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Jack Mancuso esce dall’ufficio, ogni sera che Dio concede a questo Mondo, quando il cielo sopra Milano appare striato di ombre grigie, crepuscolari, che mascherano nubi e sembrano volerlo strangolare. Ha il passo veloce, a tratti repentino, di chi pensa più cose nello stesso momento o di chi non riesce a scrollarsi di dosso lo stress accumulato nella giornata. È sera e la città si è quasi assopita, allontanandosi dal caos giornaliero per entrare in un’altra dimensione, quella della notte. Un momento magico in cui la città si cristallizza, in uno spazio di tempo limitato. Il crepuscolo di questa metropoli, dopo il contorsionismo febbrile delle attività lavorative, finalmente libera da ogni affanno. Come al solito Jack cammina per strada in solitudine, accompagnato soltanto dall’eco dei suoi passi sul marciapiede. Rappresenta il suo sfogo silenzioso, il suo meeting point con il centro cittadino in preludio di notte, un annusare l’aria per sentirne il giorno morire, il suono di un’agonia, che è portatrice, infine, di rinascita... È l’espirazione, finalmente, un progressivo lasciarsi andare alla rilassatezza, un parlarsi dentro. Con la sua bassa statura e il fisico piuttosto tarchiato, assomiglia più a un bambino grassottello che a un uomo maturo. Il volto è affilato e ossuto, in contrasto con l’insieme del corpo. Ciò che immediatamente colpisce sono gli occhi, azzurri e trasparenti oltre le lenti spesse da miope. Non è facile reggere quel suo sguardo indagatore che ti penetra nel cervello e ti fa rabbrividire talvolta, nella sensazione di sentirti sotto indagine. Conosce la psicologia umana e ne fa uso secondo il momento, in base alla persona con cui si mette in relazione. Sa mutare atteggiamento in modo camaleontico rispetto a ciò che deve chiedere oppure ottenere. Il suo successo è stato determinato da questa sua innata capacità d’intuizione, anche delle debolezze umane e dal fiuto per gli affari potenzialmente redditizi. Non sbaglia mai sul lavoro, ma nella vita è un’altra cosa: due matrimoni, due divorzi, nessun figlio. È un velo sottile e cupo di tristezza a oscurarne lo sguardo, e si rintraccia nel mare dei suoi occhi chiari. Anche le modelle dell’agenzia si lasciano affascinare dal suo sguardo che ha il potere dell’altezza del cielo ma l’oscurità dei fondali marini. Le tratta come belle bambole, le invita nei ristoranti di lusso e in quelle serate diventa un altro uomo, manifestando quella parte nascosta e a volte tenebrosa di sé che tanto ammalia le donne, o meglio, un certo tipo di donne... Sfuma il bagliore dei lampioni in Piazza Duomo, quando gira a destra per imboccare via Orefici. È contento di poter percorrere a piedi il tragitto lungo le vie cittadine. Prosegue poi fino alla Basilica di San Lorenzo per infilarsi sotto il colonnato, lambendo quell’incredibile e variegato bestiario di esseri che lo vivono durante tutta la giornata e fino a notte inoltrata. Attraversa infine Piazza 24 Maggio, a ridosso della Darsena, semideserta a quell’ora. Lì c’è il quartiere dei Navigli, la zona della città che più gli piace e lo affascina, soprattutto per i locali storici e la vita notturna. Per questo ci ritorna sempre volentieri, ripensando ai cambiamenti che erano necessariamente avvenuti negli anni e che avevano modificato la sua personalità e il suo modo di vivere. Fiancheggia la