PONTEM PERPETUI MANSURUM IN SAECULA
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PONTEM PERPETUI MANSURUM IN SAECULA

di Alberto Priora - Fantascienza - 31k

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    PONTEM PERPETUI MANSURUM IN SAECULA
    di Alberto Priora


    La ragazza aveva quindici o forse sedici anni, i capelli unti e sporchi tenuti raccolti in una coda, il viso scottato dal sole dell’estate e l’espressione di chi la sa lunga.
    — Vuole venire con me, signore?
    La guardai per qualche istante, passandone in rassegna il corpo. Non mi pareva che avesse la corporatura adatta a quel lavoro, ma la mia poteva essere un’impressione sbagliata.
    — Quanto vuoi?
    — Tre monete, signore.
    Era un prezzo onesto. Comunque non era un problema di soldi, almeno per quanto mi riguardava, semmai poteva essere una scocciatura essere lasciato a metà.
    — Ma sei sicura di farcela?
    Lei mi guardò con una punta di irritazione e poi, con un certo orgoglio, si puntò il dito al petto e disse: — Certo, signore. Mai lasciato nessuno per strada ad arrangiarsi da solo, signore.
    —Va bene; ti credo. Ma non chiamarmi signore, per favore. È una cosa che mi fa sentire più vecchio di quello che sono. Chiamami Erik.
    La ragazza si voltò invitandomi a seguirla. — Come desidera, signor Erik.
    Notai il suo sorriso sarcastico nel dire quelle parole e mi limitai a scuotere la testa divertito. La seguii; vestiva con calzoni che le arrivavano al polpaccio, una tunica sbiadita e sandali di corda.
    — Ecco — disse dopo pochi passi. — Sono pronta. Avanti, salga sopra.
    — Bene — risposi, accomodando la mia mole.
    Il risciò era di legno, ma con asse e mozzi delle ruote in prezioso metallo. Per un attimo pensai di domandarle da che relitto provenisse, poi decisi che sarebbe stato inutile cercare di ricostruire una lunga serie di scambi o, non potevo certo escluderlo, di furti. E poi, anche ammesso che la ragazza lo sapesse, non me lo avrebbe detto. Così mi limitai a sistemarmi sul cuscino di piume di piccione e a mettere borsa e valigia nello spazio destinato al bagaglio.
    — Fin dove vuole andare, signor Erik?
    — Fin dove sorge il sole!
    La ragazza, che aveva già afferrato saldamente le aste, si irrigidì. Immaginai i suoi occhi chiari sgranati per la sorpresa.
    — Non posso andare così lontano.
    Alzai gli occhi verso il cielo, fissando le nubi che passavano oltre i cavi del ponte.
    — Stavo scherzando, ragazza mia. A proposito, come ti chiami?
    — Anna.
    — Un bel nome. Ecco. Stavo solo scherzando, Anna. È sufficiente che mi porti fino alla prossima città. Poi potrai tornare indietro.
    — Allora va bene, signor Erik.
    Mi abbandonai sui morbidi cuscini. Ero stanco del viaggio sostenuto fino a quel momento e una parte della mia mente accarezzava già l’idea di potermi fermare in una locanda e di gustarmi prima una doccia e poi una meritata cena. Solo una parte, però, perché il resto era impegnato a pensare ad altro: nello specifico al significato del mio viaggio.
    Anna iniziò a correre. Mentre le ruote prendevano velocità lungo la strada, cominciai ad assopirmi, cullato dal lieve ondeggiare che aveva il mezzo. La mia ultima immagine, prima di uscire dalla città, fu di una banda di ragazzini cenciosi che ci guardava; potevano essere i fratelli di Anna, potevano essere la banda locale o potevano essere solo l’ennesima prole messa al mondo senza nessuno scopo se non di perpetuare la specie. Il mio ultimo pensiero fu che la ragazza era più forte di quanto potesse sembrare all’apparenza e che si sarebbe ben meritata le tre monete che avrei pagato.
    Vagai nei miei soliti sogni: quello di essere un gabbiano alto nel cielo, capace di guardare oltre l’orizzonte; quello di essere un pesce, in grado di seguire le correnti verso un qualcosa che non conoscevo e che non mi conosceva. Mentre, infine, salivo per una scala che pareva scendere a ogni mio passo, un rumore di tuono mi ridestò all’improvviso. Eravamo sempre in movimento, ma la corrente d’aria che sentivo sul mio viso non era dovuta solo allo spostamento d’aria del risciò.
    Guardai prima alla mia destra e poi alla mia sinistra, ovvero prima a nord del ponte e poi a sud del ponte. Da sud stava arrivando una tempesta: banchi di nubi nere che vorticavano veloci e rabbiose, precedute da un fronte d’aria che stava già increspando le onde del mare. Avrebbe investito il ponte entro breve.
    — Dove siamo? — chiesi ad Anna.
    — Siamo… quasi… arrivati… signor… Erik — rispose lei ansimando per lo sforzo. Aveva probabilmente accelerato il ritmo non appena si era accorta della tempesta in arrivo; brava ragazza, ma non era detto che avremmo fatto in tempo. Essere colti allo scoperto non sarebbe stato per nulla piacevole e quella pareva una tempesta delle peggiori. Spesso durante l’estate era così. Per un attimo mi sentii un po’ in colpa: la mia mole la costringeva a tirare un bel peso, ma non me la sentivo di scendere e di sperare di resistere attaccandomi al ponte in una zona così aperta. Anzi forse rischiava di farsi strappare dal vento il suo mezzo a due ruote se privato del suo carico, ovvero della mia obesa persona.
    Una saetta si scaricò in mare e le sagome scure delle nuvole si illuminarono come se una lampada gigantesca si fosse venuta a trovare dietro di loro. Erano più vicine adesso; nere e vicine.
    — La… città… signor… Erik — sbuffò Anna.
    Davanti a noi, a circa trecento o quattrocento passi, si innalzava il pilone del ponte e attorno, come avveniva attorno a molti dei piloni del ponte, c’era una città. Voleva dire strutture, case, gente e soprattutto protezione.
    — Vai, vai. Ci siamo quasi! — incitai.
    La distanza dalla città diminuiva, ma anche la distanza che separava il fronte di tempesta dal ponte si stava riducendo molto in fretta. Cominciai a vedere bene le case costruite a ridosso della grande torre di acciaio e cemento e ancorate alle balaustre. C’era parecchia gente in movimento; qualcuno stava correndo a ripararsi dentro le strutture fatte di lamiera o di legno, qualcuno era appena salito dai moli costruiti alla base del pilone, arrampicandosi con fatica su per le strette scale che conducevano fino alla superficie dell’acqua, qualcuno era intento a fissare gli oggetti che potevano volare via, sbalzati oltre il ponte.
