Città Vecchia
  • Poll choices
    Statistics
    Votes
  • 3
    70.00%
    7
  • 2
    20.00%
    2
  • 4 max
    10.00%
    1
  • 1 min
    0.00%
    0
Guests cannot vote (Voters: 10)

Città Vecchia

di federica maccioni 39.800 car ca

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. federica68
     
    .

    User deleted


    potrei aver dimenticato di formattare tutti i corsivi, chiedo venia ma quando avevo quasi finito mi si è inchiodato tutto e il collegamento è saltato cancellando tutto

    ho rifatto tutto daccapo ma vista l'ora potrebbe essermi sfuggito qualcosa... nel qual caso chiedo venia, lo sistemerò al più presto

    SPOILER (click to view)
    ringrazio di cuore Daniele Picciuti e Alberto Priora per il brainstorming e le idee che abbiamo condiviso, senza di loro questo racconto sarebbe rimasto a uno stadio embrionale

    ringrazio infinitamente il mio collega Aldo Rovegno per la consulenza sul genovese: sebbene sia stata una consulenza volante fra un ricovero, un'urgenza, un letto da rifare e un malato da imboccare, mi auguro di aver colto le sue indicazioni preziose e puntuali
    purtroppo non abbiamo avuto il tempo di rileggere insieme le frasi in dialetto prima della scadenza del termine per postare, ma dovrebbe essere tutto abbastanza preciso, spero, visto il serrato confronto verbale sugli accenti e la grafia...
    nel caso in cui ci siano degli errori, questi sono da imputare esclusivamente a me e alla mia poca perizia

    molte delle circostanze narrate in qeusto racconto sono vere, alcune sono storiche e facilmente rintracciabili in qualunque libro di storia, altre meno.
    Per esempio, il Pippo esisteva davvero, quasi tutti gli anziani della mia zona lo ricordano benissimo e sono concordi nel descriverne le caratteristiche

    Ringrazio Arturo Fasciolo, il mio ex vicino di casa ultraottantenne per le lunghe chiacchierate davanti ai garage. Da lui ho saputo del Pippo per la prima volta, e dei genovesi che salivano davvero a Novi per la borsa nera. La strage nella piazza è avvenuta davvero, l'ho raccontata così come mi è stata narrata da lui che era presente, allora bambino, anche se non è avvenuta a Novi Ligure ma ad Arquata, una cittadina distante una decina di Km da Novi

    per il resto i nomi sono tutti di fantasia, e ogni riferimento a nomi, cose e persone reali oltre a quelli che ho citato è del tutto casuale


    Città vecchia
    SPOILER (click to view)
    Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli, in quell'aria spessa carica di sale, gonfia di odori, lì ci troverai i ladri e gli assassini e il tipo strano, quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano. Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo: se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo.
    (Fabrizio de Andrè)


    20 dicembre 1953

    “Avanti!”
    Un cespuglio color miele di capelli ricciuti fece capolino dalla porta semiaperta.
    “Il signor Bruzzone? Mi perdoni, ma la sua segretaria non è alla scrivania, così ho pensato...” La ragazza fece un passo sulla moquette color panna dello studio.
    Aurelio Bruzzone indugiò con uno sguardo sfacciato sulla vita sottile e sul seno piccolo ma ben proporzionato, sottolineati dalla camicetta aderente e dalla gonna blu.
    “Sono Luciana, l'impiegata di Alfredo Parodi”.
    “Ah!” Lo sguardo dell'uomo si fece più interessato. “Non l'ho mai vista nel suo ufficio”.
    Lei esitò una frazione di secondo: “Mi ha assunta da poco”.
    “In questo caso, vedrò di rifornirmi da lui più spesso”, ghignò Aurelio.
    Luciana gli tese un pacchetto avvolto in carta dorata. “Il signor Parodi mi ha mandata a portare di persona le strenne ai clienti più importanti”.
    Bruzzone parve stupito. “Strano. Mi sembrava che la Ada mi avesse detto di aver ricevuto due giorni fa il regalo di Alfredo”.
    “Oh!” esclamò lei, un poco turbata. “Ci sarà stato un disguido, allora”.
    Fece per riporre il pacco ma l'uomo allungò la mano: “Non fa nulla. Sa per caso cosa c'è dentro?”
    “Una bottiglia di aceto aromatico. Il mio capo se l'è fatto preparare apposta da una piccola azienda toscana”.
    “Ah, bene”. Ridacchiò allusivo. “Le andrebbe un'insalatina?”
    “La ringrazio, ma Parodi mi aspetta, c'è molto lavoro arretrato”.
    Volò attraverso l'ufficio e imboccò le scale quasi di corsa, senza incontrare nessuno, come al suo arrivo.

    2010
    “Mi manda Luciana Marcenaro. Sono sua nipote Saveria”.
    Lorenza Pastorino si raddrizzò sulle spalle scarne e la studiò in silenzio, a lungo, gli occhi stretti. Saveria non si stupì per quella reazione: Luciana Marcenaro era morta da quasi un anno.
    Lei non era mai stata molto legata a quella donna, il cui sguardo sembrava volerti cavare da dentro chissà quali segreti. Dopo il primo sopralluogo alla casa che la prozia le aveva lasciato in eredità, non era più passata sotto il grande archivolto in pietra che scendeva da via Balbi verso piazza Truogoli, per incamminarsi nella babilonia di favelle fra le prostitute di ogni colore appoggiate agli stipiti o sedute sulle soglie, nei carugi che intersecavano via Pre. Il silenzio della casetta linda, in pieno centro storico, con le sue pareti imbiancate a calce e i pavimenti alla genovese, l'inquietava fin da bambina. Per lunghi mesi non aveva avuto il coraggio di affrontarlo da sola, fino alla settimana precedente, quando si era decisa a prendere qualche giorno di ferie e a salire su un treno, per sorbirsi quell'oretta scarsa da Novi a Genova Principe.
    Lorenza Pastorino doveva avere più di ottant'anni, all'incirca l'età della zia; eppure si muoveva con agilità insospettata e una calma degna di un monaco buddista. I capelli bianchi, acconciati in un caschetto corto, incorniciavano un viso roseo e liscio. Il volume della sua voce era basso e gradevole, il tono gentile. Si fece da parte per farla entrare. “Venga. Le preparo il caffè”.
    Non aggiunse altro, finché il profumo riempì la cucina. Il silenzio si era fatto pesante e Saveria, imbarazzata, non sapeva come cominciare.
    “Lucianetta mi ha parlato molto di te”, le venne in aiuto l'anziana, passando senza preamboli al tu. “Voleva che tu sapessi tutto. Attendevo da tempo questa visita, ma ormai pensavo che non saresti più venuta”.
    La ragazza prese un lungo respiro. “Senta, signora...”
    “Chiamami Lorenza”.
    “Va bene. Lorenza. Non ho la minima idea di cosa stiamo parlando. Non so quasi nulla di mia zia. La frequentavo un poco da bambina, poi ci siamo perse, tranne qualche telefonata saltuaria. Credo di aver ereditato la casa perché sono l'unica parente viva, ma non ci sentivamo da quasi tre anni prima che morisse”.
    “Come sei arrivata a me?”
    “Mentre riordinavo le sue cose, ho trovato una busta chiusa con sopra il mio nome. Dentro c'erano poche righe. Dicevano di cercare Lorenza Pastorino, e oltre all'indirizzo non c'era nient'altro”.
    “Sì, mi aveva detto che lo avrebbe fatto e mi aveva dato disposizioni in proposito”, annuì la Pastorino. “Però lei è morta da quasi un anno e tu non arrivavi. Credevo che ci avesse ripensato all'ultimo momento”. La fissò negli occhi. “Perché non hai ignorato il biglietto?”
    “Non saprei. Mi dispiaceva farlo”.
    Lorenza annuì e si alzò. “Vieni con me”.
    La precedette in una camera tappezzata di vetrinette.
    Dentro, allineati con la stessa meticolosità con cui, a casa sua, Luciana aveva disposto putti stucchevoli e vasetti dalla funzione imperscrutabile, si trovavano ampolle, crogioli, storte, becchi di vetro, fornelletti. L'arsenale di un laboratorio chimico in piena regola.
    “Ecco quel che tua zia intendeva davvero lasciarti”, disse Lorenza. “Ha incaricato me quale, diciamo, esecutrice testamentaria”.
    Saveria passò la mano sul bancone di piastrelle bianche. “Ma... attrezzatura chimica? Mia zia Luciana?”
    “Non si tratta esattamente di chimica”, sorrise enigmatica l'altra. “Direi più... alchimia applicata”.
    Alchimia! Lei immaginò per un attimo quella vecchietta riservata, che amava preparare trofie al pesto e cima alla genovese, china su un alambicco a trafficare con zolfo e mercurio nel tentativo di ottenerne oro.
    “È assurdo”.
    Lorenza sorrise di nuovo. “Si occupava di disinfestazione. Nel dettaglio, pidocchi”.
    “Ma esistono in commercio prodotti che...”
    “Non per i pidocchi con cui aveva a che fare lei”. Uno strano bagliore lampeggiò negli occhi castani della Pastorino, e Saveria tacque, mentre lei le porgeva un computer portatile.
    La vecchietta aveva serbato mille risorse, a quanto pareva.
    “Ecco”, disse l'anziana. “Alcune delle cose che aveva da dirti sono qui dentro”.
    La ragazza obiettò: “Ci sarà una password”.
    “È il suo nome di battesimo”.
    “E tu come lo sai?” domandò Saveria, d'improvviso infastidita.
    “Ah, noi eravamo socie. La password me l'ha detta lei stessa, tempo fa. Sai com'è, a una certa età non si sa mai cosa può capitare...”

    20 dicembre 1953
    “Aceto balsamico”, bofonchiò Aurelio Bruzzone. “Che belin(1) di idea!”
    Rigirò fra le mani il flacone anonimo, senza etichette: l'azienda doveva essere piccola davvero, se non poteva permettersi nemmeno un cartellino con il proprio nome.
    Scrollò le spalle.
    C'erano dei conti fuori posto, aveva altro da pensare, lui. Dimenticò la bottiglia e iniziò a lavorare, per riscuotersi solo quando la segretaria mise dentro la testa: “Cavaliere, se non ha più bisogno di me, io andrei a casa”.
    Lui si tolse gli occhiali e la squadrò disorientato. “Ma che ore si son fatte?”
    “Le sette, cavaliere”, rispose la ragazza.
    “Ah, non me ne ero accorto!” esclamò Bruzzone. “Vai pure. Ci vediamo domattina”. Indicò la montagna di carte sul piano di legno. “Io sistemo ancora due o tre cose di quel casino che mi ha combinato Mario con il Molino Alfieri e poi me ne vado anch'io”.
    Sentì Ada scendere e la porta dell'atrio chiudersi. Gettò uno sguardo ai fogli sulla scrivania ed ebbe un moto di stizza. Ne avrebbe avuto almeno fino alle dieci, se non di più.
    Si alzò e raggiunse la tromba delle scale. “Sergio!”
    Un giovane in divisa comparve quasi subito, salendo i gradini a due a due. “Eccomi, cavaliere!” esclamò, cercando di controllare l'affanno della corsa. “Ha chiamato?”
    Bruzzone annuì. “Devo fermarmi fino a tardi, stasera. Vai alla trattoria dell'Andrea a prendermi la cena”. Aprì il portafoglio, contò i soldi e li tese al ragazzo. “Una pasta al sugo andrà bene”.
    “E basta? Cavaliere, lei mangia troppo poco, se posso permettermi”.
    Aurelio sbuffò. “Fra te e la Ada siete peggio di mia moglie. Dài, prendimi una fettina di arrosto, se ce l'ha”. Fece per rientrare in ufficio, poi si fermò, come ricordando qualcosa. “Ah! Già che ci sei, fatti dare anche un'insalata”.
    Tornò al suo posto e lavorò fino al ritorno di Sergio, che bussò e gli porse il vassoio con i piatti coperti, senza aprire bocca. Tutti sapevano che quando il capo aveva quella faccia, era meglio tacere e dileguarsi alla svelta.
    Bruzzone appoggiò la pasta sulla scrivania e cominciò a mangiare con la sinistra, continuando a spuntare cifre con la destra. Passò alla carne; quando fu la volta dell'insalata si concesse un sorrisetto che aveva l'aria di un ghigno. Ora avrebbe provato l'aceto di quella gnocca.
    Come aveva detto che si chiamava? Ah già, Luciana, ecco.
    “Luciana, Luciana”, canticchiò, mentre il liquido scuro gocciolava sulla verdura. Aveva un odore forte, ma indefinito. Arricciò le narici. Non riusciva a distinguere nessuna spezia particolare. Assaggiò.
    Non aveva nemmeno un sapore troppo caratteristico, l'acidità era troppo marcata e copriva ogni altro aroma.
    “Che schifezza”, borbottò. Però finì lo stesso l'insalata: a buttare via della roba pagata non ci pensava nemmeno. Per l'aceto era diverso, quello lo avevano pagato gli altri: andò in bagno, lo gettò nel water e tirò la catena con una certa soddisfazione. A Parodi non lo avrebbe detto nemmeno sotto tortura.
    “Caro Alfredo, mi sa che te ne intendi più di mussa(2) che di cucina”, sogghignò fra sé.
    Le stoviglie sporche ingombravano la scrivania, adesso. Che rottura di belino! pensò. Si sporse di nuovo sulle scale: “Sergio!”
    Il giovane arrivò di corsa, come sempre. “Mi dica, cavaliere”.
    “Riporta i piatti all'Andrea. E butta questa nella rumenta(3)”. Gli porse la bottiglietta vuota, aspettò che il ragazzo uscisse e tornò al suo tavolo.
    Fu mentre riabbassava la testa sulle carte che il dolore lo colpì.
    Un urto che dallo stomaco risalì in una frazione di secondo al collo, alle spalle, poi dilagò nel ventre. Il respiro gli si troncò nel petto. Un infarto, si disse.
    Si alzò, mosse un passo verso la porta e crollò sul pavimento, scosso da spasmi violenti. “Sergio...” gorgogliò. Un getto amaro gli si riversò fuori dalla bocca, poi un fiotto rosso vivo. E poi un altro, e un altro, un altro ancora, senza il tempo di riprendere fiato.
    Belin cazzo! Mi sto dissanguando.
    Tentò di alzarsi in ginocchio e batté il pugno a terra, ma i colpi erano troppo deboli per richiamare l'attenzione del custode notturno, due piani più giù, sempre se era già rientrato.
    Strisciò fra i coaguli e i resti di cibo, con le viscere accartocciate per le convulsioni. Sentì il calore dell'urina allargarsi sulle cosce.
    La porta. Doveva arrivare alla porta. Un dolore come una fiammata risalì lungo l'esofago, e un liquido nero sgorgò dalla bocca, viscido, sulle mani.
    Aurelio scivolò con la faccia nel vomito.
    Avvertì lo sfintere anale rilasciarsi, ma quando una broda densa gli colò fra le gambe, aveva già perso conoscenza.

