Oscure metà
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Oscure metà

di Luca Pagnini - circa 19000k

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  1. black cat walking
     
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    Visto che presi dal capodanno i concorrenti latitano, direttamente dal Grand Prix di Montecarlo...
    Disclaimer: la storia è basata su fatti realmente accaduti, ma i personaggi e tutti gli accadimenti oggetto del racconto, che esulano da quanto già ampiamente noto alle cronache, sono solo frutto di fantasia.


    Oscure metà



    La luna piena faceva capolino da dietro le fronde dei platani, mentre la statua di Garibaldi vigilava su un Gianicolo deserto. Sotto, Roma riposava inconsapevole.
    Una figura in jeans e giubbotto di pelle, il cappuccio di una felpa color amaranto tirato sulla testa, scarpe da ginnastica di marca indefinita, si avviò sulla passeggiata in direzione del faro. Giunta nei pressi della villa liberty sede dell'ambasciata finlandese presso il Vaticano, si appoggiò al parapetto e guardando i tetti di Regina Coeli si accese una sigaretta.
    Due minuti dopo, un uomo alto, in soprabito scuro di buon taglio e scarpe in cuoio molto eleganti, ma poco adatte per la stagione, si materializzò alle spalle del fumatore.
    «Tutto a posto?» chiese l'uomo, con il tono di chi è abituato a ricevere solo dei sì.
    «Certo», rispose voltandosi la figura incappucciata.
    «Vogliamo lo stesso casino di Genova».
    «Così sarà, tranquillo. Ve lo ricorderete per anni». La cicca cadde a terra, giusto il tempo per finire sotto la suola di gomma.
    «Ottimo. Tra due giorni troverai sul conto il solito compenso decuplicato».
    «Lo sai che non lo faccio per denaro».
    «Non importa... diciamo che è una garanzia in più per noi», disse l'uomo fissando l'ombra là dov'era nascosto il volto del suo interlocutore, più basso di lui di una decina di centimetri.
    «E mio fratello?» fece quello indicando con la testa il carcere sotto la collina alle sue spalle.
    «Uscirà. Devi portare pazienza».
    «Sono anni che porto pazienza. Fai sapere ai tuoi capi che la sto esaurendo».
    «Sarà fatto, ma non credo gli piacerà. Non è gente che ama gli ultimatum». Un leggero tic alla spalla destra tradì il suo nervosismo.
    «Nun me ne frega! Tu dijielo… Ormai so abbastanza segreti da far saltare l’intera baracca; meglio per tutti se restano tali. Giusto?» concluse l'incappucciato, e senza attendere risposta ritornò sui suoi passi costeggiando i busti degli eroi garibaldini, all’apparenza più allibiti del solito.


    Uscii di casa benedicendo il debole sole e maledicendo il ciclo. Sembra impossibile, seppure atteso, arriva sempre nei momenti sbagliati.
    La manifestazione sarebbe stata eccezionale. Studenti da tutta Italia avrebbero riempito Roma per gridare ai palazzi del potere la propria rabbia. E io avevo due motivi per non mancare.
    Quando con lo scooter arrivai al bar in piazza dei Campani, il primo incentivo mi stava aspettando fuori, con l’immancabile cicca in mano.
    «Ciao amore».
    «Ciao Fabio», risposi parcheggiando, quindi lo baciai delicata sulle labbra e mi lamentai del freddo del mattino ancora pungente. Togliendo il casco, il solito ricciolo si staccò dalla forcina e mi calò sugli occhi.
    «Siamo al 14 dicembre, che t'aspettavi?» mi chiese lui mentre me lo rimetteva a posto con il suo solito sorriso di bambino incorniciato da baffi e pizzo scuri.
    Abbigliato come un adolescente, come tanti della nostra generazione, a ventotto anni Fabio aveva ancora l'aria spensierata di chi cerca la propria strada convinto di non avere limiti. Ma non sempre. A volte si chiudeva in silenzi cupi per me impossibili da perforare. Solo una giornata a Testaccio, il quartiere dov'era nato e cresciuto con la sua famiglia di operai, gli riportava il buonumore. Era quasi un anno che ci frequentavamo, sapevo quando era il momento di defilarmi. Allora, anch'io ne approfittavo per ritrovare i miei spazi, uscendo con la mia vecchia amica di liceo, Sara, oppure andando a trovare mia madre nel suo ufficio in Corte di Cassazione. Il suo lavoro di magistrato era sempre passato davanti a tutto e a tutti, ma da quando il divorzio con papà era diventato una realtà immutabile, passava in Corte la quasi totalità del suo tempo.
    «Che mi aspettavo?» scherzai, «Dieci gradi di più?»
    «Stasera ti riscaldo io, dai».
    L'allusione scontata mi fece rispondere più sgarbata di quanto volessi: «Non credo proprio».
    «Perché?» ribatté Fabio, fingendosi più ingenuo di un bambino a catechismo.
    «Perché stamattina mi sono alzata storta, ecco perché».
    «Ho capito... c'hai?»
    «Bravo».
    «Tempistica perfetta con la giornata, direi».
    La sua risata mi colse impreparata, mi arresi subito: «Non lo dire a me», risposi cercando di trattenermi. «Facciamo colazione?»

