Le viscere della mente
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Le viscere della mente

di Leonardo Boselli, horror, 21566 caratteri

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    Horror, 21527 caratteri, versione 2.3


    LE VISCERE DELLA MENTE
    di
    Leonardo Boselli



         Karl Vogel iniettò il contenuto della siringa nel braccio del capitano Konrad Jürgens. «È scopolamina», spiegò al dottor Hofstetter. «Lo renderà più malleabile».
         Il medico obbiettò: «Voi della Gestapo riponete troppa fiducia in questa sostanza. L’abbiamo già sperimentata sul soggetto e non ha avuto effetto».
         Vogel ignorò il commento del dottore. Osservò lo sguardo del capitano fisso nel vuoto e disse: «Konrad, so che puoi sentirmi».
         Non ottenne risposta. Quindi aggiunse con un tono di voce rassicurante: «Rilassati, torna con la mente alla tua infanzia, al tempo in cui vivevi con i tuoi genitori a Düsseldorf. Ti ricordi di tua madre?»
         Mentre pronunciava quelle parole, appoggiava le dita alla base del collo e sulle spalle del capitano esercitando brevi pressioni, ma Jürgens non rispondeva a quelle sollecitazioni. Il dottor Hofstetter stava per manifestare le sue perplessità sull’efficacia dell’ipnosi, quando finalmente il capitano si scosse e con voce infantile disse: «Mamma».