    Superammo il posto di frontiera, il limite della città, che era già stato abbandonato dalle guardie che dovevano sorvegliarlo. Una sottile sbarra di legno, colorata di rosso e di giallo e montata su due paletti, era già caduta piatta sull’asfalto, mentre una garitta fatta di tessuto montato su di una struttura d’osso era stata spinta dal vento contro il margine del ponte ed era sul punto di volare via.
    Il sole sparì, oscurato dalle nuvole. Era proprio una brutta tempesta, ma eravamo arrivati.
    Ci trovavamo in mezzo alle case. Sulla destra, forse a dieci passi da noi, c’era l’insegna di una locanda: una costruzione con la base di rocce basaltiche raccolte sul fondo del mare e il primo e unico piano fatto di legno. Scesi dal risciò e venni investito da uno scroscio d’acqua sollevata dal mare; sentii il sapore del sale bruciarmi le labbra. Portando i miei bagagli, andai a bussare alla porta, picchiando forte con la mia manona il battente di legno rinforzato da sbarre metalliche.
    Un rumore di chiavistello e poi la porta arretrò. Un uomo con una folta barba mi guardò preoccupato.
    — Erik Lanzote, inviato da Torre Rossa. Posso pagare! — mi parve che le mie parole venissero trascinate via dal vento prima che avessero occasione di raggiungerlo, ma l’uomo si fece lo stesso da parte per farmi entrare.
    E la ragazza? Anna?
    Lanciai dentro borsa e valigia e mi voltai. Lei si trovava presso un punto libero della balaustra e stava armeggiando con una catena; cercava di farla passare tra le ruote in modo da fissare il risciò, ma il vento continuava a muovere lei o il suo veicolo e le impediva di stringerla abbastanza.
    — Vieni via! — urlai.
    Anna tirava la catena, ma non riusciva a fare abbastanza forza per agganciarla al lucchetto che aveva in mano. Il vento era fortissimo e stava crescendo ancora d’intensità, mentre sul ponte stava già cadendo una pioggia intensa che mozzava il fiato; una tegola di legno mi passò sopra la testa, come se fosse un proiettile.
    Corsi verso la ragazza con la massima velocità che il mio corpo poteva permettersi e le misi una mano sulla spalla per farla venire via con me. Lei scosse la testa e continuò a tirare la catena senza riuscire a ottenere il risultato che voleva.
    — Oh, accidenti! — dissi scostandola e tirando con forza. Quando misi un piede contro i raggi della ruota in moda da fermarla nel suo dondolio, riuscii a spingere bene tutto il risciò contro la balaustra. Anna fu lesta a chiudere il lucchetto tra due maglie.
    — Andiamo! — dissi ormai inzuppato dall’acqua e flagellato dal vento. La tempesta stava ormai colpendo in pieno il ponte. I cavi sopra di noi si agitavano come fruste, ora erano tesi, ora erano curvi. Sotto i miei piedi sentivo invece le ondulazioni della parte sospesa che crescevano di intensità: pensai che se fossimo stati sorpresi all’aperto saremmo saltati come pesci in una padella.
    Una folata più intensa delle altre. Anna scivolò e cadde. Il vento, che sferzava l’acqua presente sul ponte e la spingeva via a ondate, iniziò a spingere anche lei verso il bordo. Il suo viso si contorse in una smorfia mentre cercava, inutilmente, di fare presa su qualcosa; era comunque troppo esile di corporatura per resistere a quella spinta. Feci tre passi, le afferrai un braccio e poi provai a puntare i piedi. Andai comunque a sbattere contro la balaustra ed ebbi una fugace, ma intensa visione delle onde che vorticavano sotto di noi mentre il mio fiato si perdeva nel nulla.
    Ma la città, il ponte che era la città e che ospitava tutte le città, decise che non era ancora giunto il momento di lasciarci andare; e mi parve quasi di sentirla nella sua assurda ragione di volerci tenere.
    Il risciò, poco lontano, sbatteva e si agitava come una preda ferita, ma rimase incatenato. Io non caddi di sotto e poco alla volta iniziai a trascinare Anna verso la locanda: i vantaggi di pesare più di un quintale e di avere una pancia degna di una balena.
    Bussai ancora alla porta. Questa volta dovetti bussare per ben tre volte, e l’ultima con una intensità che fece tremare il battente, ma alla fine l’uomo riaprì e fummo finalmente al riparo.
    Altre persone si erano rifugiate all’interno e ci guardavano in bilico tra la curiosità per essere stati così folli e l’antipatia per aver fatto entrare troppo vento. Ricambiai entrambi gli stati d’animo con uno dei miei affabili sorrisi, e andai a sistemarmi su di una panca presso il camino per togliermi qualche indumento e cercare di asciugarlo con il calore del fuoco di alghe. Invitai Anna a fare altrettanto, ma lei si sedette in un angolo senza dire nulla; forse si era resa conto del pericolo che aveva corso e si era fatta abbracciare in ritardo dalla paura.
    Nel periodo successivo, mentre le imposte della locanda tremavano per il vento, stetti a guardare i boccali che si muovevano sul tavolo seguendo le ondulazioni del ponte. Procedevano a saltelli quasi impercettibili, ma se solo distoglievi lo sguardo e poi tornavi a osservarli, ecco che si erano spostati. Ovvio che qui, così vicini al pilone di sostegno, le vibrazioni erano minime e che, se ci fossimo trovati tra due città, quelle stoviglie sarebbero saltate molto di più.
    Steso e con i piedi nudi rivolti verso il fuoco, guardai chi manteneva un’espressione preoccupata durante lo svolgersi della tempesta. Cercavo forse i segni del timore della Grande Ondulazione, l’apocalisse che, secondo alcune credenze religiose, era destinata a sconvolgere e a spezzare il ponte per tutta la sua lunghezza, qualunque essa fosse, scaraventando tutto e tutti sul fondo del mare. Io non ci credevo, ma sapevo che dava ad altri un senso di finalità.
    Tutto d’un tratto la tempesta passò e le gocce di pioggia smisero di battere. I visi di tutti si illuminarono, perché dopo una tempesta c’era sempre qualche arrivo e più forte era stata la tempesta e maggiori e più interessanti erano gli arrivi. Era la vita sul ponte che era così.
