|
|
Testa di morto
Quando il sole picchia forte e riscalda la terra, allora si sentono quei gorgoglii sordi, come di tubature vecchie che perdono acqua quanta ne trasportano. Un rullare continuo che proviene dai ventri gonfi dei cadaveri, mostruosi tamburi di una tribù di morti sparsi tutti attorno. In nessun posto come in Ucraina la Wehrmacht è avanzata così velocemente. Il grosso dell’Armata Rossa si è disintegrato, lasciando sul campo quasi un milione di soldati disseminati nelle enormi distese della steppa, sui fossati, sui pendii e alle estremità dei ponti. Intere compagnie, battaglioni, reggimenti e divisioni annientati sul posto, spesso formando siepi alte più di un metro, là dove una mitragliatrice li ha falciati mentre venivano avanti ondata dopo ondata. Ma l’esercito è già andato oltre a inseguire i rossi fino a Mosca, oppure a caccia di petrolio giù verso il Caucaso occidentale; noi invece siamo qui a ripulire le retrovie dalla feccia del mondo. Guardo tutto intorno e fisso i corpi maciullati, le carni ferite, le ossa frantumate; stringo forte il braccio con le dita che fremono come se si fossero intrecciate tutte assieme in un grosso laccio emostatico. Chiudo gli occhi e sorrido, quanta strada ho fatto per cercarla. Poi mi vengono alla mente le immagini del passato.
***
La prima che mi assale è la visione di Darmstadt, la città nella quale sono nato in un giorno insignificante nel 1920, da genitori protestanti. Ed ecco che rivedo mio padre, quell’uomo alto e magrissimo, capace solo di ordine e disciplina, sergente maggiore delle guardie di sua altezza il duca di Hesse. Anche la mia famiglia era un riflesso della caserma, e il dovere mi è stato inculcato con la frusta, ancora adesso ne porto i segni sulla schiena. Comunque fosse, la mia vita era piacevole, allora, o almeno prima che mio padre si rendesse conto dei miei limiti, come affettuosamente invece li definiva mia madre, mentre lui, da buon militare di caserma, si riservava l’utilizzo di termini più crudi. E se nei primi tempi si limitava a chiamarmi stupido, oppure idiota, dopo, sempre più esasperato da cose per lui incomprensibili, prese a battermi ripetutamente a sangue. Io non mi rendevo ben conto di cosa non andasse in me. Lo capii quando i compagni cominciarono a prendermi in giro ogni volta che mi ferivo. Erano risate sguaiate che tagliavano più delle lame, e compresi che quelle cose le dovevo fare di nascosto, da solo. Ma si vedevano comunque i segni e non scampavo all’ira di mio padre. Anche se ben presto si rassegnò all’insolito figlio che la sorte gli aveva posto davanti e smise del tutto di considerarmi. Per lui fu come se io non esistessi più e iniziò un periodo di solitudine. Non uscivo dal giardino di casa, dove mi aggiravo senza un particolare scopo, affinando la mia tecnica per catturare incauti animaletti, uccellini che s’avventuravano sui rami bassi degli alberi o lucertole stese indolenti al sole, e ucciderli, senza per questo provare particolare piacere od orrore. Era una sorta di terapia, perché ogni volta che lo facevo non sentivo più il bisogno devastante di incidere la mia carne. Fu in quel tempo che conobbi Leah. Una ragazzetta alta, sparuta, il cui collo assurdamente lungo un giorno spuntò da sopra la siepe. I suoi occhi mi apparvero enormi mentre li ruotava chiedendomi cosa stessi facendo. Non rammento quale risposta le diedi, quello che so è che lei s’intrufolò dentro e cominciò a giocare con me. E in un certo senso non se ne andò più. Era ebrea e se al principio quella cosa non mi diceva nulla, capii in seguito che era meglio tacere sulla natura della mia giovane amica. Hitler era da poco salito al potere e le cose già stavano prendendo una piega del tutto nuova e diversa. Io non mi fidavo troppo di lei, cosa che del resto facevo anche con le altre persone, così, con aria di sfida, ben presto la misi alla prova. Quando mi vide affondare la punta