    *    *    *

         Ventiquattr’ore prima, Karl Vogel stava volando su uno Junkers diretto a Berlino. Accanto a lui era seduto l’obersturmführer Friedrich Stahl, un giovane e ambizioso tenente delle SS, esperto in lingue e culture orientali, che aveva il compito di scortarlo.
         Il tempo era bello per essere novembre e il viaggio confortevole. Il trimotore aveva incontrato pochi vuoti d’aria e i passeggeri non avevano di che lamentarsi. Fuori dai finestrini si potevano vedere a perdita d’occhio i campi coltivati tedeschi che nutrivano la più potente macchina da guerra che l’Europa avesse mai visto.
         Vogel distolse lo sguardo dal paesaggio e tornò a leggere i documenti che teneva in mano. Sul fascicolo era stampigliato l’emblema dell’Ahnenerbe, l’organizzazione delle SS che si occupava degli studi sulle origini della razza ariana. Anche il tenente Stahl apparteneva a quella sezione, come testimoniava il simbolo cucito sull’avambraccio della divisa – un pugnale intrecciato – che faceva bella mostra di sé sotto la fascia rossa con la svastica nera in campo bianco.
         Al contrario del tenente, Vogel era in borghese, come erano soliti fare i membri della Gestapo quando operavano in incognito nei territori occupati; ma in realtà il suo abbigliamento costituiva una sorta di divisa che lo rendeva facilmente riconoscibile come appartenente alla polizia segreta del Reich. Infatti indossava un elegante impermeabile di pelle nera a doppio petto, un borsalino e una cravatta scura su cui spiccava la spilla del partito nazista, mentre un paio di occhiali di tartaruga e dei baffi sottili rendevano il suo aspetto piacevole e rassicurante, per quanto tutto il resto non facesse altro che incutere timore.
         Spesso si affidava a questa sua ambiguità per mettere a disagio i propri interlocutori. Si presentava come un uomo raffinato ed elegante, aperto e disponibile, ma subito dopo poteva sfoderare un’insospettata crudeltà, che pure era già evidente nella fredda eleganza che ostentava.
         Vogel interruppe la lettura e si tolse gli occhiali, poi con falsa modestia disse al tenente: «Non capisco perché abbiate bisogno di me. Mi fa piacere rivedere Berlino, soprattutto in questa stagione, ma non credo proprio di potervi essere utile».
         Stahl sorrise perché, durante il viaggio, aveva avuto modo di conoscerlo e ne aveva apprezzato la cultura, l’affabilità e, soprattutto, la determinazione.
         «Lei si schernisce. Il nome del kriminalkommissar Vogel è arrivato alle orecchie di persone molto in alto, accompagnato dai rapporti sulle difficili indagini che ha condotto brillantemente. Non c’è da stupirsi che abbiano pensato a lei».
         «Ne sono lusingato» rispose, mentre inforcava gli occhiali per riprendere la lettura, «ma temo che questo caso vada al di là delle mie capacità».
         «Sono certo che non ci deluderà» disse Stahl con convinzione.
         Vogel, in qualità di ufficiale della Gestapo, aveva coordinato di recente alcune decisive operazioni contro la Résistance, ed erano note le sue capacità nel condurre gli interrogatori dei soggetti più coriacei, per questo era stato richiamato d’urgenza da Parigi per occuparsi di quel caso così particolare che stava molto a cuore allo stesso Reichsführer Himmler, il capo delle SS.
         In quei giorni di novembre del ‘43, la guerra infuriava su tutti i fronti e per i nazisti era imperativo trovare qualche asso da giocare sul tavolo del conflitto. Perciò si stavano conducendo frenetiche ricerche in ogni campo scientifico al fine di produrre l’arma finale che potesse schiacciare gli avversari, ma allo stesso tempo si indagavano anche i lati più oscuri del soprannaturale e degli antichi miti.
         Il profilo affilato del commissario tornò a osservare per qualche momento i campi coltivati, poi si concentrò di nuovo nella lettura.
