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Questo mese ero fermamente deciso a non partecipare, perché mi resta pochissimo tempo libero e dubito che mi sarà possibile leggere tutti i racconti, però vedere questo posto libero è una sofferenza continua. Propongo un racconto di Grand Prix, perché non sono riuscito a prepararne uno nuovo. Cercherò di leggere e commentare più racconti possibile.
BAMBOLE
La donna sostò qualche istante a guardare la vetrina, prima di entrare. Non potei fare a meno di notare la sua eleganza e la sua bellezza, anche se erano già alcuni anni che questi attributi mi erano indifferenti. Dalla morte di Rosa ogni desiderio si era sopito, anche se avevo appena sessant'anni. Non c'erano bambini con lei, e questo era insolito. Il mio non era un semplice negozio di giocattoli, le mie bambole erano artigianali, costruite con la cura di una volta. Bambole speciali, fatte su misura per i loro piccoli padroni, esclusivamente su ordinazione. Era un mestiere che si stava perdendo e che forse sarebbe scomparso con me. Entrò con decisione e venne avanti come un'indossatrice su una passerella. Altissima, un fisico slanciato, tacchi a spillo su cui si muoveva con disinvoltura. E poi l'abito, rosso e sgargiante. Non me ne intendevo, però era evidente che fosse un modello esclusivo, creato per la sua figura. Fu molto concisa. «Voglio una bambola.» Labbra sottili, un trucco delicato, occhi verdi, intensi, e una cascata di capelli neri come la notte. Non mi stupì una richiesta così semplice. «Ha in mente qualcosa di particolare?» L'aveva, eccome. «Voglio una bambina di otto anni, che mi assomigli almeno un po'.» Era una richiesta un po' confusa, che cercai di interpretare. «Vuole una bambola che le assomigli, e che abbia l'apparente età di otto anni?» «Deve essere perfetta, deve sembrare vera.» Sospirai leggermente. «Non tratto articoli così grossi. Come può vedere le mie bambole sono tutte più piccole. Non le converrebbe andare in un negozio di giocattoli? Là si trovano facilmente bambole di ogni dimensione.» Non si scompose. «Non mi assomigliano. Non ne ho trovata neppure una che mi assomigli.» «Lei la vorrebbe realistica, è questo che sta dicendo? Che assomigli a una bambina vera? Come un manichino?» Scosse il capo. «Non voglio un manichino, voglio una bambola.» Cercai di spiegarle la differenza. «Signora, in questo negozio vendiamo le migliori bambole che potrà mai trovare. Ma sono comunque bambole, non possono sembrare veri bambini.» «Mi hanno detto che lei è in grado di esaudire qualunque desiderio.» Ne pareva convinta, non lo disse solo per adularmi. «Otto anni sono tanti, non credo di essere in grado di riprodurre le esatte proporzioni.» «Deve assomigliarmi. Voglio che sia come me.» Non capiva, o non voleva capire. «Non penso di potere...» «Ne ho bisogno, lei me la deve fare.» Sotto la freddezza della sua voce percepii la disperazione. Mi chiesi a che le servisse. Non per sua figlia, no, dubitavo che un tipo così potesse avere figli. O forse l'aveva avuta e l'aveva perduta, e quella bambola sarebbe servita a rimpiazzarla. Qualunque fosse il motivo che la spingeva, comunque, quella donna mi metteva in agitazione. «Non accetterò una risposta negativa,» aggiunse ancora. La potevo fare? Certo che ne ero capace, anche se mi infastidiva doverla accontentare. «Dovrò studiare attentamente le misure,» le dissi. Pur nella vittoria la donna continuò a restare impassibile. «La voglio alta, e magra, proprio come me. Anche i capelli devono essere neri, come i miei...» Ci vollero tre settimane. Io stesso ero impressionato dal mio lavoro: sembrava davvero una bambina. Non era agghindata come una bambola, la donna mi aveva portato i vestiti da farle indossare, ed erano costosi ed eleganti come i suoi. Era alta e slanciata, con lunghi capelli neri e occhi verdi, proprio come mi aveva chiesto. Le labbra erano rosee e carnose. La donna venne a prenderla dopo due giorni, quasi all'ora di chiusura del negozio, quando il buio aveva già avvolto la città. La studiò a lungo girandole