    2010
    Dalla finestra spalancata della cucina in casa di Luciana non entrava un filo d'aria. Il tardo pomeriggio aveva ceduto alla notte: i passi, le risate, le chiacchiere e i botta e risposta che risalivano dal carugio si erano diradati, fino a tacere del tutto; ma Saveria non se ne era resa conto.
    La zia aveva raccolto, scannerizzato e suddiviso con cura, pagine e pagine di antichi manuali di alchimia e di chimica. A centinaia.
    Sulle prime, leggendole, la ragazza aveva creduto a una passione come un'altra. C'era chi amava lavorare a maglia e chi giocare al piccolo chimico, tutto qui.
    Eppure, più andava avanti, più sentiva il disagio serpeggiare su per la schiena.
    Un certo Jöns Jakob Berzelius, in un testo del 1838, sentenziava, ben riassumendo quel che a Saveria non quadrava: 'È facilissimo procurarsi l'arsenico...'
    Certo, si disse lei, semplicissimo!
    '...mischiando l'arsenico bianco con la polvere di carbone o con l'olio, e riscaldando il miscuglio in una storta di vetro fino al calore rovente. Il metallo ripristinatosi sublima nella parte superiore della storta...'
    Come fare gli spaghetti.
    'Ma il miglior mezzo per ottenerlo consiste', continuava il tipo, 'a mischiare una parte di arsenico bianco con tre di flusso nero, e introdurre il tutto in un crogiuolo di Hesse, sul quale si rovescia un altro crogiuolo...'
    Seguiva una descrizione, dettagliata ma incomprensibile, delle posizioni in cui andavano sistemati i vari crogioli e della procedura di lavorazione. Il tizio sosteneva che alla fine si sarebbe ricavato arsenico puro.
    Arsenico, arsenico, sempre e solo quello: Luciana aveva estrapolato e copiato, in una cartella a parte, tutto ciò che riguardava i procedimenti per ottenerlo, senza neppure criptare la directory in qualche modo.
    Saveria smise di leggere e si massaggiò la fronte.
    La testa le doleva. Non doveva essere solo per essersi concentrata sullo schermo, anche se spesso la definizione delle immagini non era granché.
    Era per la domanda. Che cosa c'entrava la sua vecchietta con il veleno? Tentò di mettere a tacere la risposta scomoda che le ballava dentro, si disse che il fatto che gli occhi di Lucianetta ti rovistassero più di quanto fosse conveniente, non doveva per forza significare che ammazzasse la gente.
    Eppure, qualcosa continuava a ripeterle che non tornava. Non tornava affatto. Perché non c'erano altri argomenti riportati in cartelle separate, né evidenziati in qualsiasi modo?
    E, soprattutto, a quali pidocchi si era riferita Lorenza, quel pomeriggio? A quale disinfestazione? Il lampo gelido che era transitato sul viso di lei era più inquietante del fatto di aver trovato quei files. O, forse, i documenti l'avevano turbata per via dello sguardo e della frase della Pastorino.
    O entrambe le cose.
    Aprì, distratta, la copia successiva: 'Flusso nero: prendendo il nitro ed il tartaro, in altre proporzioni, cioè a parti eguali, rimane una certa quantità di carbone nel sottocarbonato potassico, per cui il flusso mantienesi nero. Questo ha la proprietà di disossidare gli ossidi metallici...'
    Beh, almeno adesso aveva una seppur vaga idea di cosa fosse il flusso nero, per quello che poteva valere, ma nessun'altra risposta.
    E lei, ora, doveva a ogni costo sapere.


    Autunno 1944

    L'uomo dalle maniche rimboccate sollevò un sopracciglio. “Di meno non posso farti”.
    Agostino rifletté qualche attimo. “Mi sta bene”, annuì, “Verranno in otto da Genova. Appena loro arriveranno qui a Novi, ti porterò le cinque galline, così sei pagato in anticipo. Ma tu vedi di non fare il furbo: i patti sono patti”.
    L'altro si guardò attorno nervoso e spostò il peso da un piede all'altro. “Va bene, va bene. Ma adesso son le tre passate. Cerchiamo di darci una mossa”.
    Anche Luciana fremeva. Era troppo tempo che se ne stavano lì. D'accordo, i fascisti sapevano che molti genovesi salivano fino a Novi perché, alla borsa nera, il pane era più a buon mercato. La piazza della stazione era piena di gente impegnata in trattative e i veterani chiudevano un occhio, vista la percentuale che riscuotevano sugli affari conclusi; ma un colpo di testa di qualche recluta zelante non era mai da escludersi, e una perquisizione significava per loro due la fucilazione. Per ora solo un giovanotto, in camicia nera e pantaloni al ginocchio, le aveva sorriso, con più boria che galanteria. Lei aveva sentito la pistola nascosta sotto il golfino farsi pesante, ma aveva sorriso a sua volta, civettuola, sbattendo le ciglia e reclinando la testa sulla spalla.
    Se Agostino se ne fosse accorto avrebbe scatenato un putiferio, testa calda com'era, ma per fortuna era impegnato con il fornaio.
    Udì il suo uomo chiedere: “Cosa c'entra se son le tre?”
    “Belin! Alle quattro arriva il Pippo!
    “E chi sarebbe questo Pippo?” sogghignò Agostino.
    “Uno che tira bombe”.
    Il ragazzo lo degnò di uno sguardo di compatimento: “Sì. A orario fisso, come le supposte”.
    L'uomo fece spallucce. “Comunque io me ne vado”. Gli tese la mano per suggellare il patto e Agostino la strinse.
    “Siamo d'accordo allora”.
    “D'accordo, d'accordo, ma ora fammi andare”.
    “Che idiota”, commentò il giovane, appena il tipo si fu allontanato.
    “Non saprei, Tino. Il Pippo c'è davvero. L'ho visto diverse volte”, obiettò Luciana. “Non è che faccia tanti danni, di solito, ma son sempre bombe”.
    “Va bene, dài, finiamo e andiamo”.
    “Non possiamo andarcene subito?” Preoccupata, la ragazza guardò il cielo. “Non senti un motore?”
    “Sì”, annuì lui, serio, osservando la gente che si allontanava in fretta. “Ma Marco mi ha detto che mi avrebbe dato il permesso di venire a Novi per i miei solo se fossi passato dal padre del Falco”.
    “Credevo che lo sapesse già, che a Pertuso suo figlio è caduto”.
    “No. Glielo diciamo noi dopo. Adesso troviamo un riparo”.
    Il rombo del motore saturò l'aria, e tutti cominciarono a correre.
    Belin! Vieni via!” Agostino la trascinò sotto il portico e la spinse in un angolo.
    L'aereo sorvolò la ferrovia per un breve tratto e sganciò una bomba. A Luciana mancò il respiro per il contraccolpo e si strinse al giovane.
    Pippo descrisse dei cerchi sopra di loro, sempre più ampi. Quando iniziò ad allontanarsi, la gente cominciò a lasciare i rifugi di fortuna, ridendo sollevata, e il ragazzo si alzò in piedi. “Tutto qui?” sogghignò e uscì allo scoperto.
    Lei era ancora accucciata con le spalle al muro. “È il Pippo”, disse, come se quella spiegazione fosse sufficiente.
    All'improvviso udirono il motore riavvicinarsi: il rombo si fece più profondo mentre l'aereo virava, poi vi fu un sibilo. Subito dopo, una forza immane scaraventò Luciana a terra e il suolo tremò. Poi, un silenzio irreale.
    Quando la polvere si diradò, Agostino non era più lì accanto.
    Scossa dalla tosse, si rialzò.
    “Tino!” chiamò. Inciampò in una gamba con la scarpa ancora sul piede, l'osso che spuntava come un manico scheggiato; i pantaloni non erano quelli di Agostino.
    L'ordigno era caduto nel bel mezzo della piazza, dappertutto c'erano sangue, macerie, e brandelli di carne. Luciana vedeva la gente correre e urlare, ma non udiva nulla.
    “Tino!”
    Il busto di una donna pendeva da un balcone con le budella fino a terra.
    Luciana brancolò, urtando sconosciuti fra la puzza di bruciato e la polvere.
    “Tino! Tino!”
    Infine lo vide.
    La deflagrazione lo aveva scagliato contro un muro a una decina di metri. Il capo pendeva sul petto, da cui sbucavano le costole spezzate, come un rastrello fra le escrescenze rosse delle viscere. Braccia e gambe parevano buttate a casaccio ai lati del corpo: non sembravano nemmeno roba sua.

    2010

    “Cosa c'entra l'arsenico con mia zia?”
    Saveria si era precipitata a casa di Lorenza Pastorino non appena le era parsa un'ora decente, ma era pur sempre un buon quarto d'ora prima delle otto. Nonostante questo, l'anziana signora, composta e pettinata, pareva che la stesse aspettando; guardò il minuscolo orologio da polso. “Potremmo essere da Bacigalupo appena avrà aperto il negozio”, annuì.
    “Ferma tutto!” Saveria alzò una mano. “Ti dispiacerebbe spiegarti? Intanto, chi è questo Bacigalupo?”
    “È la persona che risponderà alla tua domanda”.
    Lei scosse il capo, seccata. “Non sono in vena di giocare alla caccia al tesoro! Rispondimi tu e finiamola qui”
    Lorenza sospirò. “Senti, non dipende da me. Lucianetta mi ha lasciato disposizioni ben precise”.
    “Ma Lucianetta non è più qui!”
    “Le promesse fatte ai morti vanno mantenute”, si scandalizzò la Pastorino. “I molti passaggi facevano parte del suo modo di lavorare, li trovava normali. Se ti dicessi io, al primo gradino, quello che vuoi sapere, lei non ne sarebbe contenta”.
    Saveria non nascose il disappunto. “Purché questi gradini non siano troppi”.