Darsena, sfiorando col fianco il muretto che delimita l’argine e buttando un’occhiata all’acqua scura che scorre nel canale. È la sua prima sosta da quando è uscito dall’ufficio e avverte un leggero fiatone, nell’alito spesso che, uscendo dalla bocca, disegna nell’aria vortici di vapori umidi e caldi. Un brivido gli percorre il corpo leggermente accaldato per la camminata, quando si ferma per controllare i messaggi arrivati sul suo cellulare. “Ciao Jack, come stai? Ma la modella che ho qui per il servizio, è già prenotata da te o me la posso portare a casa questa sera?” “Vai tranquillo Nick, nulla da eccepire. Ricordati l’appuntamento di domani nel mio ufficio. Mi raccomando, non mancare e vieni in orario. È importante, come ben sai!” L’Officina 12 non dista ormai molto. È affezionato a questo bel locale che frequentava con assiduità quando viveva nel quartiere dei navigli. Le luci sono soffuse, e Jack non può fare a meno di notare come esaltino il rosso delle pareti, immettendo l’ospite in uno spazio multiforme dalla calda atmosfera, in una ricerca di trasversalità. Qui Jack, quasi ogni sera, riesce a trovare la sua dimensione di uomo. Jane lo sta aspettando al tavolo che aveva prenotato. La serata scorre affabilmente fra il piacere della buona tavola nelle sue varietà e quello della conversazione, a tratti divertente, in altri particolarmente interessante, finché Jane s’informa sulla scrittrice che Jack ha incontrato nella mattinata. È a quel punto che si ricorda della cartella con i racconti che gli ha consegnato. Sono al dessert: cantuccini di Prato alle mandorle giganti, un’autentica prelibatezza toscana. Jane ne va matta, e anche lui ne assaggia volentieri alcuni, intingendoli nel classico Vinsanto di Montalbano. «Mia madre li sapeva preparare!» bofonchia Jack mentre è alle prese con un biscotto che tende a squagliarsi nel vino dolce e liquoroso, scivolandogli dalle dita bagnate. Un biscotto si squaglia e piccoli pezzi molli galleggiano in superficie. «Mi gridava che mi aveva visto e di non fare il ladro, che ero troppo piccolo per quel mestiere. Quando si girava, io ne approfittavo per nasconderne altre, con uno scatto felino della mano, infilandole a manciate nelle tasche dietro dei pantaloni.» Jane rideva forte, divertita. La osserva mentre con le dita affusolate segue il contorno delle sue mani, indugia nell’incavo fra le dita, sfiora le vene superficiali e ridendo ci soffia su, come a voler raffreddare quel sangue focoso che vi scorre dentro. È una sensazione epidermica sensuale e frizzante quella che prova attraverso il tocco delle sue dita, come eccitante è l’insieme dell’aspetto e degli atteggiamenti di Jane. Con lei finora ha intrattenuto soltanto rapporti di lavoro e trascorso un paio di serate al ristorante, simili a questa. Però... un pensiero che va oltre comincia ad affacciarsi nei meandri mentali di Jack. Riesce a vederla, immaginandola a casa sua, nella luce artefatta delle lampade alogene dai toni soffusi, lei in questo languore serale dovuto anche al vino e a quell’inclinazione che mostra nel farsi coccolare e quasi sedurre dalle parole, dai gesti, dagli eventi. Sono fra gli ultimi a uscire dal ristorante. Jack chiama un taxi. Si è fatto tardi davvero. La invita a casa sua e lei accetta con quell’allegro suo fare compiacente ma sbarazzino. La ascolta cicalare pazientemente per tutto il tragitto e, mentre salgono le scale di