LA SCHIAVA E L'IMPERATORE_ VERSIONE 1.1
Mattina.
I suoi occhi immobili attraversano le grate che affacciano sul mare. In lontananza, il sole rosso che affoga nel tramonto è uno spettacolo che si dipinge nel suo sguardo. Un refolo di vento gli passa attraverso il pelo, lasciandolo indifferente. Si volta verso di me.
È vecchio, ma non ha paura.
Io gli sono di fronte, appoggiata al cancelletto verde che dà sulla strada. Ho un canovaccio legato attorno alla vita, una scopa in mano, sono sporca e sudata. Mi fissa. E il suo sguardo è un libro che non si fa leggere. Faccio un verso con la bocca ma lui resta immobile.
Augusto non ha mai paura.
Rientro in casa.
Il rituale è sempre lo stesso, ogni volta che varco la soglia. Mi guardo allo specchio: ho un livido blu che mi cerchia l’occhio e un puntino di sangue rappreso sul labbro superiore. Il mio viso è quello di Pierrot.
Dopo lo specchio, la foto appesa alla parete è un coriandolo di tempo incastonato. Il matrimonio: classico, tradizionale, bellissimo. La guardo e mi commuovo, ogni volta. Sembrano passati tanti anni, sembra un’altra vita, eppure non è così.
Giorgio non era così.
Ieri mi ha picchiata un’altra volta.
I gatti, di solito, non si muovono in branco. Non sono animali solidali: sono individualisti, egoisti, ognuno per sé. Fuori casa nostra, fino a qualche anno fa, c’era una marmaglia di mici randagi, di tutti i tipi, di tutte le razze. Li ho sempre adorati, ho sempre dato loro da mangiare, guardandoli mentre litigavano l’uno contro l’altro per accaparrarsi la scodella di cibo.
Poi, circa due anni fa, arrivò Augusto.
Lo chiamai così perché sembrava un imperatore. Un certosino meraviglioso: pelo grigio corto, occhi che sembravano due soli nella notte. Giorgio ha sempre detto che sono stupida a dare i nomi agli animali. Ma Augusto era diverso e lo sarà sempre.
Giunse qui, venendo da chissà dove. Compì il miracolo: si mise a capo di un branco che, prima, non esisteva. Aveva la stoffa del leader, la calma e il portamento di un re, la postura eretta e fiera di chi è senza paura.
Non era mai stato un gatto come gli altri. Questo lo sapevo io, lo sapeva lui, lo sapevano gli altri animali. È dal momento in cui giunse qui, che accadde: quando mettevo le ciotole in strada, sul marciapiede, gli altri gatti non mangiavano.
Si mettevano lì, attorno al cibo, in paziente attesa.
Augusto arrivava, li guardava, si dirigeva verso il pasto. Solo dopo che aveva cominciato lui, gli altri potevano fare lo stesso. Non avevo mai visto una cosa del genere. Lo rispettavano, lo temevano.
Ma poi, il mese scorso, è arrivato lui.
Il Rosso.
In fondo, Giorgio posso pure capirlo.
È un ragazzo, ha una furia quasi adolescenziale, un’energia che non scende a patti con gli anni. Io non volevo il matrimonio, lui non voleva il figlio.
Lo conobbi nell’unica palestra di Procida, in una delle rare occasioni in cui avevo deciso di prendermi cura del mio corpo. Lui era l’aiutante dell’istruttore. Ma non mi innamorai né dei suoi occhi, né del suo fisico atletico. Le cose che si notano all’inizio, sono quelle che poi si scordano. Mi innamorai del suo tatuaggio. Un drago addormentato che faceva capolino dalla striscia di pettorale sotto la canottiera.
E adesso eccoci qui.
Sposati, genitori, già separati in casa.
Non pensavo che andasse a finire in questo modo.
Non pensavo che il piacere effimero di un momento, bello perché transitorio, potesse catapultarmi in questa vita che non mi appartiene.
Seppi di essere incinta subito dopo il diploma. Rimandati i miei progetti universitari, saltati i sogni di Giorgio di fare il personal trainer in una palestra di città.
Un dilemma non detto, silenzioso eppure palese: aborto o matrimonio. Il perché dell’alternativa, ancora non lo capisco.
Forse perché la gente crede che le famiglie tradizionaliste non esistono più. Invece non è così: la mia e quella di Giorgio ne sono un esempio.
In ogni caso, scelsi la seconda possibilità. E non c’è giorno in cui io non me ne sia pentita.
