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2500
Duemilacinquecento. Quando il pensiero di questo numero ha preso ad assillarmi? Ho la sensazione che riguardi qualcosa di importante, ma cosa? Bagliori. Finestre ampie e ariose illuminano il corridoio con lucenti cascate di sole.
Duemilacinquecento.
Sì, duemilacinquecento, ma duemilacinquecento ‘che’? Se potessi almeno risalire al contesto, o anche solo all’unità di misura, forse poi sarebbe più semplice ricordarne il significato. Cammino; i miei piedi appaiono e scompaiono uno dopo l’altro alla mia vista. Dove sto andando? Due uomini procedono al mio fianco. Sono pervaso dalla spiacevole sensazione di essermi già accorto di loro in precedenza. Dovrei sapere perché sono qui, con me. «Non preoccupatevi, tra poco sarà tutto a posto» sussurra uno dei due. “Apostoapostoaposto…”, il suono di quelle parole stride metallico nella mia testa. L’altro si fa più vicino e comincia a sostenermi per un braccio. I miei passi.
Duemilacinquecento, di nuovo.
Ora però sono grato dell’irrompere di questo numero che spariglia il sovrapporsi nella mia testa di domande cui non so dare risposta. La vista si offusca, si distorce. Mi accorgo di scivolare lentamente al di fuori del mio corpo rimanendo indietro, come se i vincoli tra la carne e l’essenza stessa del mio esistere fossero stati tranciati, lasciando quest’ultima al suo passivo fluttuare. Ad ogni passo il pensiero si distacca dal mio simulacro terreno, distanziandosene sempre più. Ormai mi vedo distintamente dall’esterno. “Cosa ne sarà di me?”. Allungo la mano cercando un disperato legame col mio ‘io’ tangibile, che insperatamente comincia a trascinarmi di nuovo con sé. Accudito dai due alfieri, si tuffa e riemerge dalle vivide pozze di luce liquida che infiammano il pavimento in pietra. I raggi luminosi ci investono. Li percepisco in maniera distinta attraverso la mia forma incorporea e quella materiale con esiti contrastanti: roventi e freschi allo stesso tempo. Rimango sospeso tra il terrore e l’euforia, mentre davanti le tre figure improvvisamente si fermano. Per pura inerzia ritrovo l’unità del mio essere e integro, vengo sospinto oltre la soglia di una porta. Solo. Un’oscurità inquietante mi inghiotte. “Dove siete?”. Perdo l’orientamento. Precipito. Attraverso gli occhi sgranati, un buio denso come bitume si riversa ruggente all’interno del mio cranio e scorre impetuoso riempiendone ogni anfratto. I miei pensieri più reconditi affogano travolti e sommersi dai funerei flutti e io mi abbandono a un grido afono che lacera la mia gola con artigli di ghiaccio. D’un tratto il tocco di una mano. Mi ci aggrappo all’istante con tutte le forze e cerco di tirarmi fuori dall’incubo. «E’ in uno stato pietoso» commenta una voce cristallina, carica di riverberi ed echi. Le tenebre in cui sono sprofondato mi impediscono di vedere chi sta parlando. Il rimbombo del suono mi annichilisce. Almeno non sono solo. «E’ come deve essere» risponde un clangore. Ne sono atterrito. “La mano, la mano che tengo stretta; devo pensare solo a quella mano”. «Non proprio» replica la prima voce ora più nitida «gli abbiamo somministrato una dose di Lovistium cinque volte superiore al normale. Lo ha reso troppo instabile, mi sembra evidente». Una donna. Le sue parole sono una musica soave, tra le cui note lievi il mio spirito si adagia. Parole. Una parola.
Duemilacinquecento.
La figura di un uomo che mi si pone dinanzi, spalanca uno squarcio nell’oscurità. E’ avvolto in nastri di fumo che sublimano rapidi verso il soffitto e sembrano tenere a bada la voracità del buio che preme alle sue spalle. E’ molto vecchio. Oppure no, forse è solo molto stanco. Stanco di millenni. I suoi occhi neri, senza riflessi, sono portali sull’ignoto; mi dilaniano, assorbono i miei pensieri, me li strappano con violenza dalla mente. “Devo fuggire, devo salvarmi”. Anche il volto della donna irrompe nel mio campo visivo. «La sua sensibilità alla magia è eccessiva» sussurra stringendomi ancor più la mano. E’ giovane e molto bella, ma è triste. Sento la sua aura avvolgermi. Un profumo di pane caldo mi inebria, mentre lei asciuga una lacrima che dall’occhio destro scivola lungo la mia guancia. «Per Manvé, com’è ridotto» continua. Le sue parole sembrano andare in frantumi, sgretolate dalla spietata verità che sottendono. Torno a guardare l’anziano. «E’ necessario» dice lentamente fissandomi «l’ultimo Dimenticatore ha portato la morte per duecentomila di noi…». «Lo so, e non comprendo il motivo per cui continuiamo a mandarli là dentro» il tono della donna si fa più accorato «in queste condizioni poi e con quel mostro ad attenderli…» «Basta così» la interrompe repentinamente l’uomo. La profondità della sua voce mi stordisce «Ne abbiamo già discusso» continua poi con tono sommesso «le mura non reggeranno ancora a lungo e la nostra terra sta morendo. Dobbiamo trovare una via d’uscita». Odo distintamente il battito dei loro cuori, il frusciare del sangue nelle vene, il crepitare dell’elettricità nei nervi, potrei persino contare le molecole d’ossigeno che respirano.