         Il documento che stava esaminando era un libretto sgualcito, un diario che risaliva al 1939, quattro anni prima. Era stato redatto da un capitano delle SS, l’hauptsturmführer Konrad Jürgens, durante una missione in Tibet.
         Vogel, come molti altri in Germania, ricordava bene un’altra esplorazione sul tetto del mondo compiuta nel ‘38 da Ernst Schäfer, perché ne era stato proiettato un avvincente resoconto nei cinegiornali. Si trattava di una missione tra le più alte vette della terra alla ricerca delle origini del popolo tedesco, sulle tracce dei primogenitori della razza ariana. Vennero svolte ricerche geologiche, etnografiche, zoologiche e si eseguirono misure craniche delle popolazioni native; il gruppo visitò anche il palazzo del Potala, la sede delle massime autorità di Lhasa, la capitale del Tibet, ed entrò in contatto con le personalità più in vista del luogo. Al loro ritorno vennero accolti in patria trionfalmente e fu dato grande rilievo ai risultati scientifici che avevano ottenuto.
         Ma la missione descritta nel diario che Vogel stava leggendo non era quella dei cinegiornali. Si trattava invece di un’esplorazione condotta nella massima segretezza. Secondo i documenti era fallita miseramente con la misteriosa scomparsa dell’intera spedizione.
         Molte pagine del diario riportavano noiose ripetizioni. Si descrivevano i percorsi tortuosi seguiti per non farsi notare, mentre la missione di Schäfer attirava su di sé l’attenzione con le visite di rappresentanza a Lhasa e con le sue colonne di muli stracariche di animali impagliati, collezioni di insetti, campioni geologici e intere collane di testi buddisti.
         Invece il capitano Jürgens, con due soli compagni bene addestrati e poche guide indigene, aveva come obbiettivo il palazzo di Yumbulagang, che Schäfer era riuscito a visitare solo per pochi giorni a causa dei divieti delle autorità britanniche. Si trattava di un’antica residenza delle popolazioni tibetane, ormai abbandonata da secoli.
         La documentazione non spiegava perché fosse stata scelta quella meta, o perché la missione fosse condotta in così gran segreto, ma ribadiva che il gruppo era giunto sul posto senza clamore, quasi ignorato dalle popolazioni locali.
         Il diario cominciava a diventare interessante a quel punto. Veniva descritta la ricerca di una valle tra le montagne che era indicata con il toponimo Grunewald, la verde valle dei progenitori che, a sua volta, doveva condurre al regno di Shambhala, un intero mondo sotterraneo dove, secondo alcune credenze fiorite nell’ottocento, si sarebbero trovati tuttora i discendenti di quella razza originaria. Gli ariani attuali avrebbero potuto trarre nuova forza dalla purezza dei loro antenati, per poter affermare la loro superiorità sulle altre popolazioni.
         Il diario terminava nell’agosto del ‘39. In quell’ultima pagina, con una scrittura molto incerta, veniva annunciato il ritrovamento della presunta Grunewald e la scoperta di un enorme squarcio in una scoscesa parete, tra rocce pericolanti minate da potenti terremoti. Le pagine successive erano ingiallite, macchiate dagli agenti atmosferici, e vuote.
         Il tenente Stahl aveva atteso con impazienza che il commissario terminasse la lettura. Vogel allora commentò: «Una bella storia. Peccato che non ci sia un finale».
         L’ufficiale delle SS replicò: «Non è ancora al corrente di tutto. Il finale lo abbiamo, solo che non riusciamo a leggerlo. Per questo abbiamo bisogno della sua esperienza: quello che è accaduto è scritto nella mente del capitano Jürgens».
         Il commissario rimase perplesso. I documenti sembravano sostenere che la missione fosse finita in tragedia per qualche oscuro motivo, ma Stahl gli rivelò che ciò non corrispondeva del tutto alla verità.
         «Più tardi le racconterò quello che non troverà scritto nelle carte e che sono autorizzato a comunicarle solo a voce. Questa notte ne approfitti per riposare, perché domani sarà un giorno molto lungo».