di un coltellino in un polpastrello non disse niente. Mi guardò e si mise in bocca il dito succhiandolo fino a che non smise di sanguinare. Io provai una sensazione stranissima, un sollievo enorme come se all’improvviso avessi trovato la soluzione di tutti i miei mali. So che era assurdo, ma era così che mi sentivo quando Leah stava vicino a me. Diceva sempre che un giorno sarebbe andata via. E quando entrò nel giardino con la faccia di chi ha un morto in casa capii che quel giorno era venuto. Facemmo un giuramento di sangue. Lei mi fece promettere di andare a cercarla quando sarei stato più grande, ovunque fosse andata. Io non le credevo, ma poi accadde: un giorno scomparve per davvero. Mi azzardai a interrogare gente che conosceva la famiglia e così seppi che erano andati da certi loro parenti verso est, in cerca di tempi e di luoghi migliori. E mi venne alla mente che lei parlava sempre di suo nonno, raccontava che era un Rabbi e che voleva tornarsene da dove le loro famiglie un tempo erano venute, e cioè da est. Io non sapevo cosa fosse un Rabbi, ma sapevo bene che l’est è dove nasce il sole, immaginai un posto caldo, luminoso, soprattutto tranquillo. Adesso il mio cortile mi appariva per quello che era in realtà: una prigione, un limbo oscuro e frondoso di piante e alberi da frutto nel quale io mi esercitavo a evitare il mondo. Avvertii una vertigine allo stomaco e mi sentii cadere nel vuoto. Era come affogare senza penetrare di un solo centimetro nell’acqua, in un limbo fatto di niente, nel profondo nulla che occupava il centro del mio corpo. Con un gesto meccanico impugnai il coltellino che portavo sempre in tasca e lo conficcai nell’altro braccio. Feci uno sforzo per non gridare, ma il sollievo fu immediato, anche se non totale come altre volte. Poi la mia attenzione venne calamitata dalla completa assenza di movimento di una lucertola che prendeva il sole sul muretto. Sentii la consueta sensazione di calore che mi scaldava le viscere annullando tutto il resto, e mi avvicinai. Esercitai le mie attitudini ancora per alcuni anni, fino a quando un mattino d’estate mio padre lanciò un grido e stramazzò al suolo. Corsi dal giardino e riuscii a vedere parte del suo volto diventare bluastra, fino a che mia madre non ne coprì la vista con un fazzoletto. Fu in seguito a quella morte che mi venne dato un lavoro adatto alle mie possibilità, grazie a uno zio che aveva scalato in fretta importanti posizioni nel partito.
***
Già dal 1935 l’iniziale e caotica struttura di certi speciali campi venne riorganizzata da Himmler. Ne vennero fatti di nuovi, più efficienti e affidati a specifiche compagnie di sorveglianza: le SS–Wachtruppe. I tempi erano cambiati e non c’erano più solo avversari politici, comunisti e socialdemocratici da internare, ma anche zingari, dementi, ebrei, elementi infelici che non potevano più trovare posto nella nostra ordinata società. Nel marzo del 1936 i battaglioni vennero rinominati SS-Totenkopfverbände. Io ero entrato da un paio di mesi a farne parte e così, un po’ compiaciuto, mi ritrovai a osservare il simbolo del teschio che brillava sulle mostrine della mia divisa. Il ghigno mi piaceva in modo particolare e lucidavo spesso con ossessione maniacale quello sfavillante simbolo di morte. Il mio sergente era un tipo istruito e sapeva tutto. Un giorno mi disse che l’Ordine della testa di Morto era stato fondato nel lontano 1652 dal duca Silvio I di Wurttemberg-Oels. L’insegna, portata dai cavalieri, prima su un anello poi su una medaglia, era una testa di morto che, ricordando loro il fine ultimo, doveva incitarli alla virtù. E noi dovevamo essere particolarmente orgogliosi di fare parte di una formazione così eroica. Il sergente completò la sua dotta spiegazione bastonando di santa ragione un handicappato semidemente che, dopo essere inciampato proprio davanti a lui, gli aveva sbavato sugli stivali appena lucidati. Una gran