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Flamenco
Mi innamorai la sera che la conobbi. La incontrai presso l'Atelier di Danza di mia cugina, tre sere dopo Natale. Nevicava a Madrid. L’Atelier era situato in un vecchio palazzo barocco nei dintorni della Gran Via e, siccome c’era troppa neve sulle strade, preferii arrivarci con la metro. Ci volle quasi un’ora. Faticai con la costudia della chitarra sulle spalle, ma almeno evitai il traffico con l’auto. Quando entrai nella sala, lei si stava presentando alle ragazze con le quali avrebbe ballato la vigilia di San Silvestro, in una serata dedicata al flamenco, nel ruolo di prima ballerina. Era piccola di statura, ma davvero graziosa e vi giuro che, mentre le stringevo la mano, non riuscivo a distogliere lo sguardo. Insomma persi subito la testa. «Io sono Miguel» le dissi. Lei mi guardò arrossendo, puntandomi addosso i suoi occhi verdi. «Claudia! Incantata!» disse. Indossava un abito da scena, lungo e dal colore rosso sangue. Pareva una bambola e l’incantato di turno, in realtà, ero io. Dovevo sembrare imbalsamato per come la osservavo, ma suppongo che neppure volendo avrei potuto fare altro. Portava i capelli lunghi, sottili e castani e sul suo viso non c'era ombra di trucco. «Miguel è il nostro chitarrista» disse mia cugina. «Vedrai quanto è bravo.» Claudia sorrise e si spostò i capelli castani dal viso a mo’ di vezzo. Era davvero piacevole guardarla, timida e immobile in piedi. «Non perdiamo tempo e facciamo una prova, così lei si rende conto di che pasta siete!» propose Elvira. Non potei rifiutare. Levai la chitarra dalla custodia e sedetti sopra uno sgabello contro la parete della sala. Feci alcune scale per scaldare le mani. Nel frattempo Claudia si appoggiò alla sbarra delle ballerine classiche. Mentre suonavo riuscivo a vederla riflessa negli specchi di fronte. Era attenta e concentrata. Provammo un’Alegria due volte. Poi provammo una Sevillana. Quando le ragazze furono abbastanza calde rifacemmo tutto un’altra volta. Funzionò a meraviglia e verso le dieci concludemmo le prove. Le ragazze lasciarono la sala e restai con lei e mia cugina. Claudia era più che soddisfatta del livello delle ballerine. «Be’ sono due mesi che proviamo e non vogliamo fare figure in Teatro» disse Elvira. «Brave, davvero!» disse Claudia. Poi mi guardò. «Anche tu non scherzi» aggiunse. «Io?» «Sei pazzesco.» «Dici?» «Sei d’origine gitana?» No! Non ero gitano. Nel mio modo di suonare la chitarra non c’era nulla d’istintivo. Avevo un’estrazione classica. Ero un chitarrista atipico per il flamenco. Mi ero diplomato in composizione al conservatorio e poi, per caso, avevo iniziato a fare degli spettacoli con mia cugina. «Conosci qualcuno dell’ambiente?» Le dissi i nomi di alcuni artisti con i quali avevo collaborato. Ci avevo suonato un paio di volte insieme. Gli erano familiari, sebbene non conoscesse nessuno di questi personalmente. Mi parve un po’ meravigliata e questo fatto mi stupì. Gesù, era proprio carina. Terribilmente carina. Mi pareva una ragazza molto delicata. Non so, pensavo di poterla rompere nel guardarla troppo. «Ti piacerebbe vederla ballare veramente?» mi chiese Elvira. «Balleresti per me?» le chiesi. Lei arrossì di nuovo. «Ora?» Non ci volle molto a convincerla. Ballò una Buleria, ma non suonai io, usò della musica preregistrata. Be’ ci sapeva fare. Aveva davvero arte. Eseguiva movimenti armoniosi senza essere mai brusca. Non aveva bisogno di studiarsi nello specchio per ballare. E poi con il vestito rosso che indossava era stupenda. Eccome. Ogni gesto era perfetto. Doveva lavorare parecchio per ottenere simili risultati. Capivi che amava moltissimo quello che faceva. Si scatenò coi piedi sulla tavola di legno. Si fermò, prima che finisse la musica. «Basta?» chiese Elvira. «Ho bisogno