granito del palazzo, ridono ancora sottovoce. L’appartamento di Jack è molto ampio e sontuoso, arricchito da un arredamento moderno, quasi futurista. La invita a sedersi sul divano di morbida pelle nera, poi si allontana per qualche secondo, entra in cucina e se ne esce da lì a poco con un vassoio in mano sul quale sono appoggiati due lunghi bicchieri a flute. È ancora lunga la notte ed entrambi ne vorrebbero godere al meglio. Jack inizia lentamente a sfiorarle con una mano le gambe magre. L’altra tiene il flute, dal quale beve a piccoli sorsi lo spumante e intanto la guarda attraverso l’azzurro dei suoi occhi che perdono progressivamente l’espressione di ghiaccio per assumere quel tono più caldo e tentacolare, tipico del verdeazzurro del mare in estate. È il languore dell’empatia e della fisicità, degli odori, del profumo di sesso che si sprigiona dai corpi. Lei sorride senza opporre alcuna resistenza ai suoi tocchi vellutati che, leggeri dapprima, si fanno di seguito più incisivi, come se si trattasse di scrivere una lettera su quella pelle immacolata. Si affloscia mollemente sull’imbottitura accogliente del divano, rilassandosi nell’ascoltare le sue mani che la percorrono, esplorandola sempre con maggiore insistenza e perizia. Lo slip di seta nero assume la consistenza delle ali di farfalla fra le dita di Jack ed è così estenuante l’attesa che Jane inizia a mugolare, respirando affannosamente. «Trattieniti!» la voce di jack è quasi un comando. Sono questi preludi che eccitano maggiormente il suo compagno. Vuole indurla a un “sì” convinto, gridato, implorato... Infilando la mano sotto il tessuto, afferra fra le dita il ciuffetto di peluria soffice sopra il pube e ci gioca un po’, tirandolo e stuzzicandolo. Il suo sguardo si fa opaco, quasi duro. Vuole possederla in ogni piega del suo essere. Glielo dice senza l’ausilio di parole, ma col tepore della pelle che si sfiora, in quella specie d’inganno protratto nel tempo... «Bagnati, fatti sentire.» E la afferra lì, fra le cosce, inaspettatamente, con uno stringere forte, quasi uno strizzare fuori con la mano la sua eccitazione. Jane grida. Il suo fiato affievolito dallo sgomento, ma allo stesso tempo scosso da un’onda potente di eccitazione che la sconvolge. Non può, non vuole fermarlo. Nella penombra della sala gli occhi dell’uomo sembrano scomparire e le appaiono, guardandolo, come due orbite scure, schiarite a tratti da lampi infuocati di remota essenza e memoria, di rabbia repressa e paura. «Vuoi soffrire per me?» Jack le sta chiedendo di soffrire... di donargli il suo dolore... lei che pensa che il sesso sia legato unicamente all’idea del piacere reciproco. È confusa... non risponde. Ha bisogno nuovamente di guardare e affossarsi nell’azzurro dei suoi occhi, vorrebbe leggerne la storia, penetrarne il sentimento, scoprirne i segreti... Vorrebbe essere con lui sui prati d’Irlanda, fra quella luce nordica e il freddo del vento, e sedersi in riva al mare per raccontarsi la storia, ognuno la sua... «Il tuo dolore è un dono».continua Jack, pronunciando queste brevissime frasi, che a tratti sembrano ordini, a momenti invece appaiono suppliche. Nel palmo della mano, immobile lì fra le cosce, raccoglie il piacere di Jane che cola già abbondante, nonostante tutto. Poi improvvisa un’altra stretta a quello splendido e delicato fiore di carne, più forte, più feroce della prima... e Jane si piega in