    Nel bar c'erano diversi compagni. Di norma ci saremmo incontrati al centro sociale di Valle Aurelia, ma visto che la partenza del corteo era alla Sapienza, in tanti avevamo preferito un posto più vicino all’università, un luogo che fosse lo stesso familiare. Da studenti quasi tutti avevamo vissuto a San Lorenzo – qualcuno ci stava ancora, fuori corso o meno – e lì avevamo mosso i nostri primi passi nell'antagonismo.
    «Finalmente ecco Fabbietto e la biondina sua consorte». Come sempre Giulio, detto Josif, ci accolse sfottendo; per lui sarei rimasta la biondina anche se mi fossi tinta i capelli di un bel nero corvino.
    Il soprannome, ovvero il nome di battesimo di Stalin, non poteva essere più adeguato. Figlio di un famoso avvocato, già laureato in filosofia con una tesi sull'estetica della rivoluzione, a trent'anni Josif frequentava il c.s.a. e i circoli studenteschi come il nostro. Da noi le sue posizioni radicali erano più tollerate che condivise, ma l'attitudine a comandare riusciva a coprire il dissenso, e l'aver partecipato agli scontri di Genova del 2001 gli concedeva un merito che ancora, a dispetto degli anni trascorsi, abbagliava i giovani iscritti e incuteva rispetto nei vecchi. Solo Fabio, anche lui reduce del G8, gli teneva testa, in questo caso però era il reciproco sentimento d'amicizia ad avere la meglio sul resto. Alti entrambi un metro e settanta circa, di corporatura quasi identica, in lontananza li si poteva distinguere solo dai capelli: chiari ma rasati quelli di Josif, ricci e scuri quelli di Fabio.
    «Non rompere, Josif», ribatté brioso Fabio, «Per caso mancavamo solo noi?»
    «Sì», rispose secco qualcuno alle mie spalle.
    «Ma se stavo qua fuori...» provò a giustificarsi Fabio.
    «Lascia perdere Fa', stavamo scherzando. Piuttosto, i cartelli?»
    «I cartelli li portano Pino e Raffaele direttamente all'università».
    «Bene. Allora pijateve 'sto cappuccino e annamosene», ci esortò Josif, «oggi je famo un culo che se lo ricorderanno per tanto, tanto tempo».