intorno, al punto che persino la mia proverbiale pazienza venne meno. «Allora? È ciò che desiderava?» Non mi diede la soddisfazione di rispondere, tirò fuori un rotolo di soldi dalla borsetta microscopica e pagò. Poi prese la bambola per mano, quasi pensasse che l'avrebbe seguita con le sue gambe. Percepii qualcosa di morboso, di spiacevole. E allo stesso tempo ebbi pena per lei, perché era chiaro che quella donna aveva sofferto, e stava soffrendo tutt'ora. Quella bambola aveva una valenza speciale per lei, avrebbe dovuto sostituire qualcuno che non c'era più. Cercai di riportarla alla realtà. «Preferisce che gliela incarti?» La vidi confusa, per la prima volta. Poi scosse il capo e sollevò la bambola passandole un braccio intorno alla vita, quasi fosse una valigia. Non rispose al mio saluto e andò via. La storia sarebbe potuta finire lì, se un paio di mesi dopo non mi fossi trovato a passeggiare per le strade del centro. Ero immerso nei miei pensieri quando alzai gli occhi e me le trovai davanti: la donna e la bambina. C'erano due manichini, in bella mostra in una vetrina. Quello più grande assomigliava come una goccia d'acqua alla donna che era venuta nel mio negozio. Indossava pure lo stesso abito. Teneva per mano una bambina, che era indiscutibilmente la bambola che avevo fatto io. Aveva persino i vestiti che io le avevo messo. Guardai l'insegna: si trattava di Scallis', una delle boutique più esclusive della città. Rimasi a lungo a fissare i due manichini, sempre più sconcertato. Trovavo spiacevole, per non dire disgustoso, che la mia bambola fosse in mostra sotto gli occhi di tutti. Avevo sempre messo tutto il mio amore nel costruirle, e nell'amore avrebbero dovuto vivere. L'amore di una bambina che le avrebbe riempite di attenzioni. Non l'avrei mai fatta se solo avessi sospettato quale sarebbe stato il suo uso. Fu l'indignazione a spingermi a entrare nel negozio. Non era un luogo in cui potermi sentire a mio agio. Le due commesse sembravano indossatrici loro stesse, nei loro abiti eleganti. Mi valutarono, immagino, perché fu la più anziana di loro a venire verso di me. «In cosa possiamo esserle utili?» Indicai la vetrina. «Quel manichino.» Lei sorrise. «Ha un ottimo gusto, signore. Un modello esclusivo, unico al mondo.» A costo di essere preso per matto, dovevo chiederglielo. «Il manichino che lo indossa... sono certo di averlo già visto prima. Mi ricorda qualcuno, qualcuno che ho conosciuto.» La sua reazione mi sorprese, perché si girò a guardare la collega. L'altra donna le fece un cenno quasi impercettibile. C'era un pizzico di imbarazzo nella donna. «La signora Scallis, sì. La proprietaria della boutique. È stata una sua scelta quel manichino. Se l'è fatto fare su misura. Lo trovava divertente.» Io ero di tutt'altra idea. «Potrei parlarle?» L'incertezza della donna fu più evidente. «Temo che non sia possibile, signore.» Prima che potessi insistere, lei continuò: «La signora Scallis si trova in America, adesso. È in vacanza.» Nascosi il mio disappunto. Di certo non potevo prendermela con loro, non avrebbero potuto comprendere. Le salutai con cortesia, quindi, e me ne andai, deciso ad affrontare quella donna una volta che fosse tornata dalle vacanze. Passò un mese, e quasi mi ero scordato di lei, quando la signora Scallis tornò nel mio negozio. Era più conturbante che mai, in uno svolazzante abito turchese primaverile. Stavolta aveva i cappelli acconciati in una crocchia e un cappellino semi-trasparente. Venne diritta fino al banco e andò subito al sodo. «Me ne deve fare un'altra.» Io scossi subito il capo, ma lei non mi lasciò il tempo di parlare. «Mia figlia vuole un fratellino, si sente sola.» Quelle parole mi confusero. Possibile che mi fossi sbagliato e quella donna avesse davvero una figlia? Poi rammentai l'uso che aveva fatto della mia prima bambola e scossi il capo. «La prego, mi deve aiutare.» Era giunta l'ora di chiusura e cercai di approfittarne per mandarla via. Trovavo la sua presenza sempre più fastidiosa. «Stasera non posso proprio, signora, torni