    Mentre mi rimettevo le scarpe guardai la ragazza. —Andiamo a vedere cosa è arrivato? — le chiesi.
    Anna annuì, anche se manteneva ancora un’espressione strana. Difficile pensare che fosse ancora per lo spavento.
    Uscimmo. Il sole era tornato a splendere e le nuvole nere erano ormai una massa lontana verso il nord. Gli abitanti avevano lasciato i propri rifugi per spargersi di nuovo in tutta la città e controllare i danni, raccogliere l’acqua piovana e soprattutto sporgersi dalla balaustra. Le urla eccitate che udii mi avvisarono che era arrivato qualcosa di importante.
    Mi avvicinai ai margini del ponte con Anna subito dietro di me. C’era una gran ressa, ma mi bastò qualche spintone deciso per farmi spazio, una cosa che rimane uno dei principali vantaggi della mia mole e che non ho di solito alcuna remora a sfruttare; lasciai un po’ di posto per Anna e poi guardai giù.
    La superficie del mare era ancora increspata dalle onde, ma la spinta della tempesta era terminata, lasciando alla città, che aveva il nome di Gabbiano Supremo, due splendidi regali; un doppio evento inusuale anche nelle occasioni di mare molto mosso. Proprio contro il pilone era rovesciata la grande carcassa di una balena tigrata. L’animale, ormai morto, aveva alcune lacerazioni sulla testa e sulle pinne, ma altrimenti pareva integro, segno che la sua morte doveva essere stata a causa della recente tempesta o al limite dell’aver sbattuto contro la struttura del ponte. I grandi spuntoni metallici fissati dagli abitanti alla base della torre, proprio all’altezza della superficie del mare, potevano naturalmente aver avuto il loro ruolo e in ogni caso contribuivano adesso a trattenere il corpo. Uomini e donne, sotto la direzione organizzatrice delle autorità, stavano scendendo le scale armati di asce e di coltelli oppure calavano in acqua le barche che erano state ritirate sul ponte prima dell’arrivo del cattivo tempo. Avrebbero dilaniato la pelle dalle strisce nere e arancione scuro e iniziato poi a tagliare la carne e a recuperare le ossa. Stasera avremmo cenato tutti molto bene e, nei prossimi giorni, i sarti avrebbero avuto materiale da conciare e gli artigiani oggetti da realizzare.
    Ma quello non era stato l’unico arrivo, e neppure il più interessante; perché oltre al colosso dei mari, lungo almeno una cinquantina di passi, sul basso fondale di pietra e di sabbia che passava esattamente sotto il ponte, quel rialzo che faceva così bene da trappola per tutte le cose che percorrevano il mare, si era arenato un battello. Era una nave dalla chiglia di metallo scuro e dalla forma piatta, con grossi fumaioli nella parte posteriore, quella che sembrava una zona di carico nella parte centrale e una costruzione di comando sul davanti. Le onde l’avevano aggredita crudelmente prima di lasciarla presso di noi con le eliche all’aria.
    Una lancia si stava già muovendo per raggiungerla. Pensai che sarebbe stato molto interessante potersi trovare assieme a quegli esploratori e visitare per primi il relitto che era giunto fino a noi. Avrei cercato di incontrare il sindaco di Gabbiano Supremo non appena possibile: chissà se avrebbe deciso di fare a pezzi quel regalo del mare oppure se avrebbe osato altro.
    La gente, ancora in preda all’eccitazione, si stava organizzando per le tante cose che era necessario fare dopo una tempesta, come controllare le abitazioni e le strutture, ritrovare tutto quello che era stato sparso sul ponte, ma che non era caduto in mare, e calare delle imbarcazioni in acqua per recuperare il consueto sciame di oggetti che le autorità lasciavano gestire alla popolazione senza intromettersi o che non sarebbero comunque riusciti a controllare; quel bottino fatto di tronchi d’albero, pezzi di plastica, assi di legno, bidoni, tessuti vari, pesci morti o moribondi, rami e simili che galleggiavano in basso, immersi in un tappeto d’alghe.
    Il lavoro proseguì senza sosta per tutto il resto della giornata. C’era chi lavorava sul pelo dell’acqua, recuperando il materiale, dividendolo in parti più piccole, imbracandolo o mettendolo in ceste che potevano essere tirate a forza di braccia fin sopra il ponte; e c’era chi si occupava di sollevarlo e separarlo in categorie, assegnandolo agli abitanti della città. Rimasi a guardare la balena che spariva pezzo dopo pezzo; prima se ne andò la pelle, poi le pinne furono issate verso l’alto, quindi affiorarono le ossa nei varchi della carne. Ben presto rimasero solo degli scarti galleggianti che furono recuperati per essere usati come esche per la pesca. Il lavoro sulla nave era meno evidente: gli uomini sembravano aver fatto un giro completo al principio, ma poi si limitarono a sostare come in attesa di ordini.
    Il sole stava ormai tramontando, calando sul lontano orizzonte ovest quasi esattamente all’altezza del ponte. Il fatto che si inabissasse a destra o a sinistra del ponte, quindi a nord o a sud di esso, dipendeva unicamente dalla stagione. Le ombre si allungarono e poi si confusero con l’oscurità.
    Alla locanda fu una sera di festa. Una parte della carne della balena era stata distribuita gratuitamente ai cittadini, mentre la restante sarebbe stata messa sotto sale ed essiccata; e quindi la cena fu composta da spesse bistecche accompagnate da alghe e vongole, seguite da piccioni ripieni e da mele rampicanti coltivate in qualche serra protetta; il tutto aiutato da vino d’alga rossa.
    Anna era rimasta taciturna. Aveva mangiato senza fare complimenti quando le avevo detto che le avrei offerto io la cena e l’alloggio, dato che era troppo tardi per tornare indietro, ma altrimenti aveva aperto bocca solo per esprimersi a monosillabi. Strano cambiamento rispetto alla ragazza pungente della mattina.
    Controllammo il risciò prima di andare nella stanza che mi ero fatto assegnare e in cui mi ero preoccupato di far appendere una separazione di plastica e tela, e rimasi a riflettere su quello che avrei fatto il giorno successivo almeno fino a quando Anna non smise di rigirarsi nel suo letto, poi chiusi gli occhi e mi addormentai.
    Questa volta non feci sogni o, se li feci, non mi restarono in mente.