    Uscendo presi da parte Fabio: «Cosa intendeva dire Josif con quella frase?»
    «Se va come deve, forziamo la zona rossa e arriviamo a palazzo Madama e a Montecitorio», mi rispose serio.
    «Perché alla riunione dell'altra sera non l'avete detto? Non mi pare una cosa da poco. Dovevamo parlarne tutti assieme e...»
    «Tranquilla Francesca, ti proteggo io». Come al solito, quando non aveva argomenti solidi, Fabio tentava di deviare la discussione scherzando.
    Accanto a noi si fermò Lucio, una matricola di Latina che mi stava sempre intorno. Non aveva speranze, però mi piaceva avere un giovane pupillo, sveglio e simpatico, con cui tenere desta l'attenzione del mio uomo.
    «Non è questione di protezione, chi ha deciso questa bravata?» ripresi.
    «È stata un'idea di Josif, ma i compagni degli altri gruppi sono tutti d'accordo».
    «Pure tu?» gli chiese Lucio.
    «Sì. Così vedremo se poi il Governo ci ascolta». Chissà se quella che colsi nello sguardo bieco di Fabio era stata gelosia, oppure semplice irritazione per l’impertinenza dell’ennesimo figlio di papà – quali eravamo quasi tutti, secondo Fabio – atteggiato a rivoluzionario.
    «Siete degli illusi», dissi. «Gli daremo solo un motivo in più per strumentalizzare la nostra lotta e attaccarci...»
    «L'ora dei compromessi è terminata, Francesca», mi interruppe. «Vedrai che se non otterremo ascolto, otterremo consenso e forza contrattuale», proprio così disse, contrattuale. «Ora diamoci una mossa sennò arriviamo a festa finita».
    La questione era chiusa.
    «Andate avanti», li invitai, cercando di nascondere la preoccupazione, «telefono a Sara per sentire dov'è e vi raggiungo».
    Prima di voltarsi, Fabio mi baciò con un'intensità insolita per il luogo e il momento. Ripensandoci più tardi, capii che voleva segnare il territorio, politico con me e sentimentale con Lucio.
    «Come andrà a finire, Francesca?» chiese il mio giovane spasimante con gli occhi vispi sotto i dreadlocks, kefiah bianconera al collo, casco nero a elmetto in una mano e Nokia nell'altra, lo stereotipo perfetto del moderno contestatore.
    "Male", pensai. Invece risposi: «Bene, Lucio. Sarà una giornata memorabile».

    In Questura l’attività era frenetica. Quando il responsabile della Digos entrò quasi correndo nell’ufficio del Capo di Gabinetto, questi stava indossando la fascia tricolore per uscire a gestire l'ordine pubblico.
    «Alcuni gruppi tenteranno di violare la zona rossa», comunicò il dirigente appena chiusa la porta.
    «Ne è certo?»
    «Sì, la nostra fonte ce l'ha appena confermato».
    «Allora dai servizi segreti avevano ragione...» valutò tra sé e sé il funzionario, «Brutta storia quando alla politica supplisce la polizia. Brutta storia davvero...». Afferrata la radio portatile, concluse:«E sia, non ci resta che fermarli».


    La folla in piazzale Aldo Moro era enorme; sul lato di viale delle Scienze non riuscivo a vederne la fine. Dopo mezz’ora ad aspettare che la testa del corteo si muovesse, finalmente ci mettemmo in marcia.
    Gli slogan arrabbiati e ironici stridevano con il clima da volemose bene che gli addobbi natalizi alle terrazze e sulle vetrine avrebbero voluto ispirare. Il rosso dei Babbo Natale appesi alle finestre, uguale a quello dei nostri striscioni e della nostra frustrazione, era l'unico punto di contatto tra noi e la città.
    A metà di via Cavour, Fabio, che avevo perso di vista quasi subito, mi affiancò.
    «Hai visto quante foto ci stanno facendo gli sbirri?» mi domandò.
    «No, ma è il loro lavoro. Che c'è di strano?»
    «C'è che stanno fotografando soprattutto noi e quelli del collettivo di psicologia. Non mi piace. Dov'è Josif?»
    «Non lo so».
    «Ai Fori stai attenta». Buttò la frase lì, come se gli fosse sfuggita di bocca sovrappensiero.
    «Perché?» chiesi con altrettanto falso distacco.
    «Ci uniamo al corteo che arriva dal Colosseo, qualcosa ha da succede’».
    Senza lasciarmi replicare, sparì tra la gente con in mano un casco integrale recuperato chissà dove.