    A Sottoripa, fra i chioschi del kebab e i banchi del pesce che si sporgevano fin sulle lastre del selciato, né Pietro Bacigalupo né il suo negozio passavano inosservati.
    Il locale, largo e stretto, non aveva una vera porta ma si apriva sul passaggio pedonale, con gli stipiti, l'architrave e le pareti ingombri di oggetti appesi, assortiti senza una logica apparente. Borse, scarpe, ninnoli, borracce, foulard, berretti, magliette, portachiavi, orologi, mappe della città. Agende e quaderni erano impilati sul pavimento, accanto a scatole di bicchieri e di tazzine da caffè che minacciavano a ogni momento di rovinare al suolo, travolgendo le saponette e i flaconi di detersivo. In un angolo, su grossi ganci di ferro che pendevano dal soffitto, erano disposte alcune matasse di cima da imbarcazioni e varie collane di galleggianti da rete da pesca. Pareva che qualsiasi cosa uno avesse cercato, lì lo avrebbe trovato. Come poi facesse Bacigalupo a orientarsi, non era dato sapere.
    “Lei è Saveria, la nipote della Lucianetta”.
    Lorenza aveva rivolto appena un cenno di saluto al vecchio monumentale, seduto su uno sgabello al centro del suo bazar, prima di presentarla.
    Pietro sollevò prima due occhi grigi e poi la propria mole, avvicinandosi senza una parola.
    Le spalle, larghe e niente affatto curve, suggerivano una forza che in altri tempi doveva essere stata notevole. Non sembrava avere un filo di grasso sotto la maglietta a righe bianche e blu che indossava sopra un paio di jeans stinti.
    La voce della pescivendola all'angolo rotolò fino a loro: “Anciüe! Anciüe ! Anciüe vive! Anciüe! Dai che saltan ancu-nn!(4)”
    Ti n'te s'mii alla Lucianetta(5)”, fu la sentenza che il vecchio lasciò cadere dall'alto dei suoi due metri buoni.
    Lei non vedeva per quale motivo avrebbe dovuto assomigliarle, ma non commentò.
    “Lupo”, disse la Pastorino. “Ha visto il laboratorio”.
    L'uomo annuì, con aria grave. “Catémuse dui panissette e annémmu fino a o ponte de chiatte che o g'han misso là 'n sima(6)”. Indicò un punto verso la massa dipinta d'azzurro dell'Acquario, che la ragazza sapeva trovarsi laggiù, oltre i piloni della Sopraelevata.
    Saveria era ghiotta di panissette, le listarelle di farina di ceci fritte nell'olio bollente ma, con quel caldo, la prospettiva di trovarsene davanti un cartoccio fumante non l'allettava per niente. Tuttavia tacque. Certo Pietro le aveva proposte come in altre circostanze si offre il caffè.
    “Malik!” chiamò il vecchio. Un bel giovane dalla pelle d'ebano e dai capelli a treccine, seduto a terra con la schiena appoggiata a una colonna poco lontano, alzò la testa dal suo lavoro. Rammendava una rete da pesca, sotto la supervisione di un anziano dalle braccia e il collo ricoperti di tatuaggi. “Malik, bada alla bottega mentre io accompagno queste du' belle figgie(7)”.
    Il ragazzo annuì, e il lampo candido del sorriso che le indirizzò, lusingò Saveria, che rispose allo stesso modo.
    Malik l'è un brav' fiœû(8)”, spiegò lui, avviandosi in direzione della friggitoria storica.
    La cantilena strascicata della pescivendola, amplificata dal portico, rimbalzò ancora dalle bancarelle dei pakistani a quelle dei cinesi, fino alla rosticceria in cui i fumi degli incensi si mescolavano con l'odore di frittura.
    Giua', due pacchetti di panissa”, ordinò Pietro; poi trasse un lungo respiro. “Lucianetta Marcenaro. L'ho conosciuta nel '44”.
    L'aveva presa alla lontana. Si sarebbe andati per le lunghe di questo passo e Saveria fremeva, ma per educazione non disse nulla.
    “Devo ripassare un attimo dal negozio”, accennò Bacigalupo, pagando.
    Solo quando lui chiamò Malik e gli tese uno dei cartocci che teneva in mano, la ragazza comprese il motivo di tutta la manovra. “Ti fanno piacere due panissette? Si son sbagliati, ce ne hanno dato un pacchetto in più. Queste ci crescono”.
    “Grazie, Lupo”. Malik, il bel volto raggiante, accanto a quel colosso sembrava un bambino. “Me le metto da parte per dopo. Ora è presto”.
    “Fai come credi, io te le lascio”. Bacigalupo gli scrollò una spalla con un gesto di burbero affetto e gli assestò una pacca sulla nuca. “Torna a guardarmi bottega, vah!”
    Il ragazzo rise e rientrò nel bazar, dove si era trasferito per continuare il suo lavoro.
    “Dev'essere da ieri a mezzogiorno che non mangia”, spiegò l'uomo, mentre si incamminavano verso il galeone dei Pirati di Roman Polansky ancorato oltre piazza Caricamento, con il suo Nettuno bianco sulla polena. La nave usata nel film se ne stava da anni a fare ombra agli ambulanti senegalesi, seduti sulla ringhiera, e alla loro merce esposta sugli scatoloni e sulle lenzuola a terra. “Però se avessi preso qualcosa solo per lui si sarebbe offeso. Ora ci tocca mangiar panissa alle dieci del mattino”, concluse, fingendo rassegnazione.
    Portò alla bocca alcune delle listarelle calde e si leccò il sale dalle dita. “Per badarmi al negozio gli do qualche euro. Non è che si guadagni da fare la bella vita, sul peschereccio del Giancarlino Sommariva”.
    “Lavora per il Gian?” si stupì la Pastorino. “Ma se ho sentito che si è indebitato per mandare avanti l'attività!”
    “Hai sentito bene. Con Cadenasso. Peggio di una martellata sul belino”.
    “Ernesto Cadenasso?” esclamò lei. “È ancora vivo?”.
    “Purtroppo. Ed è ancora fetente come da giovane, con i suoi novant'anni e passa. Si prende quasi tutto quello che riescono a tirare su spaccandosi la schiena su quella barca. Il Gian non ha quasi più da pagare i lavoranti. Tiene Malik perché è un bravo ragazzo e gli si è affezionato, ma a volte riesce a dargli solo il pesce invenduto”.
    “Ma perché con Cadenasso?” Lorenza sembrava non capacitarsene. “Ci sono le banche!”
    “Sì, solo che non ti aiutano se hai già altri debiti e la tua baracca è lì lì per crollare. E allora gente come Cadenasso ci va a nozze”. Strinse i pugni e serrò le mascelle. “Perché Lucianetta non ne voleva più sapere di pidocchi, altrimenti...”
    Saveria sobbalzò. Se aveva fatto di tutto per convincersi che la zia fosse solo un po' eccentrica, ora quella frase non le lasciava più molti dubbi sulla sua vera attività. Tuttavia dovette adeguarsi al silenzio rabbioso di Bacigalupo, che non aprì bocca per tutta la calata De Andrè, fino al molo di chiatte di Renzo Piano, ormeggiato in fondo a quella lingua di cemento protesa nel porto.
    Lorenza sedette su una delle panchine che davano verso la Lanterna. Abbarbicato sul suo ammasso di roccia, circondata da navi da crociera e traghetti, il faro grigio voltava indifferente le spalle alla città, come un anacoreta vissuto troppo a lungo nel deserto. Tempo e vento gli scorrevano attorno da sempre, lasciandolo immobile e uguale a se stesso, e non lo scalfivano bonaccia o tempesta, guerra o pace, lacrime o risa.
    Saveria e il vecchio sedettero accanto all'anziana donna. Il mare era tutto un riverbero di scaglie di luce, da far dolere gli occhi, mentre attorno alla piazza galleggiante i gabbiani tracciavano in volo le loro rotte candide.
    “Avevo un fratello, Agostino”, esordì infine l'uomo. “Eravamo cresciuti facendo i Balilla, come tutti, perché si era costretti; ma i nostri genitori ci insegnavano cose che a scuola e durante i Sabati Fascisti non ti dicevano di sicuro. Per farla breve, anche se l'Otto Settembre né io né Agostino avevamo ancora compiuto i diciassette anni, andammo con i cugini più grandi nella Brigata Garibaldi”.
    Un partigiano! pensò Saveria. La piazza cigolava come il fasciame di una nave. Un gabbiano si posò sulla balaustra di fronte a loro, e Bacigalupo gli gettò un pezzetto di panissa; lo osservò volare fino al rettangolino giallo, becchettarlo e spiccare il volo verso il largo. Solo allora riprese.
    “I primi mesi ci usavano come staffette o come portaordini, ma poi, siccome c'era bisogno di combattenti, ci insegnarono a sparare e ci mandarono in battaglia con i vecchi. Li chiamavamo vecchi, ma era gente di vent'anni. Roba che adesso non sanno cambiarsi neanche le mutande da soli”. I suoi occhi grigi si piantarono in quelli neri della ragazza. “Una volta la nostra divisione diede l'assalto a un convoglio di armi tedesche e dopo pochi giorni arrivò l'ordine di trasferirsi in Piemonte, a Pertuso. Là c'erano stati tre giorni di battaglia e i compagni si erano ritirati perché avevano finito le munizioni. Noi ci eravamo appena prese quelle dei crucchi, e così il comandante Marco ci aveva mandati a chiamare. I feriti erano molti, servivano uomini validi”. Bacigalupo sorrise: “Fu a Pertuso che conoscemmo Lorenza e Luciana”.
    “Venivamo da Novi”, spiegò la Pastorino. “Di solito facevamo le staffette, ma quella volta ci eravamo fermate là con le altre ragazze, per curare i feriti. Fra Luciana e Agostino fu amore a prima vista”.
    La Lucianetta l'era la ciû bella figgia d'Neuve(9)”.
    Questa, a Saveria giungeva nuova: suo padre non le aveva mai detto di questa fama giovanile della zia, ma il vecchio si era illuminato tutto, nel dirlo. Doveva essere vero.
    “Un giorno, Marco mandò Agostino a Genova a contattare dei compagni, e lui cercò anche di mio padre e mia madre. Li trovò che non sembravano più loro”.
    La ragazza trattenne il fiato.
    “Hai mai sentito parlare di Aurelio Bruzzone?” domandò lui a bruciapelo.
    “Non può averne sentito parlare, Lupo”, intervenne Lorenza. “È troppo giovane”.
    “Aurelio Bruzzone era un fascista che aveva un piccolo panificio. All'inizio distribuiva il pane con la tessera, finché scoprì la borsa nera. Per un po' si adeguò ai prezzi di mercato, ma presto cominciò ad alzarli. Agli altri fornai, se non diventavano suoi soci, mandava le Camicie Nere ad ammazzarli o farli scappare. A Genova rimase praticamente solo lui, a fare il bello e il cattivo tempo. Se gli davi una coperta, potevi portarti a casa due etti di pane. Con tre coperte stavi tranquillo due giorni. Per un anello d'oro, i primi tempi mangiavi una settimana. Poi alzò ancora i prezzi ma se volevi il pane dovevi andare da lui. I poveracci si arrangiavano; gatti, in giro, non ne vedevi da un pezzo, e bestie a quattro zampe non ce n'erano più. A due zampe sì”. Saveria avrebbe giurato di vedere brillare qualcosa negli occhi grigi del vecchio. “Bastardi come Bruzzone. Quando Agostino arrivò, i miei gli dissero che stavano andando a portare a quel porco le loro fedi di nozze”. Lo sguardo era duro e la voce ferma, vibrante di un odio che gli anni non avevano smorzato. “Gli aveva anticipato pane per una settimana, e ci avevano mangiato in otto con mezzo chilo al giorno, ma ormai non c'era più niente da dargli”.
    Bacigalupo strinse i pugni.
    “Agostino divenne una belva. Urlava che voleva andare là e ammazzarlo, quel fetente; ma mia madre gli si attaccò al collo, piangendo. Lui si circondava di Camicie Nere, disse, era pericoloso. Gli raccontò di aver sentito che a Novi i prezzi erano più bassi. Lo convinse ad andare a verificare, e se poi fosse stato vero, sarebbero sfollati là”.
    Pietro ansimava, adesso. Si passò le mani enormi fra i radi capelli bianchi e cercò di riprendersi un poco. “Sai chi era il Pippo?”
    Saveria scosse la testa.
    Mentre il rollio della piattaforma di legno li cullava, l'uomo continuò: “Il Pippo è quello che ha ammazzato mè frè(10)”. Strano a dirsi, questa volta non c'era astio nel suo tono.
    “Un fascista?” chiese la ragazza.
    Lui scosse il capo. “Tutti i pomeriggi fra le quattro e le cinque, un aereo alleato volava su Novi e sulle città vicine. Colpiva le centrali elettriche, le fabbriche, la ferrovia che univa il porto di Genova a Milano, ma di rado le case. Lo chiamavano il Pippo, così, per scherzo. Era quasi svogliato nel suo lavoro: buttava una o due bombe e se ne volava via. Tutti sapevano che ora arrivava e con calma se ne andavano verso la campagna. Quando Pippo finiva, tornavano in città a contare i danni, ma non era mai niente di serio”.
    “E Agostino?”
    “Un giorno era a Novi, a trattare il prezzo del pane per i miei, e il Pippo sganciò una bomba di troppo. Sulle case. Non lo faceva mai: quella volta la gente pensava che avesse finito come suo solito, ed erano usciti allo scoperto. Fu una strage”.
    Tacque. Saveria capì che quelle parole scarne contenevano più dolore di quanto lasciassero trasparire.
    “Luciana da quel giorno non fu più lei”, riprese Pietro. “Divenne fredda, distaccata. Non sorrideva più, non scherzava più. Non si sposò mai, e solo quando parlava di mio fratello il suo sguardo si ammorbidiva. Perché sai, i suoi occhi avevano cominciato a scavarti dentro come se tu fossi sempre in difetto”.
    “Lo so”, annuì Saveria. “Da piccola ne ero terrorizzata”.
    “Concepì un odio implacabile verso Aurelio Bruzzone”, disse ancora il vecchio. “Lo riteneva il vero responsabile della morte di Agostino. Lui, nel frattempo, dal poco che aveva nel '39, il Venticinque Aprile si trovò ricco sfondato. Con l'aiuto delle persone giuste fece dimenticare i suoi trascorsi fascisti, e nel Dopoguerra avviò una serie di attività commerciali, ma tutti sapevamo dove aveva preso i soldi per iniziare. Lucianetta nel frattempo era venuta ad abitare a Genova, e vedere la sua insegna sui cartelli pubblicitari le ricordava ogni volta quel giorno a Novi: poi, il Natale del '53, gli regalò quello che si meritava”.