fortuna per quell’idiota che il sergente, oltre che istruito, fosse anche una gran brava persona. Probabilmente al suo posto io l’avrei ucciso a calci, nel tentativo di rettificare quella faccia ebete. Il primo settembre 1939 la Germania attaccò la Polonia, fu la seconda guerra mondiale. Heydrich, ex ufficiale di marina, alto e con la faccia da cavallo sogghignante, tanto che i suoi subalterni lo chiamavano la “bestia bionda”, aveva organizzato cinque Einsatzgruppen, ognuno diviso a sua volta in quattro Einsatzkommandos. A rafforzare queste poche unità mandarono battaglioni della Ordnungpolizei, i nostri reggimenti Totenkopf e Waffen-ss. In tutto circa ventimila uomini. Io ero raggiante. Andavo a est, dove nasceva il sole e dove, da qualche parte, doveva esserci Leah; sentivo che ovunque lei fosse io l’avrei ritrovata. Assieme ai Russi facemmo un solo boccone della Polonia e una volta liquidato quell’inutile paese rimanemmo inattivi. Ebbi tutto il tempo di fare le mie ricerche, ma di Leah nessuna traccia. Non c’era azione, il sole era pallido e malaticcio. Ricominciai di nascosto a ferirmi e i segni di conseguenza a moltiplicarsi. Poi con l’invasione della Russia tornammo in movimento. Fui inquadrato nell’Einsatzgruppe C, al comando del Brigaderfürer Otto Rasch, aggregato al gruppo di armate del sud e destinato ad agire nell’Ucraina settentrionale e centrale. I quattro Einsatzgruppen erano suddivisi in unità minori e io finii nel Sonderkommando 4a, comandato da Blobel. All’inizio fu tutto molto facile. Quando entravamo nei villaggi venivamo spesso accolti come la loro tradizione imponeva: le tavole imbandite, ricoperte da tovaglie bianche e con l’offerta del sale e del pane ai nostri comandanti. In un paese, di cui non ricordo il nome, trovammo addirittura la banda che suonava per noi. Era solo un piccolo gruppo di musicisti, ma ci davano dentro come pazzi. Non avevano capito niente. Iniziavamo a controllare la composizione della popolazione, quanti ucraini, quanti bielorussi o altri, e quanti ebrei. Di questi ultimi lasciavamo solo quelli necessari al lavoro nelle officine per i nostri automezzi, gli altri venivano fucilati. Donne e bambini furono spinti nelle paludi nella speranza che affogassero, ma le acque non erano profonde abbastanza. Così, anche se il massacro era iniziato alla grande, poterono sopravvivere per quasi un altro anno. Per mesi le foreste dei villaggi furono impregnate del lezzo della morte che proveniva dalle fosse comuni scavate nel fitto degli alberi. E durante queste operazioni non ci mancavano i volontari. Spesso si trattava di ex poliziotti che svolgevano questo ingrato compito senza odio né vergogna, consapevoli che avrebbe giovato a tutta la civiltà cristiana. Un giorno trovammo quattrocento bambini in un orfanotrofio, li uccidemmo tutti. Parecchi furono lanciati in aria come fossero dei bambolotti di gomma e poi colpiti al volo. Era una necessità, i proiettili avrebbero attraversato corpi così piccoli e colpendoli a terra ci sarebbero stati dei pericolosissimi rimbalzi. Il 1° agosto del 1941 il capo della Gestapo, Hermann Müller, telegrafò ai nostri comandanti che il Führer voleva essere costantemente informato sul lavoro degli Einsatzgruppen a est. Himmler, poi, intendeva situare il proprio quartier generale a Žitomir, non appena la zona fosse stata pacificata. A nord di Vinnitsa, invece, era prevista la costruzione di un bunker avanzato per Hitler, il Werwolf. Così tutta la zona per un raggio di sessanta chilometri fu resa Judenfrei. I nostri capi diedero le più ampie assicurazioni, ma i problemi c’erano ed erano problemi seri. Fucilare migliaia e migliaia di individui non era semplice. Qualcuno si divertiva, ma parecchi venivano presi da crisi di pianto e crollavano fisicamente. Molti dei componenti i plotoni di esecuzioni diventavano temporaneamente impotenti, alcuni, colti da raptus improvvisi, si alzavano