Due pallottole per morire

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  1. Philo Beddoe
     
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    Vorrei un vostro parere su questo mio racconto, buttato giù di getto tempo fa. L'ho ritrovato, probabilmente non è mai passato per il processo di revisione, nonostante sia abbastanza recente. Lo posto perchè mi dà l'impressione di avere un'aria sbagliata ma non capisco dove e perchè...

    DUE PALLOTTOLE PER MORIRE

    di Mario Raciti


    Il pistolero con il pastrano a mantello aveva appena ucciso un uomo, sotto la pioggia, nella fetida strada principale di Tuscarora, e ora stava cavalcando verso ovest, verso il cielo perlaceo di pioggia che oscurava il sole.
    Aveva vagabondato da quand’era poco più che un ragazzino, e non si era fermato in un posto mai tanto a lungo da potersi ricordare di lui. Per tutto il West era andato cercando la rissa, il proiettile che l’avrebbe steso, ma, pur avendone trovati di quelli che ti strappano una spalla o ti bucano un fianco, era sempre riuscito a uscirne vivo. Tuttavia, ormai l’intera Frontiera lo conosceva. Gli avvisi di taglia con la sua faccia spinosa di barba erano attaccati ovunque, nei saloon, nei bordelli, nelle stalle, ai cartelli con il nome dei villaggi.
    Adesso i lampi che trafiggevano l’orizzonte e che tagliavano il cielo illuminavano una macchia rossa che si apriva sul pastrano grigio, a metà strada tra la spalla e il fianco sinistro, una macchia che la pioggia aveva reso più scura come se fosse il sangue nero del diavolo. Correva lungo il fianco magro, sotto la camicia azzurra sbrindellata e scura d’acqua, mentre il proiettile ballava da qualche parte dentro di lui.
    Il cavallo era veloce, sicuro, fendeva l’aria e il territorio semidesertico, mentre il cavaliere abbassava la tesa del cappello e si lasciava andare alla sorte verso cui l’avrebbe spinto il suo destriero.
    Un lampo cadde vicino, e l’uomo col pastrano a mantello vide a qualche metro oltre la pista un buco enorme, semicoperto dal fumo, e sentì le grida acute di un centinaio di uomini, di baionette che battevano tra di loro, di fucili che tuonavano e di soldati che si lamentavano, il terreno era tutto un brulicare di colori grigi e blu, e del rosso del sangue. Vide cadere due suoi compagni, poi un’altra botta e il calcio di un fucile che si abbatteva sul suo naso, pioggia d’ossa e di sangue.
    Il cavallo correva ancora, ma teneva il passo, e lui si risvegliava con la faccia nera e viola, il naso di là e un dolore lancinante.
    Tirò le redini e il destriero si fermò impennandosi. La pioggia continuava a cadere, e ora l’orizzonte era più scuro, contornato dal tenue bagliore del temporale. Sopra di lui il rumore cupo delle nuvole sembrava il brontolio di un demone.
    Cercò di raddrizzarsi sulla sella ma il dolore al fianco lo fece ripiegare su sé stesso. Pensò al tizio in mezzo al fango della strada di Tuscarora, e ghignò, ma quel pensiero non lo fece stare meglio, almeno non fisicamente. La febbre lo stava indebolendo poco a poco, e si costrinse a pensare a una soluzione.
    Ma la mente vacillò. Si vide quand’era ragazzo, sotto l’albero più grande del ranch dei suoi, con una pistola di legno a rigirarsela nella mano credendosi un soldato, mentre suo padre combatteva come volontario nella guerra contro il Messico. “Ma i soldati portano il fucile” pensava. Tre giorni dopo, a quindici anni compiuti, teneva in mano un rozzo Kentucky strappato dalle mani di un povero emigrante che ora giaceva sull’erba, con la canna appuntita di una pistola di legno infilata in gola, l’estremità che usciva da una guancia. Non ritornò più a casa e sua madre non lo rivide mai più.
    Scese piano da cavallo e si lasciò cadere a pancia in su sul sentiero, rotolando poi lentamente fuori dalla pista. L’animale brucava l’erba rada. Lui, l’uomo col pastrano a mantello, non aveva fame, ma avrebbe volentieri bevuto un bicchiere di whiskey, specie quello di Brennan, il segaligno gestore del Bloody Saloon di Corpus Christi, quello che preparava il mescal con la carne di serpente e mischiava allo stufato di fagioli bacche allucinogene che si faceva portare da certi indiani.