avanti, su se stessa, in una postura di trattenimento, quasi di accoglienza e accettazione. Vibra come colta da una febbre alta. Il cervello è scosso da scariche di dolore. Ha paura. Jack sa dosare il dolore che le infligge. Lo fa con l’abilità di un miniaturista di antiche icone, con la perizia di un poeta dannato. Sarà lei a desiderarlo in seguito, di questo è quasi certo. È quel dolore... quella porta d’accesso al piacere, quella reciproca schiavizzazione che... diventa il mezzo e il fine di ogni suo rapporto sessuale. «Dimmi che ti piace, che lo vuoi...» Lei rimane piegata, senza rispondere. Nasconde gli occhi che sente ormai lucidi e carichi di lacrime. «Ti piacerà, vedrai, basta poco, ascoltami, sentimi!» L’aspetto geniale e profondamente perverso di questa interazione è che lui sa che poi sarà lei a desiderarlo, a godere del suo stesso dolore, a volerlo sentire nei modi che a lui piaceranno di più. È già successo con molte altre. Ma è ancora presto... e Jack non è di certo un novellino che può incorrere in certi errori. Sarà un’avvolgente cultura e un’educazione ad hoc trasversale... non ci vorrà molto... qualche serata come questa. Se si ribellerà beh... sarà libera di scegliere, di andarsene... ̔ se, si ribellerà ̓... Toglie la mano fradicia dalle cosce e la avvicina al viso; ne annusa l’odore, la lecca per sentirne il sapore prima di offrirla a lei, invitandola sorridendo a fare altrettanto. La mente della ragazza è un braciere di sensazioni opposte e contrastanti. Vorrebbe frenare il piacere e il godimento che questa situazione le impone, ma le sembra di non trovare la forza di rifiutare, come se avesse intuito questo bisogno di Jack come reale, e non un gioco perverso. “Il vero schiavo è chi ha bisogno di schiavizzare.” È una frase che le torna in mente ora, letta chissà dove. Sente le mani dell’uomo risalirle oltre il ventre, verso i seni in attesa... i visi vicinissimi, il ritmo ossessivo del fiato, il suo sguardo terrorizzato che incontra il suo, delirante, estasiato, consapevole... «Lasciami andareee» la sua voce è una supplica. Due dita: il pollice e l’indice aggrappano un capezzolo e lo stringono girandolo come in una morsa, dolorosissima. Mentre sta per urlare, lui le chiude la bocca con la sua, la inonda con la forza della sua lingua penetrandola, poi si muove lentamente nella cavità orale, come a massaggiarne con calma e premura ogni parte. Si chiede se questo sia il suo bacio. Dalla suite accanto sente spegnersi le note di un piano...
Non era stato sempre così. Intorno ai trent’anni si era accorto di questo suo modo diverso di sentire il sesso con una donna. Capì che in lui coesistevano due personalità, o forse era la stessa che stava cambiando nel tempo assumendo una forma a sé, non riconosciuta subito come la propria; eppure lo era. Si rendeva conto di come non riuscisse più a eccitarsi in modo normale, come ai tempi in cui i due ruoli erano ben definiti, ma ci mise del tempo a capire cosa stesse succedendo. Aveva vissuto umilianti imbarazzi con il suo pene inerme che non reagiva nonostante i suoi sforzi e l’aiuto disperato della partner. Si sentiva offeso nella sua virilità. Sarebbe potuto ricorrere a uno psicologo per un consulto ma il suo carattere orgoglioso glielo impedirono. Così continuò a cambiar donne, luoghi, situazioni, sperando che alla fine la sua virilità risorgesse come per un miracolo: fu tutto inutile.