la notte e cominciavano a sparare all’impazzata tutto attorno a sé senza potersi frenare. C’era chi si dava al bere più sfrenato, altri si suicidavano. Tutto questo succedeva anche se prima delle esecuzioni gli uomini venivano riforniti in abbondanza di liquori e sigarette. In guerra ogni soldato deve eseguire gli ordini. Se ogni soldato lo facesse solo dopo avere valutato se gli piaccia oppure no, non ci sarebbero più soldati. Io non provo rimorsi. I sensi di colpa e i rimorsi posso provarli soltanto per crimini commessi di persona. Dovrei sentirmi in colpa e avere rimorsi se avessi compiuto uccisioni e atti di crudeltà per mia iniziativa. Me se ho eseguito un ordine, allora non ho nessuna colpa, e perciò non posso provare rimorso per una colpa inesistente. Ho trovato una sorta di equilibrio e non devo più affliggere le mie membra col dolore. Sono altri, adesso, i corpi che devono sopportare il sollievo dato dalla punizione. Per uscire dal vicolo cieco causato dalle problematiche delle fucilazioni di massa provammo con la dinamite, e fu un tripudio di membra slabbrate lanciate ovunque attorno, anche sui rami più alti degli alberi. Un utilizzo sul campo era impensabile, così iniziammo a pensare ai gas. Già nell’autunno del 1939 la cancelleria del Reich aveva cominciato a sopprimere adulti disabili. Il programma si chiamava in codice operazione T4, dal nome della villa dove si svolgevano queste cose, a Berlino, al n. 4 di Tiertgarten Strasse. Lì fu utilizzato per la prima volta il monossido di carbonio. Verso la fine di agosto del 1941 la T4 fu sospesa e tutto quel materiale venne messo a disposizione delle nostre operazioni. C’erano dei Krematorien (crematori mobili alimentati a gasolio) e Knochenmühle (macine per polverizzare le ossa). Eravamo in grado di fare sparire ogni traccia di quello che facevamo, ma il monossido di carbonio puro era troppo costoso e fummo costretti a ripiegare sul più economico gas di scarico dei veicoli. L’idea fu dell’SS-Gruppenfürer Artur Nebe, ex commissario della polizia a Berlino negli anni 20, poi capo della Kripo (polizia criminale) e adesso Comandante dell’Einsatzgruppe B. Nel manicomio di Mogilev fece murare le finestre di una corsia lasciando solo due fori per il tubo del gas. Collegò lo scappamento di alcuni veicoli e il gioco fu fatto. Bisognava in ogni modo cercare di alleviare lo stress psicologico degli uomini coinvolti nelle fucilazioni. Ma gli automezzi erano indispensabili al fronte e le fucilazioni continuarono. Così si pensò di ricorrere a un altro metodo ancora. Un giorno ci portarono coi camion in un luogo isolato. Trovammo sul posto uomini della Gestapo che già dirigevano l’operazione. C’era un’enorme fossa, intorno tantissimi ebrei. Gli uomini della Gestapo ingiunsero a tutta quella gente di spogliarsi e di buttarsi nella fossa. Ci furono pianti e lamenti, gente che doveva essere buttata dentro a calci e botte. Altri che baciavano gli stivali degli uomini della Gestapo, ma anche tantissime altre persone che si svestivano e si gettavano dentro come se fossero state dei manichini dotati di vita propria. Non ho mai visto nessuno andare incontro alla morte con così tanta folle rassegnazione, ma del resto non è forse vero che gli ebrei hanno colpe enormi da scontare? E sarà sufficiente tutto questo a cancellare per sempre i loro delitti? No, io non credo; quel giorno, comunque, ne scontarono parecchie. Avevamo l'ordine di stare sull’orlo della fossa e raccogliere indumenti e scarpe. Vidi quelli della Gestapo avvicinarsi al posto dove ammucchiavamo il materiale e raccogliere orologi, gioielli, anelli e riempirsi le tasche. All’improvviso ordinarono agli ebrei di smettere di spogliarsi perché la fossa era piena. Si vedevano spuntare solo le teste, pigiate in modo inverosimile le une alle altre. Allora dalla strada sbucò un camion. Fecero venire avanti un lungo tubo che incominciò a riversare calce