    Gli indiani! Se ne aveva ammazzati, di quei sacchi di pelle rossa pieni di merda! Trent’anni fa, a diciassette anni, aveva sterminato una tribù di Quechan insieme a un gruppo di cacciatori di scalpi, in California. Poi se n’era andato perché il troppo poco spargimento di sangue non faceva per lui.
    Nel delirio rise, rise come uno stregone fin quando non svenne e si risvegliò dentro una tenda indiana. C’era una puzza da far morire un bisonte, e c’era un tipo al di là del fuoco, uno di quei sacchi rossi di merda che rideva, rideva anche lui come uno stregone. Infatti era proprio uno stregone, pieno di rughe e cicatrici, gli occhi come batuffoli di cotone coperti di polvere da sparo, un naso grosso come una nave da guerra e una sola fila di denti, quella superiore, dove alcune cannonate avevano aperto degli squarci. Sedeva a gambe incrociate, e la sua criniera grigio topo sobbalzava a ogni movimento della fragile testa.
    “Tu demone bianco”, disse ritornando serio d’un colpo e indicando il pistolero.
    L’altro non capì. Era a pancia in giù e si rigirò sul fianco destro, per vedere meglio lo stregone. La coperta di pelle di bisonte scivolò appena e il pistolero vide che era nudo, salvo per i pantaloni e gli stivali, e che la ferita gli era stata coperta con una fetente mistura di chissà che cosa.
    “Che ci faccio qui?” chiese con voce bassa.
    “Ti ci ho portato io, occhi bianchi. Ti ho trovato nella prateria, svenuto, e ti ho curato con la mia medicina”. Mostrò un sacchetto macchiato che teneva appeso al collo.
    Il pistolero si mise a sedere, con un piccolo sforzo dovuto al dolore.
    “Hai tirato fuori la pallottola?”.
    “No, occhi bianchi. Gli spiriti mi hanno detto che tu sei malvagio, che hai ucciso anche molta della mia gente. Non sarò io a salvarti, ma ho potuto darti un po’ di forza per andare a morire da un’altra parte. Non lo voglio lo spirito di un demone bianco sul mio territorio. Alcuni bianchi mi hanno mostrato la tua faccia disegnata su un foglio, qualche giorno fa. Ti cercavano. Non buono”.
    L’uomo socchiuse gli occhi. Doveva fare a fette quel maledetto vecchio indiano.
    “Fuori c’è il tuo cavallo, la tua arma. Qui la tua camicia, il tuo cappotto” e gli lanciò i suoi abiti. “Vestiti e lascia queste terre, vai a morire da un’altra parte”.
    “Molto obbligato” rispose l’uomo. Fremeva di rabbia, si infilò la camicia con molta cautela e si alzò poi in piedi per infilarsi il pastrano grigio.
    Portò la destra alla pancia, per abitudine, ma la pistola non era lì, non era infilata nella cintura dove la teneva sempre.
    Girò attorno al fuoco, senza perdere di vista lo stregone, e scostò il lembo di tenda che fungeva da porta. Fuori era l’alba e una luce rossastra illuminava la prateria, mentre il cavallo brucava, legato alla staccionata di un piccolo corral.
    Anche lo stregone si alzò, mentre il pistolero si fermava accanto al cavallo. Il vecchio indiano uscì, si fermò sulla soglia della tenda e vide l’uomo puntargli contro la canna di una grossa Walker, e premere il grilletto. La pistola fece “click” e lo stregone rise.
    “L’ho scaricata per sicurezza, occhi bianchi”. Nella risata buttò la testa all’indietro e, quando la rialzò, il massiccio castello della Walker gli fece saltare via naso e denti, tra schizzi di sangue e di saliva. Non aveva avuto nemmeno il tempo di vedere la pistola saettare nell’aria.
    L’arma e l’indiano caddero insieme con un tonfo, e con un balzo il pistolero gli fu sopra, riprese la pistola e iniziò a massacrare di colpi la testa del vecchio stregone sanguinante, fin quando nel cranio incartapecorito non si aprì una voragine dentro cui il calcio della Walker quasi affondò. L’uomo lo pulì dal sangue strofinandolo sulla tenda, strinse la cintura nera che teneva alla vita e vi infilò la Walker. Poi montò a cavallo, lo girò e si allontanò, mentre lo stregone rendeva l’anima a Manitù.