Completamente avvolta e stordita dalla musica allucinante della stanza, Jane vorrebbe vincere il suo disgusto. Vorrebbe gridare, ma la voce non le esce; cerca di respingerlo e alla fine riesce a staccarlo. Negli occhi dell’uomo sfreccia un'espressione di disappunto; un lampo di violenza gli accende lo sguardo solo per un istante, poi scompare. Si alza, esce e torna dopo un minuto con due calici di Champagne un po’ svanito. La guarda e con un sorriso indecifrabile le dice:«Non aver paura Jane, sarai la mia dea. Ti farò godere come mai hai goduto. Adesso spogliati!» Poi la prende per mano in una stretta d'acciaio e la porta nella camera spoglia e severa, dove un letto di pelle nera e una lampada a piantana in carta di riso sono gli unici arredi. Rimane colpita, quasi ipnotizzata dal mosaico del pavimento in listelli di legno chiaro intrecciati in disegni metafisici; si accorge di fissarlo con insistenza, quasi il suo sguardo volesse sfuggire, quando la mano di Jack che le accarezza la schiena, percorrendola lentamente dall’alto verso il basso, con piccole pressioni delle dita, la fa trasalire. Un brivido di piacere la scuote e la riporta alla realtà: a lui e alla sua richiesta. Con un gesto morbido ma deciso della mano destra, sfila l’abito da sera con la lunga scollatura a V, allontanando le spalline e facendole scivolare lungo le braccia; poi lo lascia cadere, seguendolo con un gesto languido della mano. Sotto, tranne gli slip, è completamente nuda e la luce calda della lampada le disegna i seni rendendoli ancor più gonfi e tesi. Rimane in piedi accanto al letto, mentre lo sguardo famelico di Jack sembra penetrarla. «Ho tanto freddo» sussurra Jane. Lui si avvicina e con la lingua inizia a leccarle le spalle che s’irrigidiscono. Un gemito sommesso, un leggero ansimare riempie la stanza. Poi la sua lingua ingorda le lecca le areole e i capezzoli, bagnandoli copiosamente di saliva. «Voglio andarmene» geme. Lui le ordina di spogliarsi del tutto prima di distendersi sul letto. Infine esce dalla stanza per qualche secondo, e rientra reggendo in mano un vassoio di cristallo con piccole ampolle accese, piene di cera. Lo segue con lo sguardo mentre si avvicina a lei col vassoio e ammira le ampolle che disperdono piccoli coni di fumo che aleggiano tremuli sulle fiammelle accese. Avvicinandosi in silenzio al grande letto, le dispone agli angoli; quattro candele accese in ognuno. I vetri colorati proiettano ombre confuse sulla parete dove si appoggia il letto e contemporaneamente illuminano il corpo della donna, allungato e immobile a contatto delle lenzuola di seta color perla. «Come stai, Jane?» Non risponde. Tiene le labbra strette, vuole mascherare l’ansia che prova. «Vorrei che tu rimanessi così, immobile... e che provassi a gustare l’estasi che ti offrirò. Dovrai trattenere l’orgasmo finché non sarò io a chiedertelo e a volerlo sentire colare sulla mano, o in bocca... dipende...» Jane rimane muta, preoccupata dal pensiero che potrebbe trattarsi di ricevere altro dolore, anziché estasi e piacere, com’era accaduto pochi minuti prima. «Ti farò godere, come mai hai goduto» sussurra Jack come se avesse intuito i suoi timori. Poi si siede sul letto accanto a lei, rimanendo vestito e le allarga lentamente le gambe, accarezzandone la parte interna più sensibile e delicata. Movimenti rallentati che la percorrono su e giù, per cambiare poi in moti circolari creati dai polpastrelli delle dita. È come un canto suonato su un’immaginaria tastiera alla ricerca di una melodia completa. Lo sente avvicinarsi gradualmente al pube poi più giù, nella fessura coperta dai riccioli chiari. Le dita s’infilano fra le grandi labbra, aprendole e svelandone l’umidità, dapprima con tocchi lievi poi via via in un crescendo di palpeggiare più ardito. Sorride, mentre la osserva nell’ansimare che le solleva il petto ritmicamente. Ce l’ha in pugno! Infine un affondo con le dita dentro, in profondità, nel buio della calda cavità e seguito dal roteare delle dita sulle pareti della vagina, un movimento continuo, insistente dal quale non riesce a