di cambiarmi.» L’applaudii. Claudia sembrava felice della dimostrazione. Mi accarezzò una spalla passandomi accanto. Si ritirò in uno stanzino a cambiarsi. Mia cugina sorrideva. «Le piaci.» «Io?» «È evidente.» «Cosa te lo fa credere?.» «Arrossisce tutte le volte che ti guarda.» «Sarà timida.» «Non fare il modesto… E non fare lo stronzo!» L’aspettammo nel corridoio davanti all’entrata della sala. Quando uscì dallo stanzino, lasciammo l’Atelier e scendemmo per Calle De la Montera sino in Puerta del Sol. Continuava a nevicare e fu una discesa divertente. Andammo a sederci ai tavoli in una sala interna del Kenia. Dopo un po’ giunse anche il ragazzo di Elvira. Bevemmo del vino rosso e mangiammo Jamon de Bellota. Alla fine passammo al rum. Mia cugina e il suo ragazzo ci lasciarono al terzo bicchiere. Claudia e io ne prendemmo ancora un paio. Ci alzammo un pochino ubriachi e mi piacque ancora di più. L’accompagnai a piedi al suo albergo sul Paseo de la Castellana, felice come un Babbo Natale. Piano, con la chitarra sulle spalle e lei al fianco, nella neve. Ci volle un’ora credo e arrivammo all’hotel coperti da fiocchi bianchi e freddi. Feci per salutarla, ma lei mi fece salire in camera sua. Non avrei dovuto farlo. Ci feci l’amore quella notte stessa, in modo bestiale e non ricordo quando mi addormentai. Ho però in mente il risveglio, con Claudia in piedi che ballava scalza nella penombra della stanza. Non faceva nessun rumore o forse non voleva svegliarmi. Non lo so. Era mattina fuori e continuava a nevicare. La guardai e mi accorsi che piangeva. Uscii dal letto. Mi avvicinai e la strinsi. Lei si girò a baciarmi. Poi si staccò e andò verso il letto, senza pronunciare una parola. Non capii perché piangeva. Sembrava immersa in un sogno suo, o meglio incubo. Ne ero fuori e andai in bagno. Non l’attesi in camera. Scesi nella hall dell’albergo con la chitarra. Aspettai una decina di minuti. Poi, appena lei comparve da basso, non mi preoccupai di niente, le andai incontro e la baciai di nuovo. Non so cosa mi spinse a farlo. Neppure fosse stata l’ultima donna che avrei baciato sulla faccia della terra. Si lasciò baciare come una ragazzina, ma non ottenni molta soddisfazione. «Perché?» mi chiese. «Non lo so, istinto gitano» dissi. Non ero per niente imbarazzato per averla baciata, ma ero nervoso. Ero, tuttavia, sicuro di aver fatto la cosa giusta. «Non sono nulla per te» disse scuotendo il capo. «Perché?» «Sei matto» disse. «Sono già innamorato!» confessai. «Non farlo… non hai futuro con me!» disse, poi mise l’indice della sua mano sulle mie labbra. Non mi permise di aggiungere una frase. Subito dopo imboccò l’uscita dell’albergo. Una volta fuori in strada, si avviò a piedi sul marciapiede. La neve adesso scendeva a fiocchi radi nella giornata fredda. Seguii Claudia come un cagnolino, senza capire cosa le passasse nella mente, dove volesse andare e cosa volesse fare. Ero frastornato e infelice: quel suo strano pianto e i suoi baci freddi mi avevano messo a disagio. «Dove è il teatro?» domandò all’improvviso senza fermarsi. «In Tirso de Molina!» risposi. «Possiamo andare a vederlo?» «Ora?» «Sì!» «Non hai fame?» «Mangeremo un panino per strada!» «E la mia chitarra?» «Riportala nella hall dell’albergo, torneremo più tardi a riprenderla.» Restai interdetto. «Si trova lontano, saranno un paio di chilometri a piedi e stasera dovremo andarci per le prove generali.» «Be’ anche la notte scorsa abbiamo camminato parecchio. Ti prego, è importante!» Non me la sentii di contraddirla, anche se non mi andava di lasciare la chitarra nella hall. Era tutto ciò che avevo, a parte ciò che provavo per Claudia. Però avrei preferito portarla con me in metro o in tassì, ma a lei pareva del tutto superfluo. Non capivo neppure perché volesse vedere il teatro. Il guaio è che