    Aveva perso il cappello, da qualche parte. Probabilmente nella prateria, mentre quello stregone lo trascinava dentro la sua tenda.
    Tuttavia la cosa non lo preoccupava. Quello che più gli dava da pensare era la pallottola che aveva ancora dentro, da qualche parte tra il cuore e le budella. Quel pezzo di merda d’indiano gli aveva fatto proprio un bello scherzetto. Ghignò pensando a quel cranio fracassato e toccò d’istinto il calcio della pistola. Poi gli sovvenne che era ancora scarica, allora fermò il cavallo, la tirò fuori e infilò la mano in un sacchetto nero che teneva attaccato alla sella. Se ne uscì con un tamburo già carico, che sostituì rapidamente, rimettendo quello scarico dentro il sacco. Poi si risistemò la pistola, bene a contatto con il corpo: ora si sentiva più al sicuro. Ghignò nuovamente, stavolta pensando al tizio secco nella stradaccia di Tuscarora.

    Le basse e misere case di adobe che formavano Wolf Creek erano a malapena visibili dall’alto della collinetta, con una leggera foschia che le copriva e inondava anche la piccola stradina.
    L’uomo con il pastrano a mantello vacillava sul suo cavallo, mezzo svenuto e ormai quasi totalmente privo di forze. Riuscì alla disperata a scalciare i fianchi del suo destriero e l’animale si rimise pigramente in moto, discendendo il poggio e imboccando la pista verso il paesello.
    La nebbia rendeva tutto opaco, e il sole di metà mattina non riusciva a scalfirla se non di poco.
    C’era rumore di carri lungo la main street, e gente che gridava e bestemmiava.
    Il pistolero strinse i denti e scese da cavallo. Nella nebbia le sue parole volarono via ma qualcuno gli gridò che il dottore stava appena oltre la strada e lui si diede da fare e iniziò ad arrancare verso la sua destinazione, forse la sua salvezza.
    Non bussò, ma entrò spalancando la porta con tutto il peso del corpo. Il dottore stava leggendo un libro quando lo vide entrare. Gli corse contro, lo sorresse e lo trascinò sul retro, dove stava un lettino coperto da un lenzuolo bianco. Il pistolero vi si sdraiò sopra, ma non svenne.
    “Mi tolga quella dannata pallottola, doc” disse.
    “Ora do un’occhiata…”. Armeggiò un attimo ad un tavolino e fece ingoiare al paziente uno schifoso intruglio che sapeva di catrame.
    “Dovrebbe calmarvi il dolore”.
    Poi, mentre si apprestava a togliere con delicatezza il pesante spolverino, il dottore si illuminò. I suoi occhi scintillarono e la sua bocca si allargò in un silenzioso sorriso. Il pistolero giaceva sul lettino semisvenuto e non si accorse che nel giro di mezzo minuto era rimasto solo. Bestemmiò tra i denti e provò a muoversi. La parte destra del suo corpo rispondeva ai comandi ma quella sinistra era un po’ intorpidita. Sentiva l’odore acidulo dell’impiastro indiano e pregò che la ferita non avesse ricominciato a sanguinare. Poi riappoggiò la testa e attese. Il dolore si era calmato.
    Non dovette aspettare molto. La porta si spalancò.
    “Dove vi eravate cacciato? Dovete togliermi sta pallottola!” gridò il pistolero, senza girarsi.
    “Oppure mettervene un’altra, magari in testa”.
    Quella voce lo impietrì. Si volse lentamente e, ancor prima che potesse girare del tutto la testa, il suo naso andò a sbattere contro le lucide canne di una Colt e di un mostruoso fucile a canne mozze.
    Dietro la Colt brillava una stella di marshal. WOLF CREEK, TX, MARSHAL.
    “Randall Graham, il pistolero più letale del Texas” cantilenò il marshal.