Duemilacinquecento.
«Come può perseguire un qualsivoglia scopo in questo stato?» insiste lei. L’uomo mi scruta come se cercasse un segno rivelatore sul mio volto. “Chi è?” «I suoi poteri sono profondamente radicati nell’inconscio» sussurra «l’ io magico prenderà il sopravvento al momento opportuno». Rivolge infine alla donna un sorriso che sa di paternità. «Non preoccuparti per lui» la rassicura «qua fuori è come una tigre troppo a lungo tenuta in gabbia, non così in quel luogo». Osservo il movimento fluido della sua mano tracciare una scia luccicante nell’aria per finire ad afferrarle il polso e sciogliere il nostro legame fisico. Il dolore del distacco è lancinante. Vacillo. La donna prova a corrermi nuovamente in soccorso, ma viene bloccata. «Lascialo» le intima l’uomo, mentre i filamenti di vapore che lo circondano cominciano a turbinare con veemenza «Quando entrerà in quella sala, non ci sarà più il tuo sostegno a dargli equilibrio». La frustrazione sfigura il volto e l’aura della ragazza «Spero che la uccida!» ringhia facendomi vibrare le ossa «spero che la distrugga…». «Sai bene che non è ciò di cui abbiamo bisogno» risponde lui laconico. All’improvviso ogni cosa scompare dietro una densa cortina di nebbia vorticante «Andiamo adesso, il momento è giunto. Aiutalo…». Ancora il buio ma non ne ho paura.
* * *
Il mondo ricompare nitido per un fugace istante, poi un dolore stordente m’investe, annientandomi. Di me resta un’unica particella sfrigolante dal cui interno lentamente comincio a irradiarmi, ricostituendo mano mano il mio corpo cellula dopo cellula, brandello dopo brandello, contando le molecole una ad una.
Duemilacinquecento.
Respiro una piacevole brezza che profuma di foresta. Il territorio intorno è un perpetuarsi di valli e colline che si alternano senza tregua fino all’orizzonte e sui cui versanti morbidamente scoscesi, boschi e radure brillano smeraldini. Assaporo gli aromi e le sensazioni con cui vengono ingannati i miei sensi, le informazioni illusorie con cui la magia che mi avviluppa e mi ingloba, mistifica sé stessa. Percepisco l’aria di questo luogo per quello che è in realtà: un magma letale la cui potenza distruttiva è alimentata dall’accumulo di energie che per secoli ne hanno percorso, distorto e riplasmato gli atomi. Ogni volta mi risveglio qui, in questo punto preciso. Se per diversi lidi io vaghi tra un ridestarmi e l’altro, non mi è dato saperlo, ma me lo domando. Lei non dovrebbe tardare.
Duemilacinquecento.