mi sentivo sempre più stregato. Lo giuro! Facevo tutto ciò che mi chiedeva, come se mi avesse ipnotizzato. Avrei fatto pure la parte del pupazzo di neve, se me lo avesse chiesto. Arrivammo al teatro Nuevo Apolo un’ora dopo. Claudia non era per nulla stanca. Osservò l’austera facciata del teatro qualche istante. Quindi si avvicinò all’atrio e curiosò sulla locandina della serata. Era uno spettacolo organizzato per scopi benefici. L’incasso sarebbe finito a una società no profit che si occupava di raccogliere fondi per una rara patologia infantile. Si diceva che in platea sarebbe stato presente il consiglio d’amministrazione dell’organizzazione in toto: un ente composto da medici di gran fama e altri personaggi illustri. In realtà, saremmo stati pagati relativamente poco, ma l’importanza della serata e la presenza di qualche televisione privata, oltre a qualche vip tra il pubblico, avrebbe ovviato allo scarso cachet. Claudia studiò la locandina. C’era una sua foto al centro del manifesto. Non rendeva merito alla sua bellezza. Poi lesse a voce alta i nomi impressi sulla carta: uno dopo l’altro. Sorrise quando lesse il mio. Mi aspettavo che desiderasse entrare in teatro, invece, stranamente, si girò e con molta calma mi confessò di essere soddisfatta. «Torniamo pure a prendere la tua chitarra» disse. «Non vuoi entrare?» Alzò le spalle. Rifacemmo il tragitto inverso e quando arrivammo all’albergo, trovammo Elvira e un paio di ragazze del gruppo ad aspettare. Elvira mi guardò imbarazzata. Probabilmente aveva intuito ciò che era successo quella notte. Aspettò che Claudia imboccasse l’entrata, prima di accertarsene. «Ha importanza?» «Sei uno stronzo.» Alzai le spalle e seguii Claudia nella hall. Stava già salendo in camera. Ora avrei fatto l’amore soltanto per fare incavolare mia cugina, ma Claudia adottò un altro dei suoi bizzarri comportamenti. Parve quasi scocciata per la mia presenza e non mi restò altro da fare che prendere la chitarra come uno stoccafisso.
Quella sera smise di nevicare e la notte divenne gelida. Provammo in teatro. Era la prova definitiva, ma c'erano alcuni dettagli da sistemare in previsione dello spettacolo dell’indomani. Elvira desiderava che tutta la scenografia fosse rossa e impiegò parecchio tempo a trovare le giuste luci sul palco. Fu una serata tesa e difficile. Finimmo verso le due di notte. Speravo che Claudia mi chiedesse ancora di dormire da lei. Invece non mi accorsi neppure quando sparì con un tassì. Ci rimasi malissimo. Così non dormii per niente quella notte. Mi girai a lungo tra le coperte e non potei levarmi il suo viso dalla testa. Mi addormentai soltanto all’alba. Mi svegliai verso le due. Mangiai delle uova e bevvi una scodella di caffè. Poi misi in una borsa la camicia rossa fornita da Elvira, presi la chitarra, una muta di corde e scesi nella stazione della metro vicina a casa. Una volta arrivato in teatro non controllai neppure se era presente. Provavo rabbia. Salutai Elvira, salii nel mio camerino e andai a sedermi davanti allo specchio. Avevo la faccia sfatta e stravolta. Presi la chitarra e cambiai le corde. Una volta finito iniziai a suonare per scaldarmi. Era il momento di entrare nella parte. Suonare davanti allo specchio mi avrebbe aiutato in questo compito. Mi piaceva guardare le mie dita correre sulla tastiera. Più mi guardavo, più suonavo e più andavo bene. Se nessuno fosse venuto a chiamarmi, credo che avrei suonato tutta la notte. Invece sentii bussare. «Avanti» dissi. Era Claudia. Entrò nel camerino. Aveva raccolto i capelli sulla nuca e aveva il viso truccato. Indossava un body rosso ed era sottile nel body e potevi vedere tutte le sue curve. Era splendida. Si guardò attorno: mi pareva molto strana. «Sei solo?» «Già… preoccupata?» le domandai. «Un pochino» rispose. «Manca poco. Un paio