    Il suo aiutante stava girando attorno al lettino per spostarsi sulla destra del pistolero e togliergli la pistola. Randall fece finta di non vederlo e lasciò cadere la testa, esausto. La sua mano destra, che teneva abbandonata sul petto, si era spostata impercettibilmente e quando il marshal riprese parola e cominciò a dire “Tirati su, carogna, o ti impiombo qui dov…” la destra di Randall risalì armata e ciò che impugnava aprì una voragine nella testa dell’aiutante, poi tese un arco e andò a sbattere contro la Colt del marshal, facendo partire un colpo che trapassò il pavimento d’assi.
    Prima che l’uomo di legge rialzasse il revolver, Randall si lasciò cadere dal lettino, atterrando sul cadavere dell’aiutante.
    Una fitta di dolore lo colse e strinse i denti. Spinse il lettino contro il marshal e nello stesso momento provò a spiccare un salto verso la finestra: ma il lettino aveva colpito in pieno l’uomo di legge e dalla sua Colt partì accidentalmente un altro colpo che si andò a ficcare dritto dritto nella spalla sinistra di Randall. Il suo corpo sussultò e la potenza dell’impatto del proiettile lo spinse oltre la finestra chiusa, facendolo cadere sulla polvere della strada, tra vetri rotti e uno schizzo di sangue che tracciò l’intera traiettoria del suo salto.
    Si rialzò di scatto. Il dolore era niente in confronto a quello che lo aspettava: si inoltrò nella nebbia ancora fitta e si fermò a riposare appoggiandosi al muro di una casa. Aspirava aria convulsamente, e gli faceva un male cane, poi si ritrovò a tossire sangue e capì che la nuova pallottola gli aveva come minimo bucato un polmone.
    Provò a orientarsi. Recuperare il cavallo sarebbe stata una follia, quindi raccolse le sue poche forze e cominciò a correre: superò le case e alcuni corral, e capì che era ai margini dell’abitato. Ora la foschia si diradava e Randall poteva vedere, a qualche centinaio di passi, la sagoma di un boschetto di pioppi.
    Lo raggiunse in mezz’ora. Si lasciò cadere contro un albero e si riposò nella fresca erba bagnata di rugiada. Svenne.
    Nel sogno sentiva delle voci che si alternavano, che parlavano una sull’altra, che cantavano. Sentiva rumore di stivali in marcia, trombe che suonavano la carica e bandiere sventolare al vento. Sentiva spari ed esplosioni, poi grida, poi implorazioni. Sentiva piangere per il dolore.
    Lo risvegliò il frusciare delle foglie a una decina di passi di distanza.
    Il sole era più in alto, ora doveva essere mezzogiorno o giù di lì.
    Di fronte a lui c’era un uomo che stava liberandosi la vescica, e accanto a lui un cavallo.
    Randall strisciò sulla pancia, curandosi di fare meno rumore possibile, poi si ricordò del coltellaccio che teneva nello stivale. Lo tirò fuori. La lama scintillò attraverso i raggi del sole mentre volava oltre i cespugli e andava a infilarsi nel collo dell’uomo che orinava. Si accasciò come un sacco vuoto e Randall lo raggiunse gattoni, gli sfilò il coltello e lo pulì sulla camicia bianca del morto, poi lo rimise nello stivale, gli diede un colpetto e disse:
    “Grazie vecchio mio”.
    Si rialzò. Ansimava e sputava sangue, il dolore lo martoriava. Avvicinò il cavallo e lo legò a un ramo. Le bisacce che teneva in sella contenevano della carne secca, una vecchia pistola scarica, palle di piombo sparse e una bottiglia di whiskey con tre dita di liquore.
    Randall ne sorseggiò un po’, mangiò della carne secca e prese la decisione di curarsi la ferita.
    Quando si spogliò, vide che l’impiastro indiano era ancora lì, secco, e decise di non toglierlo. Con la mano toccò intorno alla spalla sinistra, trovò il buco d’entrata della pallottola e vi versò sopra il whiskey rimasto. Il bruciore gli penetrò fin nel cervello, una scossa che gli tolse il respiro ma che perlomeno lo risvegliò dal torpore. Si rivestì e si distese sull’erba del prato, al riparo di alcuni cespugli di bacche. Svenne di nuovo.