    “Lucianetta era furba, sapeva il fatto suo”. Lorenza, davanti a una tazzina di caffè nella sua casa ordinata, cuciva i pezzi mancanti di quella storia.
    “Quanti ?” esclamò Saveria, incredula. “Ripetilo, non ci posso credere”.
    “Sì, una trentina. Il primo dopo Bruzzone fu un prete che aveva consegnato tre famiglie ebree della sua parrocchia. Anche quello lo fece fuori gratis, poi io le suggerii di cominciare a farlo per soldi”.
    La ragazza rimase a bocca aperta. “Tu?” chiese, quasi ammirata.
    “Sì, certo. Perché?”
    “No, dicevo così...”
    “Ci pensò su, poi decise di provare”, riprese l'anziana. “Noi amici eravamo la sua rete di protezione. Le trovavamo i clienti, che dovevano passare attraverso due o tre di noi: non sapevano i nostri nomi, non li incontravamo mai nello stesso posto, e non venivano in nessun caso in contatto diretto con lei. I guadagni li dividevamo in parti uguali. I soldi li raccoglieva Bacigalupo, con il negozio era facile e non dava molto nell'occhio. Era appena garzone allora, ma spesso il padrone lo lasciava da solo a gestire tutto; non sospettò mai nulla, Pietro stava molto attento, e poi nei carugi nessuno guarda quello che fanno gli altri”.
    La donna prese un sorso dalla tazzina: “Comunque, lei non accettava tutti i lavori. Li selezionava con cura: cravattari, stupratori, un padre che abusò della figlia dai quattro anni in su...”
    “Pidocchi, insomma”.
    “Esatto”, annuì l'altra. “Però si guadagnava bene lo stesso. Tutti comprammo casa e Lupo rilevò anche il negozio. Lucianetta andò ad abitare nei vicoli, invece. Amava la loro gente, il loro odore, la loro vita che ti respira dentro, diceva sempre. Lavoravamo di più nel Dopoguerra. Sai, con la ricostruzione la polizia non aveva molto tempo, e non c'erano le autopsie precise che arrivarono dopo. Negli anni Ottanta l'attività divenne troppo rischiosa, e non ce la sentimmo di continuare. Ci ritirammo dal mercato, per così dire”.

    Saveria, dal salotto della zia, ascoltava il carugio; era vero, erano l'anima e il cuore vivo di Genova che pulsavano in quelle voci e in quei suoni. Erano la sua vita che ti respirava dentro.
    Presso il portone, un africano chiacchierava con un vecchio: l'intercalare belin, pronunciato con accento foresto(11), inframmezzava il flusso di parole che la raggiungevano dalla finestra aperta.
    Poco prima, quando era arrivata a casa le aveva sorriso, nel suo caffetano multicolore sotto il copricapo in tinta, dal tavolino su cui aveva disposto frutti allungati, bottiglie colme di un liquido rossastro, verdure dalle forme mai viste.
    L'uomo che conversava con quella specie di sciamano aveva un che di familiare. Forse abitava lì vicino, poteva averlo incrociato al supermercato all'angolo, fra le indù dalla pelle scura, con il sari avvolto attorno al capo e alle spalle e i bolli rossi in fronte, e le islamiche nel loro velo castigato. Esibiva un paio di braccia e un collo tatuati a sirenette e ancore che non passavano inosservati. Saveria archiviò la cosa con un'alzata di spalle, e la sua mente prese tutt'altra direzione, mentre rileggeva per la terza volta il file sulla chiavetta USB che Lorenza le aveva consegnato.
    Era una sorta di memoriale, in cui la zia le raccontava di aver scoperto che, nella Palermo del '700, una donna uccideva su commissione, utilizzando una mistura di aceto e arsenico che a quei tempi era di uso comune contro i pidocchi.
    Mesi dopo, aveva letto per caso che gli antichi alchimisti utilizzavano talvolta l'arsenico.
    Allora, l'idea di seguire le orme della palermitana era diventata un'ossessione.
    Nei vicoli, nel fiume carsico di un commercio sotterraneo che scorreva da sempre, se conoscevi le persone giuste, potevi trovare di tutto e nessuno lo avrebbe mai saputo. Era stato tramite queste persone che si era procurata le attrezzature e le materie prime per sublimare l'arsenico, e aveva anche saputo i nomi dei fornitori di Bruzzone.
    Saveria, a questo passaggio, aveva pensato a un adagio che si usava anche a Novi, per indicare un luogo fornito di ogni ben di Dio: gh'è de tutto com'a Zena, c'è di tutto come a Genova.
    Nonostante ciò, l'arsenico puro non lo aveva trovato, così era diventata l'amante di un giovane chimico: si fingeva interessata al suo lavoro e al laboratorio, si faceva spiegare i trucchi del mestiere e le procedure di lavorazione.
    I libri, su cui studiava giorno e notte, li aveva avuti grazie a una bibliotecaria che aveva avvicinato apposta, guadagnandosi poco a poco la sua fiducia. La donna, ignara dell'uso che Luciana ne faceva, in buona fede le passava le copie di tutto quel che trovava negli archivi di mezza Italia, credendola appassionata di antichi manuali di alchimia. All'inizio le trascrizioni erano fatte a mano, poi avevano inventato le fotocopiatrici ed era stato più facile, ma la vera svolta si era avuta con l'avvento dell'informatica: allora era diventato quasi un gioco, ma ormai più era una passione a sé stante che una necessità, perché quel che le serviva davvero lo aveva trovato quasi subito.
    Molti dei primi esperimenti erano falliti, poi aveva cominciato a migliorare, fino al grande giorno in cui aveva portato quella bottiglietta ad Aurelio Bruzzone.
    Leggere, sui giornali dell'indomani, che l'imprenditore era morto per un'ulcera perforata, era stato il suo vero trionfo: Agostino era vendicato, e non c'era alcun sospetto di omicidio.
    Il pidocchio era stato schiacciato.
    Luciana aveva messo in conto un certo margine di errore: qualcuno avrebbe potuto usare la micidiale mistura invece di lui, o oltre a lui, anche se tutti sapevano che non aveva mai condiviso un dono con chicchessia. Inoltre lei aveva studiato a lungo i suoi orari, e aveva notato che spesso Bruzzone si fermava a mangiare in ufficio, era facile che lui lasciasse lì la bottiglia e non coinvolgesse moglie e figli. Aveva deciso di rischiare e agito in fretta, durante una delle tante commissioni che il capo assegnava alla segretaria.
    Le era andata bene.
    Ora sarebbe stata anche disposta a passare il resto della sua vita in galera, ma non era stato necessario.
    D'accordo, tutto quadrava, ma Lucianetta non aveva dedicato una sola parola al fine che si proponeva, coinvolgendo la nipote. Avrebbe potuto dire “cara Saveria, voglio che tu sappia perché...” E invece niente, vuoto, nulla di nulla.
    La vecchina un po' misantropa e i suoi eccentrici amici si erano rivelati, senza alcun preavviso, una banda di killer spietati.
    È vero, era stata lei stessa a insistere per sapere tutto, ma se ne era già pentita. Forse sarebbe stato meglio restare all'oscuro.
    Adesso sentiva solo un gran bisogno di riordinare le idee; tanto, indietro, non si poteva tornare.
    Gli attrezzi di laboratorio li avrebbe donati a qualche scuola e il computer lo avrebbe tenuto come ricordo.
    Per il resto, non aveva la minima idea di come gestire la cosa. Guardò il pavimento di graniglia dai decori colorati agli angoli, come a trovarvi ispirazione, e registrò distratta che l'africano sotto la finestra ora taceva. Subito dopo, qualcuno suonò il campanello.
    Si affacciò. Stupita, vide il vecchio tatuato che aspettava vicino al citofono.
    “Ha bisogno?” domandò.
    “Lei è la nipote della Lucianetta Marcenaro?” chiese lui per tutta risposta.
    Saveria annuì. Aprì e lo attese perplessa sulla porta.
    “Mi chiamo Giancarlo Sommariva”.
    L'anziano che insegnava a Malik a rammendare le reti! Ecco dove lo aveva visto!
    “Ho un lavoro da proporle”.
    “Temo che ci sia un equivoco, signor Sommariva. Io ho già un lavoro, mi spiace”.
    “Senta”, disse lui, deciso. “Son due ore che sto qui sotto. Hasani ha attaccato bottone ma non ho smesso un attimo di pensarci su. Anzi, veramente ci sto pensando da quando Lupo mi ha detto che lei è... chi è. Ora che ho fatto le scale, almeno mi ascolti”.
    “Mi dica”, si rassegnò Saveria con un sospiro.
    “La Lucianetta, buonanima, avrebbe drizzato le antenne senza tutte queste storie”, commentò l'uomo con aria di vago rimprovero. Poi sparò a bruciapelo: “Ha mai sentito parlare di Ernesto Cadenasso?”



    (1) Cazzo
    (2) Figa
    (3) Spazzatura
    (4) Acciughe! Acciughe! Acciughe vive! Dai che saltano ancora!
    (5) Non assomigli alla Lucianetta
    (6) Compriamoci due panissette e andiamo fino al ponte di chiatte che hanno messo laggiù
    (7) Due belle ragazze
    (8) Malik è un bravo ragazzo
    (9) La Lucianetta era la più bella ragazza di Novi
    (10) Mio fratello
    (11) Forestiero


    versione 2

    posto una nuova versione cercando di cogliere le indicazioni di Stefano, lascio anche la prima, per

    se avete tempo e voglia di vedere come gira mi farà piacere un parere

    scusate, non ho formattato i corsivi, abbiate pietà ma è un'impresa pazzesca per me, mi ci vuole una vita... fate conto che i corsivi siano dove ci vogliono

    Città vecchia

    Se ti inoltrerai lungo le calate dei vecchi moli, in quell'aria spessa carica di sale, gonfia di odori, lì ci troverai i ladri e gli assassini e il tipo strano, quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano. Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese li condannerai a cinquemila anni più le spese. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo: se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo.
    (Fabrizio de Andrè)

    20 dicembre 1953
    “Avanti!”
    Un cespuglio color miele di capelli ricciuti fece capolino dalla porta semiaperta.
    “Il signor Bruzzone? Mi perdoni, ma la sua segretaria non è alla scrivania, così ho pensato...” La ragazza fece un passo sulla moquette color panna dello studio.
    Aurelio Bruzzone indugiò con uno sguardo sfacciato sulla vita sottile e sul seno piccolo ma ben proporzionato, sottolineati dalla camicetta aderente e dalla gonna blu.
    “Sono Luciana, l'impiegata di Alfredo Parodi”.
    “Ah!” Lo sguardo dell'uomo si fece più interessato. “Non l'ho mai vista nel suo ufficio”.
    Lei esitò una frazione di secondo: “Mi ha assunta da poco”.
    “In questo caso, vedrò di rifornirmi da lui più spesso”, ghignò Aurelio.
    Luciana gli tese un pacchetto avvolto in carta dorata. “Il signor Parodi mi ha mandata a portare di persona le strenne ai clienti più importanti”.
    Bruzzone parve stupito. “Strano. Mi sembrava che la Ada mi avesse detto di aver ricevuto due giorni fa il regalo di Alfredo”.
    “Oh!” esclamò lei, un poco turbata. “Ci sarà stato un disguido, allora”.
    Fece per riporre il pacco ma l'uomo allungò la mano: “Non fa nulla. Sa per caso cosa c'è dentro?”
    “Una bottiglia di aceto aromatico. Il mio capo se l'è fatto preparare apposta da una piccola azienda
    toscana”.
    “Ah, bene”. Ridacchiò allusivo. “Le andrebbe un'insalatina?”
    “La ringrazio, ma Parodi mi aspetta, c'è molto lavoro arretrato”.
    Volò attraverso l'ufficio e imboccò le scale quasi di corsa, senza incontrare nessuno, come al suo arrivo.