d’ore e poi finisce tutto.» «Lo so che finisce tutto… Speriamo che tutto vada bene.» «Certo, che andrà bene. Cosa dovrebbe succedere?» Si guardava nello specchio. «Oh, niente…» Posai la chitarra e mi alzai. «Ti disturbo?» chiese. «Figurati.» La guardai nello specchio. Sorrise. «Che c'è?» «Sei bellissima. Vorrei baciarti ma ti rovinerei il trucco.» Si girò verso la porta. «Potrebbe arrivare qualcuno» disse. «Che importa…» La sua bocca era lì con il rossetto sulle labbra. «Lo sai che da domani mi mancherai molto?» chiesi. «Non voglio mancarti.» «Però mi mancherai.» Finse di baciarmi, poi andò via e rimasi lì a guardarla sparire. Provai una sensazione strana di abbandono. Poi quando fu uscita mi spogliai e indossai i costumi per lo spettacolo. La camicia era troppo larga, ma i pantaloni erano a posto. Mi osservai davanti allo specchio in silenzio. Mi sentii ridicolo con quei costumi addosso, ma non sembrava una cosa troppo grave. Mi annodai il foulard al collo e tornai a sedermi con la chitarra tra le mani. La accordai di nuovo e mi misi in attesa di qualcuno che venisse a chiamarmi per scendere da basso. Una volta sceso andai nei corridoi dietro il palco a guardare. C’era molta agitazione tra le ragazze. Prima dello spettacolo, sulla ribalta presero la parola alcuni degli organizzatori della serata. Dissero le solite cose di circostanza e pregarono il pubblico di essere generoso. Al termine si sedettero nelle prime poltrone in platea. Poco dopo si alzò il sipario e lo spettacolo ebbe inizio. C’era molta gente in teatro e non vedevi posti liberi. Dapprima si esibirono le ballerine classiche. Come base usarono la musica della Carmen di Bizet. Fu un buon balletto. Le luci funzionavano a meraviglia e la musica era gradevole e non molto alta di volume. Seguii lo spettacolo agli angoli del palco, dietro le tende, cercando di non agitarmi. Durò quasi un’ora. Poi toccò a noi. La seconda parte era più rustica. Mi sistemai sul palco, seduto sul mio sgabello, in attesa che si alzasse il sipario. Vidi le ballerine allinearsi, poi scorsi Elvira, agitata come una tarantola. Avremmo iniziato con un paio di Sevillanas, ma il vero impatto con il pubblico sarebbe avvenuto con l’ingresso in scena di Claudia. Fu davvero così. Quando la vidi apparire sul palco mi sentii il cuore scoppiare. Claudia sembrava fuori di sé. Non voglio dire che fosse drogata o qualcosa del genere. Ma non era normale. Farei prima a dire che era indemoniata. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e avremmo dovuto capire che sarebbe successo qualcosa. Ballò i primi minuti con la classe di cui era solita distinguersi. Poi, a un certo punto fece una piroetta, prese la rincorsa, si mise a correre sul palco e si lanciò dalla ribalta sui primi posti in platea. Fu un attimo e nessuno poté impedirlo. La bomba che si portava addosso esplose appena urtò le persone sulle poltroncine. Ci fu un boato e una forte luce bianca. Poi uno spostamento d’aria violento. Mi sentii trascinare fuori di me dall’aria e per qualche istante pensai che stessi morendo. Poi tutto finì. A quel punto iniziarono le grida. Mi rizzai in piedi e cercai di capire in che condizioni mi trovavo. Avevo del sangue addosso, ma capii immediatamente che non era mio. Non credevo di essere ferito, ma la mia chitarra era andata in frantumi. Alcune schegge delle poltrone in platea, volando sul palco, avevano investito e rovinato completamente la cassa. Lo strumento mi aveva salvato, ma ormai era del tutto rovinato e fuori uso. Il vero sconquasso comunque era in platea. Ricordo che c’era gente che piangeva e sangue, molto sangue. Mi affacciai sulla ribalta a guardare e vomitai. Mi parve di riconoscere i resti di Claudia, dal vestito rosso, ma era tutto un ammasso indistinto di membra, ossa, legno e fumo. C’era un forte