sui corpi nella fossa, e poi acqua. La calce bagnandosi bruciava vive le persone. Le urla furono così forti che dovemmo tapparci le orecchie con dei pezzi di stoffa strappati dai vestiti ammucchiati lì intorno. La cosa durò per un paio d’ore. Dopo ci diedero pane e caffè. A differenza degli altri riuscii a mangiare. Io sono indifferente a tutto. Ho imparato a soffrire in silenzio, e se occorre anche a punire la mia stessa carne. A volte il dolore è un dono, anche se risulta molto difficile da apprezzare. Il giorno dopo la massa umana dentro la fossa sembrava collassata su se stessa. I corpi erano così pressati da dare l’impressione di stare tutti ritti in piedi, solo le teste ciondolavano in tutte le direzioni. Per quel che ne so quel metodo non fu mai più usato. L’atrocità era insostenibile anche per gente come noi incallita da mesi di fucilazioni di massa, e tornammo ai consueti sistemi. Tutto questo non mi distraeva dalla mia direttiva principale: la ricerca di Leah. Ovunque andassi chiedevo con discrezione notizie della sua famiglia e spesso dovevo ricorrere alle minacce. Molto sommariamente ero riuscito a ricostruirne i movimenti e con sgomento avevo saputo che era troppo lontana da dove adesso mi trovavo. La soluzione era semplice: il Sonderkommando Dirlewanger, la creatura di Hitler e Himmler. Un’unità paramilitare di una crudeltà mai vista che venne inviata in Bielorussia, proprio dove avevo avuto notizie della presenza di Leah. Alto, magro, la faccia simile a un teschio, rigata da cicatrici e da due baffetti alla Hitler, Dirlewanger vantava tutta una serie di ferite da costituire quasi un primato vivente. Nella prima guerra mondiale una pallottola lo aveva colpito a un piede, una baionetta al torace, una scheggia in testa, una fucilata alla mano, un’altra pallottola alla spalla sinistra e c’era stato ancora un ulteriore colpo di baionetta alla gamba. Nonostante questo aveva continuato a combattere in quattro diversi Freikorps. Poi aveva guidato un treno blindato, aveva completato gli studi e fatto carriera nelle SA. Aveva però alcuni difetti: beveva come un elefante alcolizzato e gli piacevano le minorenni implumi. Era stato arrestato e per riabilitarsi si era arruolato nella legione Condor che combatteva in Spagna coi nazionalisti di Franco. Al suo ritorno gli fu assegnato il comando dei “bracconieri” e subito divenne Obersturmfürer delle Waffen SS. L’idea era stata di Himmler. Non erano i bracconieri i cacciatori più esperti, eccellenti nell’arte di inseguire la selvaggina? Così d’accordo con Hitler mise in piedi un’unità composta da tiratori scelti scovati nelle prigioni del Reich, il fine era quello di braccare i partigiani polacchi della foresta vicina a L’vov. Ben presto il reggimento si era tramutato in un’accozzaglia di criminali, ex detenuti e sadici picchiatori come mai prima avevo visto. Vi regnava un’atmosfera da medioevo, perché Dirlewanger teneva la disciplina con punizioni corporali eseguite con delle mazze, mentre nei casi più gravi era frequente la fucilazione sul posto. I metodi di quest’unità erano assai efficaci. Rastrellavano donne e bambini rimasti nei villaggi dei partigiani e li costringevano a camminare in mezzo ai campi minati che proteggevano le unità ribelli. Oppure Dirlewanger sorvolava con un ricognitore i villaggi sospetti. Se qualcuno gli sparava contro, tracciava una croce sulla mappa e quel villaggio veniva distrutto e incendiato senza tanti complimenti. Erano torturatori così spietati e brutali da disgustare persino uno come Globocnik, il quale nel febbraio del 1942 li spedì in Bielorussia, così come avevo saputo per vie confidenziali. Per questo mi ero unito a loro. Forse era il destino. Anche in quelle terre Leah mi sfuggiva come nebbia fra le dita. Suo padre era un Rabbi, come ho detto, e il suo peregrinare non passava inosservato nelle comunità ebraiche, tuttavia non riuscivo mai a raggiungerla.