    2010
    “Mi manda Luciana Marcenaro. Sono sua nipote Saveria”.
    Lorenza Pastorino si raddrizzò sulle spalle scarne e la studiò in silenzio, a lungo, gli occhi stretti. Saveria non si stupì per quella reazione: Luciana Marcenaro era morta da quasi un anno.
    Lei non era mai stata molto legata a quella donna, il cui sguardo sembrava volerti cavare da dentro chissà quali segreti. Dopo il primo sopralluogo alla casa che la prozia le aveva lasciato in eredità, non era più passata sotto il grande archivolto in pietra che scendeva da via Balbi verso piazza Truogoli, per incamminarsi nella babilonia di favelle e le prostitute di ogni colore appoggiate agli stipiti o sedute sulle soglie, nei carugi che intersecavano via Pre. Il silenzio della casetta linda, in pieno centro storico, con le sue pareti imbiancate a calce e i pavimenti alla genovese, l'inquietava fin da bambina. Per lunghi mesi non aveva avuto il coraggio di affrontarlo da sola, fino alla settimana precedente, quando si era decisa a prendere qualche giorno di ferie e a salire su un treno, per sorbirsi quell'oretta scarsa da Novi a Genova Principe.
    Lorenza Pastorino doveva avere più di ottant'anni, all'incirca l'età della zia; eppure si muoveva con agilità insospettata e una calma degna di un monaco buddista. I capelli bianchi, acconciati in un caschetto corto, incorniciavano un viso roseo e liscio. Il volume della sua voce era basso e gradevole, il tono gentile. Si fece da parte per farla entrare. “Venga. Le preparo il caffè”.
    Non aggiunse altro, finché il profumo riempì la cucina. Il silenzio si era fatto pesante e Saveria, imbarazzata, non sapeva come cominciare.
    “Lucianetta mi ha parlato molto di te”, le venne in aiuto l'anziana, passando senza preamboli al tu. Voleva che tu sapessi tutto. Attendevo da tempo questa visita, ma ormai pensavo che non saresti più venuta”.
    La ragazza prese un lungo respiro. “Senta, signora...”
    “Chiamami Lorenza”.
    “Va bene. Lorenza. Non ho la minima idea di cosa stiamo parlando. Non so quasi nulla di mia zia. La frequentavo un poco da bambina, poi ci siamo perse, tranne qualche telefonata saltuaria. Credo di aver ereditato la casa perché sono l'unica parente viva, ma non ci sentivamo da quasi tre anni prima che morisse”.
    “Come sei arrivata a me?”
    “Mentre riordinavo le sue cose, ho trovato una busta chiusa con sopra il mio nome. Dentro c'erano poche righe. Dicevano di cercare Lorenza Pastorino, e oltre all'indirizzo non c'era nient'altro”.
    “Sì, mi aveva detto che lo avrebbe fatto e mi aveva dato disposizioni in proposito”, annuì la Pastorino. “Però lei è morta da quasi un anno e tu non arrivavi. Credevo che ci avesse ripensato all'ultimo momento”. La fissò negli occhi. “Perché non hai ignorato il biglietto?”
    “Non saprei. Mi dispiaceva farlo”.
    Lorenza annuì e si alzò. “Vieni con me”.
    La precedette in una camera tappezzata di vetrinette.
    Dentro, allineati con la stessa meticolosità con cui, a casa sua, Luciana aveva disposto putti stucchevoli e vasetti dalla funzione imperscrutabile, si trovavano ampolle, crogioli, storte, becchi di vetro, fornelletti. L'arsenale di un laboratorio chimico in piena regola.
    “Ecco quel che tua zia intendeva davvero lasciarti”, disse Lorenza. “Ha incaricato me quale, diciamo, esecutrice testamentaria”.
    Saveria passò la mano sul bancone di piastrelle bianche. “Ma... attrezzatura chimica? Mia zia Luciana?”
    “Non si tratta esattamente di chimica”, sorrise enigmatica l'altra. “Direi più... alchimia applicata”.
    Alchimia! Lei immaginò per un attimo quella vecchietta riservata, che amava preparare trofie al pesto e cima alla genovese, china su un alambicco a trafficare con zolfo e mercurio nel tentativo di ottenerne oro.
    “È assurdo”.
    Lorenza sorrise di nuovo. “Si occupava di disinfestazione. Nel dettaglio, pidocchi”.
    “Ma esistono in commercio prodotti che...”
    “Non per i pidocchi con cui aveva a che fare lei”. Uno strano bagliore lampeggiò negli occhi castani della Pastorino, e Saveria tacque, mentre lei le porgeva un computer portatile.
    La vecchietta aveva serbato mille risorse, a quanto pareva.
    “Ecco”, disse l'anziana. “Alcune delle cose che aveva da dirti sono qui dentro”.
    La ragazza obiettò: “Ci sarà una password”.
    “È il suo nome di battesimo”.
    “E tu come lo sai?” domandò Saveria, d'improvviso infastidita.
    “Ah, noi eravamo socie. La password me l'ha detta lei stessa, tempo fa. Sai com'è, a una certa età non si sa mai cosa può capitare...”

    20 dicembre 1953
    “Aceto balsamico”, bofonchiò Aurelio Bruzzone. “Che belin(1) di idea!”
    Rigirò fra le mani il flacone anonimo, senza etichette: l'azienda doveva essere piccola davvero, se non poteva permettersi nemmeno un cartellino con il proprio nome.
    Scrollò le spalle.
    C'erano dei conti fuori posto, aveva altro da pensare, lui. Dimenticò la bottiglia e iniziò a lavorare, per riscuotersi solo quando la segretaria mise dentro la testa: “Cavaliere, se non ha più bisogno di me, io andrei a casa”.
    Lui si tolse gli occhiali e la squadrò disorientato. “Ma che ore si son fatte?”
    “Le sette, cavaliere”, rispose la ragazza.
    “Ah, non me ne ero accorto!” esclamò Bruzzone. “Vai pure. Ci vediamo domattina”. Indicò la montagna di carte sul piano di legno. “Io sistemo ancora due o tre cose di quel casino che mi ha combinato Mario con il Molino Alfieri e poi me ne vado anch'io”.
    Sentì Ada scendere e la porta dell'atrio chiudersi. Gettò uno sguardo ai fogli sulla scrivania ed ebbe un moto di stizza. Ne avrebbe avuto almeno fino alle dieci, se non di più.
    Si alzò e raggiunse la tromba delle scale. “Sergio!”
    Un giovane in divisa comparve quasi subito, salendo i gradini a due a due. “Eccomi, cavaliere!” esclamò, cercando di controllare l'affanno della corsa. “Ha chiamato?”
    Bruzzone annuì. “Devo fermarmi fino a tardi, stasera. Vai alla trattoria dell'Andrea a prendermi la cena”. Aprì il portafoglio, contò i soldi e li tese al ragazzo. “Una pasta al sugo andrà bene”.
    “E basta? Cavaliere, lei mangia troppo poco, se posso permettermi”.
    Aurelio sbuffò. “Fra te e la Ada siete peggio di mia moglie. Dài, prendimi una fettina di arrosto, se ce l'ha”. Fece per rientrare in ufficio, poi si fermò, come ricordando qualcosa. “Ah! Già che ci sei, fatti dare anche un'insalata”.
    Tornò al suo posto e lavorò fino al ritorno di Sergio, che bussò e gli porse il vassoio con i piatti coperti, senza aprire bocca. Tutti sapevano che quando il capo aveva quella faccia, era meglio tacere e dileguarsi alla svelta.
    Bruzzone appoggiò la pasta sulla scrivania e cominciò a mangiare con la sinistra, continuando a spuntare cifre con la destra. Passò alla carne; quando fu la volta dell'insalata si concesse un sorrisetto che aveva l'aria di un ghigno. Ora avrebbe provato l'aceto di quella gnocca.
    Come aveva detto che si chiamava? Ah già, Luciana, ecco.
    “Luciana, Luciana”, canticchiò, mentre il liquido scuro gocciolava sulla verdura. Aveva un odore forte, ma indefinito. Arricciò le narici. Non riusciva a distinguere nessuna spezia particolare. Assaggiò.
    Non aveva nemmeno un sapore troppo caratteristico, l'acidità era troppo marcata e copriva ogni altro aroma.
    “Che schifezza”, borbottò. Però finì lo stesso l'insalata: a buttare via della roba pagata non ci pensava nemmeno. Per l'aceto era diverso, quello lo avevano pagato gli altri: andò in bagno, lo gettò nel water e tirò la catena con una certa soddisfazione. A Parodi non lo avrebbe detto nemmeno sotto tortura.
    “Caro Alfredo, mi sa che te ne intendi più di mussa(2) che di cucina”, sogghignò fra sé.
    Le stoviglie sporche ingombravano la scrivania, adesso. Che rottura di belino! pensò. Si sporse di nuovo sulle scale: “Sergio!”
    Il giovane arrivò di corsa, come sempre. “Mi dica, cavaliere”.
    “Riporta i piatti all'Andrea. E butta questa nella rumenta(3)”. Gli porse la bottiglietta vuota, aspettò che il ragazzo uscisse e tornò al suo tavolo.
    Fu mentre riabbassava la testa sulle carte che il dolore lo colpì.
    Un urto che dallo stomaco risalì in una frazione di secondo al collo, alle spalle, poi dilagò nel ventre. Il respiro gli si troncò nel petto. Un infarto, si disse.
    Si alzò, mosse un passo verso la porta e crollò sul pavimento, scosso da spasmi violenti. “Sergio...” gorgogliò. Un getto amaro gli si riversò fuori dalla bocca, poi un fiotto rosso vivo. E poi un altro, e un altro, un altro ancora, senza il tempo di riprendere fiato.
    Belin cazzo! Mi sto dissanguando.
    Tentò di alzarsi in ginocchio e batté il pugno a terra, ma i colpi erano troppo deboli per richiamare l'attenzione del custode notturno, due piani più giù, sempre se era già rientrato.
    Strisciò fra i coaguli e i resti di cibo, con le viscere accartocciate per le convulsioni. Sentì il calore dell'urina allargarsi sulle cosce.
    La porta. Doveva arrivare alla porta. Un dolore come una fiammata risalì lungo l'esofago, e un liquido nero sgorgò dalla bocca, viscido, sulle mani. Scivolò con la faccia nel vomito.
    Avvertì lo sfintere anale rilasciarsi, ma quando una broda densa gli colò fra le gambe, aveva già perso conoscenza.

    2010
    Dalla finestra spalancata della cucina in casa di Luciana non entrava un filo d'aria. Il tardo pomeriggio aveva ceduto alla notte: i passi, le risate, le chiacchiere e i botta e risposta che risalivano dal carugio si erano diradati, fino a tacere del tutto; ma Saveria non se ne era resa conto.
    La zia aveva raccolto, scannerizzato e suddiviso con cura, pagine e pagine di antichi manuali di alchimia e di chimica. A centinaia.
    Sulle prime, leggendole, la ragazza aveva creduto a una passione come un'altra. C'era chi amava lavorare a maglia e chi giocare al piccolo chimico, tutto qui.
    Eppure, più andava avanti, più sentiva il disagio serpeggiare su per la schiena.
    Un certo Jöns Jakob Berzelius, in un testo del 1838, sentenziava, ben riassumendo quel che a Saveria non quadrava: 'È facilissimo procurarsi l'arsenico...'
    Certo, si disse lei, semplicissimo!
    '...mischiando l'arsenico bianco con la polvere di carbone o con l'olio, e riscaldando il miscuglio in una storta di vetro fino al calore rovente. Il metallo ripristinatosi sublima nella parte superiore della storta...'
    Come fare gli spaghetti.
    'Ma il miglior mezzo per ottenerlo consiste', continuava il tipo, 'a mischiare una parte di arsenico bianco con tre di flusso nero, e introdurre il tutto in un crogiuolo di Hesse, sul quale si rovescia un altro crogiuolo...'
    Seguiva una descrizione, dettagliata ma incomprensibile, delle posizioni in cui andavano sistemati i vari crogioli e della procedura di lavorazione. Il tizio sosteneva che alla fine si sarebbe ricavato arsenico puro.
    Arsenico, arsenico, sempre e solo quello: Luciana aveva estrapolato e copiato, in una cartella a parte, tutto ciò che riguardava i procedimenti per ottenerlo, senza neppure criptare la directory in qualche modo.
    Saveria smise di leggere e si massaggiò la fronte.
    La testa le doleva. Non doveva essere solo per essersi concentrata sullo schermo, anche se spesso la definizione delle immagini non era granché.
    Era per la domanda. Che cosa c'entrava la sua vecchietta con il veleno? Tentò di mettere a tacere la risposta scomoda che le ballava dentro, si disse che il fatto che gli occhi di Lucianetta ti rovistassero più di quanto fosse conveniente, non doveva per forza significare che ammazzasse la gente.
    Eppure, qualcosa continuava a ripeterle che non tornava. Non tornava affatto. Perché non c'erano altri argomenti riportati in cartelle separate, né evidenziati in qualsiasi modo?
    E, soprattutto, a quali pidocchi si era riferita Lorenza, quel pomeriggio? A quale disinfestazione? Il lampo gelido che era transitato sul viso di lei era più inquietante del fatto di aver trovato quei files. O, forse, i documenti l'avevano turbata per via dello sguardo e della frase della Pastorino.
    O entrambe le cose.
    Aprì, distratta, la copia successiva: 'Flusso nero: prendendo il nitro ed il tartaro, in altre proporzioni, cioè a parti eguali, rimane una certa quantità di carbone nel sottocarbonato potassico, per cui il flusso mantienesi nero. Questo ha la proprietà di disossidare gli ossidi metallici...'
    Beh, almeno adesso aveva una seppur vaga idea di cosa fosse il flusso nero, per quello che poteva valere, ma nessun'altra risposta.
    E lei, ora, doveva a ogni costo sapere.