    In piazza Venezia diversi dimostranti si staccarono dal corteo principale per andare a tirare sassi, bottiglie e petardi contro due furgoni dei Carabinieri che chiudevano vicolo Doria, un budello di strada che avrebbe permesso l’accesso al Corso.
    Il via all'assalto era stato dato, all’apparenza senza coordinamento, da alcuni ragazzi con sciarpe, caschi e cappucci a celarne l'identità. Il fatto che tra i più attivi ci fossero Josif e Fabio mi dissolse qualsiasi dubbio sull’origine dell’azione. Entrambi indossavano il chiodo e la felpa amaranto delle BAL* – regalo di alcuni compagni livornesi appartenenti al gruppo ultras più marxista d’Italia –, potei distinguerli solo per il casco che Fabio calzava sopra il cappuccio.
    In pochi attimi molti giovani si aggiunsero ai primi, qualcuno arrivò a colpire con aste e bastoni i militari, che però si ripararono senza contrattaccare. Molti studenti dalla piazza intanto gridavano di smetterla. Dov'era il consenso auspicato da Fabio?
    Più loro gridavano, più io mi sentivo fuori posto. Il secondo motivo che mi aveva spinta fin lì stava rapidamente scomparendo.
    Dopo qualche minuto mi raggiunse Lucio.
    «Di qui non si passa», disse da dietro la sciarpa.
    «E allora?»
    «Allora riproviamo più avanti».

    Un gruppo di ragazzi scagliò uova e bombe carta oltre lo sbarramento delle forze dell'ordine creato in corsia Agonale a piazza Navona, davanti all'accesso del Senato. In disparte, un manifestante alto, con il viso coperto da una kefiah bianca e rossa li osservava immobile. Solo un movimento sussultorio della spalla destra, ogni tanto, dimostrava la sua veglia.
    Quando la massa si spostò verso i nuovi obiettivi della contestazione, l'uomo la seguì.


    La polizia caricava in direzione piazza del Popolo. Per creare un diversivo, alcuni studenti incendiarono una Lancia parcheggiata all'angolo tra via Ripetta e via del Vantaggio. Poi, lanciando sampietrini, attirarono su di sé la celere. La barricata in via del Corso, formata da due furgoni della polizia e uno della finanza, rimase sguarnita. Rapidi, in trenta o quaranta si avventarono sui mezzi con spranghe e bastoni; qualcuno lanciò una sedia di metallo presa in prestito, forse, dal bar Canova nella piazza.
    Bancomat e vetrine distrutti; cartelli stradali divelti e usati come arieti; pestaggi di agenti e finanzieri rimasti isolati; liti incomprensibili tra manifestanti stessi. Il corteo si stava sciogliendo nella rabbia. E la mia pazienza era finita. Tutto ciò non mi apparteneva, ne dovevo uscire il prima possibile.
    Da quando sul lungotevere Marzio la situazione era precipitata, intorno avevamo più fotoreporter e cameraman che sbirri. Scansando una macchina fotografica dietro l'altra iniziai a cercare Fabio dove ero certa di trovarlo: al centro del disordine.