un'altra volta.» Neanche mi ascoltò. «Deve essere più giovane, sei o sette anni. E biondo, lo voglio biondo. Lo può fare con gli occhi azzurri? Le piacciono tanto gli occhi azzurri.» Girai attorno al banco e la presi per un braccio. «La prego, signora, è troppo tardi, devo proprio chiudere.» Continuò a parlare, mentre la conducevo alla porta. «Deve fare in fretta, ne ha proprio bisogno. Me lo chiede in continuazione.» Quando l'ebbi messa fuori, prima di chiudere la porta, mi giunse ancora la sua voce. «Farà in fretta? Ci conto. Ricordi che ci conto.» Ancor oggi non so perché, ma lo feci. Eppure la donna non era più tornata, dopo quella volta, avrei potuto lasciar perdere. Anzi, non le avevo promesso proprio niente, ciononostante non potei resistere. Ci misi tutto il mio amore, scelsi il materiale migliore, e dopo una decina di giorni il bambolotto fu pronto. Era ancora nudo, perché non avevo alcun abito da fargli indossare. Sembrava proprio un bambino, un bel bambino di sei anni, con occhi azzurri e un caschetto di capelli biondi. Quella donna non era normale, ormai l'avevo capito. Quei manichini esposti nella vetrina nascondevano qualcos'altro, un trauma di qualche genere con cui cercava di convivere. Forse non facevo altro che attizzare la sua ossessione, ma la disperazione che aveva lasciato trasparire nel nostro ultimo incontro me l'aveva fatta sentire più umana. Lei venne quella sera stessa, portando il vestitino, con la certezza di trovarlo pronto. La dolcezza e l'amore con cui lo rivestì da un lato mi turbarono ancor di più, ma dall'altro mi ripagarono di tutti i miei sforzi. Quel bambolotto sarebbe stato amato, ne ero certo. Lei mi diede soddisfazione. «È proprio quello che desideravo. Lei è riuscito a fare un miracolo.» Non potei trattenermi. «A cosa le serve?» Lei chinò il capo, preda di un'improvvisa stanchezza, e anche la sua voce si indebolì. «È orribile essere soli, non crede?» Era caduta la sua maschera, e in fondo potevo anche capirla. Sì, non era affatto piacevole vivere soli. E come le bambole aiutavano me a esistere, che male c'era se potevano aiutare pure lei? Quei conturbanti occhi verdi sembravano voler penetrare nella mia mente. «Non potevo continuare così, capisce?» Io non osai dire niente, allora lei prese in braccio il bambolotto, questa volta con delicatezza, come se si fosse trattato di un bambino vero, e andò via. Trascorsero due settimane prima che decidessi di tornare in centro. Non mi stupì trovare tre manichini nella vetrina. Questa volta il simulacro della signora Scallis teneva per mano entrambe le mie bambole. Aveva di nuovo cambiato vestito, ora indossava un bellissimo abito nero, con una gonna lunga fino alle caviglia, e al suo collo spendeva una collana di diamanti. Restai a lungo a guardare quella famiglia inanimata, ma alla fine non riuscii a resistere ed entrai di nuovo nel negozio. La commessa più anziana mi venne subito a servire. «Vorrei vedere la signora Scallis,» le chiesi. Come l'altra volta, la donna restò incerta e si voltò a guardare la collega. In questo caso, però, l'altra commessa venne in suo aiuto e prese in mano la situazione. «Sono la signora Bassi, mi occupo io della boutique mentre la signora Scallis è assente. Vuol dire a me?» Scossi il capo. «Devo proprio vedere la signora Scallis, è una questione personale.» «La signora Scallis al momento non è disponibile.» «Quando dovrebbe tornare?» Un'ombra passò sul suo volto. Pareva combattuta. «Lei la conosce bene?» mi chiese. La conoscevo bene? Forse sì, forse persino meglio di loro. Conoscevo il suo tormento, la sua sofferenza. «Sono un suo amico,» affermai. Questo sembrò convincerla. «Non abbiamo idea di dove si trovi la signora Scallis,» affermò. Toccava a me essere confuso. «È di nuovo andata via?» La donna fece una smorfia. «Non è mai tornata. Forse non è neppure partita. Non abbiamo idea di cosa le sia successo.» Non aveva senso ciò che stava dicendo quella donna. «Era in vacanza in America, mi pare di ricordare.» «Così credevamo anche noi, ce l'aveva detto lei, solo