***
Cerco Leah nel volto di ogni ragazza ebrea che vedo. Adesso sarà più grande, una donna fatta e spesso provo a immaginare i percorsi che il tempo deve avere disegnato sul suo volto. Le curve che gli ormoni devono avere gonfiato sulle sue membra. Eppure io non la voglio per avere un corpo mercenario. Se così fosse potrei prendermi qualsiasi ebrea avviata alla morte e ricavarne sesso e piacere facile, no. Io so che Leah è qui, da qualche parte nascosta, così come so che prima o poi finirò per trovarla. Ma cosa accadrà allora? Sempre che accada. Cerco di non abbandonarmi a questo pensiero devastante. Un pensiero semplice e terribile allo stesso tempo: Leah è un’ebrea… io sono una “testa di morto”, pazzesco solo pensarci. Eppure non riesco a evitarlo, ci penso, troppo spesso e troppo forte, così forte da farmi sanguinare il naso. Perché credo che solo lei possa darmi quella serenità che mi aveva fatto provare un tempo? La mia è una speranza? L’ipotesi di un futuro migliore o solo un’illusione?
***
Chi aveva parlato con gli uomini al fronte li aveva visti pallidi e malati, gli occhi gialli e le divise bagnate per la pioggia di settimane intere. Un giorno la temperatura precipitò a 52° sotto zero, e molti soldati morirono per il congelamento dell’ano, mentre erano impegnati a concimare la steppa. Una morte di merda, è proprio il caso di dirlo. Adesso il vento è girato, soffia forte da est, dalle steppe sconfinate della Siberia e finirà per travolgerci tutti. A Berlino devono avere sentito puzza di bruciato perché ci hanno ordinato di occultare tutto, cancellare ogni traccia di quello che si è fatto qui. Era il giugno del 1942 quando il Gruppenführer Heinrich Müller, l’impassibile capo della Gestapo, affidò ai miei superiori l’incarico di cancellare le tracce delle esecuzioni compiute dagli Einsatzgruppen. L’ordine era segretissimo e non c’era stata nessuna corrispondenza scritta. Io ero appena ritornato fra i ranghi dopo avere abbandonando il folcloristico battaglione di Dirlewanger. Ancora una volta le notizie che disperatamente cercavo di Leah mi avevano costretto a un’inversione di rotta. Trascorremmo tutta l’estate facendo ricerche sui migliori sistemi per distruggere le montagne di cadaveri sepolti nelle fosse comuni. Costruimmo forni sperimentali usando legna e gasolio come carburante. Provammo anche a distruggere i cadaveri con la dinamite, ma il risultato di nuovo fu pessimo: ancora brandelli di carne purulenta che volavano dappertutto. L’unico parziale successo fu l’avere trovato una certa disposizione aerodinamica delle pire. L’alternanza di cadaveri e traversine ferroviarie inzuppati di benzina si rivelò efficace. Ma poi la scarsità di carburante e il terreno gelato nell’inverno seguente ci fermarono. Nel 1943, col ritorno della buona stagione, riprendemmo il lavoro. In agosto, vicino a Kiev, riaprimmo una fossa lunga cinquanta metri e larga tre. Irrorammo i cadaveri di combustibile e demmo loro fuoco. Ci vollero due giorni perché bruciassero completamente e nel frattempo la fossa era diventata incandescente. Dopo ricoprimmo tutto di terra. Mi ci potrei giocare tutti e due i coglioni che nessuno ne saprà mai nulla. Ma avevamo sprecato troppa benzina Più spesso utilizzavamo il nostro metodo delle pire e allora il lavoro sporco era affidato a prigionieri, partigiani, disertori ed ebrei. Le scavatrici rimuovevano lo strato superficiale di terra, i prigionieri estraevano i corpi con gli uncini e li depositavano sulle pire, sempre a strati alterni, uno di legno e uno di cadaveri, e poi benzina, sempre tanta maledetta benzina. L’odore era orribile. Nelle fosse comuni di maggiori dimensioni il terreno si gonfiava sotto la spinta delle bolle di gas che esalavano dai cadaveri. Ma se l’odore era atroce, la vista che si svelava ai nostri occhi era peggio. Alcuni corpi erano nudi, altri vestiti, c’erano madri coi bambini in braccio, teste e ossa fracassate, strato dopo strato, per tutta la profondità della trincea. Dalle espressioni dei visi si poteva capire chi era stato ucciso dalle pallottole e chi per soffocamento, per coloro che avevano la testa spaccata non c’era bisogno di particolari spiegazioni. All’inizio i prigionieri si ribellavano, ma noi li massacravamo di botte fino a che non iniziavano a lavorare coi loro uncini. E comunque il compito era immenso. Quante fosse comuni gli Einsatzgruppen avevano scavato? Onestamente era impossibile dirlo. In ogni caso nessuno poteva dubitare dell’impegno che avevamo messo nel nostro lavoro.