    — Non torni alla tua città? — le domandai il mattino dopo sulla porta della locanda.
    Anna scrollò le spalle, si avvicinò al suo risciò, ma senza toccare la catena.
    Guardai il mare, appena increspato dal vento. Non ci sarebbero state tempeste oggi. Decisi che era il caso di chiarire le cose.
    — Ascolta. Io capisco che ieri hai avuto paura, lo capisco proprio; però sono situazioni che fanno parte della nostra vita, del nostro mondo. Succederà ancora, a ogni grossa tempesta che investe il ponte. È la vita.
    Lei alzò lo sguardo. Aveva gli occhi lucidi.
    — Non capisci, invece. Non è per la paura. Ne ho avuta, ma è passata subito.
    — E allora? — domandai incuriosito incrociando le braccia sul ventre.
    — Mi hai salvato. Hai rischiato la tua vita per salvarmi. Nessuno aveva mai fatto qualcosa del genere per me, prima di adesso.
    È per questo, allora.
    — Mi sembrava la cosa giusta da fare.
    — Saresti potuto finire in mare con me.
    — Tu saresti potuta finire in mare. Non mi sembrava giusto, e potevo evitarlo.
    Anna si appoggiò al suo mezzo come per ribadire un possesso.
    — Non ho bisogno di tornare indietro. Non ho nessuno laggiù. Ho vinto questo risciò in una scommessa e da allora il vecchio proprietario mi ha sempre tenuto d’occhio nella speranza di riprenderselo.
    Sorrisi. — In effetti non è una situazione facile.
    — Vero. Mi ha tenuto particolarmente d’occhio.
    — Sei comunque in possesso di un oggetto di valore. Anche se, finché fai vedere a tutto il ponte che è tuo, sarai relativamente al sicuro.
    Il suo sguardo vagò sui cavi di metallo che univano i piloni tra di loro e che sostenevano l’immensa struttura del nostro universo. — Vai davvero fin dove sorge il sole?
    Bella domanda. Che cosa potevo risponderle?
    — Non so neanche se esiste.
    — Cosa?
    — Un punto in cui sorge.
    — Sai a cosa mi riferisco.
    Ragazza intelligente.
    — Tu credi ai Terministi, sei una terminista? — risposi cambiando lievemente il soggetto del discorso.
    Prima che aprisse bocca aggiunsi, forse prevenendola. — E non rispondermi facendomi la stessa domanda.
    — Una volta lo ero. Ma erano ancora vivi i miei genitori. Loro lo erano. Mia madre cacciava i piccioni; costruiva nidi accoglienti in cima ai piloni e poi andava a prendere i piccoli dopo che si erano schiuse le uova in modo da rifornire gli allevatori. Aveva un corpo esile e snello. Dovevi vederla come si arrampicava — sogghignò. — Nessuna offesa, naturalmente.
    — Figurati. E poi?
    — Una volta volle arrampicarsi prima di una tempesta. Non voleva rischiare di perdere dei nidi che giudicava insicuri e dove c’erano parecchi pulcini. Non fece in tempo a salire fino in cima e perse la presa. Io ero alla base della torre.
    Questa volta non dissi nulla. La lasciai stare in silenzio finché non fu lei stessa a voler riempire quel vuoto.
    — Quella volta pensai che era il ponte, la stessa città in cui stavamo, che prendeva dopo aver dato. Il ponte ci offre riparo, ci offre una strada da percorrere o dei luoghi in cui fermarsi. Qualche volta esige un prezzo.
    — Parole terministe.
    — Già. Parole fatte per chi vuole trovare uno scopo, un significato a qualcosa che non ne ha. Per consolarsi, per illudersi, per tirare avanti malgrado tutto. Smisi di pensarlo quando mio padre, pescatore, accettò di salire su una delle navi vuote. Mi chiese di andare con lui, ma io non lo feci. In seguito cambiai città un paio di volte. Persi ogni fede terminista; ormai penso che siamo solo in un immenso scherzo.
    Succhiai aria dalle labbra. È un comportamento che ho quando qualcosa mi colpisce in modo personale. Appoggio i denti sulle mie labbra grassocce e aspiro; la cosa parte quasi inconsapevole, ma me ne accorgo quasi subito: è come un allarme personale che dice “Erik, questo è qualcosa che riguarda anche te”.
    — Vado a cercare il sindaco di Gabbiano Supremo. Se non torni a casa, se non torni indietro intendo, puoi venire con me. Farò sicuramente più scena se ho la mia conducente personale.
    Lei mi fissò negli occhi. — Che cosa cerchi dal sindaco? Un lavoro? È per questo che sei venuto qui?
    Mi appoggiai alla balaustra. Giù in mare non era rimasto ormai più nulla della balena tigrata. Era come se non fosse mai esistita, anche se ben presto ogni parte del suo corpo sarebbe diventata parte della città stessa, del ponte stesso. La sua carne era prima cibo e poi sarebbe stata fertilizzante; la sua pelle sarebbe diventata tessuto e le sue ossa aghi, boccali, chiodi, dadi o gabbie per piccioni.
    Il battello, invece, era stato legato con delle catene e delle funi alla base del pilone più vicino ed era sorvegliato da uomini armati di asce. Pareva meno inclinato rispetto al giorno precedente, probabilmente avevano lavorato tutta la notte, mentre gli abitanti riposavano dopo la cena offerta dalla città.
    Nave vuota, pensai. Il sindaco vuole farne una nave vuota; evidentemente ha abbastanza gente per farlo, forse vuole andarsene anche lui.
    — No, non cerco un lavoro. Sono qui per un’altra cosa.
    Guardò anche lei la nave incagliata. Un lampo nei suoi occhi mi rivelò che anche lei era giunta alla stessa conclusione.
    — Non vuoi dirmela?
    Mi misi le mani sulla pancia e ruttai. La colazione a base di carne di balena e di gelatina di medusa mi aveva riempito. — Sono qui per un segreto, un segreto che ha Gabbiano Supremo, che la città custodisce dentro di sé.
    — Dimmelo! — Anna fece un movimento quasi per prendermi un braccio, fermandosi all’ultimo momento.
    — No, ma te lo farò scoprire. Adesso andiamo dal sindaco.