Sì, lo ammetto: avrei fatto meglio ad abortire. A togliere la luce a quella vita, a soffocare nel silenzio quel fiocco d'anima. Anche adesso lo penso, anche adesso che lo sento piangere, dal soggiorno, nel suo lettino.
Mi sento sporca a pensarlo, ma non so se una vita che sboccia valga davvero il prezzo di un inferno. Eppure dovevo capirlo che sarebbe stata così, la mia vita di coppia.
Fu immediatamente dopo il parto, che Giorgio iniziò a essere violento.
I suoi schiaffi e i suoi pugni sono un modo per dirmi che è infelice.
Il Rosso è un gatto giovane, pelo corto fulvo, occhi spalancati che si muovono in maniera nervosa. È un animale agile, scattante, violento. La prima volta che lui e Augusto hanno combattuto è stata uno spettacolo.
Il mese scorso. Si sono fronteggiati, immobili, occhi negli occhi. Hanno iniziato a cambiare voce, emettendo miagolii baritonali. Poi hanno spiccato un balzo rapidissimo, l’uno contro l’altro. Pelo arruffato, code gonfie e ricce, artigli sguainati.
Nessuno aveva vinto.
Finita la battaglia, ho portato la ciotola ad Augusto. Ha mangiato, dopo essersi leccato le ferite. Mi ha guardata negli occhi.
L’aveva capito. Aveva difeso il suo territorio, c’era riuscito, ma non contava. La cosa importante era che un altro gatto, un estraneo, avesse deciso di attaccarlo.
I gatti non lanciano la sfida contro chi sanno essere più forte. Non sono coraggiosi, sono furbi: non combattono contro un capo giovane.
Il Rosso aveva capito che Augusto stava invecchiando.
Aveva perso, ma sarebbe tornato.
E il regno di Augusto, vecchio imperatore, non sarebbe durato per sempre.
Sera. Giorgio torna dal lavoro con mezz’ora di ritardo.
Da un po’ di tempo si accontenta di fare il turno pomeridiano al Capriccio, un bar del porto. E la mattina, quando capita, dà una mano in palestra.
Persa nei miei pensieri, intenta a pulire casa, ho dimenticato di fare da mangiare.
Scoppia il finimondo.
Nostro figlio si sveglia, inizia a piangere, si dimena. Sono costretta a prenderlo in braccio e cullarlo, cercando di farlo calmare. Poi lo rimetto nel lettino e gli canto una ninna-nanna, la stessa che mi cantava mia madre, mentre con un fazzoletto mi pulisco il sangue dal labbro.
Giorgio è uscito di nuovo, sbattendo la porta e sbraitando che avrebbe mangiato fuori, con i suoi amici. Stanotte, già lo so, tornerà ubriaco, s'infilerà nel letto accanto a me, e cercherà di fare la pace possedendo un corpo che non gli appartiene più.
I miei non sanno niente di tutta questa storia.
Non so se sia un bene o un male. A volte mi dico che dovrei sputargli in faccia ogni cosa, facendoli pentire di aver insistito tanto perché ci sposassimo. Ma poi ci ripenso e il silenzio cala su di me. In fondo sono bravi genitori, mi si spezzerebbe il cuore a dar loro un dispiacere.
Andrea scivola nel sonno.
È meraviglioso quando dorme, sembra rimettere ogni cosa a posto. E quando si sveglia, poi, riapre i suoi occhi nocciola e mi fissa per ore. Dal primo momento ho pensato che avesse uno sguardo unico. Riflessivo, meditabondo, immerso nei suoi pensieri. Quando mi guarda mi mette quasi in soggezione, perché penso che forse capisce ogni cosa.
Forse il suo silenzio è una voce che chiede “Mamma, quando lo lasci? Quando scappi?”.
Probabilmente sono solo i deliri di una madre.
Rimpiango di non aver abortito, è vero. Ma questo non c’entra niente con Andrea, lui è l’unica cosa buona di tutta questa storia. Il mio rimpianto è legato alle conseguenze che ne sono derivate, alle botte che mi prendo ogni sera, non all’esistenza di questo bambino.
Ogni parola che impara è un miracolo.
La prima che ha imparato è stata “azie”, per “Grazie”. È un bambino educato. Poi “mamma”, e dopo “gio-gio”, che sta per “Giorgio”. Non lo chiama papà, non se lo merita.
La settimana scorsa, il Rosso è tornato di nuovo.