    Lo trovai con Josif che guardava bruciare uno dei furgoni in via del Corso. Appena gli fui accanto, alle nostre spalle, da via Brunetti, comparve un drappello di sbirri incazzati neri.
    Eravamo in trappola.
    «Corri», gridai.
    «Dove?» rispose Fabio mollando a terra un bastone.
    «Di qua!» e tirandolo per una manica lo trascinai verso via Laurina, dove sembrava regnare una calma irreale. Prima di proseguire oltre ci fermammo a riprendere fiato sotto un portone.
    «Cazzo, Fra', c'è mancato poco», ammise, quindi si tolse il casco e sputò in terra.
    Dopo un attimo arrivarono anche Josif e Lucio.
    «Sì. Davvero poco», risposi asciugandomi il sudore. «Te l'avevo detto che era una cazzata!»
    «Cosa?» domandò Lucio tra un colpo di tosse e l'altro. A un certo punto il fumo degli incendi, combinato a quello dei lacrimogeni, era stato così denso da nascondere il sole.
    «Lo sapete meglio di me, cosa», gridai. «Hai visto cos'hanno fatto a quel finanziere? Se ci scappa il morto…»
    «Speriamo!» sbottò Josif con lo sguardo pieno d’odio, mentre tentava di accendersi una sigaretta tra le mani tremanti, «Così imparano ‘sti zozzi…»
    «Voi siete fuori di testa!»
    «E tu sei una stronza elitaria!»
    «Basta!» Intervenne Fabio sbattendo il casco contro lo stomaco di Josif, che pronto attutì il colpo strappandoglielo di mano. Un’occhiata di risentimento passò dall’uno all’altro.
    «Smettetela, non è il momento di litigare. Torniamo in piazza del Popolo prima che ci taglino fuori», ci esortò Lucio, a quanto pareva il più lucido di tutti.
    «No, io ne ho abbastanza...» Non terminai la frase che da via del Corso spuntarono quattro celerini.
    «Tu resta ferma qui, non ti faranno nulla», mi disse Fabio. Un attimo dopo tutti e tre erano già spariti in via del Babuino.
    Solo in quel momento mi accorsi di un altro manifestante nascosto a pochi metri da noi nell'ingresso di un antiquario, forse l'unico negozio della zona a non aver ancora abbassato le saracinesche.
    Prima di aver raggiunto la mia posizione, i poliziotti tornarono indietro. Con un sospiro sciolsi la tensione condensata in una singola lacrima.
    In quel momento il tipo uscì dal suo rifugio e incrociò gli sbirri. Non vidi ciò che mostrò agli agenti, né sentii cosa disse loro – se davvero disse qualcosa –, di sicuro un attimo dopo correva libero nella direzione in cui si erano dileguati Fabio e gli altri. Quando mi sfrecciò davanti, feci appena in tempo a vedere la kefiah biancorossa che gli copriva il volto.
    Perché non l’avevano portato via? Si stava davvero nascondendo?
    Qualcosa dentro mi disse che niente era come sembrava.
    In preda al gelo presi il cellulare e chiamai il mio referente alla Digos.

    Nella piazza regnava la confusione più totale. Decine di manifestanti fronteggiavano i poliziotti che accorrevano da via del Corso e da via Ripetta con l'intento di disperdere i contestatori verso piazzale Flaminio. Intanto altri dimostranti, dalla terrazza del Pincio, bersagliavano con i sampietrini le forze dell'ordine e i curiosi troppo vicini all'azione, soprattutto fotografi.
    L'aria era pregna di gas, ma in pochi secondi un vento pietoso e freddo la ripulì.
    Ancora una volta mi ritrovai a chiedermi come fossi finita in mezzo a quel casino. La risposta conduceva dritta a mia madre. Se un suo caro amico della Questura non avesse fatto leva sul mio senso di responsabilità, convincendomi a passare qualche informazione ogni tanto, non sarei mai rimasta invischiata in quella pazzia, di certo non quel giorno.
    “Non esistono infiltrati”, questo mi aveva detto al telefono.
    E allora chi era quello nel vicolo?
    Dovevo avvisare Fabio.