    Il sindaco di Gabbiano Supremo, come tutti i sindaci, abitava dentro la torre. Tutti i piloni del ponte, che si ergono dall’acqua nella loro maestosità di cemento e di acciaio, hanno una parte cava all’interno che è anche, ovviamente, la più protetta. I sindaci usano queste stanze per tenere le scorte che appartengono alla città, per gli uffici e per abitarci con la propria famiglia e le guardie. I livelli sfruttabili di ogni torre sono sempre gli stessi, la disposizione delle stanze anche.
    E io lo sapevo bene. Non era una cosa che potevo scordarmi.
    Varcai la soglia con un brivido; una guardia armata di una lancia con la punta di ferro e uno scudo di legno borchiato d’osso mi annunciò al sindaco.
    — Erik Lanzote da Torre Rossa e la sua conduttrice.
    Il sindaco era un uomo alto e magro, con il naso a punta e lo sguardo, calcolatore, perso altrove. Sapevo a cosa stava pensando.
    — Torre Rossa? Mai sentita — disse noncurante.
    — È molto lontana. Deve il suo nome al fatto che la parte superiore è stata dipinta di rosso; si dice che attiri i gabbiani.
    — Che sciocchezza. Magari attira solo gli uomini, oppure le sventure.
    Una nave vuota è il suo scopo. La sua scortesia indica che ritiene di non avere più nulla da perdere.
    — È possibile — risposi.
    Il sindaco sospirò. —E perché sei venuto fin qui da questa Torre Rossa? Vuoi abitare qui? Capisco che tu abbia passato la frontiera mentre era sguarnita a causa della tempesta, ma le leggi rimangono in vigore e dovrai dimostrare di essere utile alla nostra città.
    — No. Non penso di fermarmi. Sono qui perché voglio organizzare dei percorsi fissi di scambio, una rete di mercanti.
    — Mercanti? — sollevò un sopracciglio.
    — Di solito i mercanti girano con carri e risciò andando dove capita, ma spesso non si accorgono dove c’è vera necessità. Se dei mercanti facessero delle tappe fisse e le città organizzassero delle produzioni con tempi regolari…
    — Sciocchezze! Le nostre risorse non sono regolari. Forse il pesce che peschiamo, forse i molluschi e i piccioni che alleviamo, ma non il resto. Neppure l’acqua. Tutto il resto ci giunge per caso, quando il mare ce lo concede. E quando il mare decide di togliercelo, ci manda una tempesta come ieri. Sai quante vongole sono state spazzate via? Sai quanti nidi sono finiti in mare? Se non fosse per la balena, adesso saremmo in difficoltà. Cosa daremmo a dei mercanti?
    — Eppure oltre Torre Rossa, nell’altra direzione del ponte, questo funziona. In questo modo le scorte non finiscono mai — non diedi un colpetto alla mia pancia opulenta perché sarebbe stato troppo sfacciato, ma il mio corpo serviva da testimone. Speravo, comunque, che non vedesse oltre le mie bugie.
    Il sindaco sospirò di nuovo. — Non sono convinto, ma va bene. Parlane con i miei consiglieri. Io ho altro da fare.
    Persi un poco di tempo a parlare con qualcuno che pareva pensare ad altro, conscio del progetto che veniva preparato alla base del ponte. Mi andava bene: non avevo bisogno di convincere nessuno, ma solo di diventare una persona accettata dentro la torre, in attesa di una circostanza che già odiavo, ma che dovevo per forza sfruttare. Anna rimase con me, senza dire nulla, anche lei in attesa.
    Il sole, alto nel cielo, segnava il mezzogiorno quando si udirono le prime grida all’esterno. La gente aveva capito e stava iniziando a protestare.
    Mi affacciai dalla finestra del primo piano e guardai giù. Parecchia gente si era raccolta alla base della torre, dove partivano le scale che dal piano della strada portavano all’acqua: guardie armate la presidiavano impedendo il passaggio.
    Usare o scappare. Demolire o sperare. Uno degli eterni dilemmi della vita del ponte.
    Ma non tutti erano d’accordo, non tutti volevano andarsene o non tutti quelli che volevano andarsene potevano farlo e salire sulla nave.
    La sommossa sarebbe arrivata entro breve. Ormai tutti avevano capito che il sindaco non avrebbe dato l’ordine di demolire la nave, di spogliarla di ogni cosa a beneficio della comunità, di prendere i suoi tesori, a volte anche un carico di terra e di semi, e poi di fare a pezzi la sua carne di metallo e il suo scheletro d’acciaio. No, il sindaco l’avrebbe presa, ci sarebbe salito con il suo seguito e, non appena l’alta marea l’avrebbe alzata del necessario, avrebbe mollato gli ormeggi e se ne sarebbe andato. Una nave vuota, destinata a portare i suoi occupanti chissà dove, ma lontano dal ponte. E nessuno era mai tornato con una nave vuota, anche se loro, a volte, tornavano.
    Le proteste divennero scontro, mentre le guardie coprivano la fuga del sindaco.
    — Andiamo — dissi ad Anna.
    — Dove?
    — Dal segreto della città.
    La torre si era svuotata, ma ben presto gli abitanti rimasti indietro l’avrebbero presa e avrebbero scelto un nuovo sindaco. Succedeva sempre così.
    Guidai Anna in una successione di stanze che conoscevo bene anche se non c’ero mai stato e poi, in fondo a un corridoio cieco che io sapevo avere uno scopo, frugai con il coltello in cerca di una fessura tra i mattoni.
    Un click e la parete si spostò di lato.
    Anna trattenne il fiato per la sorpresa. Io la feci entrare e poi richiusi l’ingresso del passaggio. Accesi una lampada a olio di pesce, che sfrigolò nella polvere indisturbata da un tempo forse prossimo all’eternità.
    Il mio cuore batteva. Buttai fuori tutto d’un fiato.
    — Abitavo in una torre, molto lontana da qui. Ero il figlio del sindaco. Un giorno arrivò una nave e mio padre decise che se ne sarebbe andato, che avrebbe lasciato il ponte. Io ero un bambino. La gente si ribellò, ma le guardie ci tradirono e uccisero mio padre e tutta la mia famiglia. Io scappai e mi rifugiai in questo stesso corridoio e con il mio coltello cercai di aprirmi un varco nel cemento, una vera follia, ma scoprii il passaggio. Da allora visito le torri in cerca degli altri. Ma senza rivelarlo a nessuno, almeno fino ad ora.
    — Ma perché?
    Non risposi ad Anna, ma mi limitai ad alzare la lampada e a illuminare la placca di metallo incisa nel muro, dove stavano i numeri e le immagini, o meglio, dove stavano alcuni numeri e alcune immagini. Il segreto della città, una parte del segreto del ponte, un pezzo del segreto del nostro universo; in grado di sconvolgere equilibri, di far scontrare fedi differenti.
    — Tieni la lampada — le dissi e copiai le nuove informazioni. Avrei visto in seguito come si associavano alla vecchie. Alla fine guardai dove era indicato quale nuova torre, quale altra città sul mio cammino, possedeva un segreto.
    Uscimmo per raggiungere il risciò di Anna e lasciare Gabbiano Supremo. Gli scontri proseguivano. Non guardai se gli abitanti erano riusciti a fermare il sindaco o se lui aveva preso la nave e se ne era andato. Non mi importava, perché non era quella la soluzione, non era quello lo scopo.
    Il ponte era una lunga fila di arcate che collegavano dei piloni che uscivano dall’acqua del mare. Torre dopo torre, cavo dopo cavo. Un ponte infinito, secondo i più. Nient’altro che il ponte attraverso il mare. Il ponte era tutto quello che esisteva, una città che accoglieva i suoi figli. Il ponte era l’universo, ma un universo che era in grado di dirci qualcosa, che aspettava che scoprissimo il suo segreto.
    Il mio scopo, il nostro scopo adesso, era di andare verso est, verso la fine del ponte, verso il suo termine.
    Fin dove sorge il sole.