Gli altri gatti sono stati spettatori di una faida territoriale senza precedenti. Augusto sembrava più vecchio di quanto non fosse: camminava con lentezza, con attenzione, compiva movimenti circospetti e misurati. Nel piatto lasciava un po’ di cibo in più ogni giorno.
Li ho guardati dalla finestra di casa mia.
Unghiate, miagolii che sembravano ruggiti, un groviglio inestricabile di pelo e zanne. La lotta è stata un ginepraio di colpi veloci, fulminei, di feritine sul pelo che si aprivano.
Il tutto è durato qualche minuto.
Poi Augusto si è allontanato, zoppicante. Si è messo in un angolo, si è nascosto nell’ombra, si è leccato le zampe. Il Rosso, di fronte a lui, è rimasto immobile, ghiacciato nel tempo. Non ha dato segni di dolore, non si è smosso. È andato verso la ciotola poco distante, si è guardato in giro e ha iniziato a mangiare.
Gli altri gatti gli hanno lasciato fare tutto quello che voleva.
Augusto aveva perso.
Notte.
Succede quello che ho previsto.
Non so che ore sono, ma sento le mani che mi toccano sotto le lenzuola. Il suo fiato puzza di alcool, il suo corpo è turgido e famelico nell’attesa dell’amplesso. Mi giro dall’altro lato, mandandolo a quel paese. Lui accende la luce, rabbioso.
«Perché non vuoi fare più l’amore con me?»
«Perché sei un animale» gli rispondo. «E non chiamarlo amore. Non sai nemmeno cosa sia.»
«Ti ho chiesto scusa per…per…» mi indica il viso tumefatto, quasi impacciato.
«Non m’interessa.»
«Fa’ l’amore con me.»
«No.»
«Sì.»
Un altro no. E lui che perde la pazienza.
Dovevo aspettarmelo. Mi dà uno schiaffo e la ferita si riapre per la seconda volta. Mi sbatte sul letto, mi prende con la violenza, blocca le mie reazioni con la sua fisicità. Spinge, mentre io fisso in lacrime il drago dormiente dipinto sul suo petto.
Gode, geme, arriva.
Si getta sul letto, esausto. Scivola quasi subito nel sonno.
Io mi rigiro tra le lenzuola. La luna che passa tra le feritoie della finestra illumina Andrea, nel lettino. Ha visto tutto ed è sveglio. Mi fissa, come fa sempre.
Augusto lo sa che sta per morire.
La morte, per i gatti, ha un odore particolare. Sanno riconoscerla nei loro padroni, negli altri animali, in se stessi. Non sono come noi. Non rimangono attaccati alla vita. Sono dignitosi, orgogliosi, alteri. Non lo fanno vedere agli altri. Si ritirano in un posto isolato e muoiono. Augusto deve essere fiero di se stesso, perché ha mantenuto il comando quasi fino alla fine.
Adesso il capo è il Rosso. Ieri, prima di iniziare a mangiare, gli altri gatti hanno aspettato lui.
Augusto, in un angolo, li ha guardati.
Da quando ha perso, non mangia nemmeno più.
Mattina.
Giorgio è partito per il Festival del Fitness. S’è portato appresso una mandria di amici. Starà via tre giorni.
Scendo in cucina, mi lavo, mi vesto, mi faccio bella.
Inizio a scrivere una lettera con l’intestazione “Per Giorgio”. Poi ci ripenso, accartoccio il foglio e lo getto nella pattumiera. Non se la merita lui, una lettera. In un paio d’ore faccio le valigie e cambio il pannolino ad Andrea.
Non lo dico a nessuno, nemmeno a mia madre. So che sto facendo la cosa giusta, e nessuno potrà farmi cambiare idea. Esco di casa, mio figlio nel passeggino, la valigia trainata a mano e la foto dentro la tasca. In casa, una cornice vuota fa bella mostra sulla parete.
Andrea, dal passeggino, mi guarda in silenzio e sorride.
Secondo me davvero capisce ogni cosa.
Augusto se ne sta andando a morire.
Da solo, in silenzio. È vecchio e stanco, ma ancora si struscia alla mia gamba per farsi accarezzare. Gli strapazzo un po’ la testa, con delicatezza. Alcuni tagli ancora non si sono rimarginati. Io devo raggiungere la macchina, lui deve andare chissà dove.
Facciamo un tratto di strada assieme.
Immersi nel sole, i nostri passi sono il ticchettio del tempo che non si ferma.
Per lui è finita.
Per me è appena cominciata.