    Ora era in Colorado, guidava un seguito di tagliagole del Dakota. Nel giro di un paio d’anni aveva riempito di piombo tanti di quei cercatori d’oro che gli sembrava non avesse fatto altro in tutta la vita.
    Se molti li uccise per legittima difesa altri lo fece per rubargli il sacchetto d’oro che poteva contenere al massimo una dozzina di dollari di polvere. Una miseria. Ma lui si portava via anche orologi, stivali, armi, cavalli. Rivendeva tutto e a volte riusciva a guadagnarci anche cinquanta dollari, non male.
    Il suo sorriso era sempre stampato in faccia, e tutti capivano che non era passato giorno senza che avesse ammazzato qualche povero diavolo.

    Nel tardo pomeriggio era in sella al cavallo rubato. Sorrideva. La carne secca gli aveva dato un po’ di forza anche se sentiva ancora dolore. Non tossiva più. La pallottola non era uscita, quindi ora si ritrovava con due pezzi di piombo dentro.
    Era sera quando entrò a Whitewater, un villaggio fluviale sulla sponda nord del fiume Three Oaks.
    Le luci ballavano nella leggera oscurità, la gente affollava la strada principale diretta ai sordidi saloon. Era un paese di taglieggiatori, dove la legge si teneva lontana e il crimine prosperava tra gli stessi criminali: ladri che rapinavano ladri, assassini che uccidevano assassini.
    Randall aveva deciso di non cercare subito il dottore, ma di mettersi in forze mangiando prima qualcosa.
    Entrò al Golden Rope Saloon, il primo che gli capitò sott’occhio, e guarda caso il più squallido di Whitewater.
    Non c’era niente lì dentro, se non un bancone e alcuni tavolacci traballanti e sporchi da far schifo. C’era però un mucchio di gente, feccia così pericolosa che per Randall era come ritrovarsi tra amici.
    Si fece largo a spintoni, nessuno si chiedeva il perché dello spolverino insanguinato, d’altra parte c’erano alcuni avventori che tenevano in faccia i segni di cose ben peggiori che un paio di pallottole. Randall ne conosceva parecchi ma non si fermò a dir parole con nessuno. Chiese solo un piatto di mais e fagioli e una birra, si mise a mangiare in silenzio, poi uscì nell’aria fresca del Texas.
    Whitewater… dove il pomeriggio di un giorno di quindici anni prima le strade lo videro fuggire via da chissà cosa. Poi ricordò che lui era morto, anche se non ne era certo, ma non sempre si sopravvive a uno squadrone di confederati a caccia di sporchi yankee.
    Chiese del dottore. Un tipo con una benda sull’occhio, che pareva cieco anche dall’altro, gli disse che la casa del doc si trovava appena fuori da Whitewater, oltre il ponte di corda. Indicò con un dito.
    Randall vi si avviò a piedi. Amava camminare se non c’era da percorrere molta strada. E poi gli piaceva la brezza del Texas che soffiava dal golfo, gli ricordava il periodo a Corpus Christi insieme a Brennan, quando facevano i buttafuori e menavano pugni con piccole lame nascoste tra le dita. Il sangue scorreva a fiumi.

    La casa del dottor Cordell era una bella costruzione a due piani con un portico dipinto di bianco e una cancellata di legno che correva per tutto il perimetro.
    Randall bussò alla porta e due minuti dopo un negro della Louisiana gli aprì. Lo fece entrare e il pistolero gli spiegò perché cercava il dottore, allora il negro annuì e scomparve oltre una delle porte del soggiorno.
    Cinque minuti dopo il dottor Cordell fece il suo ingresso. Randall rimase impietrito, con gli occhi spalancati: era lui! Ed era vivo!
    “Ci si rivede, Randall” salutò il dottore. Aveva i capelli lunghi sulle spalle, grigi come i folti baffi.
    “Credevo fossi morto…” rispose il pistolero. La sua voce era flebile, ma era difficile dire se fosse per colpa della sorpresa o della sua spossatezza fisica.
    “Sono riuscito a cavarmela, come vedi”.
    Randall non parlò.
    “Immagino tu abbia bisogno dei miei servigi” chiese Cordell.
    Randall deglutì a fatica. “Sì, in effetti… ho due pallottole in corpo, da qualche parte…”
    Il dottore annuì. Si avvicinò al pistolero, spostandosi lentamente e alzando il suo lungo bastone prima di riappoggiarlo una volta fermatosi davanti a Randall.
    “Noi abbiamo un conto in sospeso, vero?”. Gli sorrise con una dentatura irregolare e gialla come il granturco maturo.
    “Credo di sì”.
    “E allora ci vediamo domattina, nella main street. Ci sfideremo a duello: se mi colpisci ma non mi uccidi, ti toglierò le pallottole e ti curerò. Se ti uccido o ti ferisco, dovrai trovarti un becchino o un altro dottore. Se mi uccidi tu, idem.” Cordell sorrise di nuovo.
    Randall accettò. Uscì e andò a dormire in una sporca stanzetta al primo piano di un piccolo albergo.