    NOTA: “Pontem perpetui mansurum in saecula (mundi)” (un ponte che rimarrà nei secoli) è l’iscrizione che si trova sul ponte romano di Alcántara (sul fiume Togo in Spagna), costruito nel 104–106 d.C. su ordine dell’Imperatore Traiano. Il ponte esiste ancora.


    Edited by Otrebla Bla Bla - 16/1/2011, 21:34
     
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  2. black cat walking
     
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    Eccomi subito qui. :)
    SPOILER (click to view)
    Ho poco da commentare perchè il racconto mi è piaciuto molto, ma l'unico rilievo che ho da fare è determinante per il voto: troppo corto, o meglio, questo è un romanzo, non un racconto, limitarlo anche in 40000 caratteri sarebbe un delitto, quindi non posso che dare tre perchè mancano almeno altri 10 capitoli... :)
    Facci sapere se lo pubblichi o cosa, che io voglio sapere cosa c'è dove sorge il sole. :sisi:
    A rileggerci!

    refuso
    CITAZIONE
    In seguito cambia città
     
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  3. Selene B.
     
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    Ciao!
    SPOILER (click to view)
    Ottimo racconto, affascinante la metafora del ponte. Regge benissimo tutto, non ho appunti da fare. Lo so che almeno una critichina fa sempre piacere, ma proprio non mi viene... :P

    Voto: 4
     
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    Un grazie ai primi due lettori.

    @Black Cat
    me ne sono accorto mentre lo scrivevo che non ci stava in così poco... e ho cercato di limitare i danni
    comunque come romanzo è uno dei progetti in coda... prima ho Altrove ;)

    @Selene
    metafora?
     
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  5. Selene B.
     
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    Perchè, non era una metafora? :huh:
    Altrove? :blink:
    Otrebla, tra noi il dialogo si sta facendo difficile...
     
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    CITAZIONE (Selene B. @ 4/1/2011, 23:42) 
    Perchè, non era una metafora? :huh:
    Altrove? :blink:
    Otrebla, tra noi il dialogo si sta facendo difficile...

