinguere altro che ombre. Le finestre della casa erano tutte buie. Intorno immaginava il bosco abitato da chissà quante e quali creature; a ogni folata di vento il respiro le si fermava. Per l’ennesima volta controllò il trucco e i riccioli biondi che le incorniciavano il viso paffuto, quindi smanettò con la sintonia della radio. Trovata una stazione di suo gusto, iniziò a canticchiare. In quell’attimo una sagoma attraversò il suo campo visivo. Il tremito s’impadronì della ragazza. Armeggiando con le chiavi accese i fari, ma davanti all’auto non c’era nessuno. In preda all’ansia prese il cellulare. Mentre cercava il numero di Salvatore, una mano insanguinata colpì il parabrezza. Serena gridò; il telefono cadde. Al finestrino comparve un uomo. Illuminato appena dalla luce dell’autoradio, lo sconosciuto gridava e gesticolava come un ossesso, tentando di aprire la portiera. Dalla sua bocca un bolo di sangue esplose in goccioline che andarono a infrangersi contro il finestrino. Terrorizzata, Serena capì solo le parole "Latini" e "apra", ma fu incapace di qualsiasi gesto. Un attimo dopo, qualcuno – o qualcosa – colpì l'uomo facendolo volare a terra molti metri oltre l'auto.
Salvatore si riprese dallo shock guardando il letto vuoto e odorando il fetore della stanza. Non riusciva a spiegarsi l'accaduto. L'ultimo paziente del professor Latini non era morto, perché i morti non si alzano, continuava a ripetersi. Ma quegli occhi fissi, rossi, privi di pupilla, non appartenevano a un uomo, né vivo né morto, e allora chi era? E perché il professore lo teneva legato in cantina? E quell'atroce ferita che aveva al collo? Mentre cercava risposte plausibili, si rammentò di Serena. Correndo, salì gli scalini a tre per volta, quindi piombò nel piazzale come una furia. Accanto all'auto intravide qualcuno – o qualcosa – chino su una persona a terra. Urlando si scaraventò sulla forma con un placcaggio che fece rotolare entrambi sulla ghiaia del piazzale. La cosa era gelida ed emanava odore di putrefazione. Nella lotta, Salvatore incontrò di nuovo lo sguardo rubino che l'aveva atterrito poco prima. Una sensazione di morte si impossessò di lui. L'intuito gli consigliò di chiudere gli occhi. Menando alla cieca, dopo poco si ritrovò solo.
Riverso a terra, il corpo del professor Latini appariva esanime. Con l’abito strappato, Salvatore si avvicinò all’auto barcollando. Accasciata sul sedile del passeggero, Serena stava piangendo immobile. Appena lo vide, la ragazza uscì e l'abbracciò. «Cos'è successo?» gli chiese. «Non lo so, davvero, non lo so». Liberatosi dall'abbraccio, il giornalista si avvicinò al professor Latini. Sfigurato, il chirurgo aveva l’addome dilaniato. Salvatore stava per rialzarsi in cerca di aiuto, quando il professore lo afferrò per una manica. Biascicando parole incomprensibili, porse al giornalista una pergamena macchiata di sangue. Un attimo dopo i suoi muscoli si rilassarono nell’ultimo respiro.
Il capo redattore raggiunse Salvatore mentre alla sua scrivania studiava un foglio bianco. «Hai terminato?» gli chiese. «Non ancora». «Sono due ore che sei lì sopra. Capisco lo shock, tutto quello che vuoi, ma sei un testimone oculare, e giornalista, quindi fai il tuo lavoro e crea un pezzo da prima pagina, mi sono spiegato?» «Certo, capo, certo». «Bene, hai altri sessanta minuti, poi ti caccio dal giornale». Per la prima volta nella sua carriera, Salvatore Folli non era in grado di scrivere. Se avesse riferito tutto ciò che sapeva sulla morte del professor Latini sarebbe passato solo per pazzo. Mentire? Mentre sullo schermo del PC un lancio d'agenzia continuava a segnalargli da ore la strana morte di un tassista trovato fermo a un semaforo - "con gli occhi spalancati e due rivoli di sangue dalle orecchie" -, aprì lento un cassetto, prese la pergamena e per l'ennesima volta lesse la storia di un demone chiamato Vassago che aveva nella voce il potere di sottrarre l'anima agli esseri umani facendoli passare dalla pazzia alla morte. A quanto pareva, soltanto il possessore della pergamena poteva individuare e fermare il demone. Salvatore scosse la testa, fissò il foglio, e come se riuscisse a vederci attraverso iniziò a scrivere: "Il professor Latini aveva un segreto. Io ho un problema..."
Edited by black cat walking - 8/12/2010, 18:16
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