    Era un limpido pomeriggio del Texas, quando un numeroso gruppo di confederati irruppe come un’onda a Whitewater. Due settimane prima il capitano Ross Cordell aveva preso la cittadina e, trovandola innocua, aveva sciolto le sue fila e vi era rimasto perché gli piaceva l’aria fresca del Golfo.
    Il caporale Graham aveva perso il denaro della paga giocando a black-jack in una bettola del porto e, ora congedato, non aveva i soldi per tornare a casa sua, in California.
    Si incontrò allora con un gruppo di confederati, a poche miglia da Whitewater, e rivelò dove si nascondeva un capitano dell’esercito nordista.
    I confederati piombarono in città, presero Cordell e lo portarono ad Austin, dove poi Graham seppe l’avevano impiccato. Lui era fuggito a cavallo, ma Cordell scoprì chi era stato a tradirlo.

    Randall fece brutti sogni, quella notte. La ferità si riaprì e inzuppò le lenzuola già sporche. Era in pessime condizioni quando scese in strada.
    All’orizzonte la luce era rossa e gialla d’alba, l’aria era limpida e c’era la solita lieve brezza che smuoveva le foglie ma non alzava polvere.
    C’erano ancora poche stelle in cielo e la cupola del sole iniziava appena a far capolino.
    Dal ponte di corda arrivava Cordell, con i capelli svolazzanti, il cappello piatto e il bastone in mano.
    Randall si spostò in mezzo alla strada, dove alcuni ubriaconi giacevano a faccia in giù gorgogliando nella loro bava e nel loro vomito. Per il resto, solo lui e Cordell.
    Il dottore si fermò a trenta passi da Randall. Si appoggiò al suo bastone.
    “Sei pronto, caporale?” gridò.
    “Sono pronto, capitano”.
    Randall socchiuse gli occhi. Voleva chiuderla lì. Non aveva fatto colazione, non aveva bevuto un caffè. Era debole e pallido, stanco sotto il peso del passato e delle pallottole. Si era tolto il sudicio spolverino, ormai più rosso che grigio. Gli calzava come un paio di stivali nuovi, teso e stretto nel suo stesso sangue secco.
    Allargò le gambe, sollevando polvere, e guardò Cordell. Non disse nulla.
    Il dottore guardò all’orizzonte, dove il sole saliva lentamente, tingendo sempre più di giallo la luce prima di renderla trasparente.
    Si aggiustò la fondina sulla sinistra, e scoprì che quella sensazione, dopo tanti anni, gli infondeva ancora sicurezza.
    Le mani di entrambi ora erano ferme lungo i fianchi.
    Sulla strada, i primi saloon riaprivano i battenti, mentre i bottegai scuotevano le loro scope sui marciapiedi di legno e si fermavano a guardare i duellanti.
    Poi tre spari riempirono l’aria tersa, e il tempo fermò i due sfidanti pistole alla mano.
    Poi la LeMatt di Cordell scivolò lentamente dalla mano guantata del dottore. Cadde con un tonfo polveroso. Il dottore piombò sulle ginocchia, lasciando cadere il suo bastone. Guardò Randall.
    “Morirai… lo… stesso”. Stramazzò a faccia in giù nella polvere e rimase immobile.
    Cordell abbassò la mano che impugnava la sua Walker. Si sentiva letteralmente a pezzi. Guardò verso il basso e vide che la sua già sudicia camicia era volata via insieme a brandelli di carne e di budella. Cordell aveva sparato con la canna da caccia! L’aveva quasi tagliato in due, ma Randall non sentiva dolore, il tempo si era congelato e a lui parve un’eternità quello che trascorse fin quando non crollò nel suo stesso sangue.
    La Colt gli rimase in mano ma la vita lo lasciò, dopo averlo tenuto per giorni sul filo del rasoio.
    I vagabondi gli stavano già togliendo gli stivali.
     
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