che non c'è mai arrivata. Sono settimane che cerchiamo di rintracciarla, ma nessuno l'ha più vista.» Ero sempre più confuso. «Ma era qui, l'ho incontrata! Da quanto è sparita?» Queste parole le sorpresero entrambe. «L'ha vista, davvero? E quando? Stava bene?» Divenni reticente. «Da quando è scomparsa?» La signora Bassi chinò il capo. «Sei mesi, sono sei mesi che non abbiamo più notizie.» Era pazzesco, quindi da prima che mettesse piede nel mio negozio. Qualcosa non tornava, però. Indicai la vetrina. «Quei due manichini, chi li ha portati? Che ci fanno lì?» Le donne si guardarono confuse. «Che c'entra, adesso?» Moltissimo, era il cuore di tutta la faccenda. «Da dove sono arrivati? Chi li ha messi in vetrina? Chi li ha vestiti? Chi ha scelto quella posizione?» La confusione era totale, e le donne si misero a parlare tra di loro. «Sei stata tu, Carla?» «Io no, c'erano già, li ho trovati così, pensavo che li avessi messi tu,» rispose la collega. Poi tornarono a rivolgersi a me. La signora Bassi aveva capito. «È stata la signora Scallis, è questo che vuol dire? È qui? Ma noi non l'abbiamo mai incontrata, perché dovrebbe...» Era confusa, e lo ero anch'io. «Chi è la signora Scallis? Cosa fa?» Vidi il sospetto nei suoi occhi. «Credevo che fosse un suo amico.» Cercai di riparare. «Non ama parlare della sua vita privata, è sempre reticente.» La signora Bassi sospirò. «Povera signora Scallis. Sì, la posso capire.» «È sposata, ha dei figli?» Scosse il capo. «No, nessun figlio, non ce n'è stato il tempo. È rimasta sola troppo presto. Ha perso il marito subito dopo il matrimonio.» «Lo amava moltissimo,» aggiunse l'altra commessa. «Si è chiusa in se stessa,» ricordò la signora Bassi. «Noi le dicevamo di andare fuori, di divertirsi, di dimenticare. Di tornare a vivere, insomma.» «Una donna così bella,» continuò la collega. «È stata un'indossatrice famosa, sa? Tutti la ammiravano.» Non era affatto ciò che mi ero aspettato, l'assenza di figli, vivi o morti, mi aveva spiazzato. La signora Bassi raggiunse la vetrina e studiò i manichini. «Non sono nostri,» decretò. «Di certo non provengono dal nostro solito produttore.» Questo lo sapevo benissimo. Si voltò. «Dice che li ha portati lei? Che viene qui quando il negozio è chiuso? Ma perché? Perché non ha più dato sue notizie? Perché non risponde al telefono, se non è mai partita?» Scossi il capo, perché neanch'io avevo una risposta. «Sa dove abita?» le chiesi. Le commesse si scambiarono uno strano sguardo. «Non so se faccio bene,» disse per l'ennesima volta la signora Bassi. «Non è mai venuta qui?» le chiesi. «Perché avrei dovuto?» La casa della signora Scallis era un po' fuori mano, una villetta antica in stile neoclassico. Il giardino era in stato di abbandono da tempo. «Non dovremmo essere qui,» ripeté la signora Bassi. «Non dovrei neanche avere questa chiave. La signora Scallis si arrabbierà quando scoprirà cos'abbiamo fatto, ci tiene molto alla sua privacy.» «Lo facciamo per il suo bene, potrebbe essersi sentita male, non crede?» Non lo credeva affatto. Anzi, il sospetto che la signora Scallis si trovasse ancora in città la rendeva solo più dubbiosa. «La prego,» le dissi. Essere così anziano giocava a mio favore, la signora Bassi non vedeva in me un pericolo. «Solo un'occhiata, però, per essere certi che non sia qui. Non tocchi niente.» La rassicurai, e finalmente girò la chiave. Ci rendemmo conto di cosa era successo appena mettemmo piede in casa e un tanfo nauseante ci avvolse: capimmo che quello era l'odore della morte. Non osammo andare oltre e chiamammo la polizia. La trovarono in bagno, dentro la vasca. L'acqua doveva essere evaporata tutta, dopotutto erano passati sei mesi da quando si era tagliata le vene. Era nuda, e della sua bellezza non era rimasto molto. Ma questo ce lo dissero, perché non ci fu concesso di vederla. La signora Bassi era troppo sconvolta per ricordarsi di me, della strana incongruenza di ciò che le avevo raccontato, e questo giocò a mio favore. Ciò che era accaduto era fin troppo evidente, la polizia mi interrogò