    *    *    *

         La Mercedes-Benz stava percorrendo velocemente la strada per giungere alla sede dell’Ahnenerbe a Dahlem. Alle prime luci dell’alba la città si stava animando, dopo aver passato una notte insonne a causa degli allarmi che segnalavano le incursioni aeree nemiche. Pochi giorni prima un bombardamento su Berlino aveva provocato un centinaio di vittime, ma le batterie antiaeree erano riuscite ad abbattere nove fortezze volanti inglesi.
         Durante il tragitto Stahl raccontò a Vogel il resto della storia, mentre uno spesso vetro li separava dal sottufficiale delle SS che guidava la vettura.
         «Il capitano Jürgens è ancora vivo», rivelò. «È stato estremamente difficile farlo rimpatriare perché la guerra era ormai scoppiata e la via dell’India era impedita dalla massiccia presenza inglese. L’operazione di rientro, però, ha avuto successo. Tra poco lo potrà incontrare, ma c’è un problema».
         «Ed è per questo che avete bisogno di me».
         «Esatto, le sue competenze subentrano a questo punto, perché lo stato mentale di Jürgens non ci consente di comunicare con lui se non in modo frammentario».
         L’automobile svoltò bruscamente nei pressi del Reichstag, poi riprese decisa la sua corsa nel traffico mattutino.
         Stahl continuò: «Come ha letto nelle ultime pagine del diario, il capitano Jürgens e gli altri due ufficiali si addentrarono in una grotta. Pare che un recente terremoto avesse colpito quella parte della montagna e reso agevole l’accesso all’apertura. Il diario termina a quel punto. Le guide rimaste al campo base si aspettavano un’escursione di poche ore, ma hanno dovuto attendere giorni. Quando ormai disperavano, dal baratro riemerse il solo Jürgens. Camminava lentamente, disorientato, con lo sguardo assente; interrogato non rispondeva e nessuna sollecitazione riusciva a smuoverlo da quella sua apatia. Sono addirittura stati costretti a nutrirlo a forza».
         «Come è rientrato in Germania?»
         «Non sono al corrente di tutti i particolari, ma l’importante è che ora sia qui. Dal ritrovamento le sue condizioni non sono migliorate. In molti lo hanno esaminato senza successo: medici, psichiatri, medium, spiritisti. Siamo convinti che abbia visto cose che potrebbero essere molto utili alla causa del Reich, ma nessuno finora è riuscito a infrangere la cortina del suo sguardo vuoto. Talvolta riesce a formulare parole incomprensibili che, dopo mie lunghe ricerche, sono risultate frasi in un antichissimo dialetto tibetano».
         L’auto si fermò di fronte alla sede dell’Ahnenerbe.
         «Siamo arrivati» disse Stahl.