E questo numero cosa vorrebbe dire? Lo ignoro. Chiudo invece gli occhi per concentrarmi sulle vibrazioni degli incantesimi con cui mi proteggo e avverto immediatamente l’onda lunga con cui l’ingresso della mia controparte perturba lo spazio. Quando li riapro lei è lì, elegantemente seduta sul prato a una decina di metri da me, stesa su un fianco con una mano appoggiata nell’erba. Le morbide curve del suo corpo corrono sinuose sotto una veste talmente leggera da sembrare intessuta direttamente coi refoli del vento primaverile. La chioma corvina incornicia con riccioli ribelli i tratti elfici del volto e i lunghi boccoli si adagiano sul collo flessuoso e il petto nudo. Lo sguardo indugia sul seno prosperoso. In un istante miliardi di scintille luccicanti esplodono sul mio fianco sinistro e salgono rapidamente verso l’azzurro del cielo, spegnendosi e disperdendosi in vorticanti mulinelli. E’ solo un’infinitesima parte di energia, quella che del suo fendente mi raggiunge, eppure... Sorrido e provvedo a rigenerare l’arto incenerito mentre lei si alza e levita sfiorando i fili d’erba con la punta dei piedi. E’ di una bellezza sconcertante, ma non so se questo sia il suo reale aspetto o meno. Lo sfrutta per sollecitare i miei istinti e sottrarre così concentrazione alle difese di base. Ricalcolo rapidamente il bilancio energetico sotteso dalla mia strategia: cedere momentaneamente alla morbosità sessuale, per evitare così di cadere in un baratro di ossessione che comporterebbe un costante dispendio di forza di volontà. Come ora accade, pur con ordini di grandezza assai più modesti, per ‘duemilacinquecento’, ad esempio. «Elinfiél» pronuncio e non appena il suo nome lascia le mie labbra, il tratto d’aria rovente in cui vibra si tramuta in polvere di ghiaccio, che precipita al suolo scricchiolando. Con un ampio gesto della mano, traccio allora la traiettoria luminosa verso l’orizzonte, oltre le sue spalle. E’ lì che devo andare, è quella la destinazione verso cui vengo inesorabilmente attratto. Il grigio dei suoi occhi felini divora la distanza che ci separa e graffia la mia mente. L’aria comincia a fremere dolorosamente. Rimango immobile ascoltando tutto intorno a me emettere un gemito come d’acciaio troppe volte piegato e raddrizzato, osservando ogni cosa contorcersi sotto l'impeto della smisurata forza magica dell’elfo. Il fragore sale fino a diventare luce poi lentamente scema e le mie difese si placano percependo il livello energetico diminuire. Sono in mezzo a una folla di persone, uomini donne, bambini che si muovono tra centinaia di bancarelle. Il chiacchiericcio è come la risacca del mare che mi culla e mi trasporta al largo, nel mezzo di quella umanità. I volti, tutti quei volti mi chiamano, vogliono dirmi qualcosa.
Duemilacinquecento.
Mi divincolo. Con la coda dell'occhio rintraccio il sentiero luminoso che ho disegnato e mi avvio in quella direzione facendomi largo tra la folla intenta ad esaminare ora questo, ora quel bancone. All'improvviso Elinfiél si frappone tra me e la traccia soffiandomi addosso il suo gelido respiro. Ha la pelle striata come il vello di una tigre e le nostre aure protettive stridono l’una contro l’altra in un crepitio di aculei magici. Dal palmo della sua mano, soffia verso di me una nuvola di petali bianchi che si librano nell’aria circondandomi. Sono tantissimi. Quanti? Duemilacinquecento. Possibile? Possibile che siano proprio duemilacinquecento? No, devo rimanere concentrato. I petali vorticando mi hanno già ferito al fianco ed Elinfiél mi sta piombando letteralmente addosso. Carico il mio essere e un'onda si spande costringendo la mia antagonista a indietreggiare, poi riprendo il mio cammino verso l’orizzonte, la mia meta priva di perché. Improvvisamente sento tirare un lembo del mantello. Mi volto e una bambina, allontanatasi dalle migliaia di persone che ancora trafficano nel mercato, mi sorride porgendomi una bambola. Al di là di una finestra socchiusa di una casa isolata, vedo una donna intenta a preparare da mangiare. Cosa vuol dire tutto questo? Torno a guardare la fanciulla che intanto si è accucciata sui talloni e con un bastoncino comincia a incidere dei simboli nel terreno.
‘2500’.