    Autunno 1944
    L'uomo dalle maniche rimboccate sollevò un sopracciglio. “Di meno non posso farti”.
    Agostino rifletté qualche attimo. “Mi sta bene”, annuì, “Verranno in otto da Genova. Appena loro arriveranno qui a Novi, ti porterò le cinque galline, così sei pagato in anticipo. Ma tu vedi di non fare il furbo: i patti sono patti”.
    L'altro si guardò attorno nervoso e spostò il peso da un piede all'altro. “Va bene, va bene. Ma adesso son le tre passate. Cerchiamo di darci una mossa”.
    Anche Luciana fremeva. Era troppo tempo che se ne stavano lì. D'accordo, i fascisti sapevano che molti genovesi salivano fino a Novi perché, alla borsa nera, il pane era più a buon mercato. La piazza della stazione era piena di gente impegnata in trattative e i veterani chiudevano un occhio, vista la percentuale che riscuotevano sugli affari conclusi; ma un colpo di testa di qualche recluta zelante non era mai da escludersi, e una perquisizione significava per loro due la fucilazione. Per ora solo un giovanotto, in camicia nera e pantaloni al ginocchio, le aveva sorriso, con più boria che galanteria. Lei aveva sentito la pistola nascosta sotto il golfino farsi pesante, ma aveva sorriso a sua volta, civettuola, sbattendo le ciglia e reclinando la testa sulla spalla.
    Se Agostino se ne fosse accorto avrebbe scatenato un putiferio, testa calda com'era, ma per fortuna era impegnato con il fornaio.
    Udì il suo uomo chiedere: “Cosa c'entra se son le tre?”
    “Belin! Alle quattro arriva il Pippo!”
    “E chi sarebbe questo Pippo?” sogghignò Agostino.
    “Uno che tira bombe”.
    Il ragazzo lo degnò di uno sguardo di compatimento: “Sì. A orario fisso, come le supposte”.
    L'uomo fece spallucce. “Comunque io me ne vado”. Gli tese la mano per suggellare il patto e Agostino la strinse.
    “Siamo d'accordo allora”.
    “D'accordo, d'accordo, ma ora fammi andare”.
    “Che idiota”, commentò il giovane, appena il tipo si fu allontanato.
    “Non saprei, Tino. Il Pippo c'è davvero. L'ho visto diverse volte”, obiettò Luciana. “Non è che faccia tanti danni, di solito, ma son sempre bombe”.
    “Va bene, dài, finiamo e andiamo”.
    “Non possiamo andarcene subito?” Preoccupata, la ragazza guardò il cielo. “Non senti un motore?”
    “Sì”, annuì lui, serio, osservando la gente che si allontanava in fretta. “Ma Marco mi ha detto che mi avrebbe dato il permesso di venire a Novi per i miei solo se fossi passato dal padre del Falco”.
    “Credevo che lo sapesse già, che a Pertuso suo figlio è caduto”.
    “No. Glielo diciamo noi dopo. Adesso troviamo un riparo”.
    Il rombo del motore saturò l'aria, e tutti cominciarono a correre.
    “Belin! Vieni via!” Agostino la trascinò sotto il portico e la spinse in un angolo.
    L'aereo sorvolò la ferrovia per un breve tratto e sganciò una bomba. A Luciana mancò il respiro per il contraccolpo e si strinse al giovane.
    Pippo descrisse dei cerchi sopra di loro, sempre più ampi. Quando iniziò ad allontanarsi, la gente cominciò a lasciare i rifugi di fortuna, ridendo sollevata, e il ragazzo si alzò in piedi. “Tutto qui?” sogghignò e uscì allo scoperto.
    Lei era ancora accucciata con le spalle al muro. “È il Pippo”, disse, come se quella spiegazione fosse sufficiente.
    All'improvviso udirono il motore riavvicinarsi: il rombo si fece più profondo mentre l'aereo virava, poi vi fu un sibilo. Subito dopo, una forza immane scaraventò Luciana a terra e il suolo tremò. Poi, un silenzio irreale.
    Quando la polvere si diradò, Agostino non era più lì accanto.
    Scossa dalla tosse, si rialzò.
    “Tino!” chiamò. Inciampò in una gamba con la scarpa ancora sul piede, l'osso che spuntava come un manico scheggiato; i pantaloni non erano quelli di Agostino.
    L'ordigno era caduto nel bel mezzo della piazza, dappertutto c'erano sangue, macerie, e brandelli di carne. Luciana vedeva la gente correre e urlare, ma non udiva nulla.
    “Tino!”
    Il busto di una donna pendeva da un balcone con le budella fino a terra.
    Luciana brancolò, urtando sconosciuti fra la puzza di bruciato e la polvere.
    “Tino! Tino!”
    Infine lo vide.
    La deflagrazione lo aveva scagliato contro un muro a una decina di metri. Il capo pendeva sul petto, da cui sbucavano le costole spezzate, come un rastrello fra le escrescenze rosse delle viscere. Braccia e gambe parevano buttate a casaccio ai lati del corpo: non sembravano nemmeno roba sua.

    2010
    “Cosa c'entra l'arsenico con mia zia?”
    Saveria si era precipitata a casa di Lorenza Pastorino non appena le era parsa un'ora decente, ma era pur sempre un buon quarto d'ora prima delle otto. Nonostante questo, l'anziana signora, composta e pettinata, pareva che la stesse aspettando; guardò il minuscolo orologio da polso. “Potremmo essere da Bacigalupo appena avrà aperto il negozio”, annuì.
    “Ferma tutto!” Saveria alzò una mano. “Ti dispiacerebbe spiegarti? Intanto, chi è questo Bacigalupo?”
    “È la persona che risponderà alla tua domanda”.
    Lei scosse il capo, seccata. “Non sono in vena di giocare alla caccia al tesoro! Rispondimi tu e finiamola qui”
    Lorenza sospirò. “Senti, non dipende da me. Lucianetta mi ha lasciato disposizioni ben precise”.
    “Ma Lucianetta non è più qui!”
    “Le promesse fatti ai morti vanno mantenute”, si scandalizzò la Pastorino. “I molti passaggi facevano parte del suo modo di lavorare, li trovava normali. Se ti dicessi io, al primo gradino, quello che vuoi sapere, lei non ne sarebbe contenta”.
    Saveria non nascose il disappunto. “Purché questi gradini non siano troppi”.

    A Sottoripa, fra i chioschi del kebab e i banchi del pesce che si sporgevano fin sulle lastre del selciato, né Pietro Bacigalupo né il suo negozio passavano inosservati.
    Il locale, largo e stretto, non aveva una vera porta ma si apriva sul passaggio pedonale, con gli stipiti, l'architrave e le pareti ingombri di oggetti appesi, assortiti senza una logica apparente. Borse, scarpe, ninnoli, borracce, foulard, berretti, magliette, portachiavi, orologi, mappe della città. Agende e quaderni erano impilati sul pavimento, accanto a scatole di bicchieri e di tazzine da caffè che minacciavano a ogni momento di rovinare al suolo, travolgendo le saponette e i flaconi di detersivo. In un angolo, su grossi ganci di ferro che pendevano dal soffitto, erano disposte alcune matasse di cima da imbarcazioni e varie collane di galleggianti da rete da pesca. Pareva che qualsiasi cosa uno avesse cercato, lì lo avrebbe trovato. Come poi facesse Bacigalupo a orientarsi, non era dato sapere.
    “Lei è Saveria, la nipote della Lucianetta”.
    Lorenza aveva rivolto appena un cenno di saluto al vecchio monumentale, seduto su uno sgabello al centro del suo bazar, prima di presentarla.
    Pietro sollevò prima due occhi grigi e poi la propria mole, avvicinandosi senza una parola.
    Le spalle, larghe e niente affatto curve, suggerivano una forza che in altri tempi doveva essere stata notevole. Non sembrava avere un filo di grasso sotto la maglietta a righe bianche e blu che indossava sopra un paio di jeans stinti.
    La voce della pescivendola all'angolo rotolò fino a loro: “Anciüe! Anciüe ! Anciüe vive! Anciüe! Dai che saltan ancu-nn!(4)”
    “Ti n'te s'mii alla Lucianetta(5)”, fu la sentenza che il vecchio lasciò cadere dall'alto dei suoi due metri buoni.
    Lei non vedeva per quale motivo avrebbe dovuto assomigliarle, ma non commentò.
    “Lupo”, disse la Pastorino. “Ha visto il laboratorio”.
    L'uomo annuì, con aria grave. “Catémuse dui panissette e annémmu fino a o ponte de chiatte che o g'han misso là 'n sima(6)”. Indicò un punto verso la massa dipinta d'azzurro dell'Acquario, che la ragazza sapeva trovarsi laggiù, oltre i piloni della Sopraelevata.
    Saveria era ghiotta di panissette, le listarelle di farina di ceci fritte nell'olio bollente ma, con quel caldo, la prospettiva di trovarsene davanti un cartoccio fumante non l'allettava per niente. Tuttavia tacque. Certo Pietro le aveva proposte come in altre circostanze si offre il caffè.
    “Malik!” chiamò il vecchio. Un bel giovane dalla pelle d'ebano e dai capelli a treccine, seduto a terra con la schiena appoggiata a una colonna poco lontano, alzò la testa dal suo lavoro. Rammendava una rete da pesca, sotto la supervisione di un anziano dalle braccia e il collo ricoperti di tatuaggi. “Malik, bada alla bottega mentre io accompagno queste du' belle figgie(7)”.
    Il ragazzo annuì, e il lampo candido del sorriso che le indirizzò, lusingò Saveria, che rispose allo stesso modo.
    “Malik l'è un brav' fiœû(8)”, spiegò lui, avviandosi in direzione della friggitoria storica.
    La cantilena strascicata della pescivendola, amplificata dal portico, rimbalzò ancora dalle bancarelle dei pakistani a quelle dei cinesi, fino alla rosticceria in cui i fumi degli incensi si mescolavano con l'odore di frittura.
    “Giua', due pacchetti di panissa”, ordinò Pietro; poi trasse un lungo respiro. “Lucianetta Marcenaro. L'ho conosciuta nel '44”.
    L'aveva presa alla lontana. Si sarebbe andati per le lunghe di questo passo e Saveria fremeva, ma per educazione non disse nulla.
    “Devo ripassare un attimo dal negozio”, accennò Bacigalupo, pagando.
    Solo quando lui chiamò Malik e gli tese uno dei cartocci che teneva in mano, la ragazza comprese il motivo di tutta la manovra. “Ti fanno piacere due panissette? Si son sbagliati, ce ne hanno dato un pacchetto in più. Queste ci crescono”.
    “Grazie, Lupo”. Malik, il bel volto raggiante, accanto a quel colosso sembrava un bambino. “Me le metto da parte per dopo. Ora è presto”.
    “Fai come credi, io te le lascio”. Bacigalupo gli scrollò una spalla con un gesto di burbero affetto e gli assestò una pacca sulla nuca. “Torna a guardarmi bottega, vah!”
    Il ragazzo rise e rientrò nel bazar, dove si era trasferito per continuare il suo lavoro.
    “Dev'essere da ieri a mezzogiorno che non mangia”, spiegò l'uomo, mentre si incamminavano verso il galeone dei Pirati di Roman Polansky ancorato oltre piazza Caricamento, con il suo Nettuno bianco sulla polena. La nave usata nel film se ne stava da anni a fare ombra agli ambulanti senegalesi, seduti sulla ringhiera, e alla loro merce esposta sugli scatoloni e sulle lenzuola a terra. “Però se avessi preso qualcosa solo per lui si sarebbe offeso. Ora ci tocca mangiar panissa alle dieci del mattino”, concluse, fingendo rassegnazione.
    Portò alla bocca alcune delle listarelle calde e si leccò il sale dalle dita. “Per badarmi al negozio gli dò qualche euro. Non è che si guadagni da fare la bella vita, sul peschereccio del Giancarlino Sommariva”.
    “Lavora per il Gian?” si stupì la Pastorino. “Ma se ho sentito che si è indebitato per mandare avanti l'attività!”
    “Hai sentito bene. Con Cadenasso. Peggio di una martellata sul belino”.
    “Ernesto Cadenasso?” esclamò lei. “È ancora vivo?”.
    “Purtroppo. Ed è ancora fetente come da giovane, con i suoi novant'anni e passa. Si prende quasi tutto quello che riescono a tirare su spaccandosi la schiena su quella barca. Il Gian non ha quasi più da pagare i lavoranti. Tiene Malik perché è un bravo ragazzo e gli si è affezionato, ma a volte riesce a dargli solo il pesce invenduto”.
    “Ma perché con Cadenasso?” Lorenza sembrava non capacitarsene. “Ci sono le banche!”
    “Sì, solo che non ti aiutano se hai già altri debiti e la tua baracca è lì lì per crollare. E allora gente come Cadenasso ci va a nozze”. Strinse i pugni e serrò le mascelle. “Perché Lucianetta non ne voleva più sapere di pidocchi, altrimenti...”
    Saveria sobbalzò. Se aveva fatto di tutto per convincersi che la zia fosse solo un po' eccentrica, ora quella frase non le lasciava più molti dubbi sulla sua vera attività. Tuttavia dovette adeguarsi al silenzio rabbioso di Bacigalupo, che non aprì bocca per tutta la calata De Andrè, fino al molo di chiatte di Renzo Piano, ormeggiato in fondo a quella lingua di cemento protesa nel porto.
    Lorenza sedette su una delle panchine che davano verso la Lanterna. Abbarbicato sul suo ammasso di roccia, circondata da navi da crociera e traghetti, il faro grigio voltava indifferente le spalle alla città, come un anacoreta vissuto troppo a lungo nel deserto. Tempo e vento gli scorrevano attorno da sempre, lasciandolo immobile e uguale a se stesso, e non lo scalfivano bonaccia o tempesta, guerra o pace, lacrime o risa.
    Saveria e il vecchio sedettero accanto all'anziana donna. Il mare era tutto un riverbero di scaglie di luce, da far dolere gli occhi, mentre attorno alla piazza galleggiante i gabbiani tracciavano in volo le loro rotte candide.
    “Avevo un fratello, Agostino”, esordì infine l'uomo. “Eravamo cresciuti facendo i Balilla, come tutti, perché si era costretti; ma i nostri genitori ci insegnavano cose che a scuola e durante i Sabati Fascisti non ti dicevano di sicuro. Per farla breve, anche se l'Otto Settembre né io né Agostino avevamo ancora compiuto i diciassette anni, andammo con i cugini più grandi nella Brigata Garibaldi”.
    Un partigiano! pensò Saveria. La piazza cigolava come il fasciame di una nave. Un gabbiano si posò sulla balaustra di fronte a loro, e Bacigalupo gli gettò un pezzetto di panissa; lo osservò volare fino al rettangolino giallo, becchettarlo e spiccare il volo verso il largo. Solo allora riprese.
    “I primi mesi ci usavano come staffette o come portaordini, ma poi, siccome c'era bisogno di combattenti, ci insegnarono a sparare e ci mandarono in battaglia con i vecchi. Li chiamavamo vecchi, ma era gente di vent'anni. Roba che adesso non sanno cambiarsi neanche le mutande da soli”. I suoi occhi grigi si piantarono in quelli neri della ragazza. “Una volta la nostra divisione diede l'assalto a un convoglio di armi tedesche e dopo pochi giorni arrivò l'ordine di trasferirsi in Piemonte, a Pertuso. Là c'erano stati tre giorni di battaglia e i compagni si erano ritirati perché avevano finito le munizioni. Noi ci eravamo appena prese quelle dei crucchi, e così il comandante Marco ci aveva mandati a chiamare. I feriti erano molti, servivano uomini validi”. Bacigalupo sorrise: “Fu a Pertuso che conoscemmo Lorenza e Luciana”.
    “Venivamo da Novi”, spiegò la Pastorino. “Di solito facevamo le staffette, ma quella volta ci eravamo fermate là con le altre ragazze, per curare i feriti. Fra Luciana e Agostino fu amore a prima vista”.
    “La Lucianetta l'era la ciû bella figgia d'Neuve(9)”.
    Questa, a Saveria giungeva nuova: suo padre non le aveva mai detto di questa fama giovanile della zia, ma il vecchio si era illuminato tutto, nel dirlo. Doveva essere vero.
    “Un giorno, Marco mandò Agostino a Genova a contattare dei compagni, e lui cercò anche di mio padre e mia madre. Li trovò che non sembravano più loro”.
    La ragazza trattenne il fiato.
    “Hai mai sentito parlare di Aurelio Bruzzone?” domandò lui a bruciapelo.
    “Non può averne sentito parlare, Lupo”, intervenne Lorenza. “È troppo giovane”.
    “Aurelio Bruzzone era un fascista che aveva un piccolo panificio. All'inizio distribuiva il pane con la tessera, finchè scoprì la borsa nera. Per un po' si adeguò ai prezzi di mercato, ma presto cominciò ad alzarli. Agli altri fornai, se non diventavano suoi soci, mandava le Camicie Nere ad ammazzarli o farli scappare. A Genova rimase praticamente solo lui, a fare il bello e il cattivo tempo. Se gli davi una coperta, potevi portarti a casa due etti di pane. Con tre coperte stavi tranquillo due giorni. Per un anello d'oro, i primi tempi mangiavi una settimana. Poi alzò ancora i prezzi ma se volevi il pane dovevi andare da lui. I poveracci si arrangiavano; gatti, in giro, non ne vedevi da un pezzo, e bestie a quattro zampe non ce n'erano più. A due zampe sì”. Saveria avrebbe giurato di vedere brillare qualcosa negli occhi grigi del vecchio. “Bastardi come Bruzzone. Quando Agostino arrivò, i miei gli dissero che stavano andando a portare a quel porco le loro fedi di nozze”. Lo sguardo era duro e la voce ferma, vibrante di un odio che gli anni non avevano smorzato. “Gli aveva anticipato pane per una settimana, e ci avevano mangiato in otto con mezzo chilo al giorno, ma ormai non c'era più niente da dargli”.
    Bacigalupo strinse i pugni.
    “Agostino divenne una belva. Urlava che voleva andare là e ammazzarlo, quel fetente; ma mia madre gli si attaccò al collo, piangendo. Lui si circondava di Camicie Nere, disse, era pericoloso. Gli raccontò di aver sentito che a Novi i prezzi erano più bassi. Lo convinse ad andare a verificare, e se poi fosse stato vero, sarebbero sfollati là”.
    Pietro ansimava, adesso. Si passò le mani enormi fra i radi capelli bianchi e cercò di riprendersi un poco. “Sai chi era il Pippo?”
    Saveria scosse la testa.
    Mentre il rollio della piattaforma di legno li cullava, l'uomo continuò: “Il Pippo è quello che ha ammazzato mè frè(10)”. Strano a dirsi, questa volta non c'era astio nel suo tono.
    “Un fascista?” chiese la ragazza.
    Lui scosse il capo. “Tutti i pomeriggi fra le quattro e le cinque, un aereo alleato volava su Novi e sulle città vicine. Colpiva le centrali elettriche, le fabbriche, la ferrovia che univa il porto di Genova a Milano, ma di rado le case. Lo chiamavano il Pippo, così, per scherzo. Era quasi svogliato nel suo lavoro: buttava una o due bombe e se ne volava via. Tutti sapevano che ora arrivava e con calma se ne andavano verso la campagna. Quando Pippo finiva, tornavano in città a contare i danni, ma non era mai niente di serio”.
    “E Agostino?”
    “Un giorno era a Novi, a trattare il prezzo del pane per i miei, e il Pippo sganciò una bomba di troppo. Sulle case. Non lo faceva mai: quella volta la gente pensava che avesse finito come suo solito, ed erano usciti allo scoperto. Fu una strage”.
    Tacque. Saveria capì che quelle parole scarne contenevano più dolore di quanto lasciassero trasparire.
    “Luciana da quel giorno non fu più lei”, riprese Pietro. “Divenne fredda, distaccata. Non sorrideva più, non scherzava più. Non si sposò mai, e solo quando parlava di mio fratello il suo sguardo si ammorbidiva. Perché sai, i suoi occhi avevano cominciato a scavarti dentro come se tu fossi sempre in difetto”.
    “Lo so”, annuì Saveria. “Da piccola ne ero terrorizzata”.
    “Concepì un odio implacabile verso Aurelio Bruzzone”, disse ancora il vecchio. “Lo riteneva il vero responsabile della morte di Agostino. Lui, nel frattempo, dal poco che aveva nel '39, il Venticinque Aprile si trovò ricco sfondato. Con l'aiuto delle persone giuste fece dimenticare i suoi trascorsi fascisti, e nel Dopoguerra avviò una serie di attività commerciali, ma tutti sapevamo dove aveva preso i soldi per iniziare. Lucianetta nel frattempo era venuta ad abitare a Genova, e vedere la sua insegna sui cartelli pubblicitari le ricordava ogni volta quel giorno a Novi: poi, il Natale del '53, gli regalò quello che si meritava”.