    *    *    *

         Vogel e il tenente entrarono in una cella dalle pareti imbottite nel seminterrato del palazzo. Un medico delle SS in camice bianco li salutò battendo i tacchi: «Heil Hitler!»
         In un angolo c’era un uomo rannicchiato, legato da una camicia di forza. Vogel lo osservò con attenzione. Pur con i capelli e la barba rasati, riconobbe i lineamenti del capitano Jürgens; solo lo sguardo non corrispondeva: appariva vuoto e spento, mentre in fotografia quegli stessi occhi fiammeggiavano fieri.
         Jürgens, inizialmente immobile, cominciò a emettere un verso ripetitivo e a far oscillare il busto.
         Il medico si presentò, disse di chiamarsi Hofstetter e illustrò sommariamente la situazione clinica del paziente, che tenevano immobilizzato perché in certi momenti soffriva di autolesionismo.
         «Oggi non gli abbiamo somministrato i soliti calmanti perché aspettavamo il suo arrivo», disse rivolto a Vogel, «ma ora è meglio iniziare, prima che diventi ingestibile».
         Si spostarono nella sala degli interrogatori. Stahl e Hofstetter aiutarono il capitano a camminare, finché giunsero in una stanza semibuia. Al centro c’era una scomoda e pesante sedia in legno, dotata di lacci per immobilizzare le braccia, la testa e le gambe. Una forte luce illuminava direttamente quella sedia, ma lasciava nella penombra tutto il resto. Da una parte c’era un carrello su cui erano appoggiati vari tipi di strumenti.
         «Tutto quello che ci ha chiesto è stato preparato», disse Stahl rivolto al commissario. «Iniziamo subito».
         Vogel si liberò dell’impermeabile di pelle, esibendo un elegante completo scuro, e appese il borsalino a un attaccapanni, quindi chiese: «Nessun altro deve assistere?»
         Il tenente Stahl era ambizioso e aveva convinto il dottore a condurre quella seduta preliminare senza la presenza di altri ufficiali: ciò che avrebbero scoperto poteva essere di importanza fondamentale per le loro carriere.
         «Solo noi, per ora. Ha bisogno di un camice?»
         «Grazie, no».
         Il capitano Jürgens venne liberato dalla camicia di forza e assicurato alla sedia con i lacci. Era tornato calmo e non reagiva ad alcuno stimolo. I suoi occhi grigi fissavano un punto lontano, indefinito, ma a un tratto indirizzò lo sguardo verso Vogel, come se una parte di lui avesse capito ciò che stava per accadere. Cominciò a ripetere alcune parole, ad alta voce, e poi sempre più forte. Era una frase ossessiva, incomprensibile, sempre la stessa.
         Vogel era abituato a sentir gridare. Poteva capire fino a che punto spingersi durante gli interrogatori proprio ascoltando la disperazione di quei suoni inarticolati. Conosceva il significato delle urla più disumane e dei gemiti sommessi, ma quella voce non aveva nulla di umano. Erano grida cavernose, le cui vibrazioni sembravano uscire dalle viscere della terra ed entravano nella testa, si facevano largo, si agitavano da una parte all’altra del cervello e impedivano di pensare.
         Il commissario era giunto al limite della sopportazione e la siringa che stava preparando era sul punto di cadere; voleva urlare che lo facessero tacere in qualche modo, ma proprio in quell’istante il mento di Jürgens ricadde sul petto e gli occhi tornarono vuoti.
         I presenti, raggelati, tirarono un sospiro di sollievo. Stahl disse: «Penso che si rivolgesse a lei. Utilizzava parole arcaiche. Credo dicesse: “Presto, liberami”. È la prima volta che una sua frase sembra avere un senso».
         Vogel, scosso da quella reazione, terminò di aspirare il contenuto di una fialetta con la siringa e si apprestò a iniettarlo nel braccio di Jürgens. La vena era ben definita e il liquido entrò immediatamente in circolazione.
         «È scopolamina» spiegò. «Renderà il soggetto più malleabile».
         Il medico gli confidò che avevano già tentato quella procedura, ma non era servito a nulla: lo stato di incoscienza era perdurato.
         Vogel, ignorando il commento del dottore, continuò: «Di per sé questo allucinogeno possiede solo proprietà depressive, ma ha lo scopo di rendere più efficace la fase successiva».
         Poi si rivolse al capitano: «Konrad, so che puoi sentirmi. Ti senti imprigionato in questo corpo, ma se hai fiducia in me presto sarai libero».
         Quindi, modulando il suo tono di voce, disse: «Ora ti chiedo di rilassarti, chiudi gli occhi, ritorna con la mente alla tua infanzia, torna al tempo in cui vivevi con i tuoi genitori a Düsseldorf. Ti ricordi di tua madre?» e mentre pronunciava quelle parole appoggiava l’indice e il medio alla base del collo, sulle spalle, e in altri punti del corpo del capitano esercitando brevi pressioni. Jürgens non chiuse gli occhi e continuò a fissare il vuoto.
         Dopo qualche minuto il dottor Hofstetter, che rivolgeva occhiate scettiche a Stahl, fece per intervenire: voleva manifestare le sue forti perplessità nei confronti dell’ipnosi; ma in quel momento il capitano con un filo di voce disse: «Mamma».
         Rimasero sconcertati, perché ora parlava con una voce infantile.
         Ci volle molta pazienza, ma alla fine Vogel riuscì a riportare la mente di Jürgens in Tibet, all’interno di quella spaccatura nella montagna.
         «Cosa vedi? Cosa c’è intorno a te?»
         Il capitano, con voce flebile, rispose: «Hans... Hans mi precede. Siamo in una lunga galleria contorta. La torcia non riesce a illuminarne la fine. Scavalco un ostacolo, striscio attraverso una stretta apertura».