    Me lo dicono tutte le donne :lol: :lol:

    No, non era la mia intenzione... e neppure con Altrove
    o meglio, i miei personaggi esprimono caratteri/personalità con aspirazioni universali al di fuori del contesto del racconto, ma l'impianto stesso dei miei racconti non ha mai un livello di metafora di per sé
     
    .
  7. rehel
     
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    Racconto molto ben stagionato; già letto una se non due volte. A una macelleria? A una Royal Rumble? Non ricordo bene. C'entrava una città che doveva essere perno della storia e tu postasti questa città-ponte davvero originale.
    In ogni caso si tratta di un prodotto assai ben confezionato e sembra di leggere un romanzo di un autore affermato e di grosso pubbòico. Tutto fila alla perfezione e risulta logico e affascinante. Lo si vede subito da come adeschi il lettore facendogli credere che la ragazza... e invece. :shifty:
    Ci sono grosse aspettative su quello che avverrà e questo significa che l'inizio, perché evidentemente questo pezzo è un un incipit, funziona.
    Ho poco altro da dire, eccellente. Che poi sia un frammento di qualcosa di più grande non fa una gran differenza.
    Il voto è quattro.
     
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    CITAZIONE (rehel @ 7/1/2011, 13:55) 
    Racconto molto ben stagionato; ...
    Il voto è quattro.

    Rehel sei come l'attento inquisitore :asd: non ti sfugge alcun peccato
    Sì. Apparteneva alla Royal Rumble del 2008
    Ho usato un racconto di 2 anni fa perché quello nuovo era in ritardo e lo sto scrivendo ora :lol:

    Un grazie per commento e voto e l'apprezzamento dell'incipit :diablo: .
     
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    Non mi prende del tutto il racconto. Non per il racconto in sé ma per come è narrato. Trovo che spesso e volentieri ci sia un eccesso di dettagli o a volte di parole vere e proprie che lo appesantiscono e lo rendono poco scorrevole.
    Anche a livello generale il racconto sembra svilupparsi a lungo senza però arrivare a niente di concreto. Potrebbe essere forse l'inizio di qualcosa di più ampio, ma così com'è non mi convince.
    Merita comunque più di 2, e non essendoci mezzi voti arrivo a 3.

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    La guardai per qualche istante, passandone in rassegna il corpo.

    Non credo si possa passare in rassegna una cosa sola.

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    — Ecco — disse dopo pochi passi. — Sono pronta. Avanti, salga sopra.

    Essendo nel parlato può anche starci, ma "salga sopra" è pleonastico; non potrebbe certo salire sotto.

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Solo una parte, però, perché il resto era impegnata

    Refuso: "impegnato"

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Il mio ultimo pensiero fu che la ragazza era più forte di quanto potesse sembrare all’apparenza

    "sembrare all'apparenza" pure è pleonastico, già "sembrare" implica che parli dell'apparenza

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    ma la corrente d’aria che sentivo sul mio viso non era dovuta solo allo spostamento d’aria del risciò.

    Tecnicamente non può proprio essere dovuta a quello, visto che dall'interno del risciò di certo non percepisci lo spostamento d'aria causato dal risciò.

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Guardai prima alla mia destra e poi alla mia sinistra, ovvero prima a nord del ponte e poi a sud del ponte.

    Uno degli eccessi di cui parlavo, qui anche con una ripetizione evitabile. "prima a nord e poi a sud del ponte" basta e avanza

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Davanti a noi, a circa trecento o quattrocento passi, si innalzava il pilone del ponte e attorno, come avveniva attorno a molti dei piloni del ponte,

    Il secondo "del ponte" è eliminabile (e anche il "dei piloni" beneficerebbe di un pronome che lo sostituisca)

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    arrampicandosi con fatica su per le strette scale che conducevano fino alla superficie dell’acqua,

    Capisco il senso, ma l'associazione dell'arrampicarsi alle scale che "conducono alla superficie" suscita la strana idea che la superficie dell'acqua sia in cima alle scale ^__^;;

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Superammo il posto di frontiera, il limite della città, che era già stato abbandonato dalle guardie che dovevano sorvegliarlo.

    Anche qui, "già abbandonato" sarebbe sufficiente

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    una garitta fatta di tessuto montato su di una struttura d’osso, era stata spinta dal vento contro il margine del ponte ed era sul punto di volare via.

    La virgola sta in mezzo tra soggetto e predicato, come minimo ne servirebbe un'altra dopo "garitta" per sistemare la cosa

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    pensai che se fossimo stati sorpresi all’aperto, saremmo saltati come pesci in una padella.

    Anche qui la virgola o è di troppo o ne richiede un'altra dopo "che"

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Una folata più intensa delle altre.

    Cosa? In questo caso qualche parola in più serviva :rolleyes:

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Proprio contro il pilone era rovesciata la grande carcassa di una balena tigrata. L’animale, ormai morto,

    Avendo assodato che è una carcassa sappiamo già che è morto

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    La gente, ancora in preda all’eccitazione, si stava organizzando per le tante cose era necessario

    Manca un "che"

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    fare dopo una tempesta, come controllare le abitazioni e le strutture, ritrovare tutto quello che era stato sparso sul ponte, ma che non era caduto in mare,

    Mentre qui ce n'è uno che toglierei

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    — Tu credi ai Terminasti, sei una terminista?

    è giusto che una sia "asti" una "isti"?

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    In seguito cambia città un paio di volte.

    Refuso: "cambiai"

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    la cosa parte quasi inconsapevole, ma me ne accorgo quasi subito:

    quasi/quasi

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Mi appoggiai alla balaustra. Giù in mare non era rimasto ormai più nulla della balena tigrata.

    Ma non l'avevi già detto?

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Pareva meno inclinato rispetto al giorno precedente, probabilmente avevano lavorato tutta la notte, mentre gli abitanti riposavano dopo la cena offerta dalla città

    Manca il punto alla fine. Ma se gli abitanti hanno riposato allora chi è che ha lavorato?

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    Una nave vuota è il suo scopo. La sua scortesia indica che ritiene di non avere più nulla da perdere.

    Perché al presente?