    Di colpo alcuni furgoni della polizia e dei carabinieri bucarono la fila di agenti per inseguire i manifestanti. Tutti correvano senza una logica apparente; la scena mi ricordò un cartone animato delle elementari in cui un dottore con le sembianze di Einstein cercava di spiegare a dei piccoli alunni il moto degli elettroni in un atomo.
    In preda alla paura di non trovare Fabio, persi ogni cautela e tagliai la piazza verso Porta del Popolo rimbalzando nella folla come in un flipper. Improvvisamente notai Josif correre col cappuccio ancora tirato sulla testa; dietro di lui l'estraneo di poco prima. Da lontano sembrava stessero solo scappando nella stessa direzione. Sebbene non lo avessi visto, anche Fabio doveva essere con loro, ne ero certa.
    Per qualche secondo sia Josif che l’uomo con la kefiah scomparvero dietro l’obelisco al centro della piazza, quando soltanto lo sconosciuto tornò a vista per perdersi subito nella folla, un allarme interiore, più forte degli ululati delle sirene intorno, mi tramortì.
    Ormai travolta dagli avvenimenti, corsi.
    Urtando gente impazzita, corsi.
    Corsi verso il punto da cui Josif non era riemerso e lì lo trovai, accovacciato di spalle in posizione fetale.
    La calca mi impedì di superare gli ultimi due metri.
    Esausta e tremante, lo chiamai più volte: «Josif! Josif, dov’è Fabio? Josif…»
    Tra le lacrime, l’ultimo tentativo mi morì sulle labbra.
    Lui non rispose, o se rispose non lo udii; si stava stringendo il ventre.
    Prima che lo circondassero vidi il giubbotto strappato, la felpa amaranto cambiare colore, la chiazza di sangue allargarsi sotto di lui.
    Poi qualcuno lo voltò, e il tempo scomparve.
    Quello che si stava dissanguando a terra non era Josif…
    Rividi un casco integrale passare di mano. Due felpe amaranto identiche.
    Le lacrime furono più veloci a scendere delle parole a uscire; Lucio fu più veloce a portarmi via della polizia a fermarmi.
    A terra, Fabio morì solo.

    Non so quanto tempo dopo, mi ritrovai seduta in un bar con una tazza di tè in mano.
    La manifestazione era finita.

    L'uomo alla scrivania parlò per primo, molto compiaciuto: «Bel lavoro».
    «È stato più semplice del previsto. Anche se per un attimo ho rischiato di essere fermato», commentò l'altro seduto di fronte su una poltrona di pelle.
    «Beh, c’erano delle ragioni se ti abbiamo infiltrato in Questura. E poi, in fondo stiamo dalla stessa parte della polizia, solo che loro non lo sanno...»
    «Perché non capirebbero...»
    «No, non capirebbero».
    Dopo un attimo di silenzio, l’uomo a sedere alzò più volte la spalla destra e riprese: «Invece con un colpo solo abbiamo risolto due problemi».
    «Un morto in ogni momento cruciale e saranno i leader stessi a chiudere il movimento, soprattutto se il morto è da imputarsi a presunte diatribe interne. Per quanto riguarda il ragazzo invece... è stato davvero un peccato sacrificarlo, in questi anni era stato molto utile. Chissà cosa gli era venuto in mente minacciandoci», concluse il primo.
    «Chissà» ribadì l'altro, «Genova non gli aveva insegnato proprio nulla».


    Il giorno che ricevetti la lettera di Fabio, stentai a crederci.
    Arrivava da Regina Coeli e a spedirla era stato suo fratello Claudio, un fratello di cui ignoravo del tutto l'esistenza.
    A quanto diceva una breve nota di accompagnamento, Claudio aveva avuto l'incarico di inviarmela solo nel caso fosse successo un incidente.
    Astuto e ironico, tipico di Fabio: esiste posto migliore di un carcere per proteggere qualcosa?
    Lessi febbrilmente tutto. Diverse pagine con date, avvenimenti e nomi.
    Anni di lotta e di quiete apparente, dai fatti di Napoli nel marzo 2001, agli scontri no Tav in Piemonte e quelli per l’allargamento della base Dal Molin a Vicenza. In mezzo Genova e l’omicidio Giuliani.
    Claudio non era l’unico segreto custodito da Fabio in un carcere italiano. No, la lista era molto lunga.
    Mia madre e il suo amico poliziotto seppero farne buon uso.


    * Brigate Autonome Livornesi

    Edited by black cat walking - 10/1/2011, 16:58
     
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20 replies since 1/1/2011, 19:25   387 views
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