         «Continua. Senza fretta».
         «Fa caldo. Molto caldo. L’atmosfera è opprimente, è come un alito, umida. Heinrich alle mie spalle sostiene d’aver visto qualcosa muoversi... mi volto, ma la fiamma mi abbaglia e non distinguo più nulla».
         Seguì una lunga pausa. Il respiro del capitano divenne irregolare. Vogel gli toccò dolcemente il polso: il ritmo cardiaco era accelerato.
         «Cosa sta succedendo?» gli chiese.
         Jürgens riprese: «Mi giro di nuovo verso Hans, ma non lo vedo più. Corro avanti per raggiungerlo, e lo trovo fermo, di spalle. Lo chiamo, gli dico che dobbiamo restare uniti, ma non risponde; allora lo strattono, lo volto e...» lanciò un urlo agghiacciante, spalancò gli occhi come se di fronte a sé vedesse qualcosa di orribile, al punto da non riuscire a distogliere lo sguardo, e cominciò a dibattersi violentemente. I lacci trattenevano a stento la sua furia.
         «Tenetelo fermo!» gridò Vogel.
         Gli immobilizzarono un braccio e iniettarono una forte dose di calmante.
         «Siamo sicuri di voler continuare? Un’altra crisi come questa potrebbe ucciderlo» disse concitato il dottore, ma Stahl accecato dall’ambizione ordinò che si proseguisse: non erano mai arrivati così vicini alla verità.
         Dopo aver aspettato che si calmasse, il commissario domandò: «Dove sei ora?»
         «È buio».
         «Le torce sono spente?»
         «No, è buio dentro».
         «Dentro a cosa?»
         «Quella cosa mi scruta dentro. Sento che cerca, pone domande incomprensibili. È gelida, il suo alito è ghiacciato. Ho freddo» e così dicendo venne scosso da un brivido.
         «Dove sono Hans e Heinrich?»
         «Sono solo».
         «Chi c’è con te, Konrad?»
         «Ha trovato l’ingresso e gli piace quello che vede, lo sento».
         «Per dove? L’ingresso per dove, Konrad?»
         «Gli piace ciò che vede. Lo so, resterà finché non si stancherà, o finché non morirò; allora cercherà l’uscita. Voglio morire, aiutami!»
         Quella fu l’unica frase che ebbe un’apparenza di lucidità.
         «Resterà dove? Uscire da cosa? Di che parli, Konrad?»
         Vogel non ottenne risposta, mentre la testa di Jürgens cadeva di lato, senza vita. Sembrava che il suo desiderio fosse stato esaudito.
         Il dottor Hofstetter prese uno stetoscopio e lo appoggiò sul petto del capitano. «È morto» confermò.
         Passarono lunghi istanti durante i quali nessuno osava parlare, ma a un tratto un fremito percorse il cadavere legato alla sedia, che iniziò a contorcersi come se l’anima di Jürgens volesse abbandonare quel guscio inerte.
         Mentre Stahl e il medico osservavano sconcertati la scena, Vogel ripensò a quanto il capitano aveva detto prima di morire, a quella cosa a cui era piaciuto ciò che aveva visto, ma che si sarebbe presto stancata e avrebbe cercato l’uscita, ed ebbe un’intuizione: lasciò i due compagni intenti a immobilizzare quel corpo apparentemente tornato in vita e uscì con rapidità dalla porta. Senza esitare la richiuse dietro di sé e la bloccò. Poi trovò un pulsante d’allarme, ne ruppe il vetro di protezione e lo premette.
         All’interno della stanza si sentì lo schiocco di lacci spezzati, seguito dal trambusto di una lotta e da imprecazioni, poi spari a ripetizione e urla indistinte d’uomini e di bestie; a un tratto, pugni disperati cercarono di sfondare la porta, che resse a stento nonostante fosse robusta.
         Vogel era lì fuori e udiva quei rumori terrificanti, ma non poteva intervenire, non c’era più nulla da fare, e faceva violenza su se stesso per riuscire a non fuggire.
         Dopo interminabili istanti, all’interno della stanza tornò la quiete. Alcune guardie in servizio nel palazzo erano accorse al suono dell’allarme. Dopo essersi organizzate, spalancarono la porta e fecero irruzione a mitra spianati.
         Lo spettacolo che si presentò loro era agghiacciante. Trovarono quel che rimaneva del capitano Jürgens a terra, ma si faticava a riconoscere in quei resti una figura umana. Accanto a lui giaceva il cadavere del dottor Hofstetter, con gli occhi sbarrati, sfigurato dai segni di una lotta furibonda e orrendamente mutilato. Infine l’obersturmführer Friedrich Stahl era rannicchiato sulle proprie gambe in un angolo, con la divisa strappata e lo sguardo perso nel vuoto, ma vivo e in apparenza illeso. In quel momento cominciò a far oscillare il busto, mentre emetteva un gemito ripetitivo.
         Mentre le guardie osservavano con raccapriccio quella scena inspiegabile, Vogel si avvicinò al tenente, si piegò su di lui e gli bisbigliò in un orecchio: «Caro Stahl, mi dispiace. A quanto pare quella cosa ha trovato l’ingresso e ciò che ha visto gli è piaciuto. Non potevo permettere che capitasse a me».
         Nel frattempo erano accorsi altri soldati e ufficiali delle SS. Non gli restava che inventarsi una storia plausibile, o con tutta probabilità sarebbe stato internato come il tenente. Quindi raddrizzò l’attaccapanni rovesciato e, dopo aver raccolto l’impermeabile da terra, con precisi colpi lo ripulì dalla polvere; poi prese il borsalino e l’indossò, si sistemò gli occhiali di tartaruga sul naso e si aggiustò la cravatta: c’era una gran confusione, ma al kriminalkommissar Karl Vogel non sembrava un motivo sufficiente per apparire sciatto.

    F  I  N  E



    Edited by TETRACTYS - 20/1/2011, 10:12
     
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