    CITAZIONE (Otrebla Bla Bla @ 1/1/2011, 15:42) 
    — Tieni la lampada — le dissi e copiai le nuove informazioni. Avrei visto in seguito come si associavano alla vecchie. Alla fine guardai dove era indicato quale nuova torre, quale altra città sul mio cammino, possedeva un segreto.

    Secondo quanto ha appena detto, non dovrebbero averlo tutte?
     
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  10. Fini Tocchi Alati
     
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    Ciao Otre!

    Bello, che dire di più?
    SPOILER (click to view)
    Affascinante, misterioso, seducente (ma sto parlando di un racconto? O forse... dell'autore?!).
    Però.
    Però, da una parte sono d'accordo con chi dice che questo non è un vero e proprio racconto, ma l'incipit di un romanzo.
    Dall'altra, avverto forte l'esigenza di sapere di più e questo dipende ovviamente dal punto precedente, ovvero non è di fatto un racconto compiuto.
    Da questa osservazione ne deriva un'altra che si riallaccia al commento del buon CMT. In effetti molti passaggi sono strapieni di dettagli. Ti prendi tutto il tempo che vuoi e questo tempo lo dilati, con la conseguenza che alcuni passi rallentano. Ma questo dipende, come dicevo, dal fatto che stiamo parlando di un romanzo in nuce (si dice così?) e quindi ci hai proposto i tempi dilati, ampi, musicali di un romanzo.
    Peraltro, scritto in modo ottimale.

    Per questo dico 3, e aspetto di leggerlo 'sto romanzo.
     
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  11. marramee
     
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    Ciao. Indubbiamente quattro.
    Anche se è solo un primo capitolo e un abbozzo di storia, anche se non spiega niente. Anche se crea un interesse che purtroppo non verrà appagato.
    L'idea del ponte è geniale, l'atmosfera che hai saputo creare è perfetta. Persino le descrizioni particolareggiate stavolta non l'hanno appesantito, perché erano giustificate.
    Ma è tutto qui? Risale a due anni fa? Non hai fatto alcun seguito? Perché?
     
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  12. Magister Ludus
     
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    Il racconto a me è piaciuto, ma non la fine, nel senso che non mi sembra completo. Anche nel tuo caso, non ho capito la fine.

    Mi piace però come hai reso questo mondo, anche se mi disgusta quello che mangiano :woot: :lol:

    Mi sembra ben narrato e è ben scritto.

    Io arrivo a un 3 pieno, ma perché, come ti hanno detto, anche secondo me manca qualcosa.

    Ti segnalo:

    si innalzava il pilone del ponte e attorno, come avveniva attorno a molti dei piloni del ponte: questa ripetizione può essere evitata, omettendo il secondo “del ponte”

    imbracandolo: imbragandolo

    Tu credi ai Terminasti, sei una terminista: refuso?

    Mi chiese di andare con lui, ma io non lo feci. In seguito cambia città un paio di volte.: refuso

    Grassoccie: Grassocce

    come si associavano alla vecchie: refuso
     
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  13. Peter7413
     
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    Ola!
    Chiedo scusa per i commenti telegrafici, ma sono nelle super curve questo mese con Usam, quindi andrò dritto al sodo!
    Racconto scritto molto bene, ma risente della scarsa lunghezza.
    Ti dilunghi tanto nella prima parte per concludere troppo frettolosamente. Non dai sufficienti informazioni sul protagonista, di cui alla fine sappiamo solo che era il figlio di un sindaco che aveva tentato la fuga dalla propria città e che ora è intento in una strana ricerca di qualcosa che non si capisce bene.
    Non si capisce la funzione di Anna, probabilmente la dovevi sviluppare meglio nella fase finale.
    I discorsi di Anna, quando si sbottona, sono troppo retorici e anche un po' banali.
    In generale mi è un po' mancato il senso del racconto.
    Detto questo, non posso davvero fermarmi al due, quindi vado dritto al 3. Un ottimo setting che puoi sviluppare in un lavoro più compiuto.
    Bye!!!
     
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  14.  
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    Ed eccomi al giro di ringraziamenti per letture e commenti:

    Un grazie a Peter
    Sì è vero che certi dettagli sono tirati via dritti ed è favorita la costruzione rispetto alla conclusione, ma perché il rischio era di dare soluzioni banali e una tale costruzione non ne ha bisogno.
    La funzione di Anna è sia di spalla al protagonista/narratore, che di riflesso dell'ambientazione in modo da non andarla a spiegare in maniera artificiale... Anna è più "popolana" del narratore e quindi serve meglio allo scopo ed è per questo che è un po' meno sofisticata in tutto.

    Un grazie a Magister
    Eh, mondo che vai, pietanza che trovi :lol: le proteine sono proteine ovunque
    grazie per l'individuazione dei refusi... anche se imbracare e imbragare sono egualmente corretti direi
    ma dov'è il refuso in: "come si associavano alla vecchie"?

    Grazie a marramee
    perché non sono andato ancora avanti?
    troppi progetti, poco tempo, troppi guai nel frattempo :rolleyes:

    Grazie a Fini
    sì, ho dilatato... si vede che è di due anni fa... sto cercando di dilatarmi di meno adesso :shifty:

    Grazie a CMT
    vero, anche se temo che a sintetizzare troppo qui però poi si perda di atmosfera... ma come ho detto, anche se il rischio è di creare un mistero talmente misterioso che poi non sai come svelarlo, ridurre una spiegazione a poco sminuiva la costruzione stessa

    è anche vero che in un'ottica di revisione adesso (cioò riscrivendolo adesso) starei più stringato in descrizioni e ripetizioni... ne terrò conto in una futura versione

    e un grazie speciale ai refusi che passo a correggere nel mio file originale
    anche se:
    il risciò è aperto, quindi sì che ti prendi la corrente d'aria addosso
     
    .
  15. sergio937
     
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    Abbastanza in ritardo (ha già fatto in tempo a raggiungere la finale) ho potuto leggerlo, e devo dire che la finale è ampiamente meritata per la qualità della narrazione e della scrittura. Voto 3
     
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15 replies since 1/1/2011, 15:42   300 views
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