    “Lucianetta era furba, sapeva il fatto suo”. Lorenza, davanti a una tazzina di caffè nella sua casa ordinata, cuciva i pezzi mancanti di quella storia.
    “Quanti ?” esclamò Saveria, incredula. “Ripetilo, non ci posso credere”.
    “Sì, una trentina. Il primo dopo Bruzzone fu un prete che aveva consegnato tre famiglie ebree della sua parrocchia. Poi io le suggerii di cominciare a farlo su commissione”.
    La ragazza rimase a bocca aperta. “Tu?” chiese, quasi ammirata.
    “Sì, certo. Perché?”
    “No, dicevo così...”
    “Ci pensò su, poi decise di provare”, riprese l'anziana. “Rifiutò sempre di essere pagata per il suo lavoro. Era una missione, per lei. Noi amici eravamo la sua rete di protezione. Le trovavamo i clienti, che dovevano passare attraverso due o tre di noi: non sapevano i nostri nomi, non li incontravamo mai nello stesso posto, e non venivano in nessun caso in contatto diretto con lei. Le ordinazioni le raccoglieva Bacigalupo, con il negozio era facile e non dava molto nell'occhio. Era appena garzone allora, ma spesso il padrone lo lasciava da solo a gestire tutto; non sospettò mai nulla, Pietro stava molto attento, e poi nei carugi nessuno guarda quello che fanno gli altri. Quando rilevò il negozio, però, tutto divenne più facile”.
    La donna prese un sorso dalla tazzina: “Comunque, lei non accettava tutti i lavori. Li selezionava con cura: cravattari, stupratori, un padre che abusò della figlia dai quattro anni in su...”
    “Pidocchi, insomma”.
    “Esatto”, annuì l'altra. “Lucianetta andò ad abitare nei vicoli, invece. Amava la loro gente, il loro odore, la loro vita che ti respira dentro, diceva sempre. Negli anni Ottanta però l'attività divenne rischiosa, i controlli sulle morti sospette si erano fatti frequenti, e non ce la sentimmo di continuare. Ci ritirammo dal mercato, per così dire”.

    Saveria, dal salotto della zia, ascoltava il carugio; era vero, erano l'anima e il cuore vivo di Genova che pulsavano in quelle voci e in quei suoni. Erano la sua vita che ti respirava dentro.
    Presso il portone, un africano chiacchierava con un vecchio: l'intercalare belin, pronunciato con accento foresto(11), inframmezzava il flusso di parole che la raggiungevano dalla finestra aperta.
    Poco prima, quando era arrivata a casa le aveva sorriso, nel suo caffetano multicolore sotto il copricapo in tinta, dal tavolino su cui aveva disposto frutti allungati, bottiglie colme di un liquido rossastro, verdure dalle forme mai viste.
    L'uomo che conversava con quella specie di sciamano aveva un che di familiare. Forse abitava lì vicino, poteva averlo incrociato al supermercato all'angolo, fra le indù dalla pelle scura, con il sari avvolto attorno al capo e alle spalle e i bolli rossi in fronte, e le islamiche nel loro velo castigato. Esibiva un paio di braccia e un collo tatuati a sirenette e ancore che non passavano inosservati. Saveria archiviò la cosa con un'alzata di spalle, e la sua mente prese tutt'altra direzione, mentre rileggeva per la terza volta il file sulla chiavetta USB che Lorenza le aveva consegnato.
    Era una sorta di memoriale, in cui la zia le raccontava di aver scoperto che, nella Palermo del '700, una donna uccideva su commissione, utilizzando una mistura di aceto e arsenico che a quei tempi era di uso comune contro i pidocchi.
    Mesi dopo, aveva letto per caso che gli antichi alchimisti utilizzavano talvolta l'arsenico.
    Allora, l'idea di seguire le orme della palermitana era diventata un'ossessione.
    Nei vicoli, nel fiume carsico di un commercio sotterraneo che scorreva da sempre, se conoscevi le persone giuste, potevi trovare di tutto e nessuno lo avrebbe mai saputo. Era stato tramite queste persone che si era procurata le atterzzature e le materie prime per sublimare l'arsenico, e aveva anche saputo i nomi dei fornitori di Bruzzone.
    Saveria, a questo passaggio, aveva pensato a un adagio che si usava anche a Novi, per indicare un luogo fornito di ogni ben di Dio: gh'è de tutto com'a Zena, c'è di tutto come a Genova.
    Nonostante ciò, l'arsenico puro non lo aveva trovato, così era diventata l'amante di un giovane chimico: si fingeva interessata al suo lavoro e al laboratorio, si faceva spiegare i trucchi del mestiere e le procedure di lavorazione.
    I libri, su cui studiava giorno e notte, li aveva avuti grazie a una bibliotecaria che aveva avvicinato apposta, guadagnandosi poco a poco la sua fiducia. La donna, ignara dell'uso che Luciana ne faceva, in buona fede le passava le copie di tutto quel che trovava negli archivi di mezza Italia, credendola appassionata di antichi manuali di alchimia. All'inizio le trascrizioni erano fatte a mano, poi avevano inventato le fotocopiatrici ed era stato più facile, ma la vera svolta si era avuta con l'avvento dell'informatica: allora era diventato quasi un gioco, ma ormai più era una passione a sé stante che una necessità, perché quel che le serviva davvero lo aveva trovato quasi subito.
    Molti dei primi esperimenti erano falliti, poi aveva cominciato a migliorare, fino al grande giorno in cui aveva portato quella bottiglietta ad Aurelio Bruzzone.
    Leggere, sui giornali dell'indomani, che l'imprenditore era morto per un'ulcera perforata, era stato il suo vero trionfo: Agostino era vendicato, e non c'era alcun sospetto di omicidio.
    Il pidocchio era stato schiacciato.
    Luciana aveva messo in conto un certo margine di errore: qualcuno avrebbe potuto usare la micidiale mistura invece di lui, o oltre a lui, anche se tutti sapevano che non aveva mai condiviso un dono con chicchessia. Inoltre lei aveva studiato a lungo i suoi orari, e aveva notato che spesso Bruzzone si fermava a mangiare in ufficio, era facile che lui lasciasse lì la bottiglia e non coinvolgesse moglie e figli. Aveva deciso di rischiare e agito in fretta, durante una delle tante commissioni che il capo assegnava alla segretaria.
    Le era andata bene.
    Ora sarebbe stata anche disposta a passare il resto della sua vita in galera, ma non era stato necessario.
    D'accordo, tutto quadrava, ma Lucianetta non aveva dedicato una sola parola al fine che si proponeva, coinvolgendo la nipote. Avrebbe potuto dire “cara Saveria, voglio che tu sappia perché...” E invece niente, vuoto, nulla di nulla.
    La vecchina un po' misantropa e i suoi eccentrici amici si erano rivelati, senza alcun preavviso, una banda di killer spietati.
    È vero, era stata lei stessa a insistere per sapere tutto, ma se ne era già pentita. Forse sarebbe stato meglio restare all'oscuro.
    Adesso sentiva solo un gran bisogno di riordinare le idee; tanto, indietro, non si poteva tornare.
    Gli attrezzi di laboratorio li avrebbe donati a qualche scuola e il computer lo avrebbe tenuto come ricordo. Era l'unica decisione che aveva preso.
    Per il resto, non aveva la minima idea di come gestire la cosa. Guardò il pavimento di graniglia dai decori colorati agli angoli, come a trovarvi ispirazione, e registrò distratta che l'africano sotto la finestra ora taceva. Subito dopo, qualcuno suonò il campanello.
    Si affacciò. Stupita, vide il vecchio tatuato che aspettava vicino al citofono.
    “Ha bisogno?” domandò.
    “Lei è la nipote della Lucianetta Marcenaro?” chiese lui per tutta risposta.
    Saveria annuì. Aprì e lo attese perplessa sulla porta.
    “Mi chiamo Giancarlo Sommariva”.
    L'anziano che insegnava a Malik a rammendare le reti! Ecco dove lo aveva visto!
    “Ho un lavoro da proporle”.
    “Temo che ci sia un equivoco, signor Sommariva. Io ho già un lavoro, mi spiace”.
    “Senta”, disse lui, deciso. “Son due ore che sto qui sotto. Hasani ha attaccato bottone ma non ho smesso un attimo di pensarci su. Anzi, veramente ci sto pensando da quando Lupo mi ha detto che lei è... chi è. Ora che ho fatto le scale, almeno mi ascolti”.
    “Mi dica”, si rassegnò Saveria con un sospiro.
    “La Lucianetta, buonanima, avrebbe drizzato le antenne senza tutte queste storie”, commentò l'uomo con aria di vago rimprovero. Poi sparò a bruciapelo: “Ha mai sentito parlare di Ernesto Cadenasso?”