sottrarsi. Sta godendo ma lui le impone di non venire, non ora, deve aspettare che glielo dica lui! Lei si trattiene ma non resiste all’istinto di muovere il bacino con un moto ondulatorio dei fianchi per accompagnare, assecondandolo, il movimento delle sue dita dentro la vagina. «Smettila! Non devi godere. Resta immobile mentre ti tocco!» Ora è stretta nel pensiero che è lui a scegliere e decidere il momento del suo piacere. L’ordine di Jack di trattenere l’orgasmo finché fosse piaciuto a lui, la raggiunge come una sferzata al cervello, un’implosione cerebrale paurosa. È un sussulto, seguito dal prendere coscienza della situazione in cui, suo malgrado, sia venuta a trovarsi. Si fa forza e lo fissa con insistenza e un moto di sfida negli occhi chiari. Lui se ne accorge e affonda ancora di più con forza e violenza le dita nella cavità vaginale fradicia di umori e scossa da fremiti convulsi. Sa bene che questo è il momento decisivo per riuscirne a farne una schiava. «Lo so che ti piace. Dimmelo!» sibila l’uomo eccitato. Con quest’azione manifesta la supremazia del maschio, sull’inferiorità della femmina. La lambisce con parole suadenti e persuasive, alternando dolcezza a determinazione e forza. Condizionare la volontà della ragazza ai suoi voleri non è per lui solamente fonte di eccitazione, è provare il senso del potere sulla sua mente, autorità cui tanto ambisce. Già altre volte e con donne diverse era riuscito in questo intento e conosceva nei dettagli il dominio che riusciva a esercitare su di loro. Aveva più di una schiava! Poteva chiamarle in qualsiasi momento del giorno o della notte, lo avrebbero ascoltato e ubbidito, per esaudire con gioia ogni sua richiesta, anche la più perversa o la più crudele. E questo lo affascinava oltre ogni dire! In questo momento, annusando la riluttanza di Jane, prova ancora più eccitazione e delirio. Jane si sente accarezzare nella curva dove si allargano i fianchi, poi sui glutei sodi e infine giù verso le cosce magre. Ha paura.Un diffuso terrore che le impedisce di parlare, di reagire, di liberarsi da questa trappola mortale. Per qualche istante sogna di essere in riva al mare con Andry, l’ultimo ragazzo frequentato prima di lasciare l’Irlanda. Le pare di rivivere il momento in cui si erano amati con infinita dolcezza e tenerezza e infine avevano pianto assieme per l’imminente abbandono. A un tratto sente gli occhi inumidirsi, poi una cascata scomposta di lacrime che sgorgano senza freno, allagandole il viso e giù lungo il collo esile fino a disperdersi sui seni acerbi. Jack trattiene l’impeto di collera che gli sta salendo dal petto, gonfiandogli il collo nel pulsare accelerato del sangue attraverso le arterie. L’istinto è di aggredirla per farla smettere di piangere. A una schiava non è concesso di piangere, senza l’ordine o il permesso del suo padrone. «Non piangere, piccola. Era soltanto un gioco. Non spaventarti... ora ti prendo qualcosa da bere.» Si alza dal letto per tornare in soggiorno, stringendo i pugni in uno scatto di rabbia malcelata. Odia le lacrime delle donne, tranne quando non sia lui a decidere di farle piangere. Sente il pene afflosciarsi, l’eccitazione scemare, la sensazione del buio che lo avvolge. «Tutto sommato, questa piccola irlandese è piuttosto insipida, quasi insignificante... e magari è qui sognando l’amore!» dice tra sé. Una smorfia, un ghigno sinistro sul volto. Quando rientra nella stanza da letto, lei non c’è più. Non si scompone, immagina dove può essere. La scorge dalla finestra mentre corre nella notte, i capelli illuminati si muovono, lunghissimi lungo la schiena. È sola e libera. È iniziato a piovere... Jack sa che questa notte non dormirà. Apre la cartella che gli ha lasciato la scrittrice, e ne estrae un fascicolo. La copertina è bianca, vuota. Sfoglia la prima pagina e trova il titolo del racconto “Il fumo di Luise”. Da un portasigarette d’argento ne estrae una, la accende e inizia a leggere.
‟Girava voce da qualche tempo che Mark fosse cambiato...
Edited by princ3ss - 13/2/2011, 16:15
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