odore di bruciato. Vidi un uomo con un occhio che gli penzolava dalla faccia e un altro che si trascinava nel corridoio centrale del teatro senza una gamba. Non urlava nemmeno. Non so per quanto andò avanti questo inferno. Le urla erano continue e indistinte. Poté durare un’ora o anche un giorno intero. Avevo perso la sensazione del tempo. Finché spuntarono i gendarmi e i suoni delle ambulanze e a quel punto fui portato via. In ospedale non mi trovarono niente. Mi fecero una visita veloce e superficiale. L’unico inconveniente che avevo subito era la perdita della chitarra. Mi chiesero se non avevo da qualche parte dei vestiti puliti. Sogghignai! Poi, un medico mi consigliò di andare in corsia con gli altri. Elvira piangeva. Quando mi vide mi corse incontro e mi abbracciò. «Che cazzo ha fatto?» mi chiese. Scossi la testa. «Perché?» Niente. Non sapevo cosa risponderle. Qualcuno disse che c’erano stati dodici morti e ora non sapevo cosa dirle. Piangeva disperata e si chiedeva continuamente il perché di questa strage. Mi rilassai un poco quando notai che era senza ferite. Insomma, mi calmai nel limite del possibile.
La verità si seppe una settimana dopo. Subimmo interrogatori su interrogatori, spesso duri. I funzionari della Guardia Civil erano convinti che si trattasse di un attentato terroristico e non mostrarono compassione per tutti i componenti del balletto. Poi emerse la verità. Terribile. Il resoconto me lo fece Elvira un giorno nel suo Atelier. Non c’erano terroristi in mezzo. Un investigatore trovò un biglietto di addio nella casa di Claudia vicino a Saragozza e il contenuto chiarì i motivi della sua tragica fine. La causa di tutto, a prima vista, era la conclusione di una storia d’amore. Ciò che aveva sconvolto la vita di Claudia sino a condurla a quel suicidio spettacolare era stata la morte del suo ragazzo, avvenuta un anno e due mesi prima. Era stato investito da un’auto sulla quale viaggiavano delle persone importanti. Guarda caso erano le stesse che presiedevano il consiglio d’amministrazione della società che aveva organizzato lo spettacolo in teatro. Il ragazzo era morto dissanguato in mezzo alla strada come un cane. C’era stato un processo successivamente, ma si era trattato di una farsa. Certi nomi non potevano essere coinvolti e tutto era finito nel dimenticatoio. Non per Claudia ovviamente. Probabilmente non aveva sopportato il dolore e alla fine aveva ceduto. Per un anno aveva continuato a ballare e a fare la vita di sempre, ma dentro di sé aveva covato soltanto un sentimento di vendetta. Lo spettacolo di Elvira doveva esserle sembrato un regalo di Natale: uno splendido regalo di addio visto che in un colpo solo poteva liberarsi di tutti quei bastardi. Certo, ancora non si sapeva dove avesse recuperato le bombe e se il piano consistesse proprio nel gettarsi sulla platea dalla ribalta. Ma non aveva più importanza, almeno per me. Claudia si era uccisa e aveva ucciso per un dolore profondo e nessuno lo aveva capito. Non lo aveva capito sua madre e neppure chi le era vicino. Qualcuno aveva scambiato il suo modo di ballare come una forma di sublimazione artistica. In verità l’arte non era più nulla per lei. Nessuno aveva percepito il malessere esistenziale che la minava. Né chi aveva lavorato con lei né chi le era stato vicino. Non lo avevo capito io che ci avevo fatto l’amore, quando magari un semplice pianto improvviso avrebbe dovuto farmelo intuire. Ma ormai era troppo tardi. Pensai soltanto che era troppo triste ricordarla a quel modo. Non era giusto. Per niente. Così chiusi gli occhi e immaginai di vederla nel suo splendido vestito rosso sangue, appoggiata alla balaustra di una sala da ballo, mentre sorridente mi ascoltava suonare.
Edited by ferru - 11/1/2011, 17:24
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