Percepisco l'immensa parte magica di Elinfél aumentare il ritmo del proprio respiro di ghiaccio. D’un tratto quel numero prende corpo, trova finalmente la sua collocazione nella mia testa. "Per Manvé!" Un riflusso di consapevolezza deflagra dall’interno del mio essere provocandomi un dolore lancinante che mi scaraventa al suolo con la faccia schiacciata nella polvere. Ogni mio muscolo è contratto allo spasimo. Sono duemilacinquecento giorni con oggi che il ricordo della mia famiglia è stato sradicato dalla mia anima. Sono duemilacinquecento giorni che mia figlia, mia moglie, mio padre, mia madre, i miei fratelli non sono mai esistiti, che i miei amici sono stati cancellati dal mio cuore. "Perché mi hanno fatto questo, perché?". Piango. "Idiota! Lo sai benissimo perché!". Troppo dolore. Non riesco a gestirlo. Mi volto sulla schiena per respirare ed Elinfiél è già china su di me che mi accarezza una guancia. “No! Ti prego, no! Non farlo, no!” è il solo pensiero che oppongo. Tre secoli di strenua resistenza, tre secoli di sopravvivenza sotto assedio vanificati dal mio fallimento. Perché sto ricordando? Non dovevo ricordare! Come è possibile che tutti questi pensieri stiano invadendo la mia mente? Sono stato addestrato, sono stato drogato, ogni precauzione è stata presa affinché ciò non accadesse. La sua magia mi attraversa, mi oltrepassa, non mi uccide. Vuole che io assista al compimento della sua opera. Ne percepisco la voracità mentre solca la rete di sentimenti ed emozioni umane che mi legano ai miei cari. Per lei sono strade, sono vie per raggiungere e eliminare ogni persona che se ne trovi agli estremi e da lì proseguire su altri tessuti affettivi. Ha una fame vecchia di tre secoli e un obbiettivo finalmente a portata di mano. "Mioddio, ora può sterminarci tutti!" Ha già cominciato. Il dolore delle morti mi dilania. Mano a mano che gli estremi dei legami vengono disintegrati, fili invisibili intrecciati di ogni sorta di fremito dell'anima, cadono inerti straziandomi. Siamo finiti. In un estremo tentativo di mutare i nostri destini, libero il mio potere, lo spingo e lo istruisco affinché la rintracci, la rincorra, la fermi. Lo trasformo in freccia, lo muto in artigli e fuoco ma è come colpire sabbia, come graffiare l’acqua. Mi dispero. Grido tutto il dolore della mia gente, un lamento che trascina con sé gli ultimi brandelli di energia aumentandone l'ormai inutile forza. Le lacrime offuscano i miei occhi, e nel manto luminoso in cui la mia sofferenza si scioglie, trovo d’incanto il dono di un nuovo equilibrio. Nella luce della mia agonia, vedo una linea scura dipartirsi dalla strega elfica. La sua magia è una fune d'ombra lanciata oltre l'orizzonte. Li lega tutti, tutti gli elfi senza eccezione; così come noi uomini, esseri incompleti, creiamo legami che riempiano i vuoti della nostra anima, allo stesso modo loro, interiormente perfetti, si legano condividendo spontaneamente l'unica cosa capace di suscitare la loro brama: la magia. Per me tutto questo significa solo vendetta. Con la velocità del pensiero e la forza dell’odio, esplodo all’interno del popolo elfico. Il mio corpo deflagra, perde la sua forma lasciando che l'energia si spanda in ogni direzione. Volo sibilando su quei fili di tenebra e do inizio a un massacro che spero non abbia mai fine. Con furia metodica falcidio intere famiglie, estinguo dinastie millenarie, sono inarrestabile, totalmente dedito alla mia nuova missione. Solo la sete di dolore, non trova soddisfazione nella putrida assenza di sentimenti delle mie vittime. Ormai ogni traccia di pietà, persino il ricordo di cosa sia la compassione sono spariti dal mio essere, non sono più un uomo, sono solo un angelo vendicatore sul cui cammino nulla si pone, almeno finché sull’onda di un grido antico come l’universo, una mano arrancando alle mie spalle, sfiora il mio essere interrompendone il delirio. «Elinfièl»
* * *
Sono duemilacinquecento anni con oggi che siamo qui immobili, seduti l'uno di fronte all'altra in questa stanza ormai ai confini della memoria, io, Noar il mago e lei, Elinfièl, la Signora elfica. Le nostre magie non riescono a smettere di desiderare l’una l’estinzione dell’altra e si annullano a perenne garanzia della sopravvivenza di due civiltà che grazie a noi ma senza di noi, ora cercano di ricostituire il proprio destino. Non riesco a smettere di pensare che l'inizio di tutto questo ha quasi sterminato la mia razza e che in quel ‘quasi’ non sono comprese le persone che più ho amato, le prime a morire. L’isolamento reciproco in cui Elfi e Uomini si trovavano a causa della loro incapacità di convivere, è comunque infranto. Alla fine, l’ultima scintilla di saggezza con cui i nostri avi hanno creato questa piccola stanza e il rito ad essa legato, tramite il quale il contatto di almeno due individui appartenenti alle rispettive civiltà si è perpetuato, ha consentito che i due popoli più cari a Manvé incrociassero nuovamente i propri destini. Ma non mi illudo. Gli elfi non amano.
Io sono il quinto e ultimo Dimenticatore, prescelto e addestrato per la Stanza dei Patti e sono ricordato nelle leggende come l'Angelo Vendicatore, colui che ha fermato Elinfiél, la Signora di tutti gli Elfi. La sua bellezza è sconcertante.
Edited by Olorin - 3/2/2011, 21:54
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