***
Oggi ci hanno chiamato in un villaggio sperduto nella foresta. Sembra incredibile, ma hanno trovato ancora degli ebrei. Lo scenario è quello al quale sono oramai abituato. Una fossa non tanto grande. Gendarmi che con le buone o le cattive scaraventano dentro donne e bambini, gli uomini sono pochi e quasi tutti feriti. Poi l’immagine che mi colpisce come un bastone. Leah fra di loro, avviata alla morte nella fossa. È diversa da come la ricordo, ma non ho nessun dubbio che sia lei, la riconoscerei ovunque. Quel suo collo da cigno triste, e quegli occhi che buttano ovunque uno sguardo tormentato. È rimasta fra le ultime, ma cosa posso fare io adesso? Ho pensato tante volte al momento in cui l’avrei potuta rivedere e adesso che finalmente l’ho ritrovata dovrò subito perderla? Non posso agire, non posso fare nulla. Posso solo stare a guardare mentre lei si getta dentro e dopo quando i fucili mitragliatori annaffiano di piombo quelle teste e quei corpi. La mia mano si muove da sola. Afferra il coltello, quello stesso di allora, e lo pianta nel mio fianco, di nascosto da dentro la tasca della divisa. Il dolore è fortissimo, ma il sollievo lo è ancora di più. Adesso le armi tacciono; in controcanto, nella buca, le flebili grida di quelle carni in agonia. La lama si agita mossa di vita propria. Mi incide ancora, questa volta nella coscia, perché il bisogno è irresistibile. Ora è buio, nessuno può vedermi piangere. La compagnia smobilita, sale sul camion. Io divento un’ombra fra le altre e rimango a terra. Quando tutti sono andati via faccio ritorno alla buca. Leah è saltata dentro quasi per ultima, deve essere in superficie. Hanno gettato solo un leggerissimo strato di terra per coprire tutto. Mi scuoto e vado verso la fossa. Qualcuno geme e si lamenta. La chiamo: — Leah! Ancora un gemito, questa volta debolissimo. Mi butto nella buca e comincio a spostare i cadaveri. Chiamo ancora e mi sembra di sentire una risposta poco più sotto. La mia forza è sovrumana. Afferrò quelle carni fredde e le getto da una parte, alla luce della luna scavo fra i corpi come un indemoniato. Ora la vedo, laggiù. I suoi occhi hanno un bagliore quando mi riconoscono, poi di colpo si spengono e sfumano nel colore della nebbia. Riesco a raggiungerla e la prendo per la mano, quella mano dove ancora vedo inciso il segno indelebile del nostro patto. Stringo forte. La scuoto inutilmente. Io ho mantenuto la mia promessa. Sono venuto a cercarla per mezza Europa e adesso che l'ho ritrovata lei sembra ancora sfuggirmi in un mondo nel quale non potrei raggiungerla. Vedo i teschi nelle mie mostrine. Brillano come se stessero ridendo e il suono della risata si fosse trasformato in luce riflessa amplificata tutta attorno. Afferro la lama, questa volta il pugnale d’ordinanza, e lo spingo con violenza dentro il mio corpo. Finalmente l’ho ritrovata, non la lascerò andare un’altra vola. E penso che se lo faremo assieme questo viaggio verso l’ignoto, forse non sarà troppo lungo e buio.
Edited by rehel - 11/3/2011, 16:56
|
|