    (1) Cazzo
    (2) Figa
    (3) Spazzatura
    (4) Acciughe! Acciughe! Acciughe vive! Dai che saltano ancora!
    (5) Non assomigli alla Lucianetta
    (6) Compriamoci due panissette e andiamo fino al ponte di chiatte che hanno messo laggiù
    (7) Due belle ragazze
    (8) Malik è un bravo ragazzo
    (9) La Lucianetta era la più bella ragazza di Novi
    (10) Mio fratello
    (11) Forestiero

    Edited by federica68 - 18/2/2011, 22:02
     
    .
  2. Fini Tocchi Alati
     
    .

    User deleted


    A suo modo epico.
    SPOILER (click to view)
    Molto interessante e, naturalmente, assai ben scritto.
    Però l'ho trovato anche un po' lento e "pesante" in alcuni punti, forse perché tutto è molto raccontato, nel senso che le rivelazioni sono affidate ai racconti dei due vecchi e, anche se importanti, non hanno avuto l'effetto che mi sarei aspettato.
    Poi, credo che manchi qualcosa (eh! Ho già letto quanti tagli sei stata costretta a fare...), una sorta di congiunzione tra gli eventi passati e quelli presenti, e forse qualcosa che equilibri il passato e il presente.
    In effetti, mi è parso che gli avvenimenti passati siano pillole o poco più e mi viene da pensare che i tagli maggiori abbiano interessato queste parti.
    Da ciò deriva un disequilibrio, con il presente (fatto di ricordi) che pesa inevitabilmente più del passato (fatto invece di azioni). E da qui, probabilmente, quella sensazione di lentezza di cui ti dicevo.
    Dal punto di vista della storia, mi sembra che non ci siano buchi. L'unica perplessità riguarda il fatto che la vecchia e i suoi terribili compagni abbiano potuto uccidere così tante persone (anche abbastanza importanti, credo) e passarla sempre liscia.

    In definitiva, il mio voto è 3.
     
    .
  3. ~ValeriaNitto~
     
    .

    User deleted


    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    avrò occasione rifornirmi da lui più spesso

    manca un "di"?
    CITAZIONE
    “Perché non hai ignorato il biglietto?”
    “Non saprei. Mi dispiaceva farlo”.

    mi sembra una domanda superflua

    CITAZIONE
    conti fuori posto

    ??

    questo ciò che ho notato :-)
    mi sono un po' persa con questi salti temporali e ho dovuto rileggere più volte.
    Per questo motivo il voto è 2
     
    .
  4. federica68
     
    .

    User deleted


    grazie a entrambi

    @ Attilio: sì in effetti era la mia perplessità. Sulle prime infatti la vecchia uccideva solo nel dopoguerra, quando i controlli erano minori (c'era il casino della ricostruzione, l'aministia togliatti, i tribunali erano intasati di criminali di guerra, la polizia aveva altro da pensare, ecc ecc) e le tecniche per rilevare gli avvelenamenti erano meno sofisticate

    l'escamotage che ho trovato, (farle ammazzare circa una persona all'anno e smettere negli anni 80 visto che non poteva stare in inattività dagli anni 50 alla morte senza che dovesse succedere qualcosa per movimentare il racconto), allora mi sa che non è efficace...

    trovi che sia inefficace, detto francamente:
    È un punto su cui mi sono confrontata con Alberto, e in effetti lui mi aveva dato un altro suggerimento, se così non gira provo con la sua idea


    ah le persone non erano necessariamente importanti, il criterio era che fossero pidocchi :-)

    sì i tagli hanno avuto la loro influenza temo :-(
     
    .
  5. Fini Tocchi Alati
     
    .

    User deleted


    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE (federica68 @ 2/2/2011, 14:09) 
    l'escamotage che ho trovato, (farle ammazzare circa una persona all'anno e smettere negli anni 80 visto che non poteva stare in inattività dagli anni 50 alla morte senza che dovesse succedere qualcosa per movimentare il racconto), allora mi sa che non è efficace...

    trovi che sia inefficace, detto francamente:
    È un punto su cui mi sono confrontata con Alberto, e in effetti lui mi aveva dato un altro suggerimento, se così non gira provo con la sua idea

    Fede, in realtà ci sta quello che dici. Magari dovresti marcarlo di più anche nel racconto. Far capire in qualche modo perché la vecchina e i suoi complice l'hanno sempre fatta franca. Magari, potresti raccontare che, per i primi anni, la loro "attività" era più intensa poroprio perché era più difficile incastrarli, perché si pensava alla ricostruzione, eccetera. Poi, quando sono andati vicini dall'essere scoperti, hanno preferito "razionare" le commissioni.

    Qual era, invece, la soluzione di Alberto?

     
    .
  6. federica68
     
    .

    User deleted


    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE (Fini Tocchi Alati @ 2/2/2011, 19:34) 
    Qual era, invece, la soluzione di Alberto?

    Alby suggeriva di fare in modo che la vecchina avesse agito solo nel dopoguerra e che poi i vecchi avessero tenuto tutto nascosto per 50 anni perchè erano complici (una specie di patto di sangue fra loro)

     
    .
  7. Magister Ludus
     
    .

    User deleted


    La storia procede bene e si alterna altrettanto bene fra i vari passaggi temporali. L'interesse nella lettura non è calato, anche se in alcuni punti non è stato veloce.

    Però è una buona storia. Il mio voto è un 3 pieno.

    Le mie segnalazoioni:

    avrò occasione rifornirmi da lui più spesso: ci vuole un “di” dopo occasione

    per incamminarsi nella babilonia di favelle e le prostitute di ogni colore appoggiate agli stipiti o sedute sulle soglie, nei carugi che intersecavano via Pre: le prostitute come si inseriscono nella frase?

    Voleva che tu sapessi tutto. Attendevo da tempo questa visita, ma ormai pensavo che non saresti più venuta”: mancano le virgole all'inizio

    Scannerizzato: quanto odio questa parola :)
    A voler essere pignoli uno scanner scandisce, non scansiona né scannerizza :P

    Le promesse fatti: refuso

    Pietro sollevò prima due occhi grigi: chi è Pietro? Perché prima hai introdotto solo il cognome.

    finchè: refuso

    atterzzature: refuso
     
    .
  8. Selene B.
     
    .

    User deleted


    Molto bella l'ambientazione, scritto bene (ma su questo non ci piove). La storia in sè invece non mi ha convinto, l'ho trovata lenta e in alcuni punti noiosetta da seguire. Secondo me questo è troppo lungo per essere un racconto e troppo corto per essere un romanzo (magari un romanzo breve). Si vede che in certi punti ti dilunghi un po' troppo per l'economia del racconto così com'è (descrizioni, divagazioni, etc), in altri punti invece hai delle accelerazioni brusche (tipo quando fai fare lo "spiegone" finale al computer della buonanima) e si vede che vuoi dire tutto, troppo direttamente. Per quel che vale il mio giudizio (io faccio fatica a leggere sul pc qualsiasi cosa che vada oltre le 15.000 battute), io l'avrei accorciato, rivedendo l'equilibrio interno delle parti, oppure l'avrei allungato ancora e ne avrei fatto un mezzo romanzo, concedendomi di aggiungere ancora qualcosa sulla defunta e sui suoi "pidocchi". Voto: boh, è oggettivamente un racconto "pregevole", anche se non mi ha preso affatto la lettura. Ci penso, comunque sto tra il 2 e il 3. Alla fine 3, va, ma lo devi sistemare!
     
    .
  9. federica68
     
    .

    User deleted


    grazie a entrambi
    @Magister: caspita, ma avrò fatto 3000 controlli, compresi controlli ortografici, come ha fatto a sfuggirmi "atterzature" devo ancora capirlo adesso!!! o gli ho dato inavvertitamente l'ok per una convulsione dell'indice sul mouse, oppure sono MOLTO più fulminata di quanto pensassi.
    Propendo per la seconda ipotesi
    :lol: :lol:


    grazie comunque per lo spulcio, ho sistemato le cose che mi hai segnalato, grazie ancora :-)

    ho sistemato anche il punto segnalato da Attilio e ho trovato pure delle sviste nella formattazione dei corsivi, come temevo qualcuno mi era sfuggito...

    grazie a tutti per ora :-)

    Edited by federica68 - 4/2/2011, 20:55
     
    .
  10. Alessanto
     
    .

    User deleted


    Letto.

    SPOILER (click to view)
    Ci sono luci (moltissime) e ombre (pochissime).
    Cominciamo con le luci.
    Mi è piaciuta molto nella parte moderna la commistione alchimia-mezzi moderni (in particolare la parte dove lei scannerizza i manuali) e l'ambientazione sia per la scelta storica che geografica.
    Stile perfetto, nulla da dire.
    I personaggi sono interessanti e sviluppano la vicenda in modo credibile.
    Interessante.

    Andiamo alle ombre.
    L'ho trovato in alcune parti pesante da leggere. Non so se è un problema della lettura a monitor che in questa edizione devo, per problemi tecnici, fare mio mal grado, oppure per certi passaggi a vuoto.
    In particolare l'ultimo paragrafo: se noti è tutto raccontato, non c'è azione.
    Altro problema, con cui a dire il vero mi scontro anche io: le frasi in dialetto. Io cerco di ridurle più che posso e, comunque, lasciare quelle che possano essere intuite dal lettore e che sono realmente utili al "profumo" del racconto.
    Una cosa che non faccio mai (su imposizione del caro Morgan Aarau che mi ha fatto nero in una macelleria ^_^) è non usare mai le note alla fine del testo.
    Spezzi la lettura, costringiendo il lettore a staccarsi dal testo. E questo non aiuta.


    Voto 3 (era abbondante però).
     
    .
  11. federica68
     
    .

    User deleted


    ah, caro vecchio morgan!! se lo ha detto lui ci penserò... solo che c'è un problema contingente, e cioè: grazie ai vari montalbano il dialetto siciliano è "orecchiato", ma il genovese no...

    per quel che riguarda il passaggio troppo raccontato, è vero, era in effetti un dubbio che avevo anche io, ma non saprei proprio come movimentarlo senza aggiungere battute...

    suggerimenti?
     
    .
  12. Alessanto
     
    .

    User deleted


    CITAZIONE (federica68 @ 6/2/2011, 18:15) 
    ah, caro vecchio morgan!! se lo ha detto lui ci penserò... solo che c'è un problema contingente, e cioè: grazie ai vari montalbano il dialetto siciliano è "orecchiato", ma il genovese no...

    per quel che riguarda il passaggio troppo raccontato, è vero, era in effetti un dubbio che avevo anche io, ma non saprei proprio come movimentarlo senza aggiungere battute...

    suggerimenti?

    Vero! Prova a lascire solo quelle di cui non se ne può fare a meno. E togli le note, magari si intuisce a senso.
    Senza limiti di caratteri? Trasformalo in un romanzo breve! Altrimenti, in tutt'onestà, non ho soluzioni...
     
    .
  13. kaipirissima
     
    .

    User deleted


    ciao

    SPOILER (click to view)
    Riconosco una buona competenza nel ricostruire ambienti e tratteggiare piccole trame (le sequenze narrative), eppure ho faticato a stare dietro alla storia che rimane in stand by troppo a lungo. Mentre leggevo avevo paura di perdermi dei particolari che sarebbero stati indispensabili alla ricostruzione della storia, e questo mi ha un po’ affaticato. Alla fine la storia nel suo complesso non mi è piaciuta, mentre paradossalmente mi sono piaciuti di più i segmenti presi isolatamente, a parte quelli didascalici: come Lucana si è procurata l’arsenico ecc.

    Voto 2
     
    .
  14. federica68
     
    .

    User deleted


    grazie a tutti per le segnalazioni, valuterò se ampliarlo in un romanzo breve (in effetti me lo aveva già detto anche Alberto)

    avendo più battute a disposizione potrei anche movimentare lo spiegone finale, mettendolo magari in presa diretta...
     
    .
  15. princ3ss
     
    .

    User deleted


    Scusami, è la seconda volta che provo a leggerti, invano, perchè la struttura a salti temporali in questi giorni mi toglie motivazione per la difficoltà di concentrazione che ho.
    Non voto
    Scusami
     
    .
21 replies since 1/2/2011, 00:21   464 views
  Share  
.