brevemente, poi mi lasciò andare. Avevo incontrato un fantasma? Era indubbio che quella donna fosse già morta quando era venuta a farmi visita. Perché fosse venuta da me e quale significato avessero le bambole sarebbe rimasto di certo un mistero. Cercai di non pensarci, di dimenticare, perché temevo che anch'io sarei impazzito se non lo avessi fatto. Questo era il mio proposito, e forse ci sarei anche riuscito, se un paio di giorni dopo non avessi ricevuto una visita inattesa. Avevo appena chiuso il negozio, in tarda serata, quando giunsero a bussare due bambini. Fosse stato chiunque altro l'avrei ignorato, ma mai avrei voluto dare un dolore a un bambino. Così andai ad aprire. La femminuccia dimostrava otto anni, con lunghi capelli neri e splendidi occhi verdi. Il fratellino era più giovane, con un caschetto biondo e due limpidi occhi azzurri. «Che posso fare per voi, bambini?» Parlò la femminuccia. «Vogliamo una bambola.» Sospirai e mi feci da parte. «Su, entrate. Guardate pure in giro.» Entrarono, ma non degnarono di un'occhiata le bambole esposte. Di nuovo parlò la bambina. «È una bambola speciale. Ce la devi fare tu.» Neppure questo mi stupì. «Speciale come? Cos'avreste in mente?» Lei sorrise. «Vogliamo un papà.» Mi congelai, e solo allora compresi quello che la mia mente si era rifiutata di vedere. Non era possibile. No, non era possibile. La voce mi tremava. «Come lo volete, questo papà?» Si scambiarono un'occhiata, i monelli, poi la bambina mi strizzò l'occhio. «Proprio come te, solo molto più giovane. Pensi di farcela?» Lo potevo fare? Potevo fare quella bambola per loro? Erano davvero due bambini stupendi. «Perché volete un papà?» «Per la mamma. Lei soffre, è sempre tanto sola. Noi non le bastiamo, sai?» Intervenne anche il fratellino. «Glielo vogliamo regalare, così sarà felice.» Era difficile riuscire ancora a parlare. «Chi siete? Da dove arrivate? Chi è vostra madre? E vostro padre?» Scoppiarono a ridere tutti e due, divertiti. «Ma lo sai!» disse la ragazzina. «Ci hai fatti tu! Tu sei nostro padre!» Il bambino continuava a ridere. «Che stupido!» Lei abbassò la voce. «Però non dirlo alla mamma, dev'essere una sorpresa!» Qualcuno bussò sul vetro della porta, facendomi sobbalzare. La signora Scallis era lì, che ci guardava, più bella che mai nel suo abito nero. Aprì la porta ed entrò. «Ah, siete qui, bambini? Non disturbate il signore, da bravi.» Poi mi sorrise. «Non vorremo distoglierlo dal suo lavoro.» I bambini tornarono a ridacchiare. La femmina mi prese per mano e mi costrinse a chinarmi. Mi baciò su una guancia e bisbigliò. «Ricorda!» Poi li vidi andar via, tutti e tre, tenendosi per mano. Erano stupendi, una famiglia perfetta. Ho iniziato a costruire la bambola. Bambini. Bambini che la signora Scallis non è riuscita ad avere. Bambini che io e Rosa abbiamo atteso inutilmente per una vita. Bambini che possono riempire una solitudine. Bambini che sono stati concepiti solo dall'amore. L'amore che metto in ognuna delle bambole che costruisco, l'amore con cui la signora Scallis li attendeva. I nostri figli. Lei non lo sa, dovrà essere una sorpresa, i bambini sono stati chiari. In questa bambola ho messo il meglio di me. Ho messo ciò che avrei voluto essere, ma che non sono stato. Ho messo tutta la mia anima. Spero che si ricordino di portare un vestito anche per me. Cosa succederà dopo, quando la bambola sarà finita? Che dovrò fare? Andare anch'io in bagno e tagliarmi le vene? Sarà doloroso? Com'è la morte, cos'è? Che sensazione proverò a guardare il mondo da una vetrina? Essere osservato, ammirato? La signora Scallis l'ha sempre fatto, a lei è evidente che piace. Questo desiderava, sola in quel bagno, mentre la vita le scorreva via come il sangue dalle vene: essere quel manichino. Ma poi non le è bastato, non poteva sconfiggere la solitudine. Mi abituerò, l'importante è essere accanto alla mia famiglia. Non vedo l'ora di finire questa bambola. La mia ultima bambola.
FINE